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Giurista ed economista (Milano 1738-1794).
Rigidamente educato dai gesuiti nel collegio farnesiano di Parma, dopo aver conseguito il dottorato in diritto a Pavia (1758), entrò in contatto con l'Accademia dei Pugni e conPietro Verri, per esortazione del quale scrisse il libro Dei delitti e delle pene, che di colpo lo portò ai vertici della notorietà. Stesa di getto fra il marzo 1763 e l'inizio del 1764, l'opera rivelò subito il suo carattere inconfondibile di capolavoro: tutta la violenza troppo a lungo contenuta si riversava in quel tremendo atto d'accusa contro le atrocità giudiziarie (le denunce segrete, la tortura, la procedura penale, il criterio punitivo, la pena di morte) ma soprattutto contro le strutture sociali che ne erano la causa prima. Il vecchio mondo e il suo sistema erano investiti in pieno e ne uscivano frantumati.
Unanime fu in Europa il riconoscimento e specialmente la Francia, patria dell'Illuminismo, vide esaltati nell'opera di Beccaria i concetti migliori della sua lunga battaglia intellettuale. All'autore non mancarono gli attacchi degli spiriti più retrivi, ma Verri e gli amici del Caffè lo aiutarono a respingerli. Sono di questo periodo il Tentativo analitico su i contrabbandi, il Frammento sullo stile e il Frammento sugli odori. Intanto naufragava il progetto di Caterina II per avere in Russia Beccaria, che rifiutò l'invito provocando il risentimento di Verri, che da allora mutò l'amicizia in una critica non sempre serena. A salvarlo da una pericolosa inattività venne propizia l'offerta del governo austriaco a occupare la carica di professore di scienze camerali nelle scuole palatine (1768). Iniziò allora un periodo operoso e tranquillo, che nel 1770 pubblicava le Ricerche intorno alla natura dello stile, un prezioso frammento sulla storia della civiltà umana.
Pagine di eccezionale profondità e lucidità furono anche gli Elementi di economia pubblica, uno dei libri fondamentali e più originali del pensiero economico italiano nel sec. XVIII.
Consigliere nel Supremo consiglio d'economia (1771), Beccaria nel
1778 venne nominato magistrato provinciale per la zecca e membro della
legazione incaricata della riforma delle monete. A queste nuove
mansioni egli assolse con immutato interesse, con dignità e umana
partecipazione. Al tramonto della sua vita poteva vedere il suo libro
alla base delle numerose riforme effettuate, dalla giovane America alla
Russia zarista, mentre cadevano in pezzi, sotto i colpi della
Rivoluzione francese, le strutture di quel mondo a cui aveva inferto un
potente scossone con il suo atto d'accusa.
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DBI
di Franco Venturi
Nacque a Milano il 15 marzo 1738 dal marchese Giovanni Saverio e da
Maria Visconti di Saliceto. Suo padre discendeva da un ramo di
illustre famiglia pavese, che aveva ottenuto il titolo marchionale
nel 1712 e che beneficiava pure di tre fidecommessi entrati in
famiglia attraverso la nonna sua, Maddalena Bonesana, con l'obbligo
di portarne stemma e cognome. Nel 1759 Giovanni Saverio ottenne di
far parte del patriziato milanese. Il marchesino Cesare Beccaria
Bonesana era insomma il primogenito d'una nobile famiglia, non
ricca, ma pur sempre "benestante", larga di parentado clericale e
laico. Dopo di lui nasceranno due fratelli, Francesco e Annibale, ed
una sorella, Maddalena. Opprimenti furono la sua infanzia e la sua
adolescenza, tra le mura dell'avito palazzo di via Brera (porta oggi
il n. 6) e poi, tra gli otto e i sedici anni, nel gesuitico Collegio
Farnesiano di Parma. "Fanatica" egli chiamerà la sua
educazione. Gli anni di scuola lo richiuderanno su se stesso,
cominciando a porlo in quella situazione di puntigliosa e passiva
difesa della propria personalità dalla quale non
riuscirà ad emergere se non di rado, anche negli anni
successivi. A Parma aveva cominciato a dimostrare la sua lucida e
precoce intelligenza, sia nelle matematiche (i suoi compagni lo
chiamavano il "newtoncino"), sia ancora nelle lingue (il francese
gli divenne allora famigliare). Passato all'università di
Pavia, dove si laureò il 13 sett. 1758, entrò in
contatto con il mondo del diritto. Tornato a Milano, pur
partecipando alla vita mondana e letteraria (entrò a far
parte della Accademia dei Trasformati e scrisse qualche verso), egli
fu soprattutto impegnato in una profonda crisi sentimentale e
intellettuale che lo portò ad una rottura con la famiglia e
con le idee del suo ambiente.
Nell'autunno del 1760 si era innamorato di Teresa Blasco, vivace e
volubile ragazza, figlia d'un tenente colonnello del corpo degli
ingegneri, Domenico Blasco. L'opposizione paterna contribuì a
far di questa passione una questione di vita o di morte per il
giovane Cesare. Le minacce famigliari diedero a questo amore il
significato d'una conquistata fermezza e indipendenza. La maldicenza
che si diffuse intorno a questa mésalliance finì per
rafforzare il B. nella sua volontà di non lasciar "violentare
la sua volontà e la sua coscienza". Il 16 genn. 1761 parve un
momento propenso a cedere, ma una ventina di giorni dopo, il 4
febbraio, dichiarava al padre che "la sola morte potrà
distruggere la sua risoluzione" e lo supplicava "per le viscere di
Gesù Cristo di non più oltre... violentare la sua
coscienza... di lasciarlo in preda al suo destino". Intendeva
lasciare la casa paterna, trasformando i suoi diritti di
primogenitura in "quel tenue assegnamento che si degnerà di
fargli". Il suo genitore fece appello al governo, il quale, nella
persona del conte Emanuel de Soria, finì con l'esser
piuttosto indulgente, autorizzando infine il matrimonio. Ma
l'assegno era piccolo, stentata la vita della giovane coppia.
L'attesa d'un erede finì per provocare una scena patetica,
non senza l'intervento di P. Verri, e col riconciliare il B. con suo
padre, il 19 maggio 1762. Parallelamente il ventenne marchese si
convertiva alla philosophie e si abbandonava tutto alle idee degli
illuministi. Sapeva di non avere la fermezza sufficiente per poter
essere "ambizioso", per compiere cioè una rapida e fruttuosa
carriera. Ben conosceva quanto angosciose fossero le "Erinni della
sua fantasia", i fantasmi della sua "disperazione", i tormenti della
sua "letargia". Un accidioso egli era. Solo l'amore e l'amicizia
sembravano poterlo trarre da questa sua abulia. Solo una grande
passione intellettuale poteva trasformarlo profondamente. Egli
stesso parlerà poi d'una "conversione". Dirà, qualche
anno più tardi, nel 1766, che la sua "conversione alla
filosofiai" datava dal 1761 ed era stata, inizialmente suscitata
dalle Lettres persanes di Montesquieu. "Le second ouvrage qui acheva
la révolution de mon esprit est celui de M.
Helvétius". Buffon, Diderot, Hume, d'Alembert, Condillac
furono le tappe susseguenti di questa iniziazione al mondo dei lumi.
A questi scrittori bisogna aggiungere le opere, le idee, lo spirito
di J.-J. Rousseau, che finì forse col soverchiare, col suo
più profondo appello, le voci di tutti gli altri nell'animo
del Beccaria.
L'amore per Teresa Blasco impallidì ben presto. L'esaltazione
della scoperta illuminista venne rapidamente convogliandosi in
un'attiva ed originale partecipazione alla vita del gruppo dei
giovani che s'era andato formando attorno a P. e A. Verri
(l'Accademia dei Pugni). In quell'ambiente gli parve d'aver
raggiunto il tanto desiderato equilibrio con se stesso e con gli
altri. Quando gli fu scherzosamente richiesto di comporre la propria
epigrafe tombale egli, vantandosi del proprio epicureismo, scrisse:
"Caesar Beccaria - Johannis F. Francisci N. - Aristippi sectator -
Voluptatem virtuti sociavit - Errores hominum - Luce metaphysices
prosequutus - Sibi potius quam posteris - consulens - Vitam minus
ambitiose - Quam - Tranquille vixit". Un'amicizia particolarmente
calda lo unì ad un giovane patrizio di Cremona, Giambattista
Biffi, che classicamente designava se stesso col nome di Scipio, e
col quale scambiò, firmandosi Atticus, a partire dall'inizio
del 1762, una corrispondenza, generalmente in francese, modellata
sullo stile della Nouvelle Héloïse, particolarmente
sincera ed appassionata. Un rapporto più difficile, fin dai
primi passi, ed insieme più importante e fecondo, egli
strinse con P. Verri, che aveva preso l'ambizioso nome di Lucio
Cornelio Silla. Seguendo l'esempio di quest'ultimo entrò
nelle discussioni economiche e finanziarie che appassionavano Milano
negli ultimi tempi della guerra dei Sette Anni. Nel 1762 usciva a
Lucca (in Lombardia la censura aveva frapposto delle
difficoltà), presso Vincenzo Giuntini, la prima opera sua:
Del disordine e de' rimedi delle monete nello Stato di Milano
nell'anno 1762.
Il problema monetario era molto dibattuto anche in Italia,
soprattutto negli anni che seguono il trattato di Aquisgrana (1748).
Basandosi su due scrittori classici in materia, Pompeo Neri e
Gianrinaldo Carli, il B. giungeva alla conclusione che "nello
stabilire il valor delle monete non si deve considerare che la pura
quantità di metallo fino, nessun conto facendo né
della lega, né delle spese del monetaggio, né della
maggiore raffinazione di alcune monete". Discuteva le tariffe
vigenti per le singole monete ed il rapporto ufficialmente
stabilito, nella grida del 21 apr. 1762, tra oro e argento.
Proponeva una tabella da lui calcolata della "Tariffa di Milano col
prezzo e metallo fino di ciascheduna moneta".
Fu facile agli avversari, soprattutto il F. M. Carpani, far notare, nella seconda edizione della sua Risposta ad un amico sopra le monete, pubblicata allora, che errata era questa "tabella", non avendo il B. tenuto il dovuto conto della diversità nelle unità di misura, in uso nei diversi paesi, colle quali erano stati calcolati i pesi delle monete nelle statistiche di Carli, e che egli aveva utilizzate.
Restava la riaffermazione dei principî monetari, che eran quelli di Cantillon e di Carli, così come rimaneva un embrionale tentativo di mostrare l'importanza sociale di essi. Il B. aveva affermato di voler "far passare le nozioni di questa parte dell'economia politica dal silenzio de' gabinetti de' filosofi alle mani del popolo", aveva polemizzato duramente contro ogni "commercio di errori fondato sulla docilità de' molti e sull'impostura di alcuni", aveva cercato di inquadrare storicamente, sulle tracce e parallelamente a P. Verri, la situazione monetaria del Milanese nelle vicende della crisi italiana del Cinquecento, del lungo e pesante dominio spagnolo, del prevalere delle nazioni commercianti del Nord e della ormai sensibile ripresa settecentesca d'ogni vita economica. P. Verri privatamente s'addossò la colpa dell'errore tecnico dell'amico e pubblicamente lo difese, solo e assieme a suo fratello Alessandro, con la polemica e l'acre sarcasmo di tre pamphlets di cui il più vivace è Il Gran Zoroastro (Lugano 1762) e il più ragionato è il Dialogo tra Fronimo e Simplicio (Lucca 1762).
Attorno a questa discussione era venuta consolidandosi l'Accademia dei Pugni e dal seno di essa nacque l'impulso che portò il B. ad occuparsi, a partire dal marzo 1763, delle basi stesse del diritto penale. A. Verri, da poco laureatosi in giurisprudenza e divenuto avvocato "protettore dei carcerati", portava nel gruppo una quotidiana esperienza di miserie e di lamenti. P. Verri si era polemicamente gettato, nel 1763, a scrivere la sua Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese e andava raccogliendo quella gran quantità di appunti che organizzerà poi, nel 1777, nelle sue Osservazioni sulla tortura. Quei giovani, e gli altri che attorno a loro si raccoglievano, s'andavano contemporaneamente aprendo ai libri essenziali della loro formazione politica.
Il B.,
nell'estate del 1762, leggeva a P. Verri il Contrat social di J.-J.
Rousseau. Insieme essi cercavano in Helvétius e negli
Scozzesi le radici di quell'utilitarismo che fin dal 1763 nel suo
Discorso sulla felicità P. Verri aveva espresso nella
formula: "Felicità pubblica o sia la maggior felicità
possibile divisa colla maggior uguaglianza possibile". Il B.,
infine, riempiva allora tutto un grosso quaderno di appunti tratti
da Bacone.
La sintesi geniale venne con l'opera del B., il quale, in un anno
circa, tra il marzo del 1763 e l'inizio del 1764, portò a
termine Dei delitti e delle pene.
L'opera si apriva con un appello A chi legge che è, insieme
all'Introduzione, uno dei testi fondamentali dell'illuminismo
italiano ed europeo, tanta è l'energia e la passione con cui
viene rifiutata l'eredità di più d'un millennio di
tradizione giuridica. La legislazione vigente vien ridotta ad
"alcuni avanzi di un antico popolo conquistatore", ad uno "scolo de'
secoli i più barbari". Tutto era da rifare e la spinta
iniziale non poteva venire che dalla lotta contro gli interessi, i
privilegi dei pochi in nome dei diritti di tutti, con la speranza e
la volontà di giungere alla "massima felicità divisa
nel maggior numero". Una politica che ubbidisse a questi principi
veniva indicata: alleanza dei liberi filosofi con il potere assoluto
per abbattere i corpi intermedi e sbarazzare così il campo
alle riforme. Il B. constatava che ci si stava ormai mettendo su
questa strada, almeno per quel che riguardava l'economia. Era tempo
invero di dare inizio anche alla lotta contro "la crudeltà
delle pene", l'irregolarità delle procedure criminali, ecc.
La forza di queste pagine stava in una straordinaria capacità
di trovare un punto d'incontro tra il calcolo razionale ed
utilitaristico e la compassione profonda, umanitaria, sentimentale.
Il B. fa appello "agli oscuri e pacifici seguaci della ragione", ma
è per suscitare in loro "quel dolce fremito con cui le anime
sensibili rispondono a chi sostiene gl'interessi della
umanità". Egli sa cristallizzare in formule razionali
l'orrore della violenza, del sangue, della morte, segnando
così, anche personahnente, in queste sue straordinarie
pagine, la vittoria della ragione e della philosophie sulle angosce
e le paure che continuamente risalivano in lui e sempre rischiavano
di sommergerlo e annientarlo. Il dramma personale aveva trovato in
questo libretto, fin dall'inizio, la sua più perfetta
espressione pubblica e sociale. Il B. passava in seguito ad
esaminare il "Diritto di punire", in un paragrafo (II) fortemente
rousseauiano nei suoi principi e che pur sboccava rapidamente in una
concreta polemica contro magistrati e giudici, sostenendo la
necessità dell'applicazione letterale della legge. Ecco
dunque la necessità di lottare contro l'"Oscurità
delle leggi" (V) e di adeguare finalmente la legislazione alla vita
della "colta ed illuminata Europa". Le basi delle nuove leggi
dovevano essere la "Proporzione fra i delitti e le pene" (VI), una
nuova "Divisione dei delitti" (VIII), basata tutta e unicamente
sull'"utilità comune", sul "danno della società".
Esemplificava poi applicando questi criteri a problemi
particolarmente importanti, come quelli "Dell'onore" (IX), "Dei
duelli" (X), "Della tranquillità pubblica" (XI). Il fine
dunque delle pene, concludeva (XII), "non è altro che
d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di
rimuovere gli altri dal farne uguali". Alcuni aspetti della
procedura attiravano poi l'attenzione del riformatore. "Dei
testimoni" (XIII), "Indizi e forme di giudizi" (XIV), "Accuse
segrete" (XV): in questi tre paragrafi il B. gettava le basi d'una
procedura pubblica e attenta a fornire larghe garanzie all'accusato.
Come uno choc giungeva il paragrafo seguente, il XVI, "Della
tortura". Come era possibile questa "crudeltà consacrata" in
mezzo ad un mondo in via di miglioramento? Lo scandalo era
altrettanto profondamente sentito quanto chiaramente erano tracciati
i ragionamenti e confutati i sofismi che avevano per secoli
ricoperto e giustificato l'uso della tortura. Argomenti vecchi,
derivanti in parte da Montesquieu, ed elementi nuovi, che sgorgavano
dalla personalità stessa del B., confluivano in queste
pagine, tra le più chiare e persuasive uscite dalla sua
penna. La tortura vi era definitivamente e radicalmente condannata.
Seguono altre pagine su diverse forme, antiquate e sorpassate, di
giudizio e di pena: i compensi pecuniari (XVII) e i giuramenti
(XVIII). Urgente, di contro a simili antiche storture, la moderna
garanzia della "Prontezza della pena" (XIX). Proseguiva poi
nell'esame dei diversi delitti e delinquenti: le "Violenze" (XX), i
"Furti" ( XXII), gli "Oziosi" (XXIV), soffermandosi sulle "Pene dei
nobili" (XXI), l'"Infamia" (XXIII), il "Bando e confische" (XXV),
analizzando pure alcune condizioni tendenti ad inasprire o ad
umanizzare l'esercizio stesso della giustizia: "Dello spirito di
famiglia" (XXVI) e la "Dolcezza delle pene" (XXVII). Il motivo
ricorrente di queste pagine era sempre il medesimo: "Chi nel leggere
le storie non si raccapriccia d'orrore pe' barbari ed inutili
tormenti che da uomini, che si, chiamano savi, furono con freddo
animo inventati ed eseguiti?". Era tempo ormai d'abbordare il
problema più grave di tutto il libro: "Della pena di morte"
(XXVIII). Il paragrafo è giustamente celebre: per la prima
volta ragione e sentimento convergevano in una inesorabile condanna
della pena di morte. Nulla pesavano, per il B., gli esempi dei
secoli e dei millenni. Ogni precedente veniva scartato; "in faccia
alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione" il B.
poteva ormai affrettarsi a concludere, non senza aver prima fissato
i principî razionali della "Cattura" (XXIX), dei "Processi e
prescrizione" (XXX), e non senza aver esaminato alcuni casi, insieme
eccezionali e rivelatori, come i "Delitti di prova difficile"
(XXXI), il "Suicidio" (XXXII), i "Contrabandi" (XXXIII), spezzando
una lancia contro il carcere "Dei debitori" (XXXIV), combattendo gli
"Asili" (XXXV), le taglie (XXXVI) e rifacendosi ad alcuni problemi
di procedura come gli "Attentati, complici, impunità"
(XXXVII), le "Interrogazioni suggestive, deposizioni" (XXXVIII).
Terminava inserendo questa sua visione dei delitti e delle pene nel
quadro d'una sua concezione dell'umana società e della sua
evoluzione. I paragrafi: "Come si prevengano i delitti" (XLI) e
"Delle scienze" (XLII) erano d'un sociologo e d'un filosofo della
storia, che tornava tuttavia, nella sua "Conclusione" (XLVII) alla
formulazione d'una serena e nitida regola d'azione: "perché
ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato
cittadino deve esser essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la
minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a'
delitti, dettata dalle leggi".
Il ritmo interno dell'opuscolo, come si è potuto constatare,
era tutt'altro che classico o monotono. Sembrava davvero che ragione
e passione s'avvicendassero per ritrovarsi unite nei punti
più alti dell'opera, quelli cioè dedicati alla
tortura, alla pena di morte, all'umana dignità salvata e
garantita attraverso le vicende dell'istruzione giudiziaria, del
processo e della condanna. Come giustamente notò Diderot, il
valore stesso di quest'opera era legato ad un ritmo in cui "le calme
succède subitement à la fureur et la fureur au calme,
sans qu'il y ait aucun mouvement qui prépare et qui sauve ces
dissonances morales".
Il manoscritto di Dei delitti e delle pene fu inviato a G. Aubert,
della stamperia Coltellini, a Livorno, il 12 apr. 1764. Nel luglio
cominciarono a circolare i primi esemplari. Il successo fu
immediato. Nello spazio di due anni si contarono sei edizioni,
sempre in Toscana (con le false indicazioni di Monaco, Lausanna,
Harlem). Il B. corresse ed ampliò il suo testo (e sulla sesta
edizione, del 1766, è stata esemplata l'analisi ora compiuta
dell'opera). Cominciarono ben presto anche le polemiche e le
discussioni. All'inizio del 1765 uscirono anonime, a Venezia, le
Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene,
del monaco vallombrosano Ferdinando Facchinei. Questi intendeva
colpire duramente le basi stesse dell'opera del B. (il quale era
chiamato, per la sua visione della società, "socialista").
Uguaglianza, tolleranza, calcolo utilitario, sembravano al polemista
promettere rovine e danni a breve scadenza. Il B. era per lui
foriero di una gran "tempesta". Soltanto la censura e le
proibizioni, i tribunali e le condanne avrebbero potuto frenare "i
libertini e gli spiriti forti". Gli replicarono P. e A. Verri in una
Risposta ad uno scritto che s'intitola Note ed osservazioni sul
libro Dei delitti e delle pene, uscita ai primi di febbraio del
1765. L'ironia, il garbo, l'abilità degli autori tendevano a
nascondere i problemi di fondo e a mettere gli uomini di buonsenso e
la gente colta dalla parte del Beccaria. Una simile opera di
penetrazione negli ambienti più moderati compì
contemporaneamente G. G. de Soria, dell'università di Pisa,
col suo Giudizio d'un celebre professore che accompagnò la
terza edizione, anch'essa del 1765. All'inizio dell'anno seguente
usciva a Milano l'opuscolo di P. Risi, Animadversiones ad criminalem
jurisprudentiam pertinentes, che trasponevano anch'esse, in un
linguaggio più tecnico e meno efficace, alcune delle idee del
B., contribuendo non poco a farle più largamente conoscere
(l'opera di Risi verrà tradotta in francese e in tedesco).
Attraverso F. Rusca, L. Cremani e altri il B. venne ad influenzare
l'università di Pavia. Anche fuori della Lombardia, a Torino,
Dei delitti e delle pene non mancò di suscitare entusiasmi e
polemiche. D. F. Vasco s'infiammò delle idee del Beccaria.
Suo fratello Giambattista sarebbe ben presto venuto a far parte del
gruppo lombardo dei riformatori. La meschinità e la grettezza
mentale dell'avvocato F. A. Pescatore (1780) rappresentò
invece, con particolare acutezza, l'altro aspetto dell'accoglienza
fatta in Piemonte a quest'opera. Nel mondo genovese maturerà,
per essere poi pubblicato a Monaco (Nizza), nel 1784, uno dei
commenti più originali e curiosi al B., quello dell'avvocato
R. C. Massa, che doveva un giorno sedere sui banchi della
Convenzione Nazionale, tra i girondini. A Venezia il libro si
diffuse subito nel vivace ambiente culturale ma, scambiato per una
provocazione politica del partito antioligarchico di A. Querini, fu
duramente proibito da un decreto degli Inquisitori di Stato (27 ag.
1764); dissipato l'equivoco, la sua diffusione andò
aumentando fino all'edizione veneziana del 1781, seguita da altre
due remondiniane di Bassano (1789 e 1797). A Lucca vedeva la luce
nel 1766 l'opuscolo del consigliere S. Venturini De tormentis
ispirato al Beccaria. "C'est l'humanité même qui a
dicté cet excellent ouvrage", dirà il Journal
encyclopédique del 1º nov. 1767. A Firenze l'eco fu
profonda e culminò nella riforma penale, che prevedeva
l'abolizione della pena di morte ed un'altra serie di misure
beccariane, nel 1787. A Roma la Chiesa cattolica condannò e
mise all'indice Dei delitti e delle pene con un decreto del 3 febbr.
1766. Ma anche là non mancò chi fu colpito ed
influenzato dalle idee di quest'opera. F. M. Renazzi con i suoi
fortunati Elementa juris criminalis (1773, la quinta edizione
è del 1802), pur accettando le condanne civili ed
ecclesiastiche che avevano colpito il libretto del B., finiva col
confessare che questi era stato il primo "qui animose tentaverit
novam criminalem scientiae faciem induere". A Napoli A. Genovesi
diceva nel 1767, nella seconda edizione del suo De iure et officiis,
che l'opera del B. era "opusculum pene aureum". Nel 1772 usciva a
Napoli, anonima, una violenta confutazione: Il diritto di punire, di
A. Silla. Aperta sarà anche in seguito l'opposizione di
numerosi giuristi (ad es. G. D. Rogadeo). Anche G. Filangieri
dedicherà una parte dell'opera sua a confutare, sia pure con
ben diverso animo, le idee del B. sulla pena di morte. Profonda
dunque ed insieme difficile fu la penetrazione nel Mezzogiorno. Nel
fascicolo 1º del 1785 del Giornale enciclopedico d'Italia,
pubblicato a Napoli, leggiamo tuttavia che "dopo il Segretario
fiorentino non aveva prodotto l'Italia un altro filosofo pensatore
da poter figurare in concorrenza con le altre nazioni. I Verri, i
Galiani, i Filangieri coincidono con l'epoca di Beccaria". In
Sicilia il marchese T. Natale di Monterosato, nelle sue Riflessioni
politiche intorno all'efficacia e necessità delle pene
(Palermo 1773), concordava con il B., non senza rivendicare anzi il
primato cronologico nella lotta per l'abolizione della pena di
morte. A. Pepi, d'altra parte, nell'opuscolo Dell'inegualità
naturale, aveva già spezzato una lancia in favore
dell'"ardire felice di questo filosofo". Ovunque l'eco del B. venne
a toccare uno strato profondo della cultura settecentesca: la storia
delle risposte al suo appello è un capitolo fondamentale del
nostro illuminismo.
Rapida pure fu la risposta europea, generalmente mediata dal
diffondersi della traduzione francese. Nell'estate del 1765 i
philosophes parigini scopersero Beccaria. Il 9 luglio d'Alembert
esprimeva a P. Frisi il suo entusiasmo. Il 24 agosto il B.
rispondeva con un vero atto di devozione all'indirizzo dell'uomo che
aveva scritto il "Discorso preliminare" dell'Encyclopédie.
Una confessione addirittura fu quella che egli inviò, il 26
genn. 1766, ad A. Morellet, a colui cioè che, su indicazione
e per incitamento di Malesherbes, si era fatto il suo traduttore.
Oltre alla "stima", la "riconoscenza", la "amicizia", intendeva
fargli avere il racconto delle vicende della sua vita e il programma
della sua attività. Era "confuso per le gentilissime
espressioni che voi mi fate in nome di quei sommi filosofi che
onorano l'umanità, l'Europa e la propria nazione. Alembert,
Diderot, Helvétius, Buffon, Hume, nomi illustri e
consolanti!". "Divina addirittura" gli era parsa
l'Encyclopédie. "Pensate, o signore, che i filosofi francesi
hanno in questa America una colonia di veri discepoli, perché
lo siamo della ragione". Per bocca del B. l'Accademia dei Pugni
veniva a stringere un patto con la Parigi capitale dei lumi. Non ci
stupiremo, dopo tutto questo, che il B. accettasse anche le
modificazioni che A. Morellet aveva apportato al suo testo
volgendolo in francese. Il titolo stesso era diverso: Traité
des délits et des peines (Philadelphie, in realtà
Parigi, 1766, ma uscì alla fine del 1765). Il traduttore
aveva raggruppato a modo suo i paragrafi, tentando di dar loro un
ordine più sistematico, più adatto appunto ad un
Traité. Aveva finito col modificare qua e là il testo
stesso, sospinto dalle necessità di questo riordinamento.
L'accettazione del B. fu un puro atto di cortesia? Parrebbe di
sì, poichè mai egli provvide, malgrado l'avesse
promesso, a rivedere il testo italiano del suo opuscolo, il quale
continuò perciò a circolare nella forma che gli
editori meglio credettero, prole fortunatissima d'un padre attonito
e distratto. Diderot disse che la trasformazione operata da Morellet
era un vero assassinio. Altri, anche italiani (C. Amidei, L.
Paroletti), rimasero fedeli al testo originale. La maggioranza si
acconciò a rimodellare sul testo francese l'opera del B. (a
partire dall'edizione che porta l'indicazione di Londra 1774, e che
uscì a Livorno).
Anche in Francia l'eco delle parole del B. fu immediata e profonda.
La manoscritta Correspondence littéraire, philosophique et
critique di Grimm, Diderot, Raynal ecc. ne parlava già il
1º ag. 1765. Nel 1766 intervenne Voltaire con una Lettre de M.
Cassen à M. Beccaria sur le procès du chevalier de la
Barre, che era un appello al filosofo milanese perché si
schierasse al suo fianco nella lotta contro i delitti giudiziari che
andavano perpetrandosi in Francia. Nello agosto o al principio di
settembre del 1766 usciva il Commentaire sur le Traité des
délits et des peines dello stesso Voltaire (con l'aiuto di
Christin de Saint-Claude, avvocato a Besançon). Al parlamento
di Grenoble il Discours sur l'administration de la justice
criminelle dell'avvocato J.-M.-A. Servan, attivo ed intelligente
seguace dei philosophes, suscitò grande interesse e venne
pubblicato nel 1767 a Ginevra. Sembrava che le idee del B.
cominciassero a penetrare anche nel mondo dei magistrati. Ma
contemporaneamente cominciarono ad apparire anche le confutazioni,
che derivarono generalmente proprio da membri dei parlamenti. P.-F.
Muyart de Vouglans (Lausanne [Parigi] 1767) nella sua
Réfutation des principes hasardés dans le
Traité des délits et des peines, cosìcome D.
Jousse nel suo Traité de l'administration de la justice
(Paris 1771) additarono i gravi pericoli che il B. pareva loro far
correre al governo, ai costumi e alla religione. Né mancavano
di fare esplicitamente appello alla censura. Venne ben presto
sviluppandosi una vasta polemica che coinvolse Diderot e Condorcet,
Linguet e Mably, Pastoret e Dupaty, che continuò durante e
dopo la rivoluzione, quando i problemi posti dal B. s'imposero di
nuovo in tutta la loro virulenza. Malesherbes e Roederer, Bernardi e
Bexon furono tra i più notevoli rappresentanti di questa eco
ritardata e persistente del suo pensiero in Francia. La
Bibliothèque philosophique du législateur, du
politique, du jurisconsulte, pubblicata in dieci volumi da J.-P.
Brissot de Warville, a partire dal 1782, rappresentò una
prima, fondamentale silloge di questo movimento. Un'altra, non meno
ampia e non meno importante, si potrebbe costituire raccogliendo gli
scritti apparsi, ad esempio, nell'Encyclopédie
méthodique, nel Journal d'économie politique, nella
Décade philosophique e nelle Archives littéraires de
l'Europe. LaFrancia sembra essere stata, nell'assieme, il paese in
cui più larga fu la discussione, dove più tenace e
meschina fu la difesa delle tradizioni giuridiche del passato,
più lenta e faticosa la riforma governativa, più acuto
e grandioso il conflitto negli anni rivoluzionari.
Una situazione più varia troviamo in Svizzera. Qua e
là il messaggio del B. fu accolto con particolare calore e
rapidità. La Società Patriottica di Berna gli
assegnava una medaglia, già nell'ottobre del 1765. L'anno
dopo l'opera sua veniva ripubblicata a Yverdon, e a Neuchâtel
nel 1773. A Ginevra l'accoglienza fu vivissima. Ma disuguale il
ritmo e l'intensità delle riforme pratiche.
Nel mondo di lingua tedesca il B. lasciò una traccia
importante. Una prima versione, dal francese, apparve ad Amburgo nel
1767, per opera di A. Wittenberg, un'altra usciva a Ulm nello stesso
anno per mano di Jakob Schultes che intenzionalmente scelse il testo
italiano lasciando da parte quello francese di Morellet e
aggiungendo alla sua versione copiose note. Nel 1778, a Breslau,
usciva la traduzione di P. J. Flade con una prefazione di K. F.
Hommel, importante personaggio del movimento riformatore in
Sassonia. La prefazione era particolarmente entusiasta, giungendo
Hommel a chiamare il B. "Socrate dell'età nostra". Nel 1786
questa edizione venne ristampata a Vienna. Due anni dopo un'altra
vedeva la luce a Breslau, e nel 1798 un'altra ancora a Lipsia.
Contemporaneamente non erano mancati al B. gli omaggi e le
discussioni. Il duca Luigi Eugenio di Württemberg si dichiarava
suo devoto discepolo. J. G. Sulzer lo venne a vedere nel 1775.
Ch.-J. Jagemann parlava a lungo di lui nelle Briefe über
Italien. A lui si ispirava il sovrano fisiocrate Carlo Federico di
Baden. Federico II di Prussia, dopo aver scritto che il B. "n'a
guère laissé à glaner après lui; il n'y
a qu'a s'en tenir à ce qu'il a si judicieusement
proposé", cercava, sia pur lentamente, di far passare le sue
idee nei fatti. Nel codice penale che si pubblicò subito dopo
la sua morte lo spirito beccariano non è assente. Nell'Impero
l'eco del B. è particolarmente sensibile e, attraverso
Vienna, il suo pensiero ebbe notevoli riflessi in Belgio,
mescolandosi alla discussione sull'abolizione della tortura,
iniziata fin dal 1764 e alle riforme del visconte J.-J. P. Vilain
XIII, che del B. poté essere considerato discepolo. Il 13
genn. 1787 Giuseppe II aboliva la pena di morte nei domini
ereditari.
In Svezia fu un discendente di mercanti di Lubecca e di Viborg, J.
H. Hochschild, membro dell'amministrazione comunale di Stoccolma, a
far conoscere l'opera del B., nel 1770, in una traduzione svedese
condotta su quella francese. Due anni più tardi, il 27 ag.
1772, Gustavo III aboliva la tortura. "Il dit que c'est le livre De'
delitti e delle pene de l'illustre Beccaria qui lui a appris ce
trait d'humanité", scriveva l'abate Michelessi a Bonomo
Algarotti, il 2 settembre dello stesso anno.
In Polonia Dei delitti e delle pene appare tradotto da Teodor Waga,
a Brzeg (nella Slesia) su incitamento del principe Stanislao
Lubomirski, fin dal 1772. Ebbe una funzione di primo piano nella
discussione sul jus agratiandi e sulla pena di morte che si svolse
tra la nobiltà e il re negli anni immediatamente successivi
al 1773. Nel 1776 la Dieta aboliva la tortura. In Russia l'influenza
del B. scese dall'alto, da Caterina II e dalla sua corte. La
progettata riforma giudiziaria del 1767 è tutta ispirata a
lui per la parte riguardante il diritto penale, come dimostra
l'Istruzione della stessa imperatrice. Lo storico M. M. Ščerbatov
tradusse Dei delitti e delle pene dal francese e ritornò
anche più tardi sul problema della pena di morte, combattendo
l'idea di sostituirla con i lavori forzati. Al B. si ispirò
ancora il gruppo che si riunì negli ultimi anni del secolo
attorno al principe ereditario, il futuro Alessandro I. Con
l'assenso di quest'ultimo venne pubblicata la prima versione russa,
per mano di D. Jazykov, che apparve a Pietroburgo nel 1803. Un'altra
traduzione, dedicata anch'essa all'imperatore, di I. Tatiščev era
pronta in quello stesso anno, ma non vide la luce. Una terza, di A.
Kruščov, venne pubblicata anch'essa nella capitale, nel 1806.
Dall'altra parte dell'Europa, in Spagna, l'opera del B. seppe pure
trovare la propria strada. P. Giusti, il 12 genn. 1775, lo avvertiva
da Madrid di quanti fossero gli ostacoli che il "dispotismo
religioso e politico" e la "cattiva legislazione" frapponevano alla
penetrazione delle sue idee. Una traduzione era tuttavia apparsa,
l'anno prima, compiuta da J. A. de las Casas, sotto la protezione di
uno dei maggiori esponenti dell'illuminismo spagnolo, P.
Rodríguez de Campomanes. Non mancarono, naturalmente, le
opposizioni dei religiosi, né quelle dei legisti (P. de
Castro, nel 1768). M. de Lardizábal y Úribe lo difese
invece, pur non accettando sempre le conclusioni del B., nel suo
Discurso sobre las penas (Madrid 1783). Influenzati saranno da lui
alcuni dei maggiori scrittori spagnoli del Settecento, Jovellanos,
Cadalso, Meléndez Valdés. Ma ancora nel 1803
l'inquisizione s'occupava d'una copia manoscritta dell'opera del
Beccaria. Soltanto nel 1820 potrà apparire a Madrid una
seconda edizione.
Anche nella terra d'Europa dove la tradizione veniva difesa con
più convinzione, l'isola britannica, il B. giunse al momento
giusto, scuotendo le coscienze e obbligando a riprendere i problemi
alla radice. Il noto pittore A. Ramsay polemizzò con lui e
finì per ottenere l'assenso dello stesso Diderot sul problema
della pena di morte. Tra coloro tuttavia che si preparavano a gettar
le basi del "radicalismo filosofico" inglese egli trovò
invece un'eco profonda. J. Benthani riconobbe apertamente il suo
debito verso di lui. Nel 1767 appariva a Londra la prima edizione
inglese. L'anonimo traduttore plaudiva al tentativo di ridurre le
leggi "to the standard of reason", e constatava l'immenso successo
già ottenuto. Anche in Inghilterra, diceva, le leggi erano
ben lungi dall'essere perfette. Bastava pensare che "il numero dei
criminali messi a morte è più grande che in qualsiasi
altra parte d'Europa". Le recensioni non mancarono, ed una almeno
merita ricordare: nell'Annual Register del 1767 fu E. Burke a
parlare del Beccaria. Il maggior legista inglese di
quell'età, W. Blackstone, ne fu profondamente influenzato.
Tra il 1769e il 1807sette edizioni vennero pubblicate. Dal dibattito
del 1770alla Camera dei Comuni a quello del primo decennio
dell'Ottocento, provocato da S. Romilly, la voce del B. fu presente,
al centro stesso della vita politica inglese. Nel mondo anglosassone
d'oltre Oceano le idee del B. giunsero attraverso la pubblicazione
dell'opera sua nel 1773e attraverso il Commentaire di Voltaire.
Furono poi riprese da B. Franklin, T. Jefferson e da B. Rush e
finirono per castituire un lievito importante in quel movimento per
l'abolizione della pena di morte, tra il 1787e il 1816, che gli
storici americani D. Brion Davis e P. M. Spurlin ci hanno
recentemente descritto.
Mondiale davvero, come si è potuto vedere, fu dunque la
risposta all'appello del Beccaria. Ovunque egli giunse a far
dubitare gli uomini del diritto di punire, di torturare, di
uccidere, ovunque egli propose la sostituzione del lavoro forzato
alla morte - pena meno crudele e soprattutto più utile alla
società -, ovunque venne a sostenere la prevenzione invece
della repressione dei delitti. Dappertutto egli impose la sua
distinzione tra peccato e delitto e la sua rinuncia integrale ad
attribuire un qualsiasi senso religioso all'espiazione giuridica.
Finì così coll'ispirare un dubbio profondo, attonito e
sbigottito, di fronte alle fondamenta stesse dell'umana
società, al diritto di punire, ad ogni forma di costrizione e
di violenza. Questo "fremito" impresso alle "anime sensibili" il B.
aveva saputo suscitare con un opuscolo abbandonato alla sua interna,
straordinaria efficacia, ché poco o nulla egli personalmente
seppe contribuire a questo universale successo. Sembrò di
volta in volta impressionato dalle conseguenze del suo scritto e
sdegnoso di profittare della fama ch'egli s'andava sempre più
largamente procurando. "Nello scrivere l'opera mia, diceva a
Morellet, ho avuto innanzi agli occhi Galileo, Machiavello e
Giannone. Ho sentito scuotersi le catene della superstizione e gli
urli del fanatismo soffocare i germi della verità... Ho
voluto essere difensore degli uomini senza esserne il martire". Il
suo epicureismo, come una maschera, riappariva. Dietro ad essa stava
il timore, la paura di ricadere nella sua profonda apatia e insieme
di doversi esporre, di dover mettere a repentaglio insieme il suo
penoso equilibrio e la sua sicurezza personale.
Per qualche tempo l'amicizia del Verri, l'appoggio dell'Accademia
dei Pugni, la collaborazione alla loro rivista, Il Caffè
(1764-1766), venne a sorreggerlo. Non scrisse molto, ma furon pagine
acute e delicate: un saggio di economia matematica (Tentativo
analitico su i contrabbandi), un primo abbozzo d'una sua teoria
estetica (Frammento sullo stile), qualche riecheggiamento di Addison
o di Akenside (De' fogli periodici e I piaceri dell'immaginazione)e
perché altre cose tra le quali, un Frammento sugli odori. Nel
giugno del 1766 usciva l'ultimo numero del Caffè. Il 2
ottobre egli lasciava Milano, in compagnia di A. Verri. Erano
diretti a Parigi, dove lo chiamavano le lodi dei philosophes. Il 18
dello stesso mese era arrivato e già il giorno seguente aveva
fatto conoscenza di Morellet, Diderot, Thomas, d'Alembert,
d'Holbach. Ovunque fu accolto con calda ammirazione. Per un mese non
poté sottrarsi alle attenzioni degli scrittori parigini. "Le
marquis Beccaria, diranno poi, porte sur son visage ce
caractère de bonté et de simplicité lombardes
qu'on retrouve avec tant de plaisir dans son livre". Ma il B. non
resse al successo. Il pensiero della moglie lontana, la muta
ribellione al gioco sociale al quale lo si invitava lo indussero, a
lasciar Parigi prima della fine di novembre. Il 12 dicembre era di
ritorno a Milano. "Caro amico, scriveva a P. Verri il 15 nov. 1766,
lasciami qual sono, lasciami correre la mia carriera in pace,
secondo le mie sensazioni, il mio carattere e i bisogni miei". Non
gli furono risparmiate le cordiali ironie dei Francesi, i rimproveri
e poi l'aspra condanna del Verri, lo stupore di molti conoscenti,
l'indifferenza ormai della moglie stessa.
Una via gli restava aperta. Già a Parigi gli era giunta l'eco
dell'invito di Caterina II a recarsi in Russia per collaborare alla
riforma delle leggi. L'imperatrice poco sapeva di lui, all'inizio.
Credeva abitasse a Firenze e dubitava fosse un abate. Ma nutriva
un'enorme ammirazione per il suo libro ed era pronta a molto
largheggiare pur di averlo con sé. Il B. esitò,
Morellet e d'Alembert lo sconsigliarono. Nell'ottobre del 1767 la
proposta era caduta. Si era intromesso lo stesso Kaunitz, il quale
aveva scritto a Firmian, il 27 apr. 1767, che troppo grande era la
sua stima per il B. per lasciarlo partire dalla Lombardia,
"massimamente nella penuria in cui siamo in provincia di uomini
pensatori e filosofi". Nel dicembre del 1768 il B. veniva nominato
professore di scienze camerali alle Scuole palatine. Il 9 genn. 1769
teneva la sua prolusione, che venne stampata a Milano e
ripetutamente tradotta in francese (ad es. nel numero sesto del 1769
delle Ephémérides du citoyen, con note di grande
interesse). Essa vide pure la luce in inglese (London 1769). P.
Verri, in una lettera al fratello Alessandro, del 21 gennaio di
quell'anno, dichiarò che quest'opera del B. non conteneva
"una sola idea luminosa e nuova sulla materia", ma "molti luoghi
comuni". In realtà essa costituiva un tentativo, sia pur
condotto senza vigore, di esporre l'elemento centrale del suo
pensiero in quegli anni, la sua aspirazione cioè a legare
l'economia politica ad una visione generale dello sviluppo
dell'umanità, ad una sociologia o filosofia della storia.
Vagheggiava un libro sul Ripulimento delle nazioni e qualche
frammento ne scrisse, intitolandolo Pensieri sopra la barbarie e
coltura delle nazioni e su lo stato selvaggio dell'uomo e Pensieri
sopra le usanze ed i costumi. Suggerimenti e incitamenti in questo
senso gli vennero dai philosophes parigini, dalla lettura delle
opere di Boulanger, di Ferguson e forse di altri scrittori scozzesi
e francesi impegnati anch'essi nella ricerca di quella che il B.
chiamava "la scienza dell'uomo". Questa gli appariva come la base di
tutte le scienze e al suo progresso vedeva legato lo sviluppo di
tutte le altre. Il progetto sembrava a momenti prender ai suoi occhi
l'ampiezza d'una "scienza del buono, dell'utile, del bello". Tutto
quel che scrisse nel decennio che seguì la pubblicazione di
Dei delitti e delle pene costituì in realtà una parte,
un frammento di questo vasto disegno. Le Ricerche intorno alla
natura dello stile, vagheggiate a Parigi, scritte fra il 1767 e il
1769, pubblicate a Milano nel 1770, tendevano anch'esse, partendo da
un'analisi psicologica delle sensazioni e delle passioni, a giungere
ad una storia dell'umano incivilimento, dalla "robusta fanciullezza"
dei primitivi allo stato "poetico, immaginoso ed eloquente" e
finalmente alle origini dei grandi concetti sociali, come quello
della giustizia. Ma la seconda parte delle Ricerche restò
inedita e non venne pubblicata che postuma, a Milano, nel 1805. Essa
era tuttavia adombrata nella Prolusione del 1769, dove l'economia
politica diventava esplicitamente il punto d'arrivo d'una lunga
evoluzione. La volontà di tradurre in linguaggio matematico
gli umani comportamenti, il tentativo di definire in termini
quantitativi il progresso delle società, la volontà di
ritrovare, al di là delle leggi, dei costumi, dei linguaggi,
una più generale espressione della "indole universale
dell'umana natura", aveva portato anche il B., come tanti altri
pensatori del suo secolo, all'economia politica come allo sbocco di
tutta la sua ricerca filosofica.
Insegnò per due anni, con notevole concorso di giovani delle
famiglie migliori e più influenti della città. Gli
iscritti raggiunsero il centinaio. Lo stipendio, per riguardo alla
celebrità del docente, fu portato a tremila lire. Iniziando
il suo corso, egli aveva reso omaggio al "fondatore di questa
scienza in Italia", a Genovesi. Ma poi non ne seguì le
tracce, persuaso come era che la realtà economica e politica
lombarda differisse nettamente da quella napoletana. Partì
dai neo-mercantilisti (oltre a Genovesi aveva citato nella
Prolusione Melon, Ustáriz, Ulloa), sentì l'influenza
di Cantillon e di Hume e si aprì, magari per discuterlo e
contrastarlo, al pensiero fisiocratico (l'articolo Fermier
dell'Enciclopedia, dovutoalla penna di Quesnay), né rimase
sordo a quell'interesse insieme tecnico ed economico per le
manifatture che Diderot e gli enciclopedisti poterono ispirargli. Fu
invitato dalle autorità a pubblicare il suo corso. Promise,
ma poi non ne fece nulla. Gli Elementi di economia pubblica che P.
Custodi farà conoscere nel 1804, traendoli da uno dei
manoscritti che di quest'opera circolarono, comprendevano quattro
parti, i "Principi e viste generali", "Dell'agricoltura politica",
"Delle arti e manifatture", e "Del commercio". Vi confluiva la sua
giovanile volontà di radicale riforma e la sua più
matura concezione dell'evoluzione sociale della umanità. Vi
ritroviamo una mescolanza di spirito matematico e di impeto morale,
che già si era potuto constatare nei suoi scritti anteriori,
ma che qui dava qualcuno dei suoi frutti migliori, trasfondendosi in
un'analisi dei fenomeni economici, in una volontà di vedere
in forma statistica i problemi sociali da lui esaminati e insieme in
una vivida e appassionata descrizione della situazione sociale delle
classi più diseredate. Esempi notevoli di tutto questo erano
il cap. III della prima parte, "Della popolazione", il cap. I della
parte seconda, "Degli ostacoli che si oppongono alla perfezione
dell'agricoltura e dei mezzi di levarli", o ancora il cap. II della
parte terza, "Per quali cagioni le arti si indeboliscono e si
perdono e per quali mezzi si rinvigoriscono". Anche se non molti
sono i contributi originali del B. alla teoria e all'analisi
economica (esame dello sviluppo dei diversi mercati, dal baratto
allo scambio indiretto; analisi di alcuni problemi monetari), il
corso del B., oltre a grandi pregi di stile, di ardimento e di
chiarezza, rivelava in lui doti eccezionali per l'economia politica.
J. A. Schumpeter non ha esitato a chiamarlo lo "Smith italiano".
Due anni d'insegnamento furono sufficienti per il Beccaria. Con una
lettera particolarmente ossequiosa egli scrisse all'imperatrice
chiedendo il posto al Supremo consiglio d'economia, vacante per la
morte del consigliere, F. Damiani. Anche a Kaunitz espresse il suo
"ardentissimo desiderio", che sempre aveva nutrito, "di consacrare
in un servizio più diretto e con maggiore assiduità
all'Augustissima Padrona tutto se stesso". L'"umilissimo suddito"
venne accontentato. Il 29 apr. 1771 fu nominato consigliere con lo
stipendio di seimila lire e con l'obbligo di tenere ancora per
qualche tempo la cattedra, nella quale sarà presto sostituito
da A. Longo. Il 24 maggio 1771 il B. prendeva posto per la prima
volta nel consiglio (che nello stesso anno assumeva il nome di Nuovo
magistrato camerale). Nell'estate si occupava d'una nuova
legislazione sulle lettere di cambio e della riforma delle monete. A
partire dal 1773 si dedicò soprattutto ai problemi annonari.
Nel 1778 divenne magistrato provinciale per la zecca e membro della
delegazione per la riforma delle monete. Il suo stipendio
salì a diecimila lire.
Era ormai diventato un alto funzionario e la sua carriera si
chiudeva ogni anno di più in una grigia e spenta
normalità. Così pure la sua esistenza privata e
personale. La sua vita famigliare era passata attraverso vicende
più che penose. Una figlia era nata il 21 luglio 1762 e
l'avevano chiamata Giulia pensando all'eroina della Nouvelle
Héloïse. Nel 1765era nata una seconda bambina, Marietta,
debole e mal conformata. Rapidamente la vita della moglie Teresa era
diventata vana e dissipata. Il B. aveva accettato l'ambiente che
questa gli veniva creando intorno. Aveva accolto la compagnia di B.
Calderara, T. Odazzi, A. Menafoglio, gli amici di Teresa. Un figlio
nacque nel 1767, ma morì pochi giorni dopo. Viaggi e
distrazioni non nascondevano la vanità della vita famigliare,
e sociale del Beccaria. Irreparabile era ormai la rottura con i
Verri e con l'ambiente che era stato dell'Accademia dei Pugni. La
moglie era gravemente malata da tempo e all'inizio del 1774apparve
evidente che non c'era più alcuna speranza. Il 14marzo
moriva. La disperazione iniziale del B. fu seguita dalla sua solita
reazione abulica e artificiosamente epicurea. "Il dolore non
è buono a nulla", pare dicesse ben presto. Quaranta giorni
dopo firmava il contratto di matrimonio con Anna Barbò, la
cui dote doveva servire a riparare le sue dissestate finanze. Il 4
giugno si sposava. L'11 marzo 1775nasceva il figlio Giulio. Anche
nella vita famigliare il B. sboccava in una indifferente
normalità. P. Verri continuava a guardarlo con occhi
malevoli. Ma il ritratto che ci ha lasciato di lui in quegli anni ha
il sapore della verità: "Egli è caduto talmente che
nel suo discorso istesso è un uomo esattamente volgare e non
si distingue se non per le stravaganze. Per sua fortuna ha sposato
una buona giovane, affezionata, prudente, che mantiene la concordia
in casa e si fa voler bene da ognuno: questa calma le Erinni della
sua fantasia..." (26 ag. 1775).Alla radice del suo carattere gli
pareva di vedere ormai soltanto la "paura". L'angoscia del B. si
esprimeva ormai soltanto in stravaganze, in morbosi spaventi, in
crisi nervose e, per contrasto, in una sempre più
indifferente apatia.
Se spente pure sono le numerose memorie che il B. scrisse per dovere
d'ufficio negli ultimi vent'anni della sua esistenza, esse hanno
tuttavia il merito della fedeltà alle sue idee, della
paziente volontà di realizzare in qualche modo un ideale
d'illuminata amministrazione. Tra le più interessanti furono
quelle degli ultimi tempi, a partire dal 1786, quando il B. fu messo
a capo del Terzo Dipartimento del Consiglio di governo (che si
occupava di agricoltura, industria, commercio), o dal 1789, quando
passò al Secondo Dipartimento (che aveva competenza in
materia di questioni giurisdizionali e di polizia). Con dispaccio
del 17 febbr. 1791 fu nominato membro della Giunta per la correzione
del sistema giudiziario civile e criminale per esser poi, il 16
giugno di quello stesso anno, dispensato dall'occuparsi delle
materie civili e passato alla commissione per la riforma del diritto
penale. Ebbe pure ad interessarsi dei rapporti dei territori
asburgici al di qua e al di là delle Alpi e dei riflessi in
Austria e in Lombardia della politica doganale di Giuseppe II,
soprattutto per quanto riguardava la seta (1787-88). In quegli
stessi anni affrontava il problema della disoccupazione dei
tessitori di Como e formulava delle proposte per "alleviarla".
Collaborava alla creazione d'una scuola di veterinaria e alla
diffusione delle "regie scuole del popolo" (con la proibizione, nel
1788, "d'ogni scuola elementare privata"). Nel 1789 presentava
all'imperatore la statistica della popolazione lombarda ("col
consolante prospetto di un aumento di popolazione in confronto con
l'anno precedente"). Nel 1790 era incaricato di recarsi a Como in
occasione della "sollevazione dei tessitori". Assicurava l'ordine
pubblico, organizzava ronde e pattuglie, si occupava degli
arrestati. Ma non mancò di notare come la guardia civica,
composta da "giovani cavalieri", si dava spesso a "trattenimenti,
rinfreschi, cene e accademie", provocando "un odioso ed irritante
confronto tra la miseria dei questuanti tessitori e il lusso dei
cittadini armati in difesa contro di essi". La sua relazione si
chiudeva con una serie di concrete proposte per alleviare la
situazione dei lavoratori comaschi. Calmieri, polizia, codice penale
lo occuparono poi, in quegli anni di crisi in cui cominciava a farsi
sentire l'influenza della rivoluzione francese. Nel 1792 un Voto,
firmato dal B., da Gallarati Scotti, da Risi riaffermava ancora una
volta uno dei cardini essenziali del programma della generazione del
Caffè, combatteva cioè la pena di morte (salvo nel
caso estremo d'un uomo che fosse in grado di sovvertire lo Stato).
Un calore ormai insolito scaldava la prosa del B. quando egli
tornava così a toccare uno dei punti fondamentali della sua
visione giovanile. Continuò ancora a lavorare negli ultimi
suoi mesi, occupandosi di risaie, di annona, di problemi sanitari.
Morì il 28 nov. 1794, "colpito d'accidente", come disse
l'atto di morte, il quale ci assicura essere egli stato sepolto nel
camposanto di Porta Comasina.
Due soli episodi della sua postuma fama ricorderemo, limitandoci al
Settecento. Il numero del 23 frimaio anno V (13 dic. 1796)del
Termometro politico della Lombardia riferiva come nella
Municipalità di Milano P. Verri avesse chiesto: "Dov'e il
sepolcro dell'immortal Beccaria? Qual monumento di riconoscenza
avete eretto, o milanesi, a quel sublime genio che fra le tenebre
comuni osò il primo slanciarsi e indicare il gran problema
della scienza sociale, la massima felicità divisa sul maggior
numero?...". Indicava come "nemmeno osarono i fogli pubblici
inserire una riga d'encomio all'occasione della di lui morte". La
Repubblica Cisalpina doveva prepararsi a ricordare e celebrare
Beccaria. Il vecchio P. Verri, dimentico così delle tante e
tanto pesanti scorie della vita dell'amico, tornava anch'egli ai
momenti della loro comune gioventù. Il 2 pratile anno V (21
maggio 1797)nel Journal de Paris sileggeva come in una gran festa,
tenuta all'Odéon, con gran concorso di deputati, ministri e
generali, "une femme déjà remarquée par sa
beauté a attiré sur elle tous les regards par sa vive
émotion lorsqu'on a porté un toast au
libérateur du Milanais, à l'invincible Bonaparte... On
a bientôt su qu'elle était la fille d'un philosophe
célèbre, d'un homme de génie et d'un ami de
l'humanité, de Beccaria, et qu'elle était digne de
l'être par son amour de la liberté. Alors tous les
regards se sont portés sur elle; des touffes de fleur lui ont
été offertes de toute part; elle a reçu ces
justes hommages avec une modestie et des grâces qui l'ont
embellie encore".