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di Silvio de Majo
Joachim nacque il 25 marzo 1767 a Labastide-Fortunière
(ora Labastide Murat) nel Quercy, sesto figlio di Pierre e di
Jeanne Loubières, proprietari d'una locanda. Dopo gli studi
nel Collegio reale di St-Michel, nel capoluogo regionale di
Cahors, nell'estate 1785 i genitori lo inviarono nel seminario dei
lazzaristi a Tolosa, dove rimase di malavoglia per circa un anno e
mezzo, distinguendosi piuttosto per le letture profane, la
passione per il gioco e le avventure galanti. Nel febbraio 1787 si
arruolò nel 6° reggimento dei Cacciatori a cavallo
delle Ardenne, di stanza a Carcassonne, dove poté mettere a
frutto le doti naturali di cavallerizzo e il suo ardimento, anche
se per allora solo a livello di addestramento, divenendo in poco
tempo maresciallo d'alloggio. Nel 1789 si segnalò nel
reggimento, passato nell'estremo Nord della Francia, come vicino
alle idee rivoluzionarie; fu tra i protagonisti
dell'insubordinazione nei confronti d'un ufficiale,
cosicché fu prima arrestato, poi degradato e congedato.
Tornato a casa, G. lavorò come garzone in una drogheria e
contemporaneamente frequentò gli ambienti giacobini di
Cahors; nel luglio 1790 fu designato a rappresentare il suo
cantone (Montfaucon) alla grande adunanza di Parigi nel primo
anniversario della presa della Bastiglia.
Agli inizi del 1792, sempre su delega del Cantone e con l'appoggio
del corregionale J.-B. Cavaignac, membro dell'Assemblea
legislativa, entrò nella guardia costituzionale assegnata
alla protezione di Luigi XVI dopo il suo tentativo di fuga.
Accortosi però dell'orientamento realista di questo corpo,
nel marzo, dopo solo tre settimane, rinunciò all'incarico e
denunciò una congiura antirivoluzionaria del comandante.
Grazie a questa dimostrazione di patriottismo G. poté
rientrare nel vecchio reggimento e riprendere l'interrotta
carriera militare: nell'aprile fu nominato brigadiere, in maggio
maresciallo d'alloggio, poi sottotenente e quindi tenente.
Nell'aprile 1793 il suo comandante, J.-F.-J.-B. d'Urre de Molans,
promosso generale di brigata, lo nominò suo aiutante di
campo e gli conferì i galloni di capitano.
La carriera di G. fu evidentemente favorita dalla guerra che
dall'aprile 1792 oppose la Francia alle potenze della prima
coalizione, dato che il suo reggimento operò nella zona
degli scontri. Dopo essersi difeso dall'accusa di appartenere a
una famiglia nobile (i Murat d'Alvernia), nell'aprile 1793, poco
dopo la promozione a capitano, fu inserito nel reggimento di
irregolari a cavallo di J.-J. Landrieux, divenendone il comandante
in seconda col grado di caposquadrone. Con i suoi trecento
straccioni, a cui riuscì a dare disciplina e addestramento
militare, si batté valorosamente a Pont-à-Marque e
contribuì alla conquista di Lilla. Oltre che acceso
giacobino, Landrieux era anche un avventuriero corrotto, che per
denaro sottraeva alla ghigliottina i nemici della Rivoluzione; G.
lo denunciò, facendolo arrestare, ma per gli attacchi
dell'avversario e dei suoi amici, che riaprirono la questione
delle sue origini nobili, per alcune settimane dovette alterare il
proprio cognome, firmandosi Marat. Il 17 maggio 1794 "la lunga e
confusa guerra di denuncie e controdenuncie" (Mazzucchelli, p. 25)
portò all'arresto anche di G., che fu rinchiuso nel carcere
di Amiens; la sua situazione si aggravò qualche mese dopo
con il colpo di Stato del 9 termidoro (27 luglio), che segnava la
fine della Repubblica giacobina e di Robespierre. Nella mutata
situazione politica giocava in modo negativo il provvisorio cambio
di cognome, che denotava un acceso giacobinismo, ma infine per
l'interessamento di alcuni membri della Convenzione fu scarcerato
e reintegrato nel grado.
Nel 1795 alcuni episodi parigini nei quali fu coinvolto ne misero
in luce il coraggio e la fedeltà al nuovo governo. Nel
maggio, mentre si trovava nei pressi di Parigi, P. Barras lo
chiamò a fronteggiare i sanculotti in rivolta, e il suo
arrivo fulmineo fu decisivo per il salvataggio della Convenzione.
All'inizio di ottobre coadiuvò Napoleone Bonaparte nella
repressione della rivolta realista contro la costituzione
dell'anno III, che dava grandi poteri al Direttorio; fece giungere
in poco tempo alle Tuileries assediate alcuni cannoni, forse
impiegati dal generale corso nella giornata del 13 vendemmiaio (5
ottobre). Nel febbraio 1796, per effetto di questa azione e delle
sue richieste, G. ebbe la nomina a colonnello e fu destinato
all'esercito del Bonaparte per la campagna d'Italia, come aiutante
di campo dello stato maggiore.
Nella prima campagna napoleonica (marzo 1796 - aprile 1797)
poté dimostrare le proprie notevoli doti - grande audacia,
immediatezza nelle decisioni, oratoria accesa, ascendente sui
soldati - e iniziò a concretare le proprie ambizioni di
rapida ascesa ai massimi vertici militari. Diede un importante
apporto a due delle quattro vittorie dell'aprile 1796 in Piemonte
contro Austriaci e Piemontesi: a Dego e in particolar modo a
Mondovì, dove prese il comando della cavalleria dopo la
morte del comandante e la guidò vittoriosamente alla
carica. Conquistò così la stima del Bonaparte, che
lo promosse sul campo generale di brigata e dopo l'armistizio di
Cherasco con il Piemonte (28 aprile) lo inviò a Parigi per
la ratifica dell'accordo. Tornato in Italia circa un mese dopo,
quando tutta la Lombardia, salvo Mantova, era conquistata, G. fu
impiegato nelle operazioni come comandante delle avanguardie di
cavalleria. Non è noto in quale misura partecipasse alle
battaglie di questa fase della campagna: fu però
sicuramente tra i protagonisti della vittoria contro gli
Austro-Napoletani a Valeggio sul Mincio e Borghetto (30 maggio
1796), nelle battaglie di Bassano del Grappa (8 settembre) e
Rivoli (14-15 genn. 1797), in alcuni scontri nella zona di Gorizia
(seconda metà di marzo), dove ebbe la meglio con furiose
cariche di cavalleria.
Dopo la firma dei preliminari di pace di Leoben (18 apr. 1797) fu
a Milano col Bonaparte nel castello di Mombello, dove il generale
teneva corte con tutta la famiglia; qui iniziò a
corteggiare Carolina, sorella appena quindicenne del futuro
imperatore. Nei mesi successivi svolse due importanti missioni
politico-militari al comando di colonne dell'esercito. Fu prima in
Valtellina, dove in maggio le popolazioni locali si erano
ribellate al Cantone svizzero dei Grigioni, a cui erano sottoposte
da secoli; grazie alla sua mediazione nell'ottobre la Valtellina
fu inclusa nella Repubblica Cisalpina. Nel febbraio 1798
partecipò alla spedizione francese contro lo Stato della
Chiesa conquistando Castel Gandolfo e Albano.
Tra il maggio 1798 e l'agosto 1799 G. prese parte alla spedizione
in Egitto, ideata dal Bonaparte per sfidare il predominio
coloniale dell'Inghilterra in Oriente. L'iniziativa non ebbe un
esito felice, ma G. confermò le proprie capacità di
comandante impavido e di stratega, all'inizio partecipando
attivamente, pur senza un ruolo di comando, alla presa di
Alessandria (2 luglio 1798), poi comandando una riserva di 2600
uomini alle battaglie di Chebreis e delle Piramidi e alla presa
del Cairo. Suoi interventi furono decisivi nelle vittorie di
Kanqah e Salahieh. Nel settembre guidò con successo una
spedizione contro i predoni del deserto a Dondah, e un mese dopo
conquistò la cittadina costiera di Damanhur con un attacco
alla baionetta che guidò personalmente. Nella successiva
occupazione francese della Palestina e della Siria
(febbraio-maggio 1799) G., al comando di 900 cavalieri, si
distinse nella presa di Giaffa (7 marzo) e, in aprile, in altre
azioni nella regione. Nel luglio, dopo il ritorno in Egitto, i
Francesi dovettero affrontare un massiccio attacco turco ad
Abukir, dove un anno prima H. Nelson aveva distrutto gran parte
della loro flotta: G. ebbe un ruolo decisivo nella vittoria,
riuscendo prima a piazzare le sue truppe, con alcuni cannoni, alle
spalle del nemico che assediava la cittadina, provocandogli
perdite considerevoli, e poi guidando una carica di 600 cavalli
contro l'accampamento turco. Nel duello diretto col comandante
nemico riportò una lieve ferita di pistola alla mascella.
Per questo comportamento il Bonaparte lo promosse sul campo
generale di divisione (25 luglio 1799) e lo incluse nel piccolo
seguito che portò con sé dall'Egitto e che lo
sostenne nella lotta contro il Direttorio sfociata nel colpo di
Stato del 18 brumaio (9 novembre); G. comandò i granatieri
che sciolsero l'Assemblea dei cinquecento, consentendo a Napoleone
di proclamarsi primo console. Nominato comandante della
neoistituita guardia dei consoli, all'inizio del 1800 entrò
nella potente famiglia, sposando il 20 gennaio a Mortefontaine con
rito civile Carolina Bonaparte (il rito religioso fu celebrato il
7 genn. 1802).
La sua ascesa ai massimi vertici militari si profilava ormai
inarrestabile, anche se la sua ambizione non fu mai del tutto
appagata. Nell'aprile 1800, in vista d'una seconda campagna
d'Italia, fu nominato luogotenente generale e comandante della
cavalleria di 6000 effettivi. Ancora una volta la sua
partecipazione fu incisiva: il 27 maggio occupò Vercelli e
il 29 Novara; il 2 giugno precedette di qualche ora il primo
console a Milano; il 14 comandò la cavalleria nella
battaglia di Marengo, vinta dai Francesi con forze assai inferiori
proprio grazie al valore e agli assalti delle sue truppe. Dopo
alcuni mesi di pausa, trascorsi tra la bella vita di Parigi e le
esercitazioni militari, G. partecipò alla seconda fase
della campagna (conclusa dalla pace di Lunéville del 9
febbr. 1801), in appoggio all'armata comandata da G.-M.-A. Brune.
A metà gennaio marciò contro i Napoletani nello
Stato pontificio (Ancona) e in Toscana, arrivando a Foligno.
Firmato un armistizio con Napoli (febbraio 1801), uscì
dallo Stato pontificio, ponendo il proprio quartier generale a
Firenze, nel palazzo Corsini, dove nel maggio lo raggiunse la
moglie con il primo figlio Achille, nato nel gennaio.
Nominato generale in capo delle armate francesi in Italia si
recò in visita a Napoli, dove fu ricevuto con tutti gli
onori da Ferdinando IV (agosto 1801); nello stesso periodo
spostò il quartier generale a Milano, dove appoggiò
la rinascita della Repubblica Cisalpina, divenuta poi nella
Consulta di Lione (gennaio 1802) Repubblica Italiana, sotto la
presidenza del Bonaparte. Fu questo un momento particolarmente
felice per la famiglia di G., che accumulò fortune e
acquistò palazzi e grandi tenute a Parigi e nella provincia
francese. Dopo la nascita della seconda figlia Letizia (aprile
1802), due brevi viaggi a Roma e Napoli (maggio) e quattro mesi
trascorsi a Parigi, dal settembre 1802 all'agosto 1803 fu di nuovo
a Milano, dove ebbe contrasti col vicepresidente della Repubblica
Italiana, F. Melzi d'Eril, e altri repubblicani milanesi;
tentò di causare una frattura tra la neonata Repubblica e
la Francia, ma il Bonaparte gli impose di riconciliarsi: il Melzi
fece quindi da padrino al suo terzo figlio, Luciano, nato il 16
maggio 1803.
Tornato in Francia, nell'ottobre venne eletto deputato del
collegio elettorale del Lot, a cui apparteneva il suo paese
natale. All'inizio del 1804 divenne governatore di Parigi,
comandante della prima divisione e della guardia nazionale. Come
governatore della capitale ebbe, suo malgrado, un ruolo di primo
piano nella condanna a morte (marzo 1804) del duca L.-A.-H.
d'Enghien, rapito in Germania per dare un ammonimento al
risorgente partito borbonico. Intanto nel maggio Napoleone
diveniva imperatore e G., come tutti i suoi fidi e parenti,
poté accedere alle maggiori cariche militari, a titoli e ai
cospicui appannaggi collegati: fu maresciallo, comandante della
dodicesima coorte, grande ammiraglio, principe dell'Impero. Nel
marzo 1805 gli nacque la quarta e ultima figlia, Elisa.
Nell'autunno del 1805, all'esplodere d'un nuovo conflitto con
Austria e Russia, G. svolse un'importante e rapida missione
esplorativa in Germania (fine agosto - inizio settembre 1805) per
studiare la configurazione dei territori e accertarsi della
fedeltà del grande elettore di Baviera, Massimiliano.
Comandò poi una forza di cavalleria, chiamata
impropriamente Riserva, di ben 14.000 effettivi, e in molte fasi
della guerra tutta l'avanguardia della Grande Armata, e anche
corpi di artiglieria e fanteria. Nell'avanzata in Austria fu
protagonista, facendo migliaia di prigionieri e precedendo
Napoleone ovunque (anche a Vienna il 13 novembre); ma
nell'inseguire il nemico fu talvolta incauto, attirandosi duri
rimproveri dell'imperatore (anche quando concesse una tregua ai
Russi in ritirata). Comunque il suo apporto fu decisivo nelle
battaglie di Wertingen e Haslach (8 e 15 ottobre) e in quella
finale di Austerlitz (2 dicembre), dove comandò l'intera
ala sinistra dello schieramento francese. L'irruenza e la
temerarietà delle cariche della sua cavalleria, sebbene
frutto di sostanziale improvvisazione, furono sempre coronate da
successo e gli procurarono fama di combattente in tutta Europa.
Della guerra, conclusa con la frantumazione dell'esercito russo e
l'occupazione del territorio austriaco da parte di Napoleone,
beneficiarono anche i familiari: G., che avrebbe preferito
divenire viceré del neocostituito Regno d'Italia, fu messo
a capo (15 marzo 1806) del Granducato di Berg e Clèves, sul
Reno, un nuovo Stato di notevole importanza strategica
perché confinante col pericoloso nemico prussiano, e quindi
avamposto dell'Impero napoleonico. G. lo governò per lo
più da Parigi o dai campi di battaglia (vi fu solo nel
marzo-aprile e nell'agosto-settembre del 1806); inizialmente
intraprese l'occupazione di territori confinanti, che Napoleone
riprovò perché poteva compromettere i non facili
rapporti con la Prussia; dovette quindi ritirarsi. Quando
però, nell'autunno del 1806, la guerra con la Prussia e la
Russia fu inevitabile, G. vi ebbe ancora un ruolo importante, dal
primo scontro di Schleiz alla battaglia decisiva di Jena (9 e 14
ottobre). Diresse imponenti azioni della cavalleria e
l'inseguimento senza tregua del nemico in ritirata, prese migliaia
di prigionieri e occupò quasi senza resistenza molte
città, entrando per primo a Berlino il 22 ottobre.
Dopo la capitolazione della Prussia (7 novembre) rimaneva
però ancora l'avversario russo, e la guerra passò in
Polonia, dove la popolazione accolse i Francesi come liberatori.
Particolarmente entusiastica, a fine novembre, fu l'accoglienza
fatta a G. a Varsavia, che lo fece aspirare in segreto a divenire
re d'una Polonia tornata libera. Nel febbraio 1807 egli fu ancora
decisivo per le sorti francesi nella giornata di Eylau. Riprese le
ostilità, dopo alcuni mesi, nel giugno, venne la vittoria
di Betnen, dove ancora l'apporto della cavalleria fu decisivo,
seguita dall'inseguimento del nemico fino a Tilsit. Se le
trattative di pace non portarono a G. il trono di Polonia, ottenne
però un cospicuo ingrandimento del suo Granducato (gennaio
1808).
Nel febbraio fu nominato luogotenente dell'imperatore in Spagna,
col compito d'imporre pacificamente la volontà francese in
una realtà resa problematica dalla debolezza del re Carlo
IV e dallo strapotere del favorito Manuel de Godoy principe della
Pace. G. era in Spagna da poche settimane quando il re fece
arrestare il Godoy e abdicò suo malgrado a favore del
figlio Ferdinando. Egli convinse allora padre e figlio a
rimettersi all'arbitrato di Napoleone e li indusse a recarsi a
Baiona (aprile); quando a Madrid scoppiò una sanguinosa
rivolta popolare (2 maggio) G. "la represse con la spietata
durezza di cui tramandò la memoria il Goya" (Scirocco): i
morti spagnoli furono quasi 2000. Nello stesso giorno Napoleone,
all'oscuro dei fatti madrileni, destinava al Regno spagnolo il
fratello Giuseppe, sostituendolo a Napoli con G., che così
ottenne finalmente un trono, anche se non quello spagnolo, come
desiderava, anche a causa della repressione dell'insurrezione
madrilena. Dopo una lunga malattia, e una vana resistenza passiva
agli ordini imperiali, il 28 giugno G. lasciò Madrid.
Il 15 luglio il trattato di Baiona lo designò formalmente
re di Napoli (o, più esattamente, re delle Due Sicilie) col
nome di Gioacchino-Napoleone, indicando come suo eventuale
successore, prima dei figli, la moglie Carolina, dalla quale
così veniva fatto discendere il suo titolo. A fine agosto
partì per Napoli, dove giunse il 6 settembre ricevendo
grandi accoglienze popolari; circa venti giorni dopo lo
raggiunsero Carolina e il resto della famiglia. Prese subito
provvedimenti per aumentare la sua popolarità e attenuare i
contrasti interni: amnistie di disertori, soppressione di
commissioni militari, grazia per condannati a morte, restituzione
di beni ai parenti degli emigrati, libertà di pesca alle
popolazioni della costa, pagamento delle pensioni militari. Molti
di questi provvedimenti non piacquero a Napoleone, che li riteneva
antifrancesi, così come non gli piacque il tentativo di
togliere dal nuovo codice civile, che doveva entrare in vigore a
Napoli il 1° genn. 1809, l'articolo sul divorzio.
Da allora i rapporti tra i due cognati furono tesi, condizionando
l'opera di governo di G. e le vicende interne del Regno. In varie
occasioni G. mirò a comportarsi in modo autonomo in
politica interna ed estera, mentre Napoleone cercò di
subordinare al proprio volere e agli interessi dell'Impero, e
segnatamente della Francia, le decisioni del cognato, considerando
il Regno di Napoli una colonia e il suo sovrano anzitutto un
suddito francese, ingranaggio di un meccanismo che gli aveva
consentito di accedere al trono e gli permetteva di conservarlo.
Anche i tentativi di G. d'ingrandire i propri possedimenti, e in
particolar modo di conquistare la Sicilia, non furono graditi da
Napoleone che, a ragione, reputava insufficienti le forze del
cognato. Difficili furono spesso anche i rapporti di G. con la
moglie, della quale non sopportava le ingerenze nelle questioni
politiche, anche se talvolta la sua mediazione presso il fratello
gli fu utile e, secondo qualche autore, gli conservò il
trono in momenti critici.
G. compì un primo tentativo d'espansione poche settimane
dopo l'arrivo a Napoli, ai primi dell'ottobre 1808, quando 2000
uomini al comando del generale J.-M. Lamarque presero Capri,
prevalendo in circa dieci giorni di combattimenti sulla
guarnigione inglese. Il successivo momento di tensione militare,
nel giugno 1809, fu dovuto all'attacco della flotta anglo-sicula
nel golfo di Napoli. Per la sua consistenza la flotta tenne in
ambasce per alcuni giorni G., Carolina e il governo, ma si risolse
nella sola presa di Procida e Ischia e in incursioni in
Basilicata, Puglia e soprattutto Calabria, da cui però le
forze anglo-siciliane presto desistettero, anche per la notizia
della vittoria di Napoleone a Wagram contro l'Austria.
Rimaneva il problema del brigantaggio, che sopravviveva nelle
province anche come residuo dell'opposizione popolare alla
conquista francese, in corso dal 1806. G. attuò una
politica di dura repressione: prima (1809) con la confisca dei
beni degli emigrati delle province dove operavano le bande, con
commissioni militari, compensi ai pentiti, taglie e arresti dei
familiari; poi, dopo una ripresa del fenomeno (primavera 1810),
dando pieni poteri al generale Ch.-A. Manhès, che
attuò una repressione durissima e sistematica. Nell'estate
del 1810 G. tentò la conquista della Sicilia, con scarso
supporto da parte di Napoleone, che vi vedeva solo un mezzo per
impegnare gli Inglesi e distoglierli da altri fronti. Lo sbarco,
il 16-17 settembre, fu compiuto solo da un contingente di 2000
soldati napoletani, perché il generale P. Grenier, ligio
agli ordini dell'imperatore, si rifiutò di aggiungere le
proprie forze. G. dovette quindi rinunciare, lasciando a Messina
centinaia di morti e prigionieri.
Prima della spedizione in Sicilia aveva cercato di riavvicinarsi a
Napoleone durante due soggiorni a Parigi: dal dicembre 1809 al
gennaio 1810, in occasione del divorzio dell'imperatore, e nel
marzo-aprile 1810, in occasione della celebrazione del secondo
matrimonio del Bonaparte con Maria Luisa d'Austria. Ma al
riavvicinamento ostò l'opposizione di G. a quest'ultima,
nipote di Maria Carolina e quindi possibile tramite d'un accordo
per un ritorno dei Borbone sul trono di Napoli.
Frattanto nel febbraio 1809 G. aveva costituito un nuovo governo
con collaboratori per lo più napoletani (tra i quali F.
Ricciardi alla Giustizia e G. Zurlo agli Interni). Valendosi della
loro alacre attività e appoggiandone le intelligenti
iniziative egli compì un vasto e organico tessuto di
riforme. Da un lato realizzò le innovazioni auspicate e in
qualche modo avviate dagli illuministi napoletani nel Settecento e
dallo Zurlo tra 1799 e 1805; dall'altro adottò istituti e
leggi rivoluzionari e napoleonici, che completavano la demolizione
dell'antico regime e la ristrutturazione dello Stato. Il processo
fu irreversibile, tanto che dopo il loro ritorno i Borbone
confermarono pressoché tutte le riforme realizzate nel
breve regno di G. e il nuovo assetto dell'amministrazione civile,
finanziaria e giudiziaria. In molti casi egli e il governo
realizzarono le riforme concepite da Giuseppe Bonaparte, che per
la brevità del regno e le non facili condizioni in cui
aveva operato erano rimaste al livello delle intenzioni. Se G. non
attuò la costituzione concessa dal predecessore dopo la
partenza da Napoli, applicò la legge sull'abolizione della
feudalità emessa da Giuseppe nell'agosto 1806, che segnava
la fine della giurisdizione baronale, dei diritti proibitivi e
delle prestazioni personali, nonché la cessione d'una parte
delle terre feudali dietro indennizzo, e la trasformazione
dell'altra in proprietà di tipo borghese.
Per risolvere il conseguente ampio contenzioso tra le
Comunità e i baroni diede nuovo slancio alla Commissione
feudale, creata nel novembre 1807 ma fin allora solo nominale, che
lavorò con grande alacrità fino al suo scioglimento,
nell'agosto 1810. Il governo iniziò anche a ripartire
l'enorme patrimonio demaniale nato dalla legge del 1806 e dal
massiccio incameramento dei beni ecclesiastici. In campo
giudiziario furono riformati tribunali e magistrature, e resi
operanti i nuovi codici francesi, che Giuseppe aveva già
disposto di introdurre. Nel 1809 i vecchi giudici borbonici, per
lo più coinvolti nelle persecuzioni del 1799 oppure
impreparati e corrotti, furono sostituiti da "una magistratura
colta, zelante, alacre" (Valente); nelle province furono creati
tribunali civili e penali di prima istanza. Il 1° genn. 1809
entrarono in funzione il codice civile (in una traduzione voluta
da G., diversa da quella fatta fare dal predecessore) e un nuovo
codice di commercio; nel 1812 un nuovo codice penale e uno di
procedura criminale.
Nella pubblica amministrazione il governo realizzò e
sostenne la nuova organizzazione centrale e periferica disegnata
da Giuseppe Bonaparte. Il ministero dell'Interno svolse un ruolo
di primaria importanza, anche per i costanti contatti con gli
organi periferici attraverso le intendenze. Fittissimi, in
particolare, i rapporti con i Consigli provinciali e distrettuali,
espressione della nuova borghesia agraria, spesso colta e vivace;
convocati per la prima volta, informarono governo e sovrano sullo
stato delle province e avanzarono proposte. Nei Comuni un decreto
del 1808 precisò le mansioni dei decurioni e sindaci, pure
istituiti da Giuseppe, e nell'amministrazione locale ordine,
correttezza e chiarezza nei bilanci iniziarono a subentrare alla
confusione e commistione con il potere giudiziario.
Anche in campo fiscale e finanziario vi furono cambiamenti
profondi. Per estinguere il debito pubblico, enorme in epoca
borbonica e cresciuto nel breve regno di Giuseppe, G. - seguendo
un piano dello Zurlo - ridusse l'interesse dal 5 al 3% e
operò una massiccia vendita dei beni degli enti
ecclesiastici soppressi. Il 1° marzo 1813 fu raggiunto il
pareggio del bilancio. G. accrebbe l'innovativa tassa fondiaria
istituita dal cognato, ma ridusse la patente su industria e
commercio per favorirne la crescita e, per meglio applicare
l'imposta fondiaria, il 26 ag. 1809 istituì un nuovo
catasto (completato al termine del suo regno). Nel 1810 fu
istituita l'imposta personale, che esentava gli indigenti, e si
ebbe un nuovo ordine nelle compravendite immobiliari con
l'istituzione della tassa di registro e della conservatoria delle
ipoteche.
Quanto alle opere pubbliche furono realizzate o iniziate strade in
quasi tutte le province, costruiti ponti, effettuati numerosi
lavori di arginatura e bonifica idraulica (Fondi, Castel Volturno,
Vallo di Diano, Manfredonia), istituiti ospedali e cimiteri
extraurbani, illuminate le maggiori città. In questo ebbero
un ruolo centrale il corpo degli ingegneri di ponti e strade,
istituito tra 1808 e 1809, e l'Amministrazione generale delle
acque e foreste, che ebbe proprie guardie in tutto il paese. A
Napoli furono create, ampliate o migliorate piazze e strade,
bonificato il litorale di Coroglio, costruito il ponte della
Sanità (intitolato a Napoleone). Nell'edilizia vanno
ricordati il grande porticato del foro Gioacchino (poi piazza del
Plebiscito), l'osservatorio astronomico e l'orto botanico.
G. promosse particolarmente le misure per favorire l'agricoltura e
le manifatture. Nel 1809 fu approvata la legge organica sulle
dogane e sui dazi che, estesa coraggiosamente anche al commercio
con la Francia, destò le ire di Napoleone. In seguito
furono soppresse le dogane interne e fu molto ridotto il diritto
di cabotaggio; le manifatture furono incoraggiate con le
esposizioni annuali di Napoli (a partire dal 1809), con inviti a
imprenditori e tecnici stranieri, promuovendo la coltivazione del
cotone e l'allevamento delle pecore da lana dette merinos.
Notevole fu lo sforzo di conoscenza delle condizioni economiche
del paese, anche con rilevazioni statistiche su molti aspetti
della produzione e del mercato. Per incoraggiare il commercio,
duramente colpito dal blocco continentale, G. sperò che
Napoleone consentisse i traffici con paesi neutrali, ma accordi
con gli Stati Uniti d'America (1809-10) non furono ratificati
dall'imperatore.
Col Bonaparte lo scontro politico divenne frequente, anche
perché l'aspirazione all'autonomia di G. era incoraggiata
da A. Maghella, ministro di Polizia dal 1810, che progettava
un'Italia unita sotto un unico re: un progetto in armonia con la
sua ambizione, e che si riaffaccerà in modo pressante pochi
anni dopo. Nel 1811, durante un lungo soggiorno a Parigi
(aprile-maggio) in occasione della nascita del re di Roma, i due
cognati si riavvicinarono: è probabile che l'imperatore,
credendo già inevitabile una guerra contro la Russia,
ritenesse importante l'avere con sé un comandante del
valore di Gioacchino. Tuttavia, appena rientrato a Napoli, questi
lo sfidò di nuovo con un decreto che imponeva agli
stranieri con impieghi civili nel Regno di chiedere la
cittadinanza. La reazione dei francesi fu immediata: molti
preferirono dimettersi dalle cariche, e G. dovette accettare
un'ordinanza di Napoleone che dava ai cittadini francesi la
cittadinanza del Regno di Napoli, e revocare il decreto appena un
mese dopo l'emissione.
Alla fine dell'aprile 1812 lasciò Napoli per partecipare
alla campagna di Russia. A maggio gli fu dato il comando d'una
cavalleria anche più numerosa di quella delle campagne del
1805-07 (ben 40.000 cavalli); ancora una volta la sua
temerarietà diede ottimi risultati, ma commise un grave
errore d'impostazione facendo avanzare le sue forze in colonna,
ciò che rese difficile la trasmissione degli ordini e
rallentò il cammino. I continui, estemporanei attacchi
della cavalleria cosacca (con successive veloci ritirate)
logorarono questo importante corpo della Grande Armata. Come
sempre spettò a G. di avanzare per primo e pungolare o
inseguire il nemico; a fine luglio la sua cavalleria
conseguì una importante vittoria a Ostrovno, a metà
agosto entrò in Smolensk, fu tra i principali protagonisti
della vittoria incompleta sulla Moscova a Borodino (inizio
settembre), e il 14 settembre entrò per primo in una Mosca
in fiamme e abbandonata dagli abitanti. Fu in prima fila anche
nella disastrosa ritirata nell'inverno russo, ma ormai il suo
ruolo attivo era esaurito ed egli era preoccupato per i problemi
che potevano subentrare a Napoli. Così non gradì il
comando generale conferitogli da Napoleone quando si
affrettò a raggiungere Parigi (dicembre), e poche settimane
dopo affidò a sua volta il comando al principe Eugenio
Beauharnais.
Tornato a Napoli (febbraio 1813), G. intensificò le
trattative segrete con l'Austria iniziate da suoi emissari nel
dicembre precedente, volte ad assicurargli il trono napoletano
anche nel caso d'un crollo della potenza napoleonica. Importanti
furono in tal senso l'invio a Vienna di G. Spinelli, principe di
Cariati (aprile), e nuovi contatti con il partito italiano che
progettava l'unificazione della penisola. A fine aprile
avviò anche trattative segrete con il comandante inglese in
Sicilia, lord W. Bentinck, che però non gli assicurò
la conservazione del trono, come faceva l'Austria, limitandosi a
promettere un equivalente. Nonostante queste trattative e i non
buoni rapporti epistolari con Napoleone, pieno di rancore per il
suo comportamento alla fine della campagna di Russia e subodorante
gli accordi segreti, G. non riuscì a fare una chiara scelta
di campo, e rispose alla chiamata del cognato per la nuova guerra
contro Austria, Prussia e Russia (oltre alla Svezia di
Bernadotte). Ancora una volta assunse il comando della riserva
della cavalleria, nonché di tutta l'ala destra dell'Armata.
Il 26 e 27 agosto nella battaglia di Dresda contribuì alla
vittoria con le solite veementi cariche. Tuttavia durante la
guerra riprese le trattative segrete con l'Austria; il Metternich
promise di lasciarlo sul trono di Napoli se avesse abbandonato
Napoleone, ma G. esitò a passare al nemico prima di una
battaglia. Se il tradimento politico era quasi compiuto, quello
militare, pur ipotizzato da alcuni storici, non pare avvenisse, e
G. s'impegnò con la consueta energia in alcuni scontri
precedenti alla disastrosa battaglia di Lipsia, dove il suo ruolo
fu secondario perché vi predominò lo scontro delle
fanterie e delle artiglierie.
Dopo la sconfitta (18 ottobre), temendo per la situazione del
Regno, chiese con insistenza e ottenne dal cognato di tornare
subito a Napoli, promettendo anche di appoggiare con un forte
esercito il principe Eugenio sul fronte italiano. A Napoli,
tuttavia, dimostrò subito una nuova autonomia da Napoleone:
uscì dal blocco continentale (novembre); avviò le
sue truppe verso Roma, Ancona e la Toscana (occupate nel
dicembre), accoltovi con sospetto dalle forze francesi, che non
sapevano se avrebbero dovuto combatterlo; all'inizio del 1814
stipulò un accordo pubblico con l'Austria (Convenzione di
Napoli dell'11 gennaio), impegnandosi a entrare in guerra contro
la Francia in cambio del mantenimento del trono e di futuri
ingrandimenti territoriali nei domini pontifici; infine il 26
gennaio stipulò un armistizio con l'Inghilterra, reso
pubblico il 3 febbraio.
Frattanto aveva raggiunto le sue truppe (fine gennaio) a Roma e
poi ad Ancona, col proposito appena celato di unificare sotto di
sé l'Italia fino al Po. Tuttavia non osò arrivare
subito allo scontro con gli Italo-Francesi del principe Eugenio:
sia perché temeva che l'Austria, a seguito d'un intervento
diplomatico inglese, non rispettasse l'accordo, sia perché
restio a combattere i connazionali, sia infine perché
incerto sugli esiti della guerra sugli altri fronti e quindi sulla
fine di Napoleone. Attaccò decisamente solo ad aprile, dopo
la notizia della capitolazione di Parigi, attirandosi le critiche
delle potenze vincitrici, in particolare della Russia.
L'abdicazione di Napoleone, che mise fine alla guerra in Italia,
obbligò G. a ritirarsi nel Regno e a restituire gran parte
dei territori occupati: Lazio e Umbria al papa, Toscana all'antico
granduca. A Napoli G. passò mesi di grande incertezza,
mentre i Borbone reinsediati a Parigi e Madrid reclamavano la
restaurazione del congiunto Ferdinando IV a Napoli. Ebbe comunque
un po' di respiro perché nei primi mesi del congresso di
Vienna (iniziato nel settembre 1814) il problema napoletano, su
iniziativa austriaca, fu rimandato. Tuttavia all'inizio del 1815
le richieste francesi divennero pressanti e in G. si fece strada
la consapevolezza che solo un ritorno al potere di Napoleone in
Francia (della cui eventualità era stato messo al corrente
in trattative segrete con l'Elba nel febbraio) poteva conservargli
il trono. Pertanto a metà marzo, avuta notizia del successo
dell'iniziativa napoleonica, contro il parere contrario della
moglie decise di muoversi contro gli Austriaci. La sua però
voleva essere un'iniziativa autonoma, tendente a liberare la
penisola italiana dal dominio austriaco, non un semplice appoggio
alla guerra del cognato. Perciò il 30 marzo, pochi giorni
dopo l'inizio delle ostilità, emanò da Rimini un
proclama in cui inneggiava alla libertà e all'indipendenza
dell'Italia e prometteva una costituzione; ma il proclama,
considerato in seguito il punto di partenza del Risorgimento
italiano, non ebbe sul momento molte adesioni.
L'iniziativa militare di G., il cui esercito era poco numeroso e
poco motivato, non ebbe successo: dopo scontri perdenti e una
precipitosa ritirata, il 3 maggio arrivò la sconfitta
decisiva a Tolentino. Riuscì comunque a raggiungere
precipitosamente il Regno: il 17 maggio era a Napoli e il 19,
lasciati la moglie e i figli, fuggì via mare senza
un'organizzazione adeguata, pochi giorni prima dell'arrivo delle
truppe austriache. Per sfuggire alla flotta inglese dovette
sbarcare a Ischia e poté raggiungere la Francia (Cannes) il
25, solo perché raccolto da una nave munita di
salvacondotto inglese per il trasporto di ufficiali francesi.
Napoleone però si rifiutò di accoglierlo nel suo
esercito, imputandogli oltre ai tradimenti precedenti l'imperizia
e la precipitazione nella recente campagna d'Italia, che avrebbe
dovuto tenere impegnate per più tempo le truppe austriache.
Dopo Waterloo (18 giugno) G. si rifiutò di abdicare, come
gli chiedevano Inglesi e Austriaci in cambio d'un rifugio sicuro;
frattanto montava la reazione filoborbonica, ed egli dovette quasi
vivere alla macchia nella Francia meridionale. Alla fine di agosto
riuscì a imbarcarsi con pochissimi compagni per la Corsica,
dove riunì alcune centinaia di bonapartisti e patrioti con
i quali il 28 settembre, respinte le offerte di Metternich di
ricongiungersi alla famiglia e ritirarsi a vita privata,
s'imbarcò su sei grosse barche per un estremo tentativo di
riconquista del Regno di Napoli. Si trattava di un progetto di ben
difficile realizzazione, divenuto praticamente impossibile quando
le altre imbarcazioni abbandonarono, per tradimento o per le
condizioni del mare, quella in cui era Gioacchino. Questi,
sbarcato a Pizzo Calabro il 7 ottobre con solo una trentina di
uomini, fu attaccato e catturato da gendarmi e contadini.
Condannato a morte da una commissione militare nominata da
Ferdinando IV, fu fucilato il 13 ott. 1815 nel castello di Pizzo.