Q1 § 43
1 Cfr la relazione di Gramsci sul III Congresso del pci
pubblicata su «l'Unità» del 24 febbraio 1926:
«I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i
contadini meridionali non consistono solamente nei normali
rapporti storici tra città e campagna, quali sono stati
creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mondo;
nel quadro della società nazionale questi rapporti sono
aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e
politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona
come una immensa campagna di fronte all'Italia del nord, che
funziona come un'immensa città. Una tale situazione
determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di
determinati aspetti di una quistione nazionale, se pure
immediatamente essi non assumano una forma esplicita di tale
quistione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a
carattere regionalistico e di profonde correnti verso il
decentramento e le autonomie locali» (CPC, 107).
2 Cfr Alcuni temi della quistione meridionale (in CPC, 151):
«In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato
radicalmente modificato dallo sviluppo del capitalismo. Il vecchio
tipo dell'intellettuale era l'elemento organizzativo di una
società a base contadina e artigiana prevalentemente; per
organizzare lo Stato, per organizzare il commercio la classe
dominante allevava un particolare tipo di intellettuali.
L'industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale:
l'organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata.
Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate
in senso capitalistico, fino ad assorbire la maggior parte
dell'attività nazionale, è questo secondo tipo di
intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di
ordine e disciplina intellettuale. Nei paesi invece dove
l'agricoltura esercita un ruolo ancora notevole o addirittura
preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che
dà la massima parte del personale statale e che anche
localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione
di intermediario tra il contadino e l'amministrazione in
generale».
3 Spectator [Mario Missiroli], Giovanni Giolitti, in «Nuova
Antologia», 1° agosto 1928 (annoLVIII, fase. 1353), pp.
365-795 cfr in particolare p. 371: «In questa politica [di
Giolitti] i presupposti dottrinali erano nulla, il metodo tutto.
Si disse che nella preoccupazione di essere e di parere liberale,
di lasciar operare la natura, si lasciò spesso prendere la
mano dagli avvenimenti e scatenòdelle forze che fu, poi,
incapace di dominare. Si replicò in sua difesa che le
stesse contraddizioni, che furono notate nel suo governo e gli
furono rimproverate, facevano parte di un disegno della sua mente
e si componevano nella dialettica di un metodo personale. Favori,
ad esempio, il socialismo nella valle padana e non intervenne
nelle competizioni fra capitale e lavoro, ma vigilò sempre
con somma cura affinché il socialismo non dilagasse nel
Mezzogiorno, dove i carabinieri sparavano sugli scioperanti
rivoltosi e il brigadiere Centanni veniva fregiato con la medaglia
d'argento».
4 Cfr Giuseppe Prezzolini, La coltura italiana, Soc. An. Editrice
«La Voce», Firenze 1923, p. 162, dove si sottolinea
che il titolo della rivista «l'Unità» fu
suggerito a Salvemini da Giustino Fortunato, «preoccupato di
quella "unità d'Italia" che alla sua mente di storico
è sempre parsa non interamente e saldamente
raggiunta». Quest'opera di Prezzolini è tra i libri
che Gramsci aveva a Roma prima dell'arresto (cfr LC, 265), ma non
risulta che gli sia stata rispedita in carcere. Tra i libri del
carcere è conservata invece la seconda edizione di questo
volume, uscita nel 1930, erichiesta a suo tempo da Gramsci (cfr
LC, 320): cfr GiuseppePrezzolini, La cultura italiana, Corbaccio,
Milano 1930 [FG, C. carc., Turi II].
5 L'importanza dell'inchiesta Pais-Serra sulla Sardegna era
già stata segnalata da Gramsci in un articolo del 23
ottobre 1918 (cfr SG, 331). La relazione di questa inchiesta,
decisa nel dicembre 1894 dal governo Crispi, fu consegnata e
pubblicata nel 1896, dopo le dimissioni di Francesco Crispi, sotto
il ministero di Antonio di Rudini; cfr Relazione dell'inchiesta
sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna
promossa con decreto ministeriale del 12 dicembre 1894, Tipografia
della Camera dei deputati, Roma 1896, 501 pp. Alcuni stralci di
tale relazione sono pubblicati in Antologia storica della
questione sarda, a cura di Lorenzo Del Piano, Cedam, Padova 1959,
pp. 213-55.
6 Si tratta del fantomatico trattato con il quale i dirigenti dei
fasci siciliani - secondo un rapporto trasmesso dal delegato di PS
di Bisacquino, dell'ottobre 1893 - si sarebbero accordati con la
Francia e con la Russia (secondo altre versioni, con
l'Inghilterra) per averne aiuti in cambio di compensi a danno
dell'Italia. Sebbene il prefetto di Palermo avesse giudicate
infondate le informazioni del delegato di Bisacquino, Crispi, in
un dibattito alla Camera nel febbraio 1894, mostrò di
prendere sul serio l'esistenza di questo falso trattato.
Successivamente, nel processo di Palermo contro i dirigenti dei
fasci, un tentativo di riesumare, come documento di accusa, il
rapporto del delegato di Bisacquino cadde nel ridicolo. Ampie
notizie su questo episodio sono nel noto volume di Napoleone
Colajanni (Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, Sandron,
Palermo 1895), che è stato per molto tempo una delle
principali fonti d'informazione sul movimento dei fasci e alla
quale anche Gramsci aveva attinto a suo tempo.
7 Cfr Alcuni temi della quistione meridionale-.
«Poiché il Partito socialista, per effetto dei
movimenti agrari della Valle Padana, era ritornato dopo il 1910
alla tattica intransigente, il blocco industriale, sostenuto e
rappresentato da Gioiitti, perde la sua efficienza; Gioiitti muta
spalla al suo fucile; all'alleanza tra borghesi e operai
sostituisce l'alleanza tra borghesi e cattolici, che rappresentano
le masse contadine dell'Italia settentrionale e centrale»
(CPC147).
8 L'episodio di Molfetta nel corso delle elezioni generali del 1913 acquistò un rilievo nazionale per iniziativa di Gaetano Salvemini, che, candidato in quel collegio, promòsse una vivace campagna di opinione pubblica per mettere in luce il clima di intimidazione e di violenze in cui si svolgevano le elezioni nel Mezzogiorno. Il «Corriere della Sera» partecipò a questa campagna, oltre che con notizie di cronaca, soprattutto con una testimonianza di Ugo Ojetti (cfr Ricordi di una domenica di passione. I!elezione del 26 ottobre a Molfetta, in «Corriere della Sera», 6 novembre 1913). L'articolo di Ugo Ojetti fu riprodotto integralmente da Gaetano Salvemini nella seconda edizione del suo libro II ministro della mala vita, La Voce, Roma 1919 [FG], pp. 63-80.
9 Cfr la relazione citata sul terzo congresso del PCI : «In
conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra
che avevano profondamente indebolito l'apparato statale e quasi
distrutto il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le
masse contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita
propria e faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento.
Cosi si sono avuti movimenti degli ex combattenti e i vari partiti
cosiddetti di "rinnovamento" che cercavano di sfruttare questo
risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come
nel periodo dell'occupazione delle terre, più spesso
cercando di deviarlo e quindi di consolidarlo in una posizione di
lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente
avvenuto con la costituzione della "Unione nazionale"» (CPC,
107).
Cfr anche Alcuni temi della quistione meridionale cit., in CPC,
152-53. La rivista «Volontà» usci dal 1918 al
1922 sotto la direzione di Vincenzo Torraca; un tentativo di
riprendere le pubblicazioni nel 1924 durò solo pochi mesi
(alcune notizie su questa rivista si possono leggere in Leo
Valiani, DaW antifascismo alla Resistenza, Feltrinelli, Milano
1959, pp. 24-38).
10 All'omaggio dei nobili milanesi a Francesco Giuseppe nel 1853
Gramsci accenna già in una lettera dell'8 agosto 1927 (cfr
LC, 112). Sull'episodio, che è ricordato anche in altre
note dei Quaderni - cfr Quaderno 3 (XX), § 125, Quaderno 6
(VIII), § 1, Quaderno 19 (X), § 5 - si veda lo scritto
di Salvemini, Moderati e democratici milanesi dal 1848 al 1859,
pubblicato per la prima volta nel 1899 sulla «Critica
sociale» con la firma «Rerum Scriptor» (a questo
scritto Gramsci accenna più avanti, cfr nota 33 al §
44):
«... i nobili milanesi il 2 marzo 1853 - cioè due
giorni dopo pubblicata la sentenza che condannava a morte 23
italiani per i fatti del 6 febbraio, e un giorno prima che Tito
Speri, Carlo Montanari e Bartolomeo Grazioli fossero giustiziati a
Mantova, e fosse pubblicata un'altra sentenza di condanna da 8 a
16 anni di ferri contro parecchi altri liberali - il 2 marzo 1853,
i nobili moderati di Milano, approfittando di un attentato andato
a male contro l'imperatore Francesco Giuseppe, firmavano un
indirizzo di ossequio all'imperatore. Lo spazio non ci consente di
riportarlo intero; basterà ricordare che essi non solo
ringraziano la Provvidenza "che veglia sui monarchi e sui popoli"
perché "ha stornato il compimento dell'orrendo misfatto",
ma anche protestano contro "le esecrande scelleraggini commesse
anche nella nostra atterrita Milano dai perpetui nemici
dell'ordine", e offrono all'Imperatore, "serbato alle speranze,
all'amore, ai voti dei suoi sudditi, le proteste di fedele
sudditanza e di un franco e leale concorso di queste popolazioni
nel corrispondere con la propria cooperazione alle provvide misure
di chi regge questo paese, tanto bramoso di quell'ordine e di
quella tranquillità, che solo possono ritornarlo a
prosperità e floridezza". I firmatari sono circa duecento,
quasi tutti nobili, conti, marchesi e altra simile genia»
(«Critica sociale», 1° dicembre 1899, anno VIII,
n. 20, pp. 318-19; ora in Gaetano Salvemini, Scritti sul
Risorgimento, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda,
Feltrinelli, Milano 1961, p. 104).
11 Vi è qui probabilmente una reminiscenza delle Lettere
di G. Mazzini alle Società Operaie Italiane (Roma 1873),
citate in un articolo non firmato, apparso su
«l'Unità» del 26 febbraio 1926, Due lettere di
Marx su Mazzini e i contadini in Italia. In quest'articolo si
rileva che dalle lettere di Mazzini alle Società operaie
italiane traspare tra l'altro «la quasi assoluta
dimenticanza da parte di Mazzini delle masse contadine, la nessuna
trattazione dei problemi immensi che tali masse avevano da
risolvere per garantire un libero sviluppo della nascente
società capitalistica e - per conseguenza - la nessuna
considerazione da parte sua della funzione essenziale che il
movimento contadino aveva nella stessa lotta per l'indipendenza
italiana». «Questo rimprovero capitale - continua
l'articolo dell'"Unità" - che viene fatto a Mazzini da
Carlo Marx nelle lettere che in appresso riportiamo, appare
pienamente giu-•stificato allorché si leggono le lettere
scritte da Mazzini alle società operaie italiane. In due
sole di queste lettere, si accenna all'affratellamento cogli
agricoltori e alla unione in associazioni dei "lavoratori del
contado". E si tratta di frasi dette di sfuggita. Nella sua
lettera Mazzini non accenna mai all'espropriazione dei fondiari e
alla lotta contro i residui feudali nella economia
agricola». Nello stesso articolo sono riprodotte una lettera
di Marx a Engels del 13 settembre 1851 (non è esatta la
data del 3 settembre indicata nell'articolo) e un'altra lettera di
Marx a Weydemeyer dell'i 1 settembre dello stesso anno; la
minaccia del governo austriaco di ricorrere al «rimedio
galiziano» - a cui Gramsci allude nel testo - è
segnalata in queste due lettere. Nella prima Marx scrive tra
l'altro (secondo la traduzione dell'articolo citato
dell'«Unità»): «La situazione dei
contadini italiani è orribile. Ho studiato profondamente
questa infame questione: se Mazzini o qualche altro che è
alla testa dell'agitazione italiana non trasformerà
volontariamente e immediatamente i contadini da mezzadri in liberi
agricoltori, il Governo austriaco, in caso di rivoluzione,
correrà al rimedio galiziano. Esso ha già minacciato
nel Lloyd di fare un "rivolgimento completo della
proprietà" e di "annientare la proprietà inquieta".
Se Mazzini non ha aperto gli occhi è un somaro».
Nella lettera a Weydemeyer (diventato, per errore di trascrizione
o di stampa, Beidemaier nell'articolo
dell'«Unità») si legge: «Io considero la
politica di Mazzini falsa alle radici. Il modo com'egli cerca di
fare avvenire uno sconvolgimento in Italia, non si traduce che
nell'interesse dell'Austria. Egli dimentica che gli è
necessario indirizzarsi ai contadini che costituiscono la secolare
parte oppressa d'Italia. E dimenticando ciò egli prepara un
nuovo sostegno per la controrivoluzione. Il signor Mazzini non
conosce che le città con i loro gentiluomini liberali e
leurs citoyens éclairés. I bisogni materiali della
popolazione rurale italiana da cui si è spremuto tutto il
succo e che è sistematicamente tormentata e vessata fino
alla stupidità, cosi come la popolazione irlandese, tutto
ciò resta certamente al di fuori del suo manifesto
verboso-cosmopolita-neo-cattolico-spiritualista. Senza dubbio
bisogna avere molto coraggio per dichiarare alla borghesia e alla
nobiltà che il primo passo verso la indipendenza d'Italia
consiste nella liberazione completa dei contadini e nella
trasformazione del loro sistema semi-affittuario di uso della
terra in libera proprietà borghese». Per la lettera
di Marx ad Engels cfr Carteggio Marx-Engels, vol. I, Edizioni
Rinascita, Roma 1950, pp. 304-5; per la lettera di Marx a
Weydemeyer cfr Karl Marx - Friedrich Engels, Werke, vol. XXVII,
Dietz, Berlin 1963, pp. 578-79.
12 Cfr Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Nrelle di uno dei Mille, Universale economica, Milano 1949, pp. 6y66: «Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il calvario con le tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l'ora era morta, e parlavamo della rivoluzione. L'anima di padre Carmelo strideva. Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.
-Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
-Non posso.
-Forse perché siete frate? Ce ne abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
-Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l'Italia.
-Certo; per farne un grande e solo popolo.
-Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.
-Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.
-E nient'altro! - interruppe il frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose bastano forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
-Dunque che ci vorrebbe per voi?
-Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
-Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre ovunque sono case e campagne!
-Anche contro di noi; anzi prima che contro d'ogni altro! Ma col vangelo in mano e con la croce. Allora verrei. Cosi è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi ancora con voi soli.
-Ma le squadre?
-E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più?
Non seppi più che cosa rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la messa per me. Mi sentivo una gran passione nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli si mosse, sali il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve».
Cfr la novella Libertà, nella raccolta Novelle rusticane
(Giovanni Verga, Tutte le novelle, vol. I, Mondadori, Milano 1942,
pp. 367-373)-