GALIANI, Ferdinando
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Nacque a Chieti il 2 dic. 1728, da Matteo, regio uditore in quella
città, e da Anna Maria Ciaburri.
Dopo aver seguito gli spostamenti professionali del padre a Lecce,
Trani e Montefusco, nel luglio 1735 il G. si recò a Napoli
presso lo zio paterno Celestino, già arcivescovo di Taranto e
dal 1732 cappellano maggiore del Regno di Napoli. Insieme con il
fratello maggiore Berardo, studiò e soggiornò presso
lo zio per molti anni, salvo una pausa, tra il 1737 e il 1741,
trascorsa nel monastero dei padri celestini di S. Pietro a Majella,
durante una lunga missione dello zio a Roma per stipulare il
concordato con la S. Sede.
Gli studi del G. furono influenzati profondamente dalla formazione
filosofica dello zio, ispirata alla nuova visione scientifica di
Newton e Locke. Studiò al tempo stesso lettere italiane e
latine, greco ed ebraico, matematica, filosofia e scienze naturali,
diritto ed economia. Ottimi furono i maestri di cui, insieme con il
fratello, poté avvalersi. Tra gli altri: il sacerdote C.
Catalano nei primi anni; i celestini P. Orlandi e A. Buonafede nel
periodo trascorso presso il monastero; M. Cusano, docente di diritto
civile nella casa dello zio, dopo il ritorno di questo da Roma.
Presso lo zio il G. ebbe anche la possibilità di conoscere e
ascoltare i maggiori intelletti del paese, tra cui: l'ormai vecchio
G.B. Vico (morto nel 1744); i giuristi N. Capasso, G.P. Cirillo e N.
Fraggianni; gli studiosi dell'antichità A.S. Mazzocchi, M.
Egizio e G. Martorelli; i naturalisti, matematici e astronomi G.
Porta, A. Fiorelli, M. Ruberto, D. Sanseverino, N. e P. De Martino,
G. Orlando; il medico F. Serao. Particolarmente stimolanti le
discussioni sui problemi economici e politici che vedevano
principali protagonisti due uomini d'affari toscani, A. Rinuccini e
B. Intieri, attenti osservatori delle condizioni del Regno e
promotori di iniziative innovative (come la cattedra di commercio
all'Università, che l'Intieri finanziò per A. Genovesi
a partire dal 1754).
Rispetto a tutte queste materie, anche così distanti tra
loro, il G. mostrò fin da giovanissimo interesse e
competenza, coniugando in modo particolarmente felice lo studio
dell'antichità con l'analisi dei problemi reali del suo
tempo, soprattutto quelli economici. Già nel 1744 si
dedicò allo studio dell'economia, cimentandosi
contemporaneamente nella lingua inglese, con la traduzione, rimasta
inedita, dell'opera di J. Locke, Some considerations of the
consequences of the lowering of interest and raising the value of
money, che peccava a suo avviso nell'ordine e nel metodo e
probabilmente lo convinse dell'importanza di un lavoro organico su
tale argomento. Anche altri successivi scritti giovanili, sempre
inediti, vanno in questa direzione: nel 1746 una storia sulle
antiche navigazioni nel Mediterraneo, rimasta incompiuta; e nel
1747-48 un saggio sulla moneta ai tempi della guerra di Troia, con
un'intelligente utilizzazione dei poemi omerici per formulare alcune
acute considerazioni sul conio e sul valore intrinseco della moneta.
Gli altri scritti giovanili, anch'essi non dati alle stampe (e
parzialmente pubblicati solo nel Novecento), sono invece
essenzialmente esercitazioni retorico-umanistiche, che il G.
sosteneva presso una delle tante accademie fiorite a Napoli in
questo periodo, quella degli Emuli: dotte dissertazioni, di chiaro
stampo classicista, sulla passione amorosa, sulla morte di Socrate,
sull'amor platonico, che già denotavano un acuto
anticonformismo, uno spirito arguto e dissacratore e, al tempo
stesso, la consapevolezza che il pensiero filosofico doveva essere
assolutamente libero da impacci d'ordine religioso o dogmatico. In
alcuni punti è possibile scorgere squarci di un pensiero
materialistico e sperimentalista, oppure una concezione di stampo
vichiano nell'influenza dell'espressione linguistica
sull'articolazione e manifestazione delle idee.
Nel 1749 il G., per vendicarsi di G.A. Sergio che gli aveva impedito
di partecipare a un'adunanza di un'altra accademia al posto del
fratello Berardo, redasse insieme con l'amico P. Carcani e
pubblicò uno scritto burlesco: Componimenti varii per la
morte di Domenico Jannaccone carnefice della Gran Corte della
Vicaria raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio avvocato
napoletano. I due amici mettevano alla berlina il Sergio e gli altri
accademici, imitando perfettamente la partecipazione di circostanza,
lo stile ampolloso, la vuota e sciatta erudizione che essi erano
soliti manifestare in occasione di ben più nobili morti. Di
fronte alla reazione degli accademici, che reclamavano inchieste e
pene pesanti, i due giovani confessarono al Tanucci la
paternità del libello e se la cavarono con rimproveri
divertiti ed esercizi spirituali; del resto dell'episodio rideva
tutta Napoli.
Nel 1749-50 il G., sollecitato dalla crisi monetaria diffusasi nel
Regno di Napoli dopo la pace di Aquisgrana, scrisse il trattato
Della moneta (Napoli, datato 1750, ma in realtà stampato nel
1751). Anche in questo caso l'opera si presentava anonima,
probabilmente per il timore (come ipotizza il Diaz, in F. Galiani,
Opere, p. 4) che "per la sua originalità e novità
potesse in qualche punto spiacere alle autorità, o magari
semplicemente suscitare critiche rese aspre dalla cognizione della
giovinezza e della presunta inesperienza" dell'autore. Ma dopo le
accoglienze favorevoli del mondo culturale e politico napoletano, in
particolare dell'Intieri, e di fronte alle voci che comunque gli
attribuivano la paternità del trattato, il G. già
nell'ottobre 1751 ammise di esserne l'autore.
Il Della moneta viene considerato "il capolavoro uscito dalla
discussione sulle monete a metà del secolo" (Venturi, 1969,
p. 490): una discussione che vide impegnati molti intellettuali e
riformatori dei vari Stati italiani: C.A. Broggia nel 1743 (e poi di
nuovo nel 1754), T. Spinelli, G. Belloni, G. Fabbrini, P. Neri, G.R.
Carli, G.F. Pagnini, P.G. Capello e G. Costantini, tra il 1750 e il
1752. Rispetto a questi autori il G. si distinse nettamente: per
l'ampiezza e l'organicità della trattazione, per le chiare e
lucide definizioni di concetti economici di base (come il valore dei
beni), per l'originalità del suo pensiero rispetto al
problema delle manipolazioni monetarie. Il punto di partenza era
un'articolata analisi sui metalli preziosi e sul valore intrinseco
della moneta, dovuto alla quantità di metallo: anche il
metallo prezioso non coniato poteva dirsi quindi moneta e il conio
non era altro che un segno della quantità di metallo
contenuto. In questo modo il G. respingeva la teoria contrattualista
sull'origine della moneta che derivava da Aristotele ed era stata
accettata da tanti autori successivi. Nonostante queste premesse,
riteneva il cosiddetto alzamento, la diminuzione della
quantità di metallo in una moneta che conservava il suo
valore di conio originario, un provvedimento giusto e utile per i
governi che l'adottavano. Ciò significava pronunciarsi
nettamente a favore dell'inflazione controllata, mentre gli altri
"monetaristi" si battevano contro la svalutazione della moneta e gli
aumenti dei prezzi, auspicando una politica statale a favore della
stabilità monetaria. L'alzamento - secondo il G. - doveva
però essere adottato solo in una situazione eccezionale e da
un governo che godesse dell'autorità necessaria: un potere
efficiente e assoluto non limitato da Parlamenti o altri corpi
intermedi, ma illuminato, come a suo avviso era quello di Carlo di
Borbone. Tale alzamento era lecito soprattutto in presenza di un
cospicuo debito pubblico, perché consentiva di aumentare le
entrate senza introdurre nuove tasse o inasprire le vecchie. Col
tempo la svalutazione sarebbe stata assorbita dal mercato grazie
all'inevitabile aumento dei prezzi, ma prima che si fosse ricreato
l'equilibrio monetario lo Stato avrebbe realizzato cospicui
introiti, mentre i lavoratori non avrebbero avuto grandi danni,
perché - affermava il G. - "se incariscon le merci, crescono
del pari le mercedi ed ogni altro guadagno". Inoltre, l'aumento dei
prezzi e la maggiore disponibilità di denaro avrebbero
prodotto un incremento della produzione e della circolazione dei
beni e dei consumi. Quello della produzione era l'obiettivo primario
di una nazione, da incrementare il più possibile sia in campo
agricolo, sia in quello manifatturiero, mediante adeguati
investimenti: venivano così apertamente superate le vecchie
tesi mercantiliste di una ricchezza basata sull'introduzione di
molto più denaro o metallo prezioso di quello esportato.
Accanto a queste tematiche, che per l'epoca erano senz'altro quelle
più importanti, il libro del G. conteneva alcune felici
intuizioni sul valore dei beni: rapportato sia alla loro
utilità (intesa come soddisfacimento dei bisogni primari -
mangiare, bere, dormire - e di quelli secondari, relativi alle
passioni e al piacere), sia alla rarità, sia al lavoro
necessario per produrli (la "fatica"). Molti economisti e storici
del pensiero economico di fine Ottocento o del primo Novecento,
soprattutto italiani, hanno individuato in queste intuizioni sia
elementi anticipatori delle teorie marginaliste del valore, sia di
quelle precedenti di stampo ricardiano e marxiano. È il caso
di ricordare soltanto il favorevolissimo giudizio di L. Einaudi, che
ravvisa tra l'altro nel G. "germi delle teorie gosseniane, della
gerarchia dei beni, della loro sostituzione, della decrescenza della
utilità delle successive dosi di un bene"; nonché
quello altrettanto entusiasta di J.A. Schumpeter, per il quale il G.
eleva la fatica "alla dignità di unico fattore di produzione,
la considera l'unica circostanza "che dà valore alla cosa"".
Tuttavia il libro del G. fu quasi del tutto ignorato dai maggiori
economisti dell'Ottocento (ad eccezione di K. Marx), anche
perché esso non fu tradotto, nemmeno dopo la seconda edizione
del 1780 (l'unica traduzione in francese apparirà nel 1955).
Il successo dell'opera fu quindi solo iniziale, limitato agli anni
Cinquanta, e passò presto assieme a "quel periodo di
vivissimo interesse per i problemi monetari che era conseguito alla
guerra di successione austriaca" (Diaz, in F. Galiani, Opere, p. 9).
All'iniziale successo del Della moneta contribuì un lungo
viaggio del G. in Italia, iniziato nel novembre 1751 e durato un
intero anno. Nel corso di esso egli poté conoscere i maggiori
intellettuali italiani, divulgare le proprie idee e discutere di
economia, filosofia e di altri argomenti: fu quindi, tra l'altro, a
Roma, Siena, Livorno, Pisa (dove conobbe anche G. Cerati), Firenze,
Ferrara, Venezia (M. Foscarini), Milano (F. Argelati e P. Neri),
infine a Torino, dove discusse con il re Carlo Emanuele III. Tornato
a Napoli, e morto poco dopo lo zio Celestino (1753), si
dedicò a studi di minor rilievo e di vario argomento. Nel
1754 collaborò all'opuscolo uscito a nome dell'Intieri Della
perfetta conservazione del grano: descrizione di una stufa che il
toscano aveva ideato nel 1728 e fatto costruire tre anni dopo.
L'anno successivo si dedicò alla geologia, raccogliendo e
classificando 141 specie di pietre del Vesuvio (di cui nel 1772
pubblicò un breve catalogo). La raccolta fu regalata al papa
Benedetto XIV, conosciuto nel 1751, che in cambio gli assegnò
una buona rendita su un beneficio ecclesiastico. D'altra parte, il
G. già da qualche anno aveva preso gli ordini minori e
godeva, da abate, di due discrete rendite ecclesiastiche. Nel 1756
venne inserito nell'Accademia Ercolanese, appena creata da Carlo di
Borbone per studiare i resti archeologici della cittadina vesuviana,
e nel 1757 contribuì a presentare il primo volume
dell'attività accademica sulle pitture ritrovate. Negli anni
successivi, accantonati del tutto i temi economici, si
indirizzò verso componimenti d'occasione di facile impegno,
scrisse un saggio di interesse filosofico, rimasto inedito e
probabilmente non completato (Degli uomini di statura straordinaria,
e de' giganti), e pubblicò Delle lodi di papa Benedetto XIV,
Napoli 1758 (ristampa ibid. 1781), omaggio al pontefice defunto, di
cui lodava "l'intelligente, bonario, anche illuminato, operato" e il
"cautissimo riformismo", mostrando una personale visione politica,
sostanzialmente immobilista, estranea, allora come in futuro, al
riformismo perseguito in quel periodo dal Genovesi e dagli altri
illuministi napoletani.
Nel gennaio 1759 il G. venne nominato dal Tanucci segretario
d'ambasciata a Parigi, dove si recò nel successivo mese di
maggio. L'incarico era delicato perché bisognava in qualche
modo indirizzare il lavoro di un ambasciatore poco capace, come lo
spagnolo José Baeza y Vicentello conte di Cantillana, e
bisognava affermare l'autonomia napoletana dalle altre corti
borboniche, nel momento in cui Carlo di Borbone ereditava il trono
spagnolo e lasciava a Napoli un re bambino e un Consiglio di
reggenza. A Parigi il G. soggiornò circa dieci anni (con una
interruzione nel 1765-66), svolgendo validamente i compiti
diplomatici via via assegnatigli e soprattutto divenendo uno dei
più apprezzati e ricercati animatori della vita mondana e
culturale della città.
All'inizio il rapporto con il suo lavoro e con la capitale francese
non fu dei migliori, ma bastò che nel corso del 1760 il
Cantillana soggiornasse per molti mesi in Spagna perché la
situazione cambiasse radicalmente. La possibilità di essere
autonomo nei rapporti con gli uomini di governo, con la corte di
Versailles e con il mondo culturale parigino consentì al G.
l'inizio di uno splendido lungo soggiorno. Frequentò i
salotti più celebri e ne divenne un ricercatissimo
protagonista. Fece conoscenza, discusse e strinse rapporti di
amicizia con alcuni dei maggiori intellettuali del momento, filosofi
illuministi e materialisti, letterati, enciclopedisti: tra gli altri
P.-H. d'Holbach, C.-A. Helvétius, J.-F. Marmontel, A.
Morellet, J.-B. d'Alembert, J.-B. Suard e soprattutto D. Diderot,
F.M. Grimm, Louise-Florence-Pétronille Tardieu d'Esclavelles
(M.me d'Épinay). Le uniche eccezioni di rilievo fra gli
uomini di cultura francesi del tempo sono quelle di J.-J. Rousseau
(poco apprezzato dal G.), di molti fisiocrati, con cui poi si
scatenerà un'accesa polemica, e del lontano Voltaire, che
però lo ebbe in grande stima.
Nei salotti letterari parigini il G. si distinse per l'arguzia e le
capacità critiche, la grande cultura e l'intelligenza, che
gli consentivano di discettare su qualsiasi argomento e di formulare
sempre idee del tutto originali, nonché per i motti di
spirito e la spregiudicatezza, spesso cinica, nei rapporti umani, e,
infine, per la concretezza nelle analisi e nelle discussioni in
materia politica, economica e filosofica. Fu perciò
soprannominato Arlecchino e Machiavellino, assai ricercato e
apprezzato da tutti, anche negli ambienti della corte di Francia. La
sua fama di arguto opinionista e di grande giocoliere delle parole
varcò i confini francesi (soprattutto grazie alle
corrispondenze del Grimm), raggiungendo le corti di alcuni principi
tedeschi e di Caterina di Russia, con cui il G. intrattenne rapporti
epistolari dopo il suo ritorno a Napoli. Sul suo modo di essere, la
brillante conversazione, le ardite opinioni e i motti di spirito
fiorì subito una ricca aneddotica, spesso condita dei
piccanti particolari della sua intensa vita amorosa, che si
perpetuerà nei secoli successivi, divenendo oggetto di
numerose pubblicazioni, spesso piuttosto grossolane e superficiali
nel valutare un personaggio complesso come il Galiani.
La sua partecipazione agli aneliti riformistici presenti in Francia
in quel periodo fu comunque minima. Come rileva il Diaz, "le grandi
lotte dei philosophes, degli enciclopedisti, per la libertà
civile e di opinione, per la tolleranza, contro i privilegi sociali
e civili, gli abusi giudiziari, l'insufficienza o la arretratezza
delle leggi, e via seguitando, lo interessano certamente, ma in
superficie, attirano la sua attenzione di osservatore e di relatore
[al Tanucci], ma sfiorano appena la sua sensibilità"
(introduz. a F. Galiani, Opere, p. XLVI).
L'attività diplomatica che contemporaneamente il G. andava
svolgendo non fu di particolare rilievo. Per la posizione marginale
occupata dal Regno di Napoli nel contesto politico internazionale,
egli si limitò a essere attento osservatore e commentatore
della realtà francese e dei problemi europei che passavano
per Parigi: di ciò resta un'interessante testimonianza nelle
lettere al Tanucci. Il G. riferiva puntualmente sulla guerra dei
Sette anni (durata fino al 1763) e sul conseguente tracollo
dell'impero coloniale francese a vantaggio dell'Inghilterra, sulle
dispute in materia tributaria tra i Parlamenti e la Corona, sulla
questione della Corsica (in quegli anni acquisita dalla Francia) o
su altre tematiche generali che interessavano solo indirettamente il
Regno di Napoli. Più concretamente pertinenti al suo ufficio
erano: i problemi relativi ai non facili rapporti commerciali con la
Francia, causati dai frequenti sequestri di merci e dalle
conseguenti lunghe detenzioni di marinai napoletani; la resistenza
all'ingresso nel "Patto di famiglia", stipulato nel 1761 tra le
corti borboniche di Francia e Spagna; e questioni diplomatiche
minori e occasionali.
Da Parigi il G. seguì con attenzione la grande crisi granaria
del Regno di Napoli del 1763-64. Il confronto con l'abbondanza
presente contemporaneamente in Francia, dove proprio in quegli anni
erano stati adottati provvedimenti a favore della libera
circolazione del grano, spinse il G. a prendere posizione in chiave
liberista (oltre a proporre di sostenere colture nuove, come la
patata e il mais). Queste posizioni, espresse nelle lettere inviate
a Tanucci nel 1764, furono riprese in una lunga memoria scritta alla
fine del 1765, durante una licenza a Napoli: Storia dell'avvenuto
sugli editti del libero commercio de' grani in Francia promulgati
nel 1763 e 1764 (rimasta inedita, sarà pubblicata dal
Nicolini nel 1959).
La licenza doveva durare sei mesi, ma il G. rimase a Napoli dal
maggio 1765 all'ottobre dell'anno successivo, anche perché
incaricato di preparare un progetto, poi accantonato dal Tanucci, di
trattato di commercio con la Francia. Durante questo lungo
soggiorno, egli conseguì la laurea in diritto civile e
canonico e fu nominato consigliere del Tribunale di commercio. La
nuova carica fu però congelata e nell'autunno 1766 il G.
ritornò a Parigi, dove riprese l'antico incarico e il suo
posto di ricercato animatore dei salotti e di distaccato osservatore
della intensa vita politica e intellettuale della città. Fino
agli inizi del 1768 egli continuò a pronunciarsi nelle sue
lettere per la piena libertà di commercio e contro gli
arcaici sistemi annonari del Regno di Napoli; ma nel corso di
quell'anno cambiò opinione di fronte alla crisi del tutto
inaspettata (penuria di grano, notevole aumento dei prezzi) di molte
regioni francesi. Il G. inoltre era probabilmente influenzato dalla
conoscenza di due realtà economiche molto diverse, come
l'Olanda e l'Inghilterra, con cui era venuto a contatto in un lungo
viaggio nell'autunno 1767 e forse dalle idee antifisiocratiche
espresse in quegli anni da Fr.-L. Véron de Fortbonnais.
Pertanto, nei primi mesi del 1769 si dedicava a formulare queste
nuove idee in un'opera sul commercio dei grani, ma nel maggio veniva
richiamato a Napoli, a causa di un'incauta confidenza diplomatica
contro il Patto di famiglia.
Il G. allora si affrettò a completare il manoscritto e lo
lasciò a Diderot e a M.me d'Épinay per rivederne la
lingua e curarne la pubblicazione, che avvenne, dopo alcune
vicissitudini con la censura, agli inizi del 1770, sotto il titolo
Dialogues sur le commerce des bleds, in forma anonima e col falso
luogo di stampa di Londra.
L'opera fece molto scalpore: per la forma agile e divertente
utilizzata per parlare di temi economici spesso assai noiosi e per
l'opinione contraria alla completa libertà di commercio
perseguita dai fisiocrati. Dal punto di vista formale l'opera si
presenta come un dialogo diviso in otto parti, tra l'italiano
cavalier Zanobi (che è lo stesso G.), un interlocutore che si
fa spiegare le sue idee e che cerca invano di contrastarle, un
ulteriore interlocutore, chiamato, a partire dal quinto capitolo, a
fare da arbitro. Zanobi afferma decisamente che non vi sono leggi
economiche valide per tutti i luoghi. Stati piccoli o grandi,
commercialmente avanzati o arretrati, prevalentemente agricoli o
manifatturieri non possono adottare in materia di grani la stessa
politica economica. Inoltre, egli distingue nettamente tra la libera
circolazione interna e quella estera, sostenendo che una grande
nazione come la Francia deve consentire l'esportazione del raccolto
eccedente alle regioni più prospere solo dopo aver compensato
le eventuali necessità di grano delle regioni caratterizzate
da un raccolto insufficiente. In pratica, non si trattava di
impedire le esportazioni, ma di regolamentarle, adattandole alla
realtà concreta in cui si operava, di scoraggiarle
utilizzando lo strumento dei dazi. In questo modo si potevano
scongiurare momenti di penuria grave, le carestie così
pericolose per il normale sostentamento degli strati più
deboli della popolazione e di conseguenza per la tenuta dei governi,
le sordide speculazioni e gli illeciti arricchimenti che produttori,
mercanti e intermediari spesso riuscivano a conseguire in tali
momenti. Alla base del ragionamento del G. vi erano quindi il
realismo politico e la ragion di Stato, contro analisi che mettevano
al primo posto una scienza economica (fisiocratica) elevata a
sistema e posta al di sopra di qualsiasi istanza di tipo politico.
In contrasto con il pensiero fisiocratico, Zanobi considera poi non
l'agricoltura, ma le manifatture l'attività economica
più importante: "c'est des manufactures seules que vous
pouvez espérer une circulation prompte et égale des
richesses […], l'égalité du produit total de
l'État au milieu de toutes les vicissitudes,
l'égalité par conséquent du produit des
impôts d'où dérive la force de l'État"
(ed. De Rosa, p. 105). Di chiara matrice mercantilista sono quindi
la teoria fiscale (dazi sulla esportazione delle materie prime utili
alle manifatture e sull'importazione dei prodotti industriali
stranieri), l'ammissione dei monopoli commerciali, l'identità
tra la ricchezza di uno Stato e il numero dei suoi abitanti.
L'uscita del libro scatenò la dura, anche violenta reazione
dei fisiocrati, ma anche autorevoli consensi. Tra questi quello
celebre di Voltaire, che trovò i dialoghi "aussi amusants,
que nos meilleurs romans, et aussi instructifs que nos meilleurs
livres sérieux" (cit. da Diaz, introduz. a F. Galiani, Opere,
p. LXXV) e quello di Diderot, che contro gli attacchi di Morellet
scrisse una Apologie de l'abbé G., rimasta però
inedita (e pubblicata solo nel 1963). Oltre al Morellet altri
economistes criticarono duramente i Dialogues, soprattutto nella
rivista Éphémérides du citoyen. Particolarmente
pesante l'attacco di P.-P.-H. Le Mercier de la Rivière in un
voluminoso libro uscito nel 1770 (L'intérêt
général de l'État ou La liberté du
commerce des bleds démontrée conforme au droit
naturel; au droit public de la France; aux lois fondamentales du
Royaume; à l'intérêt commun du souverain et de
ses sujets dans tous les temps; avec la réfutation d'un
nouveau système en forme de "Dialogues sur le commerce des
bleds"). Il G. rispose con una parodia inviata agli amici in
Francia, che, come egli stesso diceva in una lettera alla
d'Épinay, non era "un semplice divertissement, ma una vera e
propria confutazione, perché se pure cambio i nomi alle cose,
lascio immutati tutti i ragionamenti di de La Rivière, ed
ecco che si scopre all'istante quanto siano assurdi e strampalati"
(ed. Rapisarda, I, p. 173). Il sarcasmo la faceva da padrone e lo
stesso titolo ne è la prova, perché riproduce in tutto
quello del rivale sostituendo l'ultima parte con La
réfutation d'un nouveau système de bagarre
publié en forme de feu d'artifice, par M.L.A.R. economiste
indigne. L'operetta non fu pubblicata e solo due secoli dopo
è stata ritrovata e data alle stampe (nel 1979) da S.L.
Kaplan.
Nonostante gli attacchi dei fisiocrati i Dialogues ebbero fortuna
sia in campo politico, sia in quello editoriale. Infatti, da un lato
il governo francese recepiva nello stesso 1770 le sue principali
posizioni revocando l'editto liberista del 1764; dall'altro lato si
ebbero due traduzioni in tedesco, una in spagnolo negli anni
Settanta e altre due edizioni tedesche dopo la morte del G. (nel
1795 e nel 1802); il libro fu poi inserito nella collana degli
Scrittori classici di economia italiana curata da P. Custodi (1803,
prima edizione italiana del testo francese, senza traduzione). In
seguito comunque l'opera fu piuttosto accantonata, non suscitando
più interesse dopo il radicale mutamento di prospettive
dell'economia europea avvenuto dopo la rivoluzione industriale e il
trionfo del liberismo di ispirazione smithiana. Sarà comunque
presa in considerazione dagli storici del pensiero economico e del
secolo XVIII e sarà oggetto di varie ristampe (e alcune
traduzioni in italiano) nel corso della seconda metà del
Novecento.
A partire dal 1770, con il definitivo ritorno a Napoli, iniziava per
il G. un periodo del tutto nuovo, a suo dire estremamente noioso, al
punto da fargli rimpiangere per anni il bel mondo parigino. Per
compensare questa sensazione di fastidio, procuratagli anche da
numerosi incarichi nella magistratura e nella pubblica
amministrazione, il G. coltivò una singolare
molteplicità di interessi culturali, dall'antichistica
all'opera buffa, dal diritto internazionale al dialetto napoletano,
e intessé una fitta corrispondenza con la d'Épinay e
con altri amici francesi (Grimm, D'Alembert, Diderot).
Nel complesso, le lettere ritrovate e più volte pubblicate a
Parigi nel corso del XIX secolo (non senza pecche per la presenza di
apocrifi e di interventi censori) sono circa 350, scritte in
francese tra il 1769 e il 1783, anno della morte della
d'Épinay a cui erano prevalentemente indirizzate. Questo
epistolario è da considerarsi un'opera letteraria e, secondo
alcuni critici, il capolavoro del Galiani. D'altra parte, egli
stesso teneva ben presente l'esito non solo privato delle sue
lettere. Nel giugno 1773 così scriveva alla d'Épinay:
"Sapete bene, mia bella dama, che quando saremo morti, il nostro
epistolario sarà pubblicato. Che piacere! E quanto ci
divertiremo! Così voglio impegnarmi in tutti i modi per far
sì che le mie lettere [… mostrino] un'adorabile
varietà: qualche volta gioco a offendervi, altre volte mi
comporto con sarcasmo, talvolta inizio la lettera con un tono e la
finisco con un altro" (ed. Rapisarda, I, pp. 656 s.). Nelle lettere
il G. si occupa sia di fatti privati, anche minimi, sia di temi
generali, discutendo di metafisica e logica, di morale e scienza
politica, di storia ed economia, del futuro dell'uomo, di arte,
letteratura. Lo stile è sobrio, talvolta beffardo, permeato
da una sottile ironia, dal gusto per il paradosso, da grande acume.
È la continuazione ideale delle sue conversazioni nei salotti
parigini e vi traspaiono - come rileva il Macchia - una "concezione
edonista dell'esistenza", la capacità di rendere seria la
frivolezza, un epicureismo venato di malinconia, la consapevolezza
che "l'intelligenza è allegria": cioè quella che il
Macchia definisce felicemente la "nécessité de
plaire", di "un attore comico, tutto proteso nel gusto di far
fermentare lo spirito d'Arlecchino nella testa di un Machiavelli".
Avverso al pianto, al patetico nascente in letteratura il G. tiene
sempre presente che dall'altra parte della sua opera, sia anche
"soltanto" una lettera, c'è un lettore e il suo divertimento.
In campo filosofico egli offre talvolta spunti interessanti: su
l'esistenza di Dio, il fatalismo, la morte, la natura, la
verità, l'esperienza, l'istinto e le abitudini dell'uomo, la
felicità, l'educazione, discutendo il pensiero di Voltaire e
d'Holbach, Rousseau e Leibniz, ecc. Anche se non si cimenta in
trattazioni filosofiche organiche si rintraccia nelle lettere - e in
passi delle altre opere - un pensiero filosofico del G., che Amodio
ha efficacemente messo in relazione con il libertinismo del Seicento
e del primo Settecento e con la capacità dei libertini "di
scrivere sui più svariati argomenti", che potessero "loro
interessare, piacere, quasi per gustarne al palato il sapore", come
dei dilettanti "nel significato più nobile e non polemico del
termine". Da ciò "un vero e proprio errare della ragione nei
territori disparati del mondo umano", il "disinteresse per ogni
ricostruzione generale e omnicomprensiva" (p. 28), il rifiuto del
nuovo ordine e il trionfo dell'individuale, della felicità
empirica, delle piccole certezze contro la Verità. Efficace
è il parallelo tra il G. e B. Le Bovier de Fontenelle,
accomunati dalla "geniale bizzarria dell'esprit", entrambi
"asistematici e fluttuanti nel pensiero e nell'espressione" (p.
107), animati dallo stesso scetticismo nei confronti del
razionalismo voltairiano: la scepsi del G. sfocia in un utilitarismo
in cui la ragione serve per la ricerca della felicità e dei
piaceri. La lettura fatta da Amodio del pensiero e del personaggio
G. consente il superamento delle interpretazioni piuttosto negative
fornite dal Croce e in minor misura dal Nicolini (Nicolini, Gli
studi sopra Orazio, p. III) circa l'estraneità del G.
all'illuminismo napoletano, circa l'assenza di "spirito religioso" e
di "sentimento del sublime", di "quell'austera coscienza, come di
una missione, che è necessaria per consacrarsi alla scienza;
gli facevano difetto l'entusiasmo, la persistenza, lo spirito di
sacrificio" (Croce, Il pensiero…).
Il disimpegno e il disincanto delle lettere, la curiosità
spesso casuale e contingente verso i più disparati campi
espressivi e conoscitivi sono attestati anche dagli altri scritti
del G. dopo il suo ritorno a Napoli. Nel 1770 scrisse un
dialoghetto, Cela revient toujours au même, in cui Mirabeau
(che probabilmente è in realtà d'Holbach) e Voltaire
discutono se le "scarpe" (cioè le religioni) siano opera
della natura o dell'uomo. Rimasto inedito fu ritrovato dal Nicolini
e pubblicato nel 1904 nella rivista La Critica. Nel 1772 scrisse e
inviò alla d'Épinay il Croquis d'un dialogue sur les
femmes.
Anche questo testo rimase inedito, ma fu pubblicato per la prima
volta già nel 1784 (nel Journal des gens du monde, II, pp.
65-83); in seguito ebbe molte altre edizioni in francese, anche
nelle varie edizioni della Correspondance, e molte anche in italiano
(la prima traduzione è del 1825). Si tratta di un'operetta
brevisssima, ma densissima, in cui il G. prende posizione contro le
opinioni "femministe" della d'Épinay. Sul filo del paradosso
e dello scherzo, ma in fondo in modo del tutto serio e convinto, il
G. individua nella donna un essere per sua natura debole e malato,
inferiore al maschio, che svolge necessariamente un ruolo subalterno
nella società. Perciò, non bisogna modificarne affatto
l'educazione, che è un prolungamento della natura, un
istinto; a suo avviso solo la religione "è quella parte di
educazione che non deriva dalla natura" (ed. Rapisarda, I, p. 497).
Nel 1775 il G. scrisse insieme con G.B. Lorenzi l'opera buffa
Socrate immaginario, per la musica di G. Paisiello. Si tratta di una
gustosissima satira basata - come avvertono gli autori
nell'introduzione - su una sorta di don Chisciotte, "un uomo
semplice, che dalla cognizione confusa e volgare delle vite dei
Filosofi antichi (come quegli dalle vite de' Cavalieri erranti)
abbia stravolto il cervello, sino a credere di poter ristorare
l'antica Filosofia". L'estro del G. accanto al mestiere del Lorenzi
secondo alcuni critici (in particolare M. Scherillo) fanno del
libretto di quest'opera un capolavoro del genere; mentre per altri
(V. Monaco) l'intervento del G. snatura le capacità comiche
del Lorenzi, espresse nelle sue altre commedie o nei personaggi di
contorno del Socrate in dialetto napoletano. L'opera ebbe grande
successo in sei rappresentazioni date a Napoli nel 1775, ma poi fu
proibita perché si ritenne che facesse il verso a Saverio
Mattei, grecista e musicologo napoletano con cui il G. era in
polemica. Le rappresentazioni furono permesse di nuovo soltanto
cinque anni dopo. La prima edizione della commedia fu pubblicata a
Napoli nel 1775, in forma anonima e fu poi inserita nelle Opere
teatrali del Lorenzi, stampate nel 1806-20. Da ciò la disputa
tra i critici sulla reale paternità della commedia, che il G.
nelle lettere alla d'Épinay si attribuiva in toto, ma che
può senz'altro essere considerata il frutto, come detto, di
una efficace collaborazione.
Nello stesso 1775 il G. riprendeva gli studi su Orazio, iniziati e
non portati a termine a Parigi dieci anni prima, intendendo
pubblicare un libro molto ampio e organico, che comprendesse una
vita del poeta desunta dalle sue stesse liriche, una riedizione
completa e commentata delle sue opere e un saggio critico sulle
traduzioni italiane e francesi di Orazio. Questo lavoro rimase
però abbozzato (solo la vita di Orazio ebbe uno svolgimento
quasi completo), perché più volte interrotto e
ripreso, finchè nel 1779 il G. annunziò alla
d'Épinay di rinunciarvi definitivamente. Tali studi rimasero
quindi inediti, ad eccezione dei commenti ad alcune odi e
all'Epistola ai Pisoni, scritti in francese a Parigi nel 1764 e
pubblicati, ridotti, rimaneggiati e contro la sua stessa
volontà, in alcuni numeri del 1765 della Gazette
littéraire de l'Europe del Suard.
Nel 1910 sono stati accuratamente ricostruiti dal Nicolini. Il G.,
ha puntualizzato Ettore Paratore, non vi appare grande latinista,
come sembra pensassero i suoi contemporanei, perché troppi
sono gli errori sia interpretativi, sia storici: "le proposte
temerarie che contraddistinguono il commento e lo circoscrivono
nella categoria dei coups d'essai degli amatori indubbiamente fini
ma irrimediabilmente orecchianti". Tuttavia non manca qualche
"intuizione singolarmente e acutamente felice, soprattutto
nell'ambito della visione sintetica, degli sguardi che abbracciano
grossi problemi e vasti orizzonti".
Nel 1779 il G., sollecitato dall'interesse di stampo vichiano per il
formarsi delle idee e dei linguaggi, pubblicò anonimo a
Napoli Del dialetto napoletano, un libro che rivendicava il primato
della lingua aulica napoletana su quella toscana.
Egli pertanto cercava di dimostrare che il napoletano, più
vicino al latino, era assai affine alla lingua letteraria italiana
dei primi secoli, da Jacopone a Dante, e che poi si era corrotto,
venendo sopraffatto da una lingua volgare e plebea, quella di G.B.
Basile e G.C. Cortese. Per questo motivo bisognava recuperare tale
lingua e renderla magari quella ufficiale del Regno meridionale;
ciò andava fatto ancor di più perché ormai il
paese, dopo i secoli bui della dominazione straniera (che avevano
accompagnato la decadenza del dialetto), aveva conquistato con la
monarchia borbonica l'autonomia e la prosperità. Si trattava
quindi di una posizione accentuatamente municipalistica sia in campo
linguistico, sia in quello politico, che, come ha rilevato il
Malato, gli impediva "di dare un respiro nazionale alla cultura
napoletana, di vedere, sullo scorcio del secolo XVIII, la
civiltà meridionale non come fatto locale ma come parte di
una più ampia e comune civiltà italiana". Del tutto
storicamente infondata era, poi, la sua visione della formazione
della lingua italiana, perché un'opera trecentesca che
costituisce un fondamentale riferimento per la sua analisi
sarà riconosciuta un secolo dopo come una tarda
falsificazione, mentre il giudizio negativo sulla letteratura
dialettale napoletana del Seicento non troverà riscontro
nella successiva critica letteraria che invece la valorizzerà
come vero momento aureo. Nonostante questi limiti, il libro del G.
sul dialetto è una delle sue opere migliori, "per la
vivacità e il brio dello stile e per la ricchezza
dell'argomentazione" e perché "primo e tuttora interessante
tentativo di ricostruzione del quadro storico della letteratura in
volgare e in dialetto napoletano e […] di organica descrizione della
fonetica, della morfologia, della sintassi di questo dialetto". Non
a caso il libro andò esaurito in pochi mesi e il G.
pensò subito di farne una seconda edizione rimaneggiata, ma,
come spesso gli succedeva, abbandonò presto l'idea.
Continuò però a occuparsi del tema, curando un
Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si
scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche
sulle medesime, degli Accademici Filopatridi (ancora una volta
un'opera anonima, anzi firmata da autori del tutto immaginari). Il
vocabolario non fu portato a termine dal G. e fu pubblicato postumo,
nel 1789, con il frontespizio sopra riportato, a cura e con
integrazioni di F. Mazzarella Farao. Nello stesso anno del Dialetto
il G. pubblicò un'opera satirico-burlesca firmata con uno
pseudonimo, un vero e proprio scherzo letterario come conferma anche
solo la lettura del bizzarro frontespizio: Spaventosissima
descrizione dello spaventoso spavento, che ci spaventò tutti,
coll'eruzione del Vesuvio, la sera dell'otto agosto del corrente
anno, ma (per grazia di Dio) durò poco, di don Onofrio
Galeota, poeta e filosofo all'impronto. - Fratiè, non
m'ammalì - Il Teatro de' Fiorentini nel corrente dramma
(Napoli 1779, "stampato a spese dell'autore, e si vende grana sei a
chi lo va a comprare"). Andata a ruba, l'anno dopo l'operetta fu
ristampata. Un altro componimento burlesco con lo stesso pseudonimo
fu pubblicato nel 1785 con luogo di edizione "Fantasianapoli".
Frattanto il G. si occupava con zelo e intelligenza dei compiti
connessi a una serie di incarichi pubblici: dal 1769 era consigliere
del Supremo Tribunale di commercio, di cui nel 1770 fu nominato
segretario; dal 1777 abbinò alla precedente la carica di
presidente della Giunta dei reali allodiali, che curava il
patrimonio personale del re, e subito dopo quella di avvocato
fiscale nello stesso organismo; nel 1782 fu nominato anche assessore
del Consiglio superiore delle Finanze; nel 1784 fu inserito nella
soprintendenza del Fondo della separazione, che si occupava
soprattutto del demanio militare. In tutti questi incarichi egli si
distinse come uno dei più apprezzati consiglieri del governo
e della Corona; in particolare, in qualità di segretario del
Tribunale di commercio, elaborò una serie di consulte in
materia politica ed economica di notevole interesse (rimaste inedite
sono state pubblicate, in parte, dal Diaz e dal Guerci, dal
Caracciolo, dal Nicolini e da altri).
In alcune di queste consulte il G. si occupava dei rapporti
commerciali con Francia, Russia, Stati Uniti d'America, Venezia e
Turchia, assumendo posizioni sostanzialmente mercantilistiche, a
favore dello sviluppo dei traffici napoletani e di una bilancia
commerciale attiva e opponendosi alla stipula di un trattato
commerciale con una nazione politicamente troppo più forte
come la Francia.
Nel 1782 il G. ampliò il proprio orizzonte in politica
estera, scrivendo su espresso incarico del governo il trattato De'
doveri de' principi neutrali verso i principi guerreggianti, e di
questi verso i neutrali (uscito anonimo senza indicazione di luogo,
ma Napoli).
Animato da un sostanziale pacifismo, il G. vi esaltava la non
belligeranza, sosteneva ancora una volta l'autonomia del Regno di
Napoli nei confronti del Patto di famiglia, giustificava la
dichiarazione di neutralità del 1778 rispetto al conflitto
che opponeva la Francia e la Spagna all'Inghilterra nell'ambito
della guerra d'Indipendenza americana, e approvava la Lega dei
neutri promossa nel 1781 da Caterina II di Russia, a cui avevano
aderito molti Stati europei per contrastare le insidie inglesi al
libero commercio (lega a cui si associò appunto anche il
Regno nel 1783, dopo ulteriori pareri positivi del Galiani).
Una parte non trascurabile dell'attività del G. consigliere
del governo fu indirizzata verso problemi interni. Le consulte
più interessanti riguardano: i "contratti alla voce", a suo
avviso un buon sistema per prestare denaro al contadino da parte del
proprietario terriero o del mercante, purché le voci fossero
fissate in modo giusto, senza favorire le speculazioni dei soggetti
economici più forti; e i rimedi da adottare dopo i terremoti
di Calabria e Messina nel 1783. Qui le posizioni del G. divenivano
piuttosto progressiste, perché individuavano nel baronaggio
uno dei principali mali della provincia di Reggio Calabria, ma come
al solito egli si limitava all'analisi della realtà
specifica, senza inoltrarsi in una complessiva analisi critica
dell'intero sistema feudale del paese, come i tanti riformatori
napoletani del suo tempo. Egli appare, in questa, come in analoghe
circostanze, "un amministratore moderno e illuminato, aperto alle
esigenze di rendere più efficienti le norme regolanti la vita
economica e civile del Regno, ma non certo illuminista e, nel senso
specifico della sua età, "riformatore"" (Diaz, introduz. a F.
Galiani, Opere, p. CII).
In questa ottica vanno interpretati anche altri suoi impegni
politico-amministrativi: nel 1781, la promozione dell'Atlante del
Regno di Napoli, compilato dal geografo padovano G.A. Rizzi Zannoni,
continuazione e perfezionamento della Carta geografica della Sicilia
prima, da lui disegnata a Parigi nel 1769, sempre su sollecitazione
e controllo del G.; nel 1784, il progetto (e l'inizio dei lavori)
per riportare alla luce il porto romano di Baia e operare una
complessiva ristrutturazione di tutte le acque morte dei Campi
Flegrei. In tutto questo periodo l'impegno del G. nel campo della
teoria economica fu davvero minimo e si può circoscrivere
alla seconda edizione del Della moneta (Napoli 1780), in cui fece
pochi cambiamenti, per lo più formali, e aggiunse
trentacinque lunghe note di un certo interesse.
Nel maggio 1785 il G., da tempo malato di sifilide, fu colpito da
apoplessia, ma riuscì a riprendersi e a compiere l'anno
successivo un viaggio in Puglia. Nel 1787, nonostante i gravi
problemi di salute, collaborò attivamente alla stipula del
trattato commerciale con la Russia. Tra aprile e giugno fece un
ultimo viaggio a Modena, Padova e Venezia.
Il G. morì a Napoli il 30 ott. 1787.