Campagna

A. Preti

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In termini storiografici acquista rilevanza nello studio del rapporto "città-campagna", grazie innanzi tutto alle riflessioni che A. Gramsci venne svolgendo nei Quaderni del carcere. Nel corso della storia europea, e in particolare di quella italiana, dal Medioevo in poi la campagna rappresenta, in termini schematici, la componente statica, laboriosa e passiva, nell'ambito di contesti sociali in cui la città si pone invece come elemento dinamico, innovatore, luogo di assorbimento e commercio dei prodotti agricoli, ma anche di dominio politico, economico, culturale. La satira del villano rozzo e ignorante costituisce la traduzione più immediata e diffusa, nell'immaginario collettivo cittadino, di questa contrapposizione. Ciò non significa che la campagna non conosca momenti di profonda e anche rapida trasformazione: basti pensare alla rivoluzione agrario-fondiaria che prende l'avvio nell'Inghilterra del XVI secolo, con l'introduzione delle recinzioni (enclosures) delle terre per consentire uno sfruttamento di tipo capitalistico basato sull'allevamento degli ovini e la produzione della lana, e che si sviluppa, specie nel Settecento, con vasti processi di divisione e privatizzazione delle terre promossi da sovrani illuminati e moderni imprenditori agrari.

IL CASO ITALIANO.

Gramsci ritiene che la separazione, e più spesso la contrapposizione, fra città e campagna sia uno dei caratteri originali della storia d'Italia. L'asservimento della campagna e il suo sfruttamento da parte della città si manifestarono, in Italia, nell'età dei comuni. Fu la storiografia ottocentesca (J.C.L. Sismondi, C. Cattaneo) a riscoprire il ruolo guida delle città nella ripresa economica, politica e culturale che si verificò dopo il Mille, mentre la campagna venne tratteggiata come il luogo dove si annidavano le resistenze del mondo feudale al nuovo. La storiografia del XX secolo (G. Luzzatto, A. Doren) stemperò questa interpretazione intrisa di progressismo e sottolineò la profonda commistione, anzi l'integrazione fra i due sistemi economico-politici, quello dei liberi comuni e quello delle campagne feudali, che permase a lungo, giacché entrambe le parti ne trassero beneficio, e che rappresentò un'eccezione rispetto alla separazione fra città e campagna che caratterizzò il resto dell'Europa. Ciò avvenne perché gli stessi comuni avevano interesse a stabilire un controllo sul contado che venne spesso realizzato attraverso strumenti e vincoli propri del sistema feudale, sì che, se non separata, la campagna restò comunque "altra" rispetto al centro urbano: fu il luogo dove si annidò la ribellione, sotto la forma del "sacco" della città da parte dei contadini esasperati per le spoliazioni subite; una esasperazione che poté essere agevolmente utilizzata a fini politici.

Così, se rappresentò un'eccezione la proposta di Machiavelli di armare anche il contado per potenziare la difesa della repubblica fiorentina, fu più frequente il caso di oppositori politici interni (o di stati esterni tesi a estendere il proprio dominio) che fecero leva sul mondo rurale per rovesciare il potere della capitale. Si pensi ai moti del "Viva Maria" in Toscana e alle bande del cardinale Ruffo in Calabria, scagliate nel 1799 contro gli aristocratici e i borghesi "giacobini" della città; o, nel 1848, alla minaccia dell'Austria di scatenare i contadini, con la promessa della riforma agraria, contro la borghesia milanese, liberale e patriottica, ma anche gelosa custode dell'assetto economico-sociale delle campagne.

Non è un caso che siano in particolare gli studiosi della storia italiana come processo di sviluppo guidato dalle città (G. D. Romagnosi e poi C. Cattaneo, che ben conoscevano la realtà del Lombardo-Veneto austriaco) a indicare nel superamento della frattura politica, economica e culturale fra città e campagna il passaggio obbligato per poter affrontare la questione dell'indipendenza nazionale e per fare dell'Italia una nazione europea.

Gramsci, nella sua interpretazione del Risorgimento come rivoluzione borghese incompiuta, sottolinea che non solo quel superamento non fu realizzato, in quanto gli esponenti democratici del movimento patriottico, ossia il mazziniano Partito d'azione, continuarono a ritenere milioni di contadini come componente "non nazionale" della società italiana, ma che la frattura che esso doveva sanare si approfondì e polarizzò, sì che al rapporto/contrasto fra città e campagna si venne a sovrapporre quello fra nord e sud del paese.

I CASI EUROPEI.

Se si sposta lo sguardo dall'Italia all'Europa si ha una conferma del rilievo che ebbe la questione agraria fra la fine del Settecento e i primi decenni del Novecento, per le conseguenze del processo di eversione della feudalità, avviato in Francia con la Rivoluzione francese, quindi per l'abolizione della servitù in Russia (1861) e, da ultimo, per il ruolo che i contadini svolsero in qualità di combattenti nella prima guerra mondiale e come protagonisti attivi della Rivoluzione russa del 1917. In questi decenni una delle due vie per integrare il mondo delle campagne nel sistema politicoeconomico uscito dalla rivoluzione industriale fu, secondo B. jr. Moore, l'assimilazione dei contadini ai valori nazionali e borghesi che, nel caso francese, si realizzò nel periodo che intercorse fra la Comune di Parigi e il 1914 (E. Weber). La seconda via fu quella della collettivizzazione, adottata dall'Urss sotto la guida di Stalin a partire dal 1929.

In Italia, superata la breve e intensa fase dell'unificazione nazionale nella quale anche la campagna si mobilitò, nel contesto dell'impresa garibaldina, per un progetto politico che per la prima volta non fu in funzione anticittadina, la contrapposizione si ripresentò, in prospettiva non più reazionaria, ma rivoluzionaria, nei moti anarchici guidati da Bakunin degli anni Settanta dell'Ottocento e, vent'anni più tardi, nel movimento dei Fasci siciliani. Qui anche il neonato Partito socialista diede prova, come denunciò G. Salvemini, dell'incapacità di saldare un progetto di trasformazione politica che si basava in primo luogo sui ceti operai e popolari delle città del nord con i bisogni e le logiche sottese ai moti del proletariato agricolo meridionale.

IL VENTESIMO SECOLO.

In quegli stessi anni la massiccia irruzione del capitalismo nelle campagne settentrionali, studiata da E. Sereni, avviò profondi mutamenti sia nei rapporti di produzione sia nella composizione sociale del mondo agricolo, che giunsero a maturazione quasi un secolo più tardi. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento il nodo storico di miseria, di sfruttamento e di relativo sovraffollamento venne sciolto dal potente sviluppo del nord industriale, dalla crescita delle città e del settore terziario, che determinarono il massiccio abbandono del lavoro agricolo e del sud da parte di intere generazioni di giovani lavoratori. Si passò così da 10,5 milioni di addetti all'agricoltura negli anni Trenta a 3,6 milioni nel 1970, secondo una linea di tendenza che proseguì negli anni successivi. Fenomeno, questo, non peculiare del caso italiano, visto che, all'incirca per i medesimi anni, il sociologo H. Mendras poté parlare, per la Francia, di «fin des paysans».

In ultima analisi, il rilievo marginale che l'agricoltura ha assunto nell'economia italiana degli ultimi decenni del Novecento sembra indicarci la fine di una fase storica millenaria.

Ma la campagna come problema storico resta più che mai attuale nell'evoluzione del rapporto fra nord e sud su scala mondiale, alla luce dello squilibrio sempre più marcato fra dislocazione delle risorse e distribuzione regionale e continentale della popolazione.

• C. Cattaneo, Scritti storici e geografici, a c. di G. Salvemini ed E. Sestan, Le Monnier, Firenze 1957; A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1979 (in particolare Il Risorgimento, 1974); E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi, Torino 1980; B. jr. Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Einaudi, Torino 1990; B. H. Slicher Van Bath, Storia agraria dell'Europa occidentale (500-1850), Einaudi, Torino 1972.