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di Giuseppe Bonazzi
Sommario: 1. Le condizioni economico-sociali in cui nacque il
taylorismo. 2. La proposta di Taylor. 3. I principî essenziali
dell'organizzazione scientifica del lavoro: a) studio scientifico
dei migliori metodi di lavoro; b) selezione e addestramento
scientifico della manodopera; c) sviluppo dei rapporti di stima e di
collaborazione tra direzione e manodopera; d) uniforme distribuzione
di lavoro e di responsabilità tra amministrazione e
manodopera. 4. Burocrazia e one best way. 5. Taylorismo e fordismo:
il contrasto tra il dire e il fare. 6. Il dibattito sul taylorismo:
le relazioni umane e i motivazionalisti. 7. L'uscita 'tecnologica'
dalla costrizione taylorista: il neotaylorismo informatizzato. 8. Il
modello giapponese e il miglioramento continuo: un taylorismo
democratico? 9. Conclusioni. Unità e varietà del
taylorismo. * Bibliografia.
1. Le condizioni economico-sociali in cui nacque il taylorismo
'Taylorismo' è il termine colloquiale e più diffuso
con cui si indica l'organizzazione scientifica del lavoro, ovvero il
corpus di dottrine e ricette organizzativo-manageriali per la
produzione industriale messe a punto dall'ingegnere americano
Frederick Taylor tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Con
l'andar del tempo il termine taylorismo ha assunto un significato
più vasto e ha preso a indicare tutti gli aspetti di un
lavoro, sia manuale che impiegatizio, organizzato secondo criteri
ripetitivi, parcellari e standardizzati, dove la mancanza di
discrezionalità e di contenuti intelligenti è vista
come una condizione necessaria per ottenere una resa produttiva
più intensa e uniforme. In questo senso l'uso comune del
termine taylorismo ha un significato intrinsecamente ambivalente,
perché evoca l'idea che l'efficienza non possa essere
ottenuta che a prezzo della ripetitività normalmente imposta
per via gerarchico-burocratica.
Questa ambivalenza trova la sua radice storica nelle convinzioni che
animarono tutta l'opera di Taylor. Egli si trovò a operare in
una fase dell'economia industriale americana segnata da un profondo
contrasto tra le potenzialità materiali di sviluppo e
l'arretratezza dell'organizzazione produttiva delle fabbriche. Verso
la fine del XIX secolo il progresso tecnico consentiva ormai una
produzione di massa. Macchinari sempre più veloci e potenti
permettevano di progredire lungo due dimensioni tipiche
dell'industria moderna: la standardizzazione dei prodotti e dei
processi produttivi e la specializzazione delle macchine utensili.
Le cosiddette macchine polivalenti universali manovrate da operai di
mestiere, che avevano trionfato per tutto il XIX secolo, lasciavano
sempre più spazio alle macchine specializzate e monovalenti:
ossia da macchine flessibili che dovevano essere adattate a una
vasta gamma di lavorazioni si passava a macchine più veloci
ma più rigide, destinate a produzioni di larga serie e assai
più facili da manovrare. Questa evoluzione tecnica, come
sottolinea Alain Touraine (v., 1955), poneva le basi per un profondo
cambiamento del lavoro operaio: gli operai di mestiere, capaci di
'sentire' il ritmo e i bisogni delle vecchie macchine universali,
lasciano il posto a operai dequalificati, che hanno il semplice
compito di caricare e scaricare i pezzi sulle macchine, mentre la
manutenzione di queste viene affidata a ristrette squadre di operai
specializzati. Questa rivoluzione consentì di aumentare
enormemente la produzione, ma anche di ridurre il costo del lavoro,
data la minore qualificazione professionale degli addetti macchina.
Il progresso tecnologico si accompagnava a un altro importante
fenomeno, la progressiva crescita delle dimensioni quantitative
delle fabbriche. Mentre nel corso dell'Ottocento le fabbriche che
superavano il migliaio di dipendenti erano relativamente rare, verso
la fine del secolo esse divennero progressivamente più
numerose. Espansione produttiva e fusione tra imprese portavano al
cosiddetto gigantismo industriale, che raggiunse il suo culmine
nella prima metà del XX secolo. Le sempre maggiori dimensioni
delle imprese ponevano gravi problemi di controllo sociale e di
organizzazione del lavoro, del tutto sconosciuti nell'Ottocento.
Negli Stati Uniti il problema era reso più acuto
dall'imponente afflusso di milioni di immigrati di origine contadina
- polacchi, irlandesi, italiani - del tutto privi di cultura
industriale, i quali si andavano ad aggiungere a neri, messicani e
portoricani, creando così un'imponente domanda di lavoro in
larga misura dequalificato. La mobilità lavorativa di queste
masse era estremamente alta, con una permanenza media di pochi mesi
nello stesso luogo di lavoro e ciò sia per l'assenza della
sicurezza di impiego, sia perché i lavoratori stessi erano
alla continua ricerca di un'occupazione migliore.
Vi erano dunque tutte le premesse tecniche e sociali perché
l'economia capitalistica a cavallo dei due secoli conoscesse un
impetuoso balzo in avanti verso la produzione di massa basata su
ampie economie di scala. Ma, come si accennava prima, queste
premesse contrastavano con l'organizzazione produttiva e il governo
della manodopera, rimasti ancorati a criteri rozzi e obsoleti con un
miscuglio di approssimazione, empiria e arbitrio. Negli stabilimenti
troppo grandi per poter essere controllati direttamente dal padrone,
tutto il potere era delegato ai capireparto, scelti più con
il criterio della fedeltà che con quello della competenza. D.
Nelson (v., 1975 e 1980) parla di "impero dei capireparto", a cui
era demandato il potere di stabilire tempi e metodi della
produzione, costi e qualità del lavoro, e di assumere e
licenziare la manodopera. Il sistema che regnava nelle fabbriche era
il drive system (o sistema dello spintone), che S. Jacoby (v., 1984)
definisce come "controllo stretto, abuso, irriverenza e minacce". La
nota dominante del drive system era di ispirare nell'operaio
reverenza e paura del management, e quindi trarre vantaggio da
quella paura per ottenere una maggiore produzione.
Oltre allo strapotere dei capireparto, molto diffusa nelle fabbriche
era la figura dei 'contrattisti', operai qualificati che lavoravano
nelle officine con il duplice ruolo di dipendenti e di piccoli
imprenditori. Stabilita una paga globale del contrattista per un
certo periodo, questi assumeva altro personale - compresi propri
familiari - a cui pagava parte del salario globale ottenuto
dall'impresa. Si sviluppava così un sistema doppio di
sfruttamento, dell'impresa nei confronti dei contrattisti e di
questi ultimi nei confronti dei propri collaboratori. Toccava dunque
anche ai contrattisti escogitare soluzioni tecniche e organizzative
per abbassare i costi.
2. La proposta di Taylor
Per capire il vero significato dell'organizzazione scientifica del
lavoro proposta da Taylor è indispensabile tenere presenti le
condizioni di lavoro delle fabbriche nell'Ottocento. Nella
letteratura politica e sociale prolabour fiorita nel XX secolo il
taylorismo è stato comunemente presentato come uno strumento
di sfruttamento 'scientifico' del lavoro operaio, dove l'assenza di
contenuti intelligenti si accompagna al più inflessibile
controllo autoritario. Questa lettura del taylorismo è stata
sostenuta anche dalla volgarizzazione delle tesi di Touraine (v.,
1955), secondo cui dopo una fase industriale A caratterizzata
dall'operaio di mestiere si è passati a una fase B
caratterizzata dall'operaio dequalificato. Ma questa lettura del
taylorismo soffre di un certo strabismo dovuto alla mancanza di
prospettiva storica delle denunce dello sfruttamento operaio in
regime taylorista, le quali non tengono conto delle condizioni di
lavoro della grande maggioranza degli operai nelle fabbriche
pretayloristiche.
Tali condizioni vanno invece tenute presenti quando si leggono i
testi originali di Taylor. Ci si accorge allora che il suo discorso
è abile e complesso. Di primo acchito le sue sembrano
considerazioni dettate da un senso comune di impronta conservatrice:
gli uomini (leggi gli operai) sono naturalmente portati
all'indolenza, e lasciati a se stessi tenderanno sempre a
prendersela comoda e a rallentare la produzione. Per ottenere che
lavorino in modo più spedito ed efficiente occorre creare una
struttura in cui tempi, metodi e controllo del lavoro siano
stabiliti con rigore scientifico. Un opportuno aumento di paga
premierà gli operai che accettano di lavorare seguendo
scrupolosamente tutte le prescrizioni stabilite dal management.
A un esame più attento, tuttavia, ci si accorge che il
discorso di Taylor contiene in realtà una serrata polemica
contro il padronato del suo tempo, accusato di usare metodi inadatti
e arbitrari nel comando della manodopera. Gli imprenditori hanno
un'idea estremamente vaga e approssimata di quale possa essere il
massimo sforzo ragionevolmente ottenibile da un operaio, e
soprattutto non hanno idea di come organizzare la produzione
complessiva in modo ottimale. Essi operano al buio, stabilendo quote
di produzione e livelli salariali in modo arbitrario, pronti a
modificarli non appena constatano che ulteriori aumenti di sforzo
sono possibili. Tipica espressione di questa pratica è il
sistema di lavoro a cottimo largamente usato a quell'epoca. Ma
è proprio contro il cottimo che Taylor rivolge i suoi strali.
Egli scrive: "È nel sistema di lavoro a cottimo che germoglia
l'arte del sistematico rallentamento produttivo. Dopo che un
lavoratore per due o tre volte ha visto il suo compenso per
unità di prodotto diminuito quando egli ha lavorato
più intensamente e ha migliorato il rendimento, è
evidente che egli perda di vista l'interesse dell'imprenditore e si
lasci penetrare dalla cupa decisione di non andare incontro a
ulteriori abbassamenti di tariffa se può evitarli facendo
finta di lavorare" (v. Taylor, 1947; tr. it., p. 157).
La conseguenza di questo metodo sbagliato è la diffusione
nelle officine di un disastroso clima di sfiducia e di conflitto. Ma
per Taylor il problema sta a monte, e nasce dall'errata convinzione
degli imprenditori che 'fare il lavoro' sia la cosa più
importante, mentre il modo di lavorare sia un aspetto secondario,
incluso nei compiti esecutivi. Per Taylor bisogna capovolgere questo
modo di pensare. Il lavoro operaio, egli sostiene, è
così vasto e complesso che non può essere
adeguatamente conosciuto nemmeno dal più esperto operaio di
mestiere. Occorre uno studio apposito, fatto con metodologie
scientifiche da professionisti dell'organizzazione del lavoro, e
questo studio dev'essere promosso dalle direzioni aziendali.
Un'impresa moderna non può limitarsi a esigere la produzione
lasciando che gli operai se la organizzino a loro piacimento, ma
deve assumere su di sé tutti i compiti organizzativi che fino
allora erano lasciati agli operai. Questi devono limitarsi a
eseguire in modo scrupoloso e sistematico il loro compito, ovvero
tutto ciò che la direzione, attraverso i suoi tecnici, ha
stabilito.
Se il processo produttivo può essere paragonato a una scatola
nera, di cui l'impresa conosce input e output ma non ciò che
avviene al suo interno, Taylor propone che l'impresa apra la
scatola, ne analizzi tutti i meccanismi e intervenga per
razionalizzarli. Il messaggio più profondo di Taylor è
la necessità che l'impresa pervenga alla totale trasparenza
dei suoi processi produttivi, come premessa per la gestione ottimale
delle sue risorse umane e materiali. Questa trasparenza può
essere raggiunta solo ricorrendo al metodo scientifico. In tal modo
la direzione non conoscerà soltanto le possibilità di
aumento produttivo, ma anche i limiti non superabili dello sforzo
che si può richiedere al lavoro umano.
3. I principî essenziali dell'organizzazione scientifica del
lavoro
Ma in che cosa consiste l'organizzazione scientifica del lavoro
proposta da Taylor? Egli presenta quattro principî essenziali,
che esaminiamo brevemente.
a) Studio scientifico dei migliori metodi di lavoro
Questo principio riguarda tutte le prescrizioni che portano a
decomporre il flusso naturale del lavoro manuale e a ricomporlo in
base a criteri stabiliti dall'esterno. Per prima cosa si deve
selezionare un gruppo di lavoratori già particolarmente abili
nel lavoro che si intende riorganizzare. Il loro lavoro va quindi
analizzato in ogni singolo movimento in rapporto al tempo, la
posizione fisica, la frequenza d'uso degli strumenti manuali, ecc.
Dopo di che si individuano e si eliminano i movimenti falsi, inutili
e dettati da pigrizia, e si ricompone il comportamento lavorativo
montando i singoli movimenti risultati più razionali; vengono
poi standardizzati tutti gli utensili e le attrezzature in base a
rapporti ottimali tra peso, forma, frequenza d'uso, ecc. Si fissa,
quindi, un tempo ottimale di esecuzione del lavoro, che deve tener
conto delle pause fisiologiche, e si riaddestra il gruppo dei
lavoratori sperimentali. Dopo aver accertato la possibilità
che essi eseguano il lavoro così riorganizzato per un tempo
prolungato, lo si impone al resto dell'officina.
Taylor sostiene che scopo del suo metodo è di ottenere un
lavoro standardizzato sia in termini quantitativi che qualitativi,
con un rendimento doppio e talvolta triplo rispetto a quello
ottenuto con i vecchi metodi. Il ritmo ottimale del lavoro, egli
afferma, è quello per cui un lavoratore al termine della
giornata avverte il bisogno piacevole di riposarsi senza però
sentirsi spossato, con l'ulteriore vincolo che egli possa mantenere
quel ritmo a lungo negli anni senza logorarsi.
b) Selezione e addestramento scientifico della manodopera
Con questo principio Taylor sostiene che l'assunzione della
manodopera e la sua assegnazione ai vari lavori deve avvenire
seguendo il criterio universale dell'uomo giusto al posto giusto.
Taylor è convinto che per ogni tipo di lavoro è
possibile trovare le persone più adatte in base a criteri
attitudinali e che questi criteri vanno applicati da un ufficio
apposito che abbia il compito di assumere e addestrare la
manodopera. In tal modo egli polemizza implicitamente contro l'uso
allora in auge di dare carta bianca ai capireparto. L'istituzione di
un ufficio apposito per la selezione e l'addestramento scientifico
della manodopera risponde, nel pensiero di Taylor, allo scopo di
eliminare una delle maggiori fonti di instabilità e di
arbitrio all'interno delle imprese. Questo principio porta come
immediata conseguenza alla nascita di una figura aziendale fino
allora sconosciuta, quella del quadro tecnico intermedio con
funzioni di staff, figura che avrebbe poi giocato un ruolo di
fondamentale importanza nelle grandi aziende del XX secolo.
c) Sviluppo dei rapporti di stima e di collaborazione tra direzione
e manodopera
Le profonde innovazioni sopra descritte non possono avvenire per
pura imposizione gerarchica, ma ricercando il consenso dei diretti
interessati. Ma come è possibile ottenere il consenso da
persone a cui si chiede di lavorare più intensamente, con
minori margini di discrezionalità e con maggiore disciplina?
Taylor non ha dubbi: ciò è possibile in primo luogo
attraverso un sostanziale aumento della retribuzione, e in secondo
luogo mediante una direzione del personale capace di ascoltare i
dipendenti e di ottenere la loro fiducia con l'equità
garantita dai criteri scientifici della sua azione. Come si notava
in precedenza, Taylor polemizza contro l'uso del cottimo, al posto
del quale propone un premio di rendimento basato su criteri opposti.
Anziché pagare la produzione in più rispetto a una
quota minima stabilita, Taylor suggerisce la possibilità di
dare un premio ai lavoratori che seguono fedelmente tutte le
prescrizioni fornendo a fine giornata esattamente la quota di
produzione, calcolata dall'ufficio programmazione. In caso contrario
il premio sarà decurtato in proporzione alla quota di
produzione mancante. Questo metodo - che in realtà sarebbe
poi stato applicato molto raramente nelle fabbriche - rispecchiava
la convinzione di Taylor secondo cui l'efficienza produttiva nasce
più dal rispetto delle regole che non dall'iniziativa
individuale.
Ma Taylor è anche consapevole che l'incentivo economico da
solo non è sufficiente, e insiste lungamente sulla
necessità che i dirigenti sviluppino comunicazioni e contatti
con i propri sottoposti. Questi canali di comunicazione
individualizzati devono anche servire a evitare che i lavoratori si
rivolgano al sindacato per farsi tutelare in caso di conflitto.
Taylor, in linea generale, era contrario al sindacato e si batteva
contro ogni vincolo che l'azione sindacale avrebbe potuto imporre
alla libertà dell'impresa nella gestione scientifica del
personale. Solo negli ultimi anni della sua vita, di fronte alla
constatazione che il sindacato era comunque una realtà
insopprimibile nelle fabbriche americane, egli si rassegnò
all'esistente, raccomandando però che l'azione sindacale non
invadesse il campo dell'organizzazione del lavoro, che doveva
rimanere prerogativa esclusiva della direzione dell'impresa.
d) Uniforme distribuzione di lavoro e di responsabilità tra
amministrazione e manodopera
Con questo principio Taylor intende affermare che l'efficienza di
un'impresa non dipende soltanto dalla razionalizzazione del lavoro
operaio in officina, ma anche dalla radicale riorganizzazione
dell'intero apparato direttivo dell'impresa. In altri termini, il
taylorismo non consiste soltanto in un nuovo modo di lavorare
dell'operaio: esso consiste soprattutto in un nuovo modo di
comandare. Scrive Taylor che in un'azienda tradizionale "è
tutt'altro che insolito, per quanto sconsolante, vedere il direttore
con la scrivania inondata da una marea di lettere e di rapporti su
ognuno dei quali egli ritiene di dover apporre la sua firma o il suo
timbro. Egli crede di essere tenuto in stretto contatto con l'intera
azienda attraverso questa massa di dettagli che piovono sulla sua
scrivania" (v. Taylor, 1947; tr. it., p. 84).
Questo metodo inefficiente, sostiene Taylor, dev'essere sostituito
da un metodo più razionale basato sul principio di eccezione.
In base a questo principio, il direttore riceve solo informazioni
riassuntive e comparative che vengono elaborate ai livelli
gerarchici inferiori, seguendo il criterio di evidenziare solo gli
scostamenti dalla norma. In tal modo il direttore, liberato
dall'onere di leggere informazioni inutili, avrà più
tempo da dedicare al compito di progettare strategie e
innovazioni.Il principio di eccezione - far filtrare le informazioni
- si inserisce in un discorso più ampio, che riguarda il
completo riordino dell'assetto gerarchico nell'azienda. Taylor parte
dalla constatazione che in genere vi è grande penuria di
personale dirigente, sicché i singoli capi sono oberati di
mansioni e ciò li costringe a non rispettare i tempi previsti
nei loro lavori o a svolgerli a costi non economici. Per superare
questa difficoltà i capi scaricano parte dei compiti sui loro
collaboratori di grado inferiore, ma poiché questi devono
già svolgere i propri compiti, si provoca un generale ritardo
con accumuli irrazionali di incombenze. Questi inconvenienti sono
aggravati dal fatto che di norma un capo ha la responsabilità
di tutta l'unità a lui sottostante, senza divisioni
funzionali delle competenze. Ma capi effettivamente capaci di
fronteggiare con successo tutte le incombenze sono estremamente
rari, sicché spesso ci si trova di fronte a dirigenti che
sono al di sotto dei compiti per essi previsti.
Per superare questi inconvenienti Taylor propone di restringere le
sfere di competenza dei capi intermedi in modo che tutti abbiano
incombenze proporzionate alle loro capacità. In altri termini
propone per il medio e alto management una riorganizzazione dei
campi di competenza secondo un principio analogo a quello proposto
per suddividere il lavoro operaio. Se per gli operai la conseguenza
della taylorizzazione è l'omogeneizzazione nella fascia
semiqualificata degli addetti macchina, per la gerarchia di officina
il restringimento dei campi di competenza ha come conseguenza
l'aumento numerico dei capi intermedi e l'ancoraggio delle loro
prestazioni a norme e procedure stabilite dalla direzione centrale.
Tra gli effetti di questa riorganizzazione vi è l'avvento
della direzione funzionale: gli operai non obbediscono più a
un solo capo, ma ricevono ordini da diversi superiori, ciascuno dei
quali è preposto a un aspetto particolare del lavoro. Nasce
così una poderosa burocrazia di fabbrica, che Taylor vede
come il migliore strumento per garantire l'omogeneità delle
procedure e delle comunicazioni all'interno dell'azienda.
4. Burocrazia e one best way
Dall'esposizione di questi quattro principî fondamentali,
l'organizzazione scientifica del lavoro appare come una imponente
costruzione concettuale coerentemente volta ad affermare il primato
assoluto dell'organizzazione dell'impresa su ogni componente umana
che vi lavora. Questo primato trova la propria legittimazione nel
ricorso alla scienza e, in particolare, nel postulato dell'one best
way. Quest'ultimo consiste nell'assunto che per ogni problema esiste
sempre una e una sola soluzione ottimale, e che tale soluzione
può essere raggiunta solo impiegando metodi scientifici di
ricerca. La ricerca dell'one best way non garantisce solo una
maggiore efficienza, ma proprio la sua scientificità fornisce
alla soluzione ottimale una superiorità anche politica,
perché la fa apparire al di sopra delle parti. Tutti devono
adeguarsi alle norme e ai limiti dettati dalla scienza: gli operai
nell'esecuzione materiale della produzione e i tecnici nell'analisi
dettagliata delle procedure lavorative e nella ricerca dei possibili
miglioramenti produttivi, ma anche i dirigenti e i proprietari
devono inchinarsi alle prescrizioni scientifiche che stabiliscono i
limiti oltre i quali non è possibile richiedere né
superprestazioni alle macchine né uno sforzo eccessivo alla
manodopera. Osserva Taylor a questo proposito: "L'uomo che si trova
alla testa dell'azienda è sottoposto come l'operaio alle
regole che sono state sviluppate attraverso migliaia di esperimenti,
e le norme che sono state sviluppate sono eque. Il codice delle
leggi è giusto, e quelle questioni che con gli altri sistemi
sono oggetto di giudizio arbitrario e perciò possono portare
a disaccordi, sono state oggetto del più accurato e attento
studio al quale hanno preso parte sia il lavoratore che la
direzione, portando alla soddisfazione di entrambe le parti" (v.
Taylor, 1947; tr. it., p. 357).Siamo di fronte a una versione
idealizzata dell'organizzazione scientifica del lavoro - come
vedremo, la sua realizzazione pratica nelle fabbriche di tutto il
mondo fu ben lontana dall'olimpica armonia prefigurata in queste
righe - che tuttavia risponde pienamente all'intima convinzione di
Taylor che la scienza sia neutrale e che la sua applicazione
rigorosa possa portare l'umanità a un'era di abbondanza e di
concordia sociale.
Il secondo aspetto da sottolineare è il profondo processo di
burocratizzazione a cui il taylorismo sottopone le fabbriche.
È un processo ambivalente: da un lato la crescita della
burocrazia di fabbrica diventa lo strumento più efficace per
garantire il completo controllo della direzione su tutto il processo
produttivo; dall'altro la fissazione di norme universali fornisce
anche ai sottoposti la certezza di un diritto, quanto meno la
conoscenza di norme che stabiliscono il limite massimo dello
sfruttamento.
Questo processo di burocratizzazione presenta non poche
affinità con la costruzione dello Stato moderno descritta da
Weber. Come i funzionari nominati in base a criteri di
legittimità burocratica sostituiscono i feudatari nel
rappresentare il potere centrale in periferia, così in
fabbrica i capi intermedi agiscono in quanto rappresentanti legali
della direzione e non più come capi a cui è stato
fiduciariamente delegato un potere senza controllo. In un caso come
nell'altro si creano i presupposti per l'esercizio di un potere
legittimato in base a criteri legali e non espressione di semplice
arbitrio. Così come dallo Stato assoluto allo Stato di
diritto gli individui passano dalla condizione di sudditi a quella
di cittadini, nella fabbrica taylorizzata i dipendenti passano dalla
condizione di 'plebaglia' vista con occhio sospettoso e ostile a
quella di manodopera disciplinata in base a norme universalmente
condivise. Il grande limite di Taylor è l'illusione che
queste garanzie possano scaturire dalla forza intrinseca della legge
e non dalla negoziazione regolata tra le controparti nel quadro di
una compiuta democrazia industriale. Ma se il taylorismo non
contiene in sé i principî della democrazia industriale,
è anche vero che quest'ultima non avrebbe potuto avere le
condizioni materiali di sviluppo senza la precedente opera di
razionalizzazione del processo produttivo compiuta in nome del
taylorismo: solo quando sono fissate ed esplicitate norme e misure,
diventa possibile alle varie componenti interne chiedere la
negoziazione di quelle stesse misure.
5. Taylorismo e fordismo: il contrasto tra il dire e il fare
Da quanto detto finora risulta che l'organizzazione scientifica del
lavoro ha costituito una tappa fondamentale nello sviluppo
dell'industria mondiale del XX secolo. Essa ha segnato l'avvento
della fase della moderna produzione di massa che avrebbe poi trovato
nel fordismo la sua espressione più compiuta. Mentre il
taylorismo è una formula manageriale che riguarda
essenzialmente l'organizzazione del lavoro esecutivo, che viene
segmentato e standardizzato in modo da aumentare l'intensità
uniforme delle prestazioni, il fordismo nasce invece negli anni
dieci con l'intuizione di Henry Ford di applicare nelle sue officine
di montaggio il principio della catena semovente. In tal modo Ford
perfezionava il taylorismo incorporando nella tecnologia meccanica
della catena il ritmo di lavoro che Taylor pretendeva di imporre
alla manodopera per via gerarchico-burocratica. Caratteri tipici del
modello ideato da Ford sono le grandi dimensioni delle imprese, la
produzione di massa di beni standardizzati, la rigidità della
programmazione produttiva, e anche alcune garanzie di
stabilità di impiego per i dipendenti.Per quanto i termini
'taylorismo' e 'fordismo' abbiano poi avuto diversi usi e sviluppi
nel dibattito economico-sociale del XX secolo, a livello di
fattualità storica è corretto affermare che per molti
decenni il fordismo fu visto e vissuto come il modo tecnologicamente
più avanzato di mettere in pratica le prescrizioni
tayloriste.
Si pone a questo punto una questione: se il taylorismo è
stato un passo così importante nello sviluppo delle forze
produttive del XX secolo, come si spiega che tutta l'epoca della sua
diffusione a livello mondiale sia anche stata l'epoca in cui
è esploso il dibattito sulla necessità economica,
sociale e umana del suo superamento?
Per capire questo apparente paradosso bisogna distinguere due
livelli di analisi. Il primo riguarda le modalità concrete
con cui moltissime imprese procedettero all'applicazione del
taylorismo, mentre il secondo riguarda i limiti teorici intrinseci
di quel modello. Fin dall'inizio l'applicazione del taylorismo,
prima nelle fabbriche americane e poi in quelle europee,
suscitò le più veementi proteste di operai,
sindacalisti, uomini di cultura di orientamento prolabour. L'accusa
era sempre la stessa: la messa in pratica delle prescrizioni di
sfruttamento scientifico della forza lavoro si traduceva in un
aumento insopportabile dello sforzo fisico e psichico, dei controlli
autoritari, dell'impoverimento dei contenuti intellettuali del
lavoro, del degrado e dell'abbrutimento provocati dall'eseguire a
ritmi frenetici lavori senza senso per 810 ore al giorno. Le pagine
di Simone Weil (v., 1951) sulla spaventosa condizione operaia nelle
officine Renault negli anni trenta e quelle di Georges Friedmann
(v., 1946) che denunciano i terribili guasti psichici e fisici
provocati dall'applicazione frenetica del taylorismo appartengono al
patrimonio della grande letteratura sociale del XX secolo.
Invano Taylor e i suoi fautori sostennero per decenni che quegli
eccessi erano del tutto contrari allo spirito dell'organizzazione
scientifica del lavoro, che prevede invece la continua ricerca del
consenso dei sottoposti, limiti rigorosi e una cura attenta
nell'applicazione. Di fronte al dilagare universale delle proteste,
quelle difese d'ufficio suonavano come un argomento debole e
inadeguato. Se l'applicazione di uno strumento che pretende di
essere scientifico e super partes provoca tante denunce di
ipersfruttamento disumano, non ci si può limitare a imputarne
la responsabilità alle direzioni aziendali colpevoli di
tradirne lo spirito. Non poteva non esserci qualcosa di sbagliato
nella formula taylorista, qualcosa che al di là delle
intenzioni dei suoi fautori la trasformava in un inesorabile
strumento di oppressione e di ipersfruttamento. Oggi si può
dire che il taylorismo offriva lo strumento tecnico per
razionalizzare il processo produttivo, eliminando tuttavia anche
quelle inefficienze che nel lavoro operaio potevano tradursi in
occasioni per umanizzare il lavoro con pause, rallentamenti, momenti
di socialità e iniziative informali. Quello strumento
tecnico, messo nelle mani di una imprenditoria incolta e rapace, non
poteva che portare alle conseguenze sociali suddette. Taylor e i
tayloristi sottovalutarono il fatto che proprio la potenza tecnica
della loro novità imponeva un'autolimitazione dello
sfruttamento umano che non poteva nascere se non da una profonda
rivoluzione culturale tesa a riformare dalle radici i rapporti
sociali sui luoghi di lavoro. Tutto questo sarebbe avvenuto in modo
lento e contraddittorio nel corso dei decenni, sulla spinta della
protesta operaia ma anche del dibattito suscitato dallo stesso
successo mondiale del taylorismo.
6. Il dibattito sul taylorismo: le relazioni umane e i
motivazionalisti
Nel dibattito sul taylorismo si possono distinguere due posizioni
fondamentali, una filo-aziendale e una filo-operaia. La prima mira a
emendare il taylorismo dai difetti che alimentano la protesta
operaia, in forme come scioperi, assenteismo, sabotaggio e diffusa
disaffezione dal lavoro. La posizione filo-operaia è volta
invece a negare e superare il taylorismo con varie proposte ispirate
a criteri di umanizzazione del lavoro.Tra le posizioni
filo-aziendali si distinse la scuola delle relazioni umane, nata
negli Stati Uniti già negli anni trenta, ad opera di Elton
Mayo (v., 1933 e 1945) e dei suoi collaboratori F. Roethlisberger e
W. Dickson (v., 1939). Costoro furono invitati dal management della
Western Electric di Chicago a esaminare tutti i fattori che
favorivano il rendimento lavorativo degli operai. L'impianto
iniziale della ricerca era prettamente tayloristico: si sarebbe
dovuto controllare se alcuni fattori ergonomici come l'illuminazione
o la disposizione dei banchetti di lavoro potevano incidere
favorevolmente sulla quota di produzione giornaliera.
Senonché l'esito imprevisto della ricerca fu la scoperta che
il fattore più importante per spiegare le variazioni di
rendimento non era di natura tecnica ma umana: precisamente il clima
più o meno gradevole che si instaurava sul luogo di lavoro,
il tipo di rapporti informali tra le persone, il 'morale' che si
sviluppava all'interno del gruppo di lavoro. La scuola delle
relazioni umane prese questo nome proprio dalla necessità di
curare innanzitutto il fattore umano all'interno delle aziende. Ci
si rese conto che il razionalismo tecnico predicato dai fautori del
taylorismo puro non poteva funzionare da solo, ma richiedeva di
essere integrato da altri fattori capaci di soddisfare il lato
emozionale e psicologico dei lavoratori. Lo stesso aumento di paga
era insufficiente ad assicurare un maggior rendimento, se l'ambiente
di lavoro rimaneva freddo e impersonale. Occorreva 'riscaldare' il
luogo di lavoro, renderlo gradito con la creazione di gruppi di
lavoro armonici, una supervisione cordiale e amichevole da parte dei
controllori, l'attenzione al retroterra psicologico dei soggetti, il
riconoscimento che l'ambiente della loro vita quotidiana in famiglia
ha un'importanza fondamentale nel determinare anche il comportamento
lavorativo.
La scuola delle relazioni umane ebbe il merito storico di riscoprire
l'importanza degli aspetti informali del lavoro. Al di là
delle strutture ufficiali e dei rapporti formali enfatizzati dal
taylorismo, esiste in azienda una fitta rete di rapporti informali
di fondamentale importanza. Se questi rapporti sono collaborativi
danno luogo a un'atmosfera che favorisce l'integrazione sociale e il
rendimento produttivo. In caso contrario, anche il più
perfetto organigramma resterà sterile e fonte di conflitto.
Conseguenza pratica dell'importanza riconosciuta agli aspetti
informali è una politica aziendale volta a favorire la
creazione di gruppi di lavoro armonici. A differenza di quanto
predicato dal taylorismo, la teoria delle relazioni umane raccomanda
che il lavoro sia organizzato riunendo i lavoratori in piccoli
gruppi: in tal modo il piacere di lavorare insieme può
diventare una motivazione per eseguire senza malanimo anche lavori
intrinsecamente ingrati. Con questa teoria nacque anche la figura
dello psicologo di azienda e presero avvio tutte le attività
di formazione volte ad aumentare la sensibilità del
management agli aspetti emozionali, anche inconsci, dei propri
dipendenti.
Vanno tuttavia sottolineati anche i limiti della scuola delle
relazioni umane. Essa non si pose il problema di come ridare
contenuti professionali intelligenti al lavoro depauperato dalla
frammentazione taylorista, anzi su questo punto non cambiò
nulla del taylorismo. Si limitò a tentare di umanizzare
quella formula iperrazionalista, fornendo il lubrificante
psicologico perché potesse funzionare senza creare tensioni,
e in questo senso le relazioni umane furono spesso accusate di
essere uno strumento di manipolazione psicologica e non di reale
affrancamento dei lavoratori.
Non c'era bisogno di superare il capitalismo per liberare gli operai
dal degrado indotto dal taylorismo, come sostenevano i marxisti
ortodossi come H. Braverman (v., 1974), o per escogitare formule di
umanizzazione del lavoro più incisive di quelle propugnate
dalla teoria delle relazioni umane. A cominciare dagli anni
sessanta, di fronte alla ormai manifesta incapacità di questa
teoria di restituire al lavoro esecutivo contenuti più
intelligenti, si sviluppa - soprattutto negli Stati Uniti - una
nuova scuola di pensiero detta motivazionalista. Questa scuola trova
i suoi principali rappresentanti in psicosociologi come A. Maslow
(v., 1954 e 1962), F. Herzberg (v., 1959 e 1966), R. Likert (v.,
1961 e 1967), C. Argyris (v., 1957 e 1960). Il tema comune di questa
scuola, peraltro assai diversificata al suo interno, era la
necessità di una riorganizzazione del lavoro tale che i
compiti affidati ai lavoratori fossero più intelligenti,
più responsabili e più dotati di senso di quanto
previsto dal taylorismo. Due sono i presupposti di questa scuola. Il
primo è che lavori più ricchi di contenuti
intelligenti procurano maggiore soddisfazione e consentono una
crescita della personalità di chi li compie. Oltre a essere
un valore in sé, l'arricchimento del lavoro favorisce la
motivazione dei lavoratori, una maggiore efficienza, minore
assenteismo e conflittualità. Il secondo presupposto è
che la tecnologia non impone un solo modo in cui organizzare il
lavoro, come sosteneva il taylorismo, ma consente vari gradi di
libertà. Queste varie soluzioni vanno scoperte e sfruttate in
modo da ridisegnare le mansioni con contenuti lavorativi più
ricchi rispetto al passato. Il lavoro a 'isole', il lavoro di gruppo
con rotazione delle mansioni, l'affidamento di responsabilità
operative e di controllo, l'appiattimento della gerarchia, una
maggiore comunicazione interna sono alcune tra le varie formule
escogitate dai motivazionalisti per superare l'oppressione
taylorista.
Questa scuola conobbe un notevole successo soprattutto negli anni
sessanta e settanta, quando formule come 'arricchimento delle
mansioni' e 'ricomposizione dei frantumi del lavoro' suonarono come
parole d'ordine di ogni management illuminato. A distanza di alcuni
decenni va detto che, nonostante la piacevolezza dei suoi argomenti,
anche il discorso motivazionalista aveva un limite invalicabile nel
fatto di aver trascurato le opportunità e i vincoli della
tecnologia. Il rifiuto del determinismo tecnologico non viene
accompagnato in questa scuola da una sufficiente attenzione al peso
della variabile tecnologica, ai molteplici modi in cui, nonostante
alcuni margini di libertà, essa condiziona epoche storiche e
settori di attività. Il silenzio sulla tecnologia consente di
sviluppare analisi suggestive, che prescindono però dalle
condizioni concrete della maggioranza dei lavori esecutivi. La tesi
che bisogna eliminare le costrizioni dei lavori taylorizzati
indurrebbe a pensare che il principale riferimento motivazionalista
siano gli operai. Invece i motivazionalisti parlano poco di operai,
se non per citare alcuni casi di arricchimento delle mansioni, che
però hanno una portata limitata e non possono valere per la
grande massa. Il passaggio del lavoro umano dalla costrizione
taylorista a modelli meno costrittivi può avere successo
soltanto se si presenta non come un costo aggiuntivo, ma come la
più conveniente conseguenza di un'innovazione
tecnico-produttiva. È il mancato riconoscimento di questo
requisito il motivo principale per cui, dopo una felice ma breve
stagione, il discorso di tipo motivazionalista appare oggi
sostanzialmente superato.
7. L'uscita 'tecnologica' dalla costrizione taylorista: il
neotaylorismo informatizzato
Più che la riorganizzazione volontaristica delle mansioni,
ciò che a partire dagli anni settanta ha determinato
l'attenuarsi della costrizione tayloristica nelle fabbriche è
stato il progresso tecnologico, in particolare l'avvento
dell'automazione flessibile a supporto informatico.
Già Touraine (v., 1955) aveva intuito che la tecnologia
è il massimo fattore condizionante l'organizzazione
produttiva e il modo di lavorare. Se all'epoca delle macchine
universali polivalenti (fase A) corrisponde l'operaio di mestiere,
l'epoca delle macchine specializzate (fase B) vede il dilagare degli
operai dequalificati costretti nelle rigide maglie tayloriste. Ma
con l'avvento delle macchine automatiche si entra in una terza fase,
C, in cui le figure prevalenti sono gli operai tecnici chiamati a
governare quelle macchine con un bagaglio di cognizioni apprese non
più semplicemente per via empirica, come i vecchi operai di
mestiere, ma grazie a lunghe preparazioni specialistiche. Il
taylorismo, si può dedurre dall'analisi di Touraine, non
cambia per merito di riforme interne, ma è destinato a
scomparire con l'avvento di una nuova era tecnologica.
L'intuizione di Touraine prefigurava a grandi linee quella che oltre
vent'anni dopo sarebbe stata l'effettiva evoluzione del lavoro
operaio. Ma la via tecnologica al superamento del taylorismo
sollecitava a porre la questione di tale superamento in termini
assai più complicati di quanto non apparisse all'epoca in cui
si pensava che bastasse ricomporre le mansioni frantumate. Da un
lato le nuove tecnologie hanno portato a scoprire che l'afflizione
del lavoro operaio non era provocata dal taylorismo in quanto tale,
ma dalle condizioni concrete in cui le direzioni aziendali pensavano
che la tecnologia tradizionale imponesse di usare la forza lavoro.
Dall'altro la sfida rappresentata dal modello giapponese di
produzione ha indotto, come vedremo tra poco, a riflettere in
termini del tutto nuovi su quali siano i veri fattori costitutivi
del taylorismo.
L'avvento dell'automazione informatizzata trasforma profondamente la
natura del lavoro operaio. Si ottiene innanzitutto una netta
riduzione dello sforzo fisico necessario per realizzare la
produzione richiesta. Nell'epoca della meccanizzazione gli operai
dovevano alimentare le macchine e compiere una serie di gesti sempre
uguali, prescritti per garantire la resa continuativa della
produzione. Ne derivava che la quantità della produzione era
direttamente proporzionale alla quantità e continuità
dello sforzo fisico erogato. Di qui i controlli
burocratico-disciplinari sulla produzione, dato che ogni cambiamento
nel rapporto sforzo-produzione determinava una somma zero: quanto
meno lavorava l'operaio tanto minore era la produzione, con danno
per l'azienda, e quanto maggiore era la produzione, tanto maggiore
era lo sforzo fisico richiesto, con danno per l'operaio. Nella
produzione tradizionale regolamentata dal taylorismo il conflitto di
classe era esperienza di vita quotidiana sul luogo di lavoro, e
nasceva dallo scontro di interessi immediati, determinati dalle
condizioni materiali di produzione.
L'avvento delle 'macchine intelligenti' - ovvero dell'automazione
informatizzata - segna l'attenuarsi del nesso necessario tra
produzione e sforzo erogato (v. Hirschhorn, 1986; v. Zuboff, 1989).
Nelle fasi produttive tecnologicamente più avanzate la
quantità ottimale di produzione è incorporata nelle
macchine, e gli operai si trasformano da alimentatori di tali
macchine in loro controllori e manutentori. A loro spetta garantire
la regolarità del ciclo produttivo, intervenire sulle
anomalie e più ancora prevenire il loro verificarsi
attraverso l'interpretazione intelligente dei 'segnali deboli'
provenienti dalle macchine stesse.
Vengono così a cadere i presupposti materiali della
prescrizione taylorista dei gesti e delle cadenze lavorative, che
non sono più ripetitive e prescritte, ma sono dettate dalla
competenza, prontezza di analisi e padronanza delle risorse
tecnico-conoscitive. Ma anche le fasi produttive meno investite
dalle innovazioni tecnologiche - si pensi alle linee di montaggio -
beneficiano di diffusi miglioramenti ergonomici e ambientali che
allontanano le condizioni oppressive del passato. Un fattore
fondamentale è l'avvento dei controlli elettronici che
sostituiscono i vecchi controlli burocratici, e ciò si
accompagna a una lenta ma sostanziale evoluzione in senso più
democratico dei rapporti gerarchici.
Questi cambiamenti pongono le condizioni per sollecitare un profondo
ripensamento di che cosa sia il taylorismo. Per decenni - a onta di
quanto Taylor prescriveva - gli operai hanno sperimentato
oppressione e sfruttamento. Ora le migliorate condizioni
tecnologiche, insieme a un'accresciuta sensibilità sociale e
democratica da parte del management, fanno sparire il ricordo di
quell'oppressione.
Eppure i contenuti intellettuali del lavoro non sono di molto
cambiati. Per quanto non più logoranti e per quanto assistite
dalle tecnologie informatiche - pannelli e controlli elettronici -,
gran parte delle mansioni operaie restano povere e ripetitive. Con
gli anni ottanta molte fabbriche occidentali entrano nell'era che
alcuni sociologi tedeschi (v. Ebel, 1990; v. Altmann e altri, 1992)
hanno chiamato del neotaylorismo informatizzato. È l'era che
corrisponde alla prima fase del postfordismo, quella in cui il
management comprende la necessità di immettere sul mercato
una gamma più varia di prodotti e ritiene che questo compito
possa essere raggiunto essenzialmente con l'automazione flessibile
informatizzata. In questa fase si prende coscienza che
l'umanizzazione del lavoro non consiste tanto nel superamento della
formula taylorista come tale, quanto nella scomparsa dei suoi lati
più afflittivi e autoritari. Ma la strada per il ripensamento
radicale di tutta la questione non era ancora stata completamente
compiuta.
8. Il modello giapponese e il miglioramento continuo: un taylorismo
democratico?
Con la fine degli anni ottanta l'industria occidentale è
stata sempre più investita dalla sfida portata dal cosiddetto
modello giapponese di produzione. Questo modello, ridefinito anche
'produzione snella', capovolge gli assunti della tradizionale
produzione fordista: non più grandi quantità di scorte
per far fronte agli imprevisti, programmazioni centralizzate della
produzione, controlli gerarchico-burocratici e rigide divisioni di
compiti con grande quantità di addetti a lavori di staff. I
principî di efficienza si capovolgono: sistema just-in-time
nell'afflusso dei materiali, scorte minime, flessibilità
produttiva, lavoro di squadra con massima intercambiabilità
di ruoli; e soprattutto un'attenzione estrema, quasi ossessiva, ai
problemi di qualità del prodotto. La lezione giapponese
consiste principalmente nel dimostrare che sul finire del XX secolo
la competizione mondiale riguarda sempre più gli standard di
qualità del prodotto, e che questa battaglia non si vince con
l'arma della tecnologia bensì con quella del consenso e della
partecipazione responsabile dei lavoratori.
Si pone il problema di quale sia il rapporto tra modello giapponese
e taylorismo. La questione è controversa, perché si
tratta di un rapporto ambivalente e complesso. Alcune prescrizioni
del modello giapponese sembrano tratte direttamente dai testi di
Taylor, in particolare il monito di eliminare le sequenze di lavoro
inutili, razionalizzare e standardizzare il flusso produttivo,
semplificare il lavoro (cfr. Shimizu, cit. in Dohse e altri, 1984).
Questi passaggi diventano, nei discorsi degli avversari del modello
giapponese, facili argomenti per sostenere che esso non è che
il perfezionamento estremo del taylorismo.
Le cose però non sono così semplici. Negli scritti di
Ohno (v., 1978) - il dirigente della Toyota inventore carismatico
del nuovo modo di organizzare la produzione - si legge che egli non
si propose mai di superare il taylorismo, bensì di "pensarlo
al contrario". Negli anni cinquanta Ohno intuì che per
ottenere il massimo rendimento bisognava attaccare il potere degli
operai professionali non frantumando le loro mansioni, ma
sovraccaricandoli di compiti. Per ottenere questo obiettivo Ohno
sostituì al principio tayloristico dell'one best way quello
della riduzione progressiva delle scorte. Mentre l'one best way
impone con burocrazia esterna gli spazi, i tempi e i gesti del
lavoro, la riduzione delle scorte ha luogo all'interno del processo
produttivo e coinvolge le intelligenze degli operai nel gioco di
eliminare ridondanze e tempi morti. In tal modo l'one best way non
è più un sistema di procedure stabilite una volta per
tutte, ma si trasforma nelle tappe di un miglioramento continuo (in
Giappone kaizen). Inoltre procedere sulla strada del miglioramento
non è più prerogativa di un ristretto gruppo di
tecnici che poi lo impongono dall'alto per via gerarchica, ma
diventa una modalità diffusa del lavoro operaio, un'occasione
di coinvolgimento dal basso.
È indubbio che l'applicazione integrale del modello
giapponese, almeno nella versione 'pura' della Toyota, provoca una
notevole intensificazione del lavoro operaio, ma questa si
accompagna a un aumento dei suoi contenuti intelligenti e
responsabili. Di qui l'intrinseca ambiguità del modello e la
disparità delle reazioni che esso provoca, guadagnandosi
entusiasti fautori e altrettanti tenaci avversari. Al di là
di questi aspetti, tuttavia, il modello giapponese sollecita a
ripensare da cima a fondo il messaggio del taylorismo. "Pensare al
contrario" il taylorismo significa mantenere e se possibile
esaminare tutti gli elementi di razionalità e
standardizzazione del processo produttivo, con un non trascurabile
aumento di impegno fisico e mentale da parte dei lavoratori, sia
operai che tecnici. Ma questo obiettivo va raggiunto non con metodi
burocratico-autoritari, e nemmeno con la divisione esasperata delle
mansioni come predicava Taylor. Il metodo deve invece essere quello
del coinvolgimento dei lavoratori, continuamente sollecitati a
suggerire innovazioni e miglioramenti. Anche se il lavoro esecutivo
resta di routine, questo coinvolgimento conferisce al lavoro una
tensione intellettuale che lo riscatta dalla monotonia e dal degrado
psico-mentale.In modo più o meno integrale queste pratiche si
vanno sempre più diffondendo anche nelle fabbriche
occidentali, che le adattano al loro contesto sociale. P. Adler (v.,
1993) parla a questo proposito di taylorismo democratico. È
un'espressione che suona come un ossimoro, dato che per quasi un
secolo il taylorismo è stato esperito come sinonimo di
sfruttamento e imposizione autoritaria. Ma Adler sostiene che
l'aspetto più vitale e duraturo del messaggio tayloriano
è la necessità di standardizzare metodi e oggetti
della produzione. Gli altri aspetti, che per tanti decenni sono
stati i più visibili e sofferti, non sono per Adler la
sostanza del taylorismo, ma solo un suo epifenomeno storico
destinato a cadere.
9. Conclusioni. Unità e varietà del taylorismo
La rassegna fin qui compiuta mostra quanto sia problematico definire
l'essenza del taylorismo. Paradossalmente, quanto più esso si
è diffuso nel mondo con la pretesa di insegnare un metodo
unico e ottimale di produrre, tanto più ambivalenti sono
apparsi i suoi significati, variegati gli aspetti indicati come
essenziali, e imprevedibili gli adattamenti a cui è stato via
via sottoposto. Questa varietà è sicuramente il segno
della vitalità di una proposta che supera le contingenze
storiche che videro la sua nascita tra XIX e XX secolo.
Va anche detto che il taylorismo non si è fermato alle
fabbriche, ma in modo più o meno esplicito ha investito tutta
l'attività amministrativa e dei servizi. Il processo di
taylorizzazione di banche, uffici, catene commerciali, aeroporti,
servizi ha comportato, tra le altre cose, la necessità di
distinguere all'interno del modello weberiano di burocrazia tra una
burocrazia professionale e una burocrazia meccanica (v. Mintzberg,
1983). Mentre la prima opera in base alla standardizzazione delle
capacità dei dipendenti, la seconda opera in base alla
standardizzazione dei processi lavorativi. Un esempio estremo di
taylorismo applicato al mondo dei servizi è quello offerto
dalle catene di ristorazione McDonald (v. Ritzer, 1992). Si tratta
di un processo molto avanzato di standardizzazione sia del processo
lavorativo, con la parcellizzazione spinta delle mansioni
lavorative, che del prodotto commestibile: in altri termini, viene
taylorizzato non soltanto il lavoro dei dipendenti, ma anche il
trattamento dei clienti. La preparazione del cibo come catena di
montaggio, l'efficienza misurata in tempo impiegato nel servire e
nel consumare, la prevedibilità del cibo e del servizio fanno
dire a Ritzer che la MacDonaldization è la fase estrema del
processo di burocratizzazione. Essa per Ritzer non si limita alle
catene alimentari, ma si va diffondendo in una gamma molto vasta di
servizi fai-da-te, dalla diagnosi ambulatoriale alle cosiddette
chiese elettroniche con cerimonie religiose pre-programmate. Il
fatto che - negli stessi anni in cui nelle fabbriche il taylorismo
tradizionale si attenua fino a dissolversi - una quantità di
istituzioni di servizio conoscano invece processi crescenti di
taylorizzazione spinta è la prova più efficace di
quanto complesso, vitale e tutt'altro che esaurito sia il fenomeno
che abbiamo qui analizzato. (V. anche Divisione del lavoro;
Imprenditori; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Lavoro;
Occupazione; Produttività; Società industriale;
Tecnica e tecnologia).
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