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Libero Bovio

Scritti vari


Indice generale
I «MIEI» NAPOLETANI 
 
FRANCESCO MASTRIANI   
FERDINANDO RUSSO   
POESIA DI RUSSO   
ADDIO
A SALVATORE DI GIACOMO   
IL MAESTRO RITORNA  
DON GIOVANNI CAPURRO   
ROCCO GALDIERI   
ELVIRA DONNARUMMA
  
SORRIDENTE MALINCONIA
DI ELVIRA  
LA SENTENZA
DI CARDARELLI   
ADDIO ALLA DIVA   
VINCENZO MIGLIARO   
ERNESTO MUROLO   
DON LIBERATO SI SPASSA   
FRUSTA, COCCHIERE   
«DE AMICITIA»   
SONA, CHITARRA!   
PAROLE CHE SON MUSICA   
PIEDIGROTTA   
RIDI, PAGLIACCIO   
SIAMO ARRIVATI   
INTERMEZZO   
NOVELLE
   
IL SIGNORE PAZZO  
IL DOTTOR LIBERO BOVIO   
L'UOMO CHE HA PIÙ UCCISO   
IL FUORICLASSE   
L'OMBRA
DEL PADRE DI AMLETO  
FERNANDO CAPOCELLI   
PRIMA E ULTIMA  
 

LIBERO BOVIO

SCRITTI VARI


I «MIEI» NAPOLETANI

FRANCESCO MASTRIANI

Ad iniziativa del giornale «Il Mezzogiorno», il 31 maggio del '25 fu murata una targa in memoria di Francesco Mastriani sulla facciata del Teatro S. Ferdinando. E, in quella occasione, il discorso commemorativo fu pronunziato da Libero Bovio che lo ha dedicato:
A QUEI NAPOLETANI
CHE HANNO LETTO
«LA CIECA DI SORRENTO»
E RICORDANO PETITO
AL SAN CARLINO

«Curò le ultime bozze e chinò il capo sugli scritti. Fu la individuazione di questo popolo napoletano: lavorare e sognare, soffrire pazientemente e morire. S'intendevano l'un l'altro; egli aveva visitato l'ultimo tugurio, e il popolo si riconosceva in lui. In altro paese sarebbe divenuto ricco; ma l'Italia, povera come lui, non merita rimprovero».
Queste le poche parole lapidarie con le quali il vecchio e grande Maestro di tre generazioni sintetizzò la vita, l'arte e il dolore di Francesco Mastriani. Par che l'epigrafe non sia stata dettata da alcuno, ma sia venuta fuori dal marmo istesso, destinato a ricordare alle generazioni a venire che nell'anno 1891, in una catapecchia di Napoli, moriva, vecchio e povero, il «professor» Francesco Mastriani, autore di centosette romanzi che, in cinquant'anni di lavoro, gli fruttarono quanto basta a morire di fame.
Nella nobiltà del suo intelletto, Carlo Nazzaro, scrittore ed artista, intese che le parole di Giovanni Bovio dovessero essere incise in questo marmo nel quale un artefice egregio, Saverio Gatto, ha scolpita la figura del grande scrittore napoletano; ed un comitato di valentuomini ha voluto che la lapide fosse murata nell'anima secolare di questo teatro, entro il quale il vecchio e glorioso Stella, irrispettoso delle lungaggini del nostro codice, da mezzo secolo amministra giustizia con l'acuminata lama del suo coltello.
***
I balconcelli di Porto e di Pendino sono tutti in fiore, oggi; ed è gran festa nei tugurî di Mercato e di Vicaria. Le femmine scarmigliate, pallide e urlanti del fondaco dell'Addolorata a San Giovanni a Carbonara hanno accesa la lampada dinanzi alla loro Madonna, e la bimba sorridente e rachitica di S. Antonio Abate stringe una rosa tra i denti. È festa loro quella di oggi: è la grande «domenica» del dolore umano, ed il sole illumina tutti i «bassi» e tutte le soffitte. I vecchi barcaiuoli di Santa Lucia, le «bizzoche» del vico delle Zingare, i «pastorari» di S. Gregorio Armeno, i «guappi» della Vicaria, l'ultimo cantastorie del Molo, ed il più vecchio degli zampognari, calato all'alba dalla montagna, rivivono un'ora della loro giovinezza passata.
A pié di questo marmo, piangono oggi, in silenzio, Rocco Damiani, Oliviero Blakman, la Bella di Portacapuana, la Cieca di Sorrento, la Pettinatrice di San Giovanni a Carbonara, il Barcaiuolo di Amalfi e la Spigaiola del Pendino. Sino il ciglio di Tommaso Basileo, l'usuraio accoltellatore, è umido di pianto.
E tutti gli eroi delle «Ombre» dei «Vermi» e dei «Misteri di Napoli», lacrimosi e redenti, sperduti nella folla, contemplano le vecchie mura del teatro ove, per cinquant'anni, morirono due volte ogni sera, nel giro di nove atti e un prologo.
Essi, oggi, rivivono come nei giorni in cui, fantasmi di amore e di dolore, turbinarono nella mente del professore, lo accompagnarono per la via, se lo portarono a braccetto, salirono con lui nella scuola, fecero qua e là capolino nella conversazione, apparirono e sparirono nelle appendici dei giornali per tornare di nuovo a lui e farsi rimpastare e rimpolpare nel mondo dei sogni applicato al mondo nostro di tutti i giorni. Non c'era pericolo ch'egli li avesse confusi; li trovava sempre là, ove li aveva posti i suoi eroi e le sue eroine; li seguiva, li faceva muovere a suo talento, li ammazzava, li risuscitava, li sezionava per spiegarvi punto per punto come avessero fatta l'anima e quanti battiti avesse il loro cuore.
***
La ruota della «Nunziata» gira, un fardello di carne umana scompare, e una peccatrice dilegua nell'ombra; la «cafona» tradita batte alla casa dalle persiane verdi; sotto il carcere della Vicaria i malandrini cantano a stesa; il «Santissimo» entra nel tugurio dell'operaio agonizzante; nella bettola i guappi fanno luccicare le lame dei loro coltelli; una mietitrice muore di «terzana» nella corsia dell'ospedale; nella officina si impreca e si lavora; l'emigrante stringe l'ultima volta tra le braccia la sua donna e le sue creature; dinanzi al «basso» l'usuraia violenta ed apoplettica conta i soldi della settimana; tre piccini, vestiti a nero, dormono abbandonati sul marciapiede; una vecchia corre lacera e scarmigliata dietro il carro dei carcerati: il professore è là: nascosto nell'ombra. Vede, osserva, piange e perdona.
A notte alta, poi, curvo sul suo piccolo tavolo da lavoro, avvolto nello scialle, mentre tutti in casa dormono, il «professore» scrive. Nel silenzio profondo, la penna stride sui fogli. Egli, spinto alle reni dal bisogno, costringe i suoi occhi semispenti a lavorare, mentre il lume ad olio rischiara a pena il piccolo ambiente.
Rilegge le «cartelle» della sua appendice; è percorso da un brivido. Si leva sgomento: gira lo sguardo d'intorno. Ha spavento, pietà ed orrore di queste creature, venute fuori dalla sua penna, che gli cadono in ginocchio e gli si aggrappano allo scialle. Crede di essere stato spietato, di avere introdotto il bisturi nella piaga viva, e non s'accorge che tutte le ferite egli ha cosparso di balsamo. Oh, povero e buon professore, va a letto tranquillo! Non temere. Tu hai visto con occhio di cerusico, ma hai reso con cuore di francescano. La tua «verità» pur se ci rende pensosi e ci commuove, è sempre lacrimosa di Bibbia e di Vangelo. Tu denunzi ed indulgi ad un tempo istesso: per te, il crimine non è che frutto di dolore umano. «Ombre» – lo dici tu stesso – quelle madri che non resistono all'urlo lacerante delle loro creature affamate e cadono in colpa. «Vermi»: le vittime involontarie della «ignoranza», della «miseria» dell'«ozio». Per tutta questa umanità che non ha più casa, non ha più legge, non ha più Dio, Francesco Mastriani chiede indulgenza e perdono.
«Illuminare, quindi, per quanto è possibile, il povero onesto e la innocente figlia del popolo sugli agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano sull'ozio, sulla «miseria» e sulla «ignoranza» è opera «santa». Ecco quel che si propone il vecchio scrittore curvo, dal pizzo grigio e dagli occhi semispenti.
***
È verismo il suo? È realismo? Romanticismo?... Via, non turbiamo con questi paroloni il sonno tranquillo del povero e grande scrittore napoletano. Francesco Mastriani fu quel che deve essere uno scrittore del popolo: educatore ed artista ad un tempo. Allettò, come pochi, la fantasia dei suoi innumerevoli lettori, ma si studiò, nel medesimo tempo, di formarne la coscienza, di nobilitarne l'anima, di ingentilirne il cuore.
Fu l'individuazione di questo popolo napoletano; umorista e sentimentale. Tra infuriar di tempeste e luccicar di lame, tra cipigli di assassini e lacrime di fanciulli, nelle sue narrazioni, si insinuano mandolinate e suoni di campane; voci di venditori e sospiri di zampogne, quando, maliziosamente, nell'atto in cui il crimine si compie, non fa capolino il suo umorismo manzoniano.
Mastriani, umorista, è, a volte, veramente adorabile: un umorismo pieno di grazia e di ingenuità che viene, improvvisamente, fuori da una prosa a volte tronfia, a volte sciatta, a volte umile, a volte solenne, ma tutta grazia e colore; una prosa che aderisce perfettamente all'anima dei centomila personaggi che agiscono nei romanzi di Francesco Mastriani.
***
Fu, sopratutto, un innamorato di Napoli. Tutto egli amò di questo paese: la reggia ed il tugurio; la pioggia ed il sole; le strade luminose ed i fetidi budelli; la scuola e la bettola; la chiesa ed il carcere; l'officina ed il postribolo.
È il dramma di una città quello che Francesco Mastriani ha scritto in centosette opere, ora organiche, ora frammentarie, ma tutte dettate dal suo sconfinato amore per questo nostro popolo paziente, sognatore e laborioso. Intese, come nessun altro, il dramma della plebe ed amò la miseria canora e sorridente del «basso» e del «fondaco». Talvolta levò un grido di ribellione contro le umane ingiustizie, ma il suo istinto di ribelle trovò freno nella sua anima di religioso.
Con lui scompare l'ultimo custode di una tradizione; di una Napoli che ride nella scuola di Posillipo, che sogna negli acquerelli di Dalbono, e che si vela poi, di rimpianto e di malinconia nelle nostalgiche pennellate degli ultimi Maestri.
O Napoli, Napoli, divina città del nostro sconfinato amore e del nostro grande tormento, noi, oggi, ti evochiamo con voce di esuli, con cuore di superstiti, spezzato dal primo colpo di piccone!
È celebrazione o commemorazione questa? Non so. Ma al mio orecchio qualche singhiozzo arriva.
Chi è mai quel vecchio, mezzo impazzito, che urla e gesticola tra la folla? Fategli largo. È Eduardo Dalbono. E quei che gli sta dappresso, malinconico e sorridente? È Giovanni Capurro.
E chi è quel geniale monello che piange e ride ad un tempo, e fa vibrare le corde della sua chitarra? ... È Salvatore Gambardella.
Ma tu che più d'ogni altro singhiozzi sotto la maschera nera, chi sei tu?
– Sono Antonio Petito.
Ed ecco che Pulcinella, protendendo le braccia tremanti verso il marmo, grida:
– Maestro, era nostro il regno del pianto e del riso. Tutti e due parlavamo, con parole diverse, ad una medesima gente. Ma sul tetto delle nostre case è caduto il fulmine della civiltà!

FERDINANDO RUSSO

Il 29 gennaio 1928,
ad iniziativa del giornale «Il Mezzogiorno», diretto da Giovanni Preziosi, fu murata, tra il Molo ed il Castello, una lapide in memoria di Ferdinando Russo, e Libero Bovio pronunzia questa orazione.
Il popolo non ama che i suoi eroi ed i suoi poeti. Unisce, anzi, in un palpito solo eroi e poeti, e affida ad essi la sua anima e la sua storia.

V'è la poesia dell'eroismo, quella di Mameli, che santifica col sangue la sua strofe guerriera, e v'è l'eroismo della poesia: quello che noi compiamo ogni giorno, in silenzio, in solitudine, alle prese col bisogno a contatto con le più dure esigenze della vita, esposti alla offesa del più indegno e più vile, ma con l'anima sempre più pura e gli occhi rivolti verso il sole, con il cuore pieno di canti, con una infinita fede in Dio che ci vuol sofferenti perché ci vuole artisti, che ci vuol combattuti perché ci vuole vittoriosi, che ci vuol martoriati perché ci vuole degni.
L'arte, senza sofferenza, è menzogna. Nostro fedele compagno è il dolore, unico premio alla nostra fatica è la morte. Ce lo fabbrichiamo noi il nostro destino. Vogliamo essere così: violenti, ribelli, buoni, cattivi, miti, crudeli, ma fanciulli, eternamente fanciulli, sospesi tra la realtà ed il sogno, con un ideale di bellezza che ci brucia le vene e ci accompagna dalla culla alla tomba.
Piccolo esercito è il nostro. Ci crediamo soli, ma quando un condottiero cade, volgendoci indietro, troviamo tutto un popolo con noi.
***
E tutto un popolo è oggi raccolto dinanzi a questo marmo che noi salutiamo come un primo segno di giustizia. Vi sono uomini della vecchia e della nuova generazione, vi sono quelli che amarono e quelli che ameranno Ferdinando Russo. E v'è qualcosa di meglio e di più: v'è tutta l'anima napoletana oggi d'intorno a noi. V'è una voce, una invocazione, un singhiozzo che io sento nell'aria.
Non so dire donde venga: se dall'ultima catapecchia di Santa Lucia o dalla luminosa collina di Posillipo; se dalla «Grotta degli Spagari» o dagli alberati viali di Capodimonte; non so, ma tante voci io odo, che, unendosi, diventano d'un tratto pianto e canzone. Chi canta? Chi piange? È il luciano del Re o Luciella Catena? È il pezzente di San Gennaro o Petrosinella? Sono «piccoli borghesi» o è la gente di mala vita? È il soldato di Gaeta o è lo scugnizzo della Vicaria? È la «Regina degli otto giorni» o il Turco invasore? È Gano di Maganza o è la «chiorma» delle «sartolelle» con la frangetta e le vesti corte? Non so.
È tutto un popolo – dalla plebe al blasone – che con i nomi più teneri chiama oggi il suo cantore, il suo pittore, il suo poeta, quello che aprì e chiuse gli occhi alla luce con una parola che per lui fu passione, fu orgoglio, fu fede, fu dolore: Napoli! Napoli! Napoli!
***
QUI
TRA IL CASTELLO E IL MOLO
DOVE
L'ULTIMO CANTASTORIE
FAVOLEGGIÒ D'ARMI E D'AMORI
IL POPOLO RICORDA
FERDINANDO RUSSO
POETA PALADINO
DELL'ANIMA NAPOLETANA
Paladino e poeta dell'anima napoletana: cantore e difensore, pittore ed esaltatore. È vero. Non poteva dirsi meglio di così. Carlo Nazzaro, prima ancora dell'artefice insigne, l'ha scolpita lui nel marmo la figura del napoletano scomparso. Sì, vi è Ferdinando Russo in queste poche parole, ma vi è anche tutta una Napoli in tramonto della quale noi, cocciuti e malinconici superstiti, serbiamo religioso ricordo. E la nostra anima centenaria, tutta venata di nostalgie, ama riviverlo il passato, in tutta la sua bonaria semplicità, in tutta la sua ingenua tenerezza, in tutta la sua infinita poesia.
***
Bello, generoso, buono, iperbolico, paradossale, Ferdinando Russo, senza dubbio, è stata una delle più singolari figure dell'arte napoletana. Ha riempito di sé un ventennio di poesia. La sua napoletanità malandrina era aristocratizzata dal gesto guascone. Perdonare al nemico, difendere il debole, soccorrere il povero, maneggiare con eguale sapienza la penna e la spada, percuotere a sangue un eroe della camorra, offrire una rosa alla donna amata, carezzare un fanciullo lacero: erano questi i gesti che egli più amava. Il cuore gli brillava negli occhi, due specchi ustorei pieni del sorriso di Napoli e dei misteri d'Oriente.
Non somigliava a nessun altro. Talento dovizioso, egli non sapeva concedersi il lusso del controllo. Esuberante nella vita, esuberante nell'arte. Tornare sull'opera gli dava fastidio, amava passare oltre.
Da questa gioia del lavoro balza fuori una produzione ricca, colorita, varia che non tollera giudizii avventati, ma che oggi, per l'onore e la dignità dell'arte, chiede di essere discussa e valutata con rispetto, con ammirazione, con giustizia.
***
La sua giovinezza fu tutta una canzone. Non sapeva far versi senza amare, non sapeva amare senza scrivere poesie. Quando lo dissero tramontato, dette in risposta, un capolavoro: «'O luciano d' 'o Re», che forma quasi il testamento ideale del nostro grande Poeta. Il fasto dell'antica plebe vi è cantato con strofe lapidaria.
È il canto del Cigno. Santa Lucia è là, viva, luminosa, palpitante dinanzi ai nostri occhi.
V'è odore di alghe nelle strofe. Ascoltate.
Arbanno juorno dint' 'e vuzze a mmare,
ch'addore 'e scoglie e d'ostriche zucose!
Verive 'e bbancarelle 'e ll'ustricare
cu tutto 'o bbene 'e Dio, carreche e 'nfose!
E chelli tarantelle 'int' 'a staggione!
Femmene assai cchiù belle 'e chelle 'e mò!
Uocchie 'e velluto, vocche 'e passione
lazziette d'oro e perne, 'int' 'e cummò!
Nessun pittore ha mai raggiunto tanta potenza di espressione. Tutta la ricchezza del mare, tutte le voci del mare, tutta la vita di Santa Lucia è qui, in queste ottave fatte di esaltazione, di gioia, di lacrime, di rimpianto.
È figura eschilea quella del vecchio ostricaro dalle mani tumefatte e dai cerchietti alle orecchie; e chi la vede, la sente e la rende così, è poeta destinato a trionfare sul tempo, sugli uomini, sull'oblìo.
***
Ma è poliedrica la figura dello scomparso. Il suo talento non conosce ostacoli. L'autodidatta si impone ai dotti, e dimostra vittoriosamente che è viltà e stoltezza chiedere ai poeti titoli accademici o diplomi di scuola.
Critico e storico dell'arte paesana, batte in pieno con il «Gran Cortese» l'arido sapiente sordo ad ogni voce di umanità e di poesia: giornalista, sprigiona scintille di genio nelle piccole note di cronaca quotidiana; novellatore, crea la tragica storia delle due Madonne; romanziere, compone le cupe e dense pagine della Storia d'un ladro; canzoniere, crea tipi e macchiette quando non lancia un garofano rosso sul pentagramma sebezio con le immortali strofe di «Quanno tramonta 'o sole»; poeta, sente che gli è d'accanto un gigante e batte altra via, perché sa che soltanto così può degnamente unire il suo nome a quello del Maestro che ci indica la via e ci illumina il cammino.
Due grandi poeti ha avuto Napoli: uno dalla ispirazione universale, e questo lo affidiamo alla gloria dei secoli: l'altro dall'ampio respiro paesano, e per il secondo, in nome dell'arte, invochiamo riparazione e giustizia.
***
Smargiassa e smagliante la sua tavolozza, ricca di corde la sua chitarra. Tutto in lui era colore e suono. Con una sola pennellata il quadro balzava fuori vivo, fosco, cupo, sanguinante; con uno strappo di chitarra tutta Napoli si trasformava in una festa di sole.
Fu il napoletanissimo tra i napoletani.
Napoletano nella parlata, nel gesto, nell'atteggiamento, nel gusto, nelle virtù, nei difetti, nella immediata percezione delle cose, nella prodigiosa facoltà assimilatrice, nel saper cogliere il comico nel tragico, ed il tragico nel comico; napoletano nella simpatia che aveva per gli umili, nell'amore che aveva per gli artisti, nell'attaccamento che aveva per la sua terra, nella idolatria che aveva per sua Madre. La parola «mamma» che egli pronunciava con voce di fanciullo naufrago, gli riempiva sempre gli occhi di lacrime e il cuore di speranza.
Tutto egli sapeva di Napoli, e tutto ricordava ed amava. I più antichi caffè gli erano noti, le più pittoresche taverne, i vicoli a noi sconosciuti, i nomi e le gesta dei luciani, la vita e la storia dei pittori, dei giornalisti, degli uomini politici del suo tempo; gli amori di Adelina la fioraia ed i discorsi di Re Pappone; la gloria di Martino Cafiero e i trionfi di Michele Bozzo; i fasti del Principe di Corigliano e le coltellate di «Tore 'e Criscienzo»; gli sdegni di Rocco De Zerbi e le serenate di Teofilo Sperino. Bastava dargli lo spunto. Gli occhi gli si illuminavano e l'aneddoto, il ricordo, le date, i nomi, i luoghi, le persone diventavano nel suo racconto storia, arte, poesia.
L'aveva vissuta la sua arte, prima ancora di scriverla. Lo aveva conosciuto «Ciccio Cappuccio», aveva trascorso intere ore ad ascoltare la divina voce afona dello «Zingariello», aveva vissuto in comunione d'affetto con l'ultimo Cantastorie; reduce da San Carlo, con l'anima ancora piena dello straziante grido di De Lucia:
"La povera piccina è condannata!"
era entrato nella taverna tra lo stupore delle bagasce e dei «mammasantissimi», ed aveva bevuto nel boccale il vino rosso. L'aveva trascorse, attento osservatore, le sue notti sulla bisca del «Gragnaniello»; le aveva sentito cantare le canzoni di malavita sotto il Carcere di S. Francesco; la conosceva Napoli, la sentiva, la cantava con la spasimante gioia di chi ne intende tutta la incommensurabile bellezza.
***
Amava essere «cocò» tra i «cocò», nobile tra i nobili, artista tra gli artisti, malandrino tra i malandrini. Nella sua bocca fiorivano, con uguale grazia, il madrigale e la bestemmia. Quando la verità gli sembrava povera, ricorreva alla fantasia. Era, sopratutto, fantasioso come è l'anima del popolo. Un po' Rinaldo, un po' Don Chisciotte, un po' D'Artagnan, un po' «sciammerio», era un misto di greco e spagnuolo con bagliori d'Oriente. Spassoso, pittoresco, ardente, bizzarro, pieno di amori, di avventure, di chimere, galoppava, nel sogno, su di un focoso destriero, nel deserto, come gli antichi paladini, per battersi col nemico ignoto, per compiere miracolosi ardimenti. Ma dal sogno lo destava il primo suono delle zampogne di Natale.
***
Da tempo, intorno a Russo eran cominciati il vuoto e il silenzio. Egli ne soffriva, ma per nascondere la sua pena, fabbricava barzellette e freddure, sì che gli ascoltatori ingenui eran presi da allegro stupore. Povero Russo! – esclamava qualcuno – come è finito!
Il nottambulo impenitente non usciva più di casa, la sera. Andava a letto alle nove per levarsi all'alba. Abitava una casetta a Capodimonte: il cantore del mare di Santa Lucia voleva morire tra le foglie ingiallite, cantando, forse nel delirio, l'ultima canzone.
***
Era venuto a vedermi pochi giorni prima, su, nella mia stanzetta, al Museo. Si arrestò sulla soglia. Era Cirano ferito. Poi mi si accostò lentamente e disse: Volete regalarmi un poco di sole? E si abbandonò nella poltrona presso il mio tavolo.
Aveva poche freddure da dirmi, e me le disse d'un sol fiato. Poi tacque. Socchiuse gli occhi come in un assopimento. Le note della marcia funebre lo destarono bruscamente. Si levò d'un tratto, spalancò la finestra, e guardò a lungo nella via. Il suo occhio si fermò su qualche foglia morta che ancora cadeva dagli alberi ed egli ripetette lentamente, a fior di labbra, con un sorriso stranissimo che non gli somigliava, i melanconici versi del Cadetto di Guascogna:
E malgrado il terrore d'imputridire al suolo
vuol che nella caduta sia la grazia di un volo.
E rise a lungo, senza voglia, con rabbia. Poi ricadde sulla sedia e prese a parlare in fretta, con una strana confusione di idee, di uomini, di ricordi, di cose. Lo ascoltavo in silenzio, turbato, ma non volevo interrompere il suo discorso. Eran penose le cose ch'egli diceva, intermezzandole con freddure e risate.
«Il destino non deve beffarsi di me: io mi beffo di lui». Levò in alto il pugno e lo fece ricadere pesantemente sul mio tavolo.
***
E mi parlò di mammà sua, di Scarfoglio, che egli adorava, di Di Giacomo, di poesia, di teatro, di antiche strade di Napoli, di gente scomparsa. Parlava veloce per tema che qualche nome, qualche ricordo potessero sfuggirgli. Ad un tratto si interruppe per dirmi: «Non è vero che io non abbia mai avuto figliuoli: ne ho avuta una, aveva ottant'anni, ed è morta da poco. Che rimane da fare ad un padre che ha perduto l'unica figliuola? Seguirla. Ed io mi preparo tranquillamente a questo viaggio. Sono un morto in aspettativa a cui lo Stato, per sua bontà, corrisponde l'intero stipendio».
Scendemmo insieme. Mi lasciò dinanzi alla libreria Pierro, per entrare nel piccolo negozio, nel quale in una notte sola scrisse quel capolavoro che si intitola 'Nparaviso.
***
Lo rivedo. Egli torna... mi tende le braccia. Oggi è più bello! Silenzio. Parla. Odo la sua voce. Chiama a nome i suoi fedeli: «Murolo, Nazzaro, Postiglione, Ruocco, Prota, Schettini», vi ho tanto amati io: e di tanto conforto voi mi siete stati negli ultimi anni della mia vita!
«Salutatemi Salvatore, ditegli che gli ho voluto tanto bene, tanto, tanto; ditegli che stia sano. Onoratelo e stategli accanto con religione, perché egli è l'ultima grande luce del mio paese; ditegli che la sera, quassù, quando tutti dormono, io leggo i suoi versi alla Madonna dei Mandarini, e gli angeli ascoltano con le boccucce aperte e gli occhi lucenti di lacrime!...
«Salutatemi Napoli, e dite alla mia gente che nelle notti in cui non riposo, mia madre «che indovina la mia smania e conosce la mia pena», mi carezza i capelli, mi culla fra le sue braccia, come quando ero bambino, e mi dice con la sua voce di Santa: «Dormi, Ferdinando, figlio mio bello, dormi a mamma tua, ché Napoli ti ricorda, Napoli ti pensa, Napoli ti vuole bene!».

POESIA DI RUSSO

Si respira, oggi. Una grande ventata di poesia vien dalle onde più odorose del Tirreno, e riempie di sé tutta l'aria. Se tanta letizia è, oggi, in noi, trema ancora, dunque, qualche foglia verde sull'albero dei nostri sogni? Il nostro cuore, dunque, riesce ancora ad accogliere qualche voce di Poesia?
Ho qui, sul mio tavolo di lavoro, il volume completo delle «Poesie» di Ferdinando Russo.
Stanotte, quando tutto era silenzio in casa mia, molte di queste pagine ho riletto a voce alta, nella illusione di destare un mondo che ho amato, una umanità che è scomparsa, una storia che è divenuta poesia.
Ho riletto, con rinnovata commozione, le pagine di Carlo Nazzaro, e la sua bella prosa, sempre profumata di napoletanità e di rimpianto, mi è parsa la nostalgica voce di una generazione che, sospesa sempre tra il sogno e la realtà, ha vissuto di amori e di rinunzie. Sono così definitive queste poche pagine di Carlo Nazzaro, che io non so quasi muovere accusa a quelli che, con invidiabile disinvoltura, attinsero alla buona fonte. Non vorrei nemmeno lodarle: la lode potrebbe velarne la austera bellezza.
Volume completo, questo, di cinquecento e più pagine, che la «Tirrena» con giovanile ardimento lancia sul mercato editoriale.
In esso è raccolto con sapienza non velata dall'amore, quanto di più vivo e vitale è nell'opera del Poeta scomparso. E Ferdinando Russo rivive tutto intero in questa raccolta che affida il suo nome al ricordo delle generazioni a venire.
Mezzo secolo di vita napoletana palpita in queste pagine nelle quali ritroviamo personaggi, luoghi e cose a noi care: fondaci tenebrosi e balconcelli in fiore, vicoli foschi e marine lucenti di sole, bettole cruente e voli di angioli, l'ostricaro borbonico dalle mani gonfie e tumefatte e la Madonna dai Mandarini; Nannina Schiano, odorosa di musco e Pascalino 'e Bello, torvo e minaccioso; il pescatore di Santa Lucia devoto alla sua Madonna e il mariuolo di scippo dagli occhietti rapaci; il pezzente di San Gennaro che brontola e rimpiange e Luciella Catena che ama e ferisce; il guappo che canta sotto San Francesco e le mezze signore senza pane e senza grammatica; Stella in attesa del Turco che sbarca all'alba e la Regina degli otto giorni lacera e spodestata; il cittadino di Acerra che «abbocca 'a cafettera a Culumbrina» e il vecchio cantastorie che «favoleggia d'armi e d'amori»; e vi ritroviamo le inimitabili «macchiette» che ridono e piangono ad un tempo istesso, e le canzoni che passano come un raggio di sole su tutta questa umanità accoltellatrice e pezzente, della quale il poeta coglie e rende, come nessun altro, tutto il buffo e tragico pittoresco.
***
È bene che questa umanità sia oggi scomparsa, ma è anche meglio che sia esistita. La Napoli di oggi è superbamente bella, ma quella di ieri era adorabilmente pittoresca. Non possiamo amarle di pari amore queste due Napoli? Non si può adorare una culla senza offendere una bara? Non è forse dal rassegnato dolore della vecchia città, tutta fondaci e tuguri, che è sorta la nuova? Perché i nostri occhi dovrebbero oggi fermarsi con tenerezza sul marinaretto della «Nave Caracciolo» se questi, ieri, non si fosse chiamato Pichillo, caprioleggiante scugnizzo di Toledo notturna?
No, non levate voci di spregio contro un mondo scomparso: forse tra i fanti tornati con le pupille spente non cercherete invano l'ultimo genito di Gennarino Sbisà, coppola rossa!
***
Leggo e rileggo. Il quadro mi avvince, ma la parlata mi incanta. Nessun dialetto fu mai più succoso di questo. Ogni parola è definitiva e ogni personaggio parla diverso dall'altro: son mille voci che si fondono in una voce sola: quella della plebe scomparsa, che cacciata dal «fondaco», trova oggi asilo nel libro di un poeta che l'amò misera e beffarda, generosa e digiuna.
Poesia viva ed ardente, smargiassa e fantasiosa, intollerante di ogni controllo, sdegnosa di ogni virtuosismo tecnico, ribelle ad ogni grazia formale; poesia senza mezze tinte, ma grande poesia, della quale soltanto oggi che quel mondo, mezzo saraceno e mezzo spagnuolo, è scomparso, possiamo intendere tutta la infinita bellezza.
Il tempo ha creato intorno a questo mondo poetico quel che in origine forse mancava: il velo della malinconia; ed in questo velo l'ha avvolta per tramandarla al commosso ricordo di quelli che verranno dopo di noi.
Divenuti fantasmi, questi personaggi della vecchia Napoli recano ora in sé non so qual profumo di antica grazia che ce li rende infinitamente più cari: forse perché del tristo vicolo scomparso oggi noi non ricordiamo che il balconcello in fiore ove «una mamma tesse e una sorella canta una canzone». Quella umanità lacera, cupa, buffonesca, scapigliata, urlante, se nel suo tempo ci appare, talvolta, aspra e crudele pittura, ora ritorna a noi, ingentilita e placata, sotto la materna ala della Poesia.
***
Ma non riusciamo a dissociare l'amore per l'opera dal ricordo dell'Uomo, bello e generoso come la sua arte, spavaldo come le sue ottave, ardente come i suoi canti di amore, ribelle come la sua poesia. Gli artisti lo amavano, il popolo lo adorava. Era, sopratutto, simpatico Ferdinando Russo: simpatia che egli comunicava alle sue creature. Un giorno, una vecchia luciana, avendolo sorpreso in contemplazione del mare con i grandi occhi velati di sogno, gli si fermò incantata dinanzi, esclamando: «Quanto sì bello, gioia 'e mamma!». Il poeta le carezzò i capelli, come avrebbe fatto con sua madre, e si allontanò, col suo passo lento, in quel vespro di autunno, lungo la via del mare.
***
Da lui c'era da aspettarsi il colpo di spada del paladino, non la pugnalata del sicario. Era la generazione dei bei gesti, la sua: lo sdegno si spegneva nel sorriso, l'ira si placava nel perdono. Ah, sì, era quello il tempo in cui «si intrecciavano ad ogni angolo di strada amori e duelli!». Ma con quanta nobiltà la spada feriva e con quanta dolcezza l'amore cantava!
Viviamo tutti un po' di rimpianti, è vero, ma il rimpianto è l'aroma della nostra poesia, che, disconosciuta, a volte, in patria, mette vela per le terre lontane.
Da ogni grande città pulsante di vita, da ogni paesello sepolto a piè di una montagna, arrivano parole di passione per l'opera di Ferdinando Russo: gli esuli chiedono il suo libro come un lembo della patria perduta e il desiderio diventa spasimo in quelli che vivono nei paesi senza mare!
***
Morì più di dolore che di malattia. Per venti anni intorno a lui si erano fatti il vuoto e il silenzio. Russo, ora, farneticava, solo, dinanzi ai tavolini di caffè. E moriva. Moriva un poco ogni giorno, chiuso nella sua pena, geloso del suo tormento, senza rancori, senza pianto: moriva perdonando, così come aveva vissuto.
***
È giornata di giustizia oggi. La campana della «Madonna della Catena» suona a festa ed il più vecchio dei barcaiuoli agita le mani tremanti in segno di gioia.
«Napule ride 'int' a na luce 'e sole».
Il Poeta di Santa Lucia passa alla immortalità.

ADDIO
 A SALVATORE DI GIACOMO

Da tre giorni Marechiaro è in tempesta. L'urlo delle onde ferite mette brividi nelle vene e sulla finestra di Carolina s'è appassito il garofano schiavone. Gli uomini del mare sono silenziosi e cupi, e lo «Zingariello» curvo e ottantenne, torna a casa, solo, sull'imbrunire, ma non reca sotto il braccio la fedele chitarra.
A Posillipo non si canta, ma un lontano pianto di mandolini è nell'aria. I rami degli alberi che si abbandonano a mare par che rinunzino a rinverdire, lasciando cadere sull'arena le piccole foglie nuove che una sola ventata spazza via.
Ora è notte alta: passano due ombre sgomente: Gemito e Dalbono.
Chi è mai scomparso?
Una povera vecchia signora, tutta rughe, avvolta in una mantellina del secolo scorso, ieri, al passaggio della bara di Salvatore di Giacomo, non disse che queste parole: «Se ne va il Poeta del mio primo amore!...».
Era, dunque, un mondo che, d'un tratto, crollava con la scomparsa di un uomo che n'era stato l'artefice massimo, ed ora n'era il più geloso custode. Era una umanità che volgeva al tramonto: era la poesia che passava alla storia.
Non si affannino i critici a sezionare con i loro bisturi sapienti i divini canti sbocciati dalla fantasia del nostro adorato «don Salvatore» – amiamo ancora chiamarlo così: «don Salvatore» – ma lascino che, una volta tanto, parli il popolo che è il solo giudice dei suoi poeti.
Non vogliamo sapere come è fatta e di che è fatta questa poesia: l'indagine o la scoperta ci lasciano indifferenti. Vogliamo, invece, rileggerla, cantarla, custodirla nel sacrario del nostro cuore, ripeterla a nostra Madre, sospirarla alla donna del nostro amore, affidarla alla commossa gioia dei nostri figli, ma non tolleriamo che nessuno osi svelarcene il mistero, che è il velo verginale della Poesia. E tutta velata di mistero fu l'arte di Di Giacomo; di pudore e di mistero. Ecco, leggete. Amo trascrivere per intero questa sua pena d'amore.
«Comme va, comme va
ca doppo tant'ammore
ce putimmo lassà?
Ah, che core, che core
ca tenimmo, Marì!
E c' 'o tenimmo a ffa?
Comme va?.. Comme va?...
E comme, comme va
ca sta vocca, sta voce
nun me pozzo scurdà?
E st'uocchie? Accussì ddoce!
Dimme, dimme, Marì,
che smania che sarrà?...
Comme va?... Comme va?...
Ah, Maria! Comme va
ca 'e ffemmene, ca 'o ssanno;
ce vanno afforza fa'
'o mmale ca ce fanno?
E pecché nuie, pecche
ce 'o vvulimmo fa' fa'?
C'omme va?... Comme va?...
Parole semplici, povere, quasi, le più umili che un poeta abbia mai scritto, ma forse, appunto per questo, le più universali. Palpita, in queste incantevoli terzine, il cuore di tutti gli amanti: trema e piange in esse il divino mistero d'amore.
***
Vita grigia, tormentosa, monotona, fu quella di Salvatore di Giacomo: giovinezza senza gioie, senza avventure, senza sorrisi; maturità penosa e scontenta; vecchiezza gloriosa ma stanca e malata. Molti rivendicano a sé la scoperta di questo immenso Poeta. Noi pensiamo che sia stato un dono di Dio fatto alla città del Sole.
Eccolo lì, Don Salvatore, ventenne, magro, malaticcio, curvo sul tavolo del tipografo Giannini. È un povero impiegato a trenta lire al mese, e porta i conti, e corregge le bozze di stampa. Ma la sera, va, solo, per la via del mare, e canta. Poi, entra in un giornale, scrive la prima canzone, e poi un sonetto, e poi una lirica d'amore. Crea, senza accorgersene, il più dolce dei dialetti, una nuova lingua, quasi, che è musica e pittura al tempo istesso. Ma è sempre solitario, taciturno e schivo d'onori. La lode lo turba, l'ingiuria lo sdegna: e forse alle due cose dà lo stesso valore. Quando il suo nome ha già passato i confini della Patria, don Salvatore non è che il bibliotecario della Lucchesi Palli; segue l'orario d'ufficio, scrive di suo pugno, con nitida e aggraziata scrittura, le schede; talvolta porge egli stesso i libri agli studiosi, ma è taciturno sempre e non sorride mai. Spesso ama ripetere: «Anche Maupassant era impiegato, sapete».
Lo ricordiamo quarantenne. Non parlava mai di poesia: temeva che le parole ne sciupassero il profumo. Massiccio e niveo, pallido e silenzioso, scontento e malinconico, non traeva conforto che dalla solitudine. Era scontroso come un fanciullo, pudico come una vergine, puro come un santo. I piccoli difetti dell'uomo erano le più incantevoli virtù dell'artista. Amava poco ed era amato molto. Talvolta ci allontanavamo da lui per essergli più vicino. Per adorarlo ci bastava riaprire il suo libro.
St'ortenzie ca tenite 'int' a sta testa
che ll'adacquate a fa'? Nun ll'adacquate;
levatennelle 'a for' a sta fenesta,
nun 'o bedite ca se so' seccate
st'ortenzie ca tenite 'int' a sta testa?
La malinconia fu l'amante ignota – l'unica amante, forse; la più riamata, certo – che lo condusse a mano per le vie del silenzio, che gli vegliò d'accanto nelle notti insonni, che gli tremò negli occhi, che gli sospirò nell'orecchio le centocinquanta pagine di «Ariette e Sunette», che sono il nostro più sacro breviario d'amore. Ricordate?
Luntana stai... Natale sta venenno:
che bellu friddo, che belle ghiurnate!..
Friddo a 'o paese tuio ne sta facenno?
Pe' Natale ve site priparate?
Luntana stai... Natale sta venenno:
che bellu friddo, che belle ghiurnate!..
Friddo a 'o paese tuio ne sta facenno?
Pe' Natale ve site priparate?
Luntana staie... No... siente... nun è overo,
t'aggio ditta 'a buscia... Chiove a zeffunno;
me se stregneno 'o core e lu penziero...
nun ce vurria sta' cchiù ncopp' a stu munno!
Nun ce vurria sta' cchiù sulo penzanno
ca fa tant'acqua e nun te sto vicino...
Pe' nascere e murì na vota l'anno,
che brutto tiempo sceglie stu Bammino!..
V'è un verso in questa Lettera malinconeca che non sappiamo ripetere senza che un nodo ci stringa la gola:
ca fa tant'acqua e nun te sto vicino!
È in queste divine pagine appunto che «nu pianefforte 'e notte sona luntanamente»; e l'ubriaco, nella notte di Pasqua, domanda perché vi sia tanta luce di candele nella camera di Angelica: – Nè, guardapò, scusateme, Angelica è spusata? – Ched'è? Meza 'nzerrata nun vide 'a porta? – E bonanotte! – È in queste poche pagine che Nummero vintuno, l'umile benefattore di tutti, muore nella corsia dell'ospedale, chiedendo un sorso d'acqua, mentre «'o sole bello, 'o sole d'oro» sferza il volto dei due ciechi di Caravaggio. È in «Ariette e Sunette » che Zi' Munacella compie il suo sacrificio per salvare l'amante infedele, nella istessa ora, forse, in cui la mamma culla il suo nato con le più commoventi parole della poesia:
Duorme: 'a cónnola è de raso,
'e vammace e stu cuscino;
te vulesse dà nu vaso,
figlio mio, gentile e fino!...
Ma c' 'o suonno sta parlanno
zitto zitto sta vucchella,
st'uocchie tuoie giù nchiuse stanno...
Nonna, nonna, nunnarella...
E... nonna, nonna...
Pecché chiagne? Fosse stato
ca, pe' bia d' 'o suonno 'nzisto,
Chi t'ha fatto... e... m'ha lassato...
tu, durmenno... avisse visto?
Che incanto! Sì, è voce d'umanità, questa, ma al tempo stesso, è voce di paradiso. È lacrima, è pittura, è musica! È grande alata di Poesia, dinanzi alla quale si rimane turbato, sgomento.
***
Artista squisito e possente, Salvatore Di Giacomo, passa anche lui, come è stato detto, con felice immagine di Victor Hugo, dal terribile al tenue, dall'orrido al comico, con sorprendente sicurezza, con meravigliosa disinvoltura, con questa differenza, però: nel grande romantico, questi bruschi passaggi, sono assai spesso, voluti; nel Di Giacomo, spontanei, involontari come quelli che derivano da un succedersi rapido di stati d'animo irresistibili.
Era il più imitabile ed il più inimitabile dei poeti italiani. Imitabilissimo nella forma, inimitabile nella sostanza. La forma era semplice, piana, scarna, metastasiana, talvolta; il contenuto era tutto essenza, tutto anima, tutto profumo, sempre. Ecco perché per i suoi imitatori non vi è posto nella storia della letteratura dialettale. Di Giacomo era una forza della natura, i digiacomiani sono un fastidioso pleonasmo nella vita dell'arte. Il suo è posto che rimane vuoto perché il genio non tollera successioni.
Gli eroi del teatro si levano, oggi, d'un tratto per vegliarne la tomba. Non mettono tristezza i cipressi, perché sui loro rami cantano gli uccelli. Tutta l'aria è profumata di rose. Che folla di fantasmi, illuminati dal sole di Aprile! Eccoli: Carmela Battimelli reca tra le mani la sfogliatella che «s'è fatta fredda»; Giovanni Accietto, cupo ed accigliato, stringe nel pugno la lama omicida; Raffaele Trabello apre la porta perché Silvia rientri; Assunta sfregiata nel volto e nell'anima, salva, accusandosi, Michele Boccadifuoco; Vito Amante e Cristina la Capuana ancor si rivolgono allo stesso Cristo: l'uno fa voto di togliere una donna dal peccato, e l'altra lancia, con le braccia protese, la sua spasimante invettiva: «Gesù Cristo mio, io me vulevo salvà: tu non he vuluto!».
«Poeta – essi gridano – Tu ci hai impastati con creta greca e sangue napoletano, e noi viviamo in eterno. Sul nostro dolore, sul nostro coltello, sulla nostra vergogna, sul nostro schianto, si è fermata la tua mano purificatrice, e sentiamo di poter vivere degnamente accanto alle care sante creature del tuo lirismo».
La piccola suora di «Mese Mariano», cade in ginocchio, e, pallida e benedicente, depone una rosa sul marmo sepolcrale.
***
Addio, don Salvatore! Addio, Poeta di Napoli! La morte, liberandoti da ogni altra scoria, ti riconsegna intatto – lirico immenso – alla grande anima del Popolo.


IL MAESTRO RITORNA

Nel primo anniversario della morte del Poeta.

Quando tutto d'intorno è silenzio, e sulla città gaia scende, sospirosa e lenta, l'ombra della malinconia, Tu, pallido e taciturno, ritorni. Tutte le sere ritorni. Noi ti sentiamo: cammini solo lungo la via del mare. Solo come sempre. Il riposo ti ha spianato le rughe, ed ora nei tuoi occhi è uno strano sorriso che non ti conoscevo.
Tendi l'orecchio: le voci d'amore che vengono dall'alto delle colline, dalle barche a mare, dai balconcelli in fiore, sono tue. Le pietre della città son di noi tutti; l'anima è tua: gliela hai data tu.
E per Te noi non chiediamo nè marmi, nè bronzi, nè cerimonie solenni. Nulla chiediamo per te. Alla tua gloria basta il garofano sulla finestra di Carolina. Napoli, dimenticando te, dimenticherebbe se stessa. Tu non sei il grande Poeta di un libro: Tu sei la Poesia di un popolo.

DON GIOVANNI CAPURRO

...Che brutta cosa ch'è a tirà 'a carretta

quanno nisciuna mano votta 'a rota!”

Tutto un popolo avrei voluto, ieri, d'intorno a quella bara: l'araba gente di Santa Lucia, e quella fantasiosa di Posillipo, e quella ribelle del Mercato, e quella pittoresca di Porto, e quella laboriosa di Borgo Loreto, e quella immensa e tumultuosa di Vicaria; e avrei voluto scorgere, nascosta nella folla, l'ombra di Francesco Mastriani, colui che precedette il prodigioso popolano dalla anima canora nella più gloriosa delle povertà; e tutti gli eroi del piccolo teatro di Piazza Castello avrei voluto veder, ieri, raccolti intorno al poeta scomparso, – e tutte le popolane ricche d'oro e di crespi; e tutte le «nenne» dagli occhi di velluto, e tutti i «masti» delle «arretenate» e tutti i malandrini malati d'amore; e innanzi a tutto questo popolo – creta greca sotto vernice spagnola – avrei voluto veder la plebe misera ed allegra, della quale Giovanni Capurro fu il pittoresco Cantore.
Ma il popolo era assente. Ne ignorava, forse, la morte come ne ignorò la vita, il nome, la tristezza, la povertà. Appunto per questo egli fu la più schietta espressione dell'anima napoletana; perché la sua arte giunse come una gran voce anonima al popolo, che in questo poeta ritrovava sé stesso e non riusciva a materializzarne la forma.
Questo poeta fu noto agli artisti, e questa notorietà, che era nel medesimo tempo amore ed ammirazione, rappresentò sempre il suo unico e grande orgoglio: allo snobismo intellettuale del nostro paese, che s'interessa meno alle cose dell'arte che all'ultimo ballo di moda, egli fu sempre estraneo.
E tale doveva essere. Lo rivedo camminar lento, con l'aria trasognata – le mani congiunte dietro la schiena ed il sigaro fra le labbra, – per le vie che egli tanto amava. Non ha meta il suo cammino. Va. Napoli è tutta sole. Ogni cosa d'intorno ha un suono, una nota, una voce. Tutto è musica, anche il sogno è musica.
Ed il poeta dall'anima vagabonda contempla, ascolta, vede, sente e va. E la sua chitarra canta per tutti e per nessuno; e quando ei crede che la sua musa rida, non s'accorge che ella piange, di un pianto mite, dolce, rassegnato, che ignora ogni istinto di protesta. È il pianto delle cose che egli esprime: sia l'Autunno che disperde le foglie ingiallite; sia il piccolo cieco che non riesce a trovare il volto della madre; sia una mano tremante che sventola un fazzoletto verso un «bastimento» che si allontana; sia un popolano filosofo che nei fumi del vino risolve il problema dell'eguaglianza sociale.
***
Tutti son più noti di lui, tutti son più ricchi di lui, anche i più poveri, ma egli non si duole. Sorride, fuma e lavora. Le notti ch'ei trascorre sui tavoli del vecchio «Roma» cominciano a dargli pena, ma egli volge d'intorno gli occhi ingenui e buoni, ma non si lagna. Continua a redigere note di cronaca, e sui margini delle bozze, nei brevi intervalli, disegna pupazzetti o scrive versi.
Non v'è sabato che non si rechi ad una suaré. È un «numero» divertente don Giovanni: canta, suona, «raglia», «abbaia», «miagola», «nitrisce»: imita il rumore della sega del falegname; «dà» le voci dei venditori, fa la «sparata» del «pazzariello»: è l'anima, insomma, della piccola e buffa società di quelle «meze cazette» le quali ignorano che quel personaggio spassoso e scalcagnato che provoca la loro irrefrenabile ilarità, è un grande poeta di Napoli.
All'alba, solo, stanco, pallido, si trascina su, per la salita dell'Infrascata, recando in mano un cartoccio di dolci. Qualche volta, nascosto tra i dolci, vi è un po' di frutta e qualche panino!
Bianchinella, sua figlia, avvolta nello scialletto rosso, lo aspetta al balcone.
***
Non gli ricordate la sua povertà; lo ridestereste da un sogno che riveste di arazzi le pareti squallide della sua casa. Non compiangetene l'esistenza nella giacca trasandata in cui trascina la sua persona stanca. Perché egli è povero, e alla sua esistenza quotidiana tutto è superfluo quando la sua musa gli canta dentro e gli sorridono gli occhi della sua piccina.
Egli fu quello che voleva essere: fu simile a quei rapsodi dell'antichità che non comparivano mai.
Della vita amò rendere, nel più puro dei dialetti, le umili vicende di ogni giorno, le piccole tristezze ignote, la fame sorridente, la miseria beffarda, intuendo, per il suo prodigioso istinto, che la poesia è dappertutto, quando gli occhi del poeta sappiano vedere, ed il cuore dell'artista sappia trovare un palpito umano. E umana fu, sopra tutto, l'arte di Giovanni Capurro morto povero, malato, in una soffitta, conosciuto da pochi, abbandonato da tutti.
***
A pie della sua croce veglia un vecchio dalla testa leonina, il quale par che dica: Dormi tranquillo, Capurro: io veglio sulla tua gloria.
E quel vecchio si chiama Carducci.1

ROCCO GALDIERI

IMPRESSIONE

A pie del lettuccio sul quale giace, inerte, il misero corpo martoriato di Rambaldo2, Rocco Galdieri piange.
Si somigliavano come due gocce di acqua, e si amavano come due fratelli.
Rambaldo era disposto sempre a qualunque sacrificio per Rocco Galdieri, del quale egli intendeva ed amava la bella e grande anima di poeta. E la più squallida miseria avrebbe battuto alla porta di casa Galdieri se Rambaldo non avesse ogni giorno, attraverso ogni più dura e amara fatica, soccorso questo suo nobile fratello maggiore.
Povero Rocco! V'è amarezza nei suoi versi, ma egli non è il Poeta della morte: egli canta la vita. L'ama con dolore, perché sa di doverla lasciare, e non invoca la fine, no! – scherza ed irride alla morte per farsi coraggio, perché ha tanta paura di morire!
È qui, in questi pochi versi, tutto lo sghignazzante spasimo e la beffarda angoscia del Poeta:
Oi Morte, Morte! E sì turnata ancora,
vicino a' porta mia nu mese fa.
I' te sentette ma sbagliaste l'ora
pecché chell'ora ancora ha da sunà!
Tu m'he signato, m'he pigliato 'e mira,
tanto t'è cara chesta pella a te!
E comme a na palomma avota e gira,
i' te veco ca gire attuorno a me!
Ma mò all'aria, ncopp' a na muntagna,
'e faccia a mare, sott' 'o cielo blù...
dint' a stu casaruoppolo 'e campagna
addò 'a strata nun 'ngarre manco tu!
Nun ce stà tramme! 'O pizzo è sulitario,
'a carruzzella nun ce pò saglì...
E pe' chesto, si chiammo nu primario,
isso nun vene, e tu... nun puo' veni'!
È sorriso che mette i brividi, non è vero? E l'amaro «scherzo» si conchiude con due versi che dànno una stretta al cuore:
E cu tutto ca sto buono scellato,
i' piglio 'a penna e torno a faticà!
Galdieri, quando l'arancio è in fiore, discorre con le stelle nella piccola villa di San Giorgio a Cremano, mentre Rambaldo, piccolo, giallo, asmatico, curvo, va, viene, scrive, si agita, improvvisa versi, canzoni, riviste, articoli umoristici, audizioni settembrine; è alle prese col tipografo, con l'impresario, con il comico; grida, combatte, litiga, fino a ridursi un povero cencio senza vita.
Quando, poi, le prime foglie cadono – l'autunno batte le ali – ed egli, dopo la sua estenuante giornata di fatica, rientra, la sera, nella piccola casa di via Foria, così prossima al cimitero, non ha più la forza di muoversi. E cade, esanime, sul lettuccio, in capo al quale è un piccolo Cristo. Ma gli occhi gli ridono. Con la sua fatica, con il suo martirio egli potrà soccorrere Galdieri il quale deve ignorare la via crucis di Rambaldo.
L'autore delle più concettose riviste tutto sacrifica al poeta di un libro che assicura a Rocco Galdieri lunga e gloriosa vita nella storia dell'arte napoletana.
Rambaldo ha la tosse, ha la febbre, ma lavora, ma scrive. Atto primo... scena prima. E la morte è in agguato; spia, entra, gli è vicina. Ed egli la guarda in faccia e scrive. La morte siede accanto al suo letto, gli tien compagnia, ed egli scrive, e talvolta, scherza con l'ombra nera che gli siede dappresso.
«Ancora un giorno, abbi pazienza, e poi ce ne andremo. Anche oggi lavoro per Galdieri. Per lui lavoro. Noi domani all'alba ce ne andremo. Che io muoia non importa. Il mio sogno è uno: voglio che Galdieri viva. E voglio che egli non sappia mai quali sacrifici ho compiuti per lui. Se ne dorrebbe e preferirebbe morir di fame per non vedermi più soffrire».

Ora Rambaldo dorme sul letto di morte. È sereno. Sa che Galdieri gli veglia vicino. Sa che Galdieri è vivo, oggi, forse, come mai, sa che oggi, con la sua morte, comincia la vera vita di Galdieri.

ELVIRA DONNARUMMA

SORRIDENTE MALINCONIA 
DI ELVIRA

Non era bella Elvira; tutt'altro; ma che luce, che luce era nei suoi piccoli occhi luminosi, irrequieti e ridenti, che le scintillavano sotto la fronte ricciuta!
Possedeva una irresistibile arma di conquista: la simpatia. Motteggiatrice e caustica, spassosa e fremente, orgogliosa e ribelle, controllava con l'intelligenza prodigiosa il divino e pericoloso dono dell'istinto. S'era creata una voce, una piccola cultura, una bizzarra bellezza.
Era ostinata e tenace. Nata di umile gente, non volle rassegnarsi al destino: tutta l'anima le cantava nel piccolo corpo infermo, ed ella volle essere la Cantatrice di Napoli.
Prima di lei, Emilia Persico, alla quale Elvira contese e strappò il piccolo ramo di lauro; dopo di lei, una gloria di nostalgie e di ricordi. Nient'altro.
***
Soltanto Gambardella, il musico istintivo che creava le canzoni sulla chitarra, seppe rendere, prima di lei, la sorridente malinconia della città dove ogni alba è venata di tramonto, e ogni tramonto ha un chiarore di alba.
Gli è che qui, da noi, pianto e sorriso si confondono nell'aria, e diventano quadro e canzone. Negli occhi di tutte le sirene piange un verso di Di Giacomo e ride una pennellata di Dalbono.
Arte tutta fantasia e malizia, quella di Donnarumma. Inimitabile. Piccola grande arte che oggi è commosso ricordo; fra dieci anni sarà quasi leggenda. Quando il volto e la voce di Elvira diventano cupi come una tela di Migliaro, è lì Eleonora Duse, nascosta nel fondo del palco, con le pupille dilatate che trattiene il respiro; quando il volto e la voce le ridono come una marina dei Maestri di Posillipo, Dina Galli agita le mani, e lancia una rosa sulla piccola ribalta.
***
Infanzia squallida. Poca scuola: un paio di classi elementari, qualche libro avuto in dono da una pietosa signora, nessuna carezza, e una grande malinconia negli occhi sgomenti. Adorava le rose e il sole: non aspettava che la primavera. E allora cantava. Cantava sola sola con la testina nascosta fra i ferri del balconcello fiorito, e con gli occhi illuminati da uno strano desiderio, da una vaga speranza che le colorava per poco il volto gialliccio.
La piccola è gracile, malata, ha bisogno di cure, ma suo padre, don Alfonso, sarto ed attore al tempo stesso, se la trascina dietro, ogni sera, per i teatrucoli, ove egli recita senza successo. È aspro e violento questo piccolo uomo dagli occhietti orlati di rosso e dagli enormi baffi spioventi, ed Elvira lo teme, perché le mani del sarto senza clienti e del Pulcinella senza sorriso, sono pesanti ed ossute.
Elvira si incanta dinanzi ai cestini di ciliegie primaticcia, ma don Alfonso la tira pel braccio, gridando con la sua voce di femmina: – Costano un soldo, e tu un soldo non ci vali, per quanto è vero Iddio!
La prima canzone che Elvira canta, all'età di nove anni, in un teatrucolo di Mergellina è appunto «'E ccerase», un'incantevole nenia di Di Giacomo e Valente.
Scoperto il piccolo tesoro, don Alfonso, non si arrende. «È spuntato il sole per la casa mia!». E da allora – siamo ai principi del '92 – Elvira passa di casotto in casotto, di teatrucolo in teatrucolo, senza sosta, senza riposo, con «paghe» irrisorie, malaticcia sempre, ma con una strana ebbrezza, ora, che le dà gioia e tristezza, che le turba il sonno, che le brucia le vene, che le illumina il cuore. Ella si sente arbitra del suo destino.
***
La piccola ribalta dell'Eden – culla, in quel tempo, della canzone – l'accoglie giovanetta. Ella è già la trionfatrice. Il suo nome corre di bocca in bocca, la sua popolarità è immensa. Lo sguardo cupo e minaccioso delle rivali non le fa paura: la lotta le dà la gioia.
A difesa del suo corpo fragile e malato, è la sua piccola anima borghese. Ella passa sul bizzarro mondo canzonettistico, infido e divertente, spassoso e amorale, buffo e tragico al tempo stesso, come la salamandra. «Donnarumma è onesta».
Il suo primo amore non ha fortuna: il giovane musicista Alberto Montagna muore di gelosia e di tisi. Poche lagrime, un giorno di tristezza, e la vita riprende il suo corso. Elvira è nata per cantare: la sua è una sensibilità essenzialmente artistica, e se una grande pena d'amore le dà un nuovo singhiozzo alla voce e si trasforma in fantasma d'arte, ella sente l'ebbrezza del pianto. E piange cantando.
***
Ama e detesta Pasquariello. E Pasquariello l'ama e la detesta. La canzone li unisce e li divide. Avrebbero trascorso una esistenza insieme se nelle tipografie non esistessero i caratteri più grandi e più piccoli.
Ma che caro, dolce periodo di gloria, quando cantarono a due: sembrava che tutto un paese cantasse con loro!
Pasquariello ora non si dà pace: è un grande vuoto nella sua anima. La compagna d'arte è scomparsa: quella che lo odiava per amore se n'è andata per sempre, ed egli, pallido e sgomento, l'ha assistita sino all'ultima ora. E a lui, solo a lui, Elvira, agitando in alto le braccia gialle scarnite, aveva gridato: «Pasquariello, io non voglio morire!».
***
Aveva vissuto quasi per trent'anni in una casetta di due stanze, in via Flavio Gioia, con donna Carmela, sua madre, e il «dottore», il solo uomo che ella avesse conosciuto e al quale s'era mantenuta fedele. Il «dottore» ne conosceva il male – Elvira soffriva al fegato – e la curava con religioso amore. Erano dodici anni dacché Elvira lottava contro una terribile sentenza di Antonio Cardarelli: «I tuoi giorni sono contati: letto e poltrona, poltrona e letto: e niente teatro».
Pasti frugali, abiti modesti, vita monotona e meschina. Ella sfioriva tra due vecchi: la madre e «Ferdinando». Col passare degli anni cominciava a sentire tutto il peso d'una vita senza amori e senza giovinezza. Non aveva ancora quarant'anni quando cominciarono a chiamarla «la Vecchia». Ed ella ne soffriva molto, ma fingeva di riderne.
Quando la fortuna batté alla sua porta, la cantatrice era già abituata alla rinunzia e al sacrificio, sì che ella continuò a vivere nella piccola casa augurale, dove Lulù, il vecchio gatto fulvo, passeggiava da signore. Non intendeva che volesse significare impiego di denaro. Temeva delle banche: potevan fallire. Non aveva fiducia nelle pietre: potevan crollare.
Ed allora? Ed allora non le rimaneva che tenersele nascoste le sue sterline – ella aveva una speciale tenerezza per queste lucenti monetine d'oro –, in una enorme calza di lana, sepolta nel muro. La sua grettezza non fu punita; tutt'altro. Dopo la guerra, con il cambio, le sue duecentomila lire toccarono il milione. Ma Elvira continuava ad amare il sole e le rose ed aspettava maggio per comperare un cestino con le prime ciliegie.
L'antico male torna ad aggredirla con violenza, tre mesi or sono, mentre ella recita al «Trianon» in una compagnia di sceneggiate. «Donnarumma sta male. Stamane i medici han tenuto consulto. Due tumori al fegato. Elvira se ne va». E le voci passano di bocca in bocca; la galleria ne è piena. Già comincia il rimpianto; già comincia intorno al suo nome quell'unanime consenso che circonda soltanto le bare. Ma Elvira non vuol morire. Ride, canta, piange, si agita, bestemmia. È quasi impazzita. «Madonna, fo voto di non cantare più se mi salvi la vita!». Tutto è vano: ella, ora, è un povero corpo in isfacelo.
Tutto un popolo ha accompagnato la sua bara, un popolo lacrimoso e commosso, ferito in un sentimento che per esso è gioia e religione al tempo stesso: nell'amore del canto. Ed ella si è trascinati dietro la prima strofa della nostra giovinezza e l'ultimo singhiozzo del nostro desolato tramonto.
Non fu irriverenza, ma quando la bara apparve nell'immensa piazza delle Mura Greche, scoppiò un applauso che non voleva mai finire: «Ultima rappresentazione della Diva: Addio di Donnarumma».
L'altra sera ho battuto alla porta di Elvira. Mi occorrevano altre fotografie della cantatrice.
Venne ad aprirmi donna Carmela, che era sola in casa. La vecchia mi accolse senza lagrime.
Alta, dritta, tutta rughe, stringeva una coroncina fra le mani.
Mi prese per un braccio e mi condusse nella stanza della scomparsa:
– Elvira non ci sta. Se n'è andata. Non torna più. Un piccolo silenzio.
Poi, la vecchia, levando pietosamente le braccia verso l'immagine della Madonna, soggiunse:
– Ed io ho ottantasette anni. E campo ancora.

LA SENTENZA
DI CARDARELLI

Tanta era l'avversione della piccola Elvira per il teatro, che quando suo padre, don Alfonso Donnarumma – mediocre sarto di giorno, e pessimo attore di sera – voleva punirla, se la trascinava dietro, al Petrella, un fetido «casotto» in via Flavio Gioia, dove egli, don Alfonso, piccolo, brutto, dai grossi baffi spioventi e dalla voce di femmina, sosteneva nel 1891, con pochissimo successo, la maschera del Pulcinella.
Elvira, che in quel tempo contava otto anni a pena, si rannicchiava nel camerino di Pulcinella e se ne stava lì, tutta sola, con un libriccino tra le mani. E leggeva e piangeva. Era magra, malaticcia, a fondo malinconico, ed odiava i lumi della ribalta.
Per la sera del 3 Maggio del '91, un enorme cartellone, scritto a mano, annunziava una rappresentazione straordinaria di un famoso dramma popolare «Le due orfanelle», in onore della piccola Angiolina De Lise, che in quei lacrimosi tre atti era una «padreterna» come autorevolmente affermava don Carmine Roma, l'impresario del Petrella, rossiccio, apoplettico e manesco.
Mancava qualche minuto allo spettacolo, quando Don Carmine Roma s'accorse che il camerino della piccola De Lise era vuoto.
– La De Lise... Dov'è la De Lise?
Silenzio e sgomento.
– La De Lise voglio... datemi la De Lise, se no, quanto è vero Iddio, vi scarico in fronte sei colpi di rivoltella.
Don Alfonso, tiranno in casa, e prudentissimo fuori, non dava più segni di vita.
Don Carmine Roma sembrava impazzito, quando dalla soffitta, il siparista ubriaco, con la sua voce roca avverte: – 'A piccerella nun vene. L'hanno arrestato 'o pate dint' 'o cafe d' 'o Carmene. (La piccola non viene. Le hanno arrestato il padre nel caffè del Carmine).
L'urlo dell'impresario destò dal sonno centenario le pietre del vecchio teatro.
– Addio, signori. Tutto è finito. Andatevene via. La compagnia è sciolta! Io ve ne «caccio».
E, dopo un istante di silenzio, con voce rotta dal pianto, riprese a gridare:
– Ma ditemi, ditemi voi, se vi è al mondo una piccerella che può lontanamente sostituire 'Ngiulinella De Lise?
– Io – disse con voce ferma Elvira Donnarumma, comparendo sulla soglia del camerino.
– Tu? – E Don Carmine stava levando la mano per colpirla.
– Sì, io – ripetè Elvira, con un piccolo lampo di orgoglio negli occhi di sole.
– Bè, proviamo. Ma se mi fai un guaio ti uccido per quanto è certa la Madonna del Carmine.
– E voi uccidetemi.
Indimenticabile serata di trionfo per la piccola Elvira. Don Carmine rideva e piangeva come un bambino. Dalla platea lancio di confetti e di fiori; una donna incinta era svenuta nel palco per la commozione; il guappo che proteggeva il teatro, in uno slancio di irrefrenabile entusiasmo, le volle offrire una «pizza con il pomodoro»; Don Carmine le proponeva tre mesi di contratto con la paga serale di lire una e cinquanta. Un avvenimento.
Don Alfonso, che aveva ripreso coraggio, andava ora ripetendo per tutto il palcoscenico:
– E si capisce. È figlia a questo padre.
La ritroviamo quattordicenne nei piccoli teatri di varietà: il Montemaiella, lo Scottojonno, il Caffe dell'Incoronata. È già la reginetta canora. Canta le canzoni con poca voce, ma con tanta passione: è una interprete, sopratutto. Ma è tanto malata, ed il volto le si ingiallisce di giorno in giorno. La madre, donna Carmela, la conduce da Cardarelli. Il grande clinico la osserva, e poi, con la sua rude franchezza, le dice queste parole: «Ti dò due anni di vita. Sei malata al fegato. Niente teatro, niente emozioni, poltrona e letto, letto e poltrona. Addio».

Un piccolo singhiozzo di Elvira, e poi una clamorosa risata. «Letto e poltrona... È pazzo Cardarelli! Mammà, preparate la cesta. Andiamo a teatro!».

***
Trascorrono dodici anni. Elvira è ora la più grande cantatrice di Napoli: nella sua anima canora accoglie le voci del più malinconico e sorridente popolo del mondo. Le platee vanno in delirio.
È la sua «grande serata» al Politeama Giacosa. Un pubblico immenso, un successo delirante. Quante canzoni ha cantato Elvira? Non si riescono più a contare. È ora sfinita, nel suo camerino, e Donna Carmela, sua madre, umile popolana del Cavone, l'aiuta a svestirsi.
Si batte alla porta del camerino. Appare sull'uscio un vecchio alto, bianco, stecchito.
Elvira ha un sussulto, si leva e gli bacia le mani.
– Mi hai fatto piangere.
– Professò – dice Elvira con una strizzatina di occhi – sono passati dodici anni.
E Cardarelli, carezzandole la fronte:
– Quanto sono bestie i medici, figlia mia.
***
Il male si rinnova dopo venticinque anni.
Stavolta è un vero tumore al fegato. Medici, consulti, voti alla Madonna; niente. Il male è implacabile. Donnarumma giace da due mesi a letto, e, nel delirio, canta. Canta le canzoni di Napoli.
– Ti vuole vedere – mi dice Falvo.
– Andrò domani.
Mi accompagnano Pasquariello, Valente, Lama, Nardella, Falvo, Cannio.
Entro il primo. L'inferma mi tende le braccia. È già un povero corpo senza vita.
– Volevo vedervi. Quante volte vi ho chiamato nel sogno!
Poi carezzandomi i capelli, con voce pietosa esclama: – Quanti capelli bianchi! E fissa lo sguardo sul mio abito nero.
Entra Pasquariello. Lo seguono i musicisti. Non ho memoria di incontro più tragico.
Elvira si leva a metà del letto, agita in alto le mani tremanti, e grida: Pasquariello, non voglio morire!
Pasquariello balbetta qualche parola, vuol sorridere e piange. Si abbracciano a lungo, non vogliono più staccarsi.
La piccola camera, appestata di medicine, si trasforma in palcoscenico. La canzone di Napoli singhiozza a pié di quel lettuccio.
«Vi ho voluto sempre bene, Pasquariello, sempre bene vi ho voluto. E vi ho ammirato sempre... tanto... tanto vi ho ammirato. Non vi scordate di me. Ricordatevi di Elvira quando cantate le canzoni. Povera Donnarumma!».
***
Scendiamo muti per la piccola scala.
Nessuno ha il coraggio di dire all'altro il proprio pensiero.
Giunti alla svolta del vicolo, Gennaro mi fissa negli occhi. Poi, con un singhiozzo, che non dimenticherò mai, mi dice:
– Che grande Artista se ne va!

ADDIO ALLA DIVA

Parole pronunziate dinanzi alla bara.

È tutto un popolo, Elvira, tutto un popolo, lacrimoso e commosso, che segue la tua bara. È Napoli, ferita in un sentimento che è gioia e religione al tempo istesso: l'amore per il canto.
Tu, più e meglio di ogni altro, della mia gente rendevi la sorridente malinconia, la racchiusa tristezza, il rassegnato dolore. La tua arte era lacrima e sorriso.
Tutta Napoli ti luceva nei piccoli occhi luminosi che ancora ieri ti imbrillantavano il volto ingiallito.
È commemorazione e celebrazione ad un tempo: passa, stavolta, in gramaglie, è vero, ma passa nella sua ultima giornata di sole, la canzone di Napoli.
Dinanzi a questa bara, pallido e sgomento, singhiozza Pasquariello, l'ultimo custode di un mondo sacro al nostro sogno: gli sta d'accanto Maldacea, ma il grande comico stavolta non ride: agita le mani tremanti ed invoca il tuo nome.
Chiamali a nome: rispondono tutti. Son qui i tuoi poeti, i tuoi musicisti, quelli che tu più amavi: dispersi in questa drammatica folla di popolo, fissano la piccola bara entro la quale è racchiusa una così grande anima canora.
Addio Elvira, dolce, luminosa, insostituibile cantatrice di Napoli! Tu ti trascini dietro questa bara la prima strofe della nostra giovinezza e l'ultimo singhiozzo del nostro sconsolato tramonto.
Noi non ti dimenticheremo, cara, dolce, luminosa compagna delle nostre piccole battaglie. Quando, a notte alta, una chitarra vibrerà nel silenzio, tu, ombra di tenerezza e di amore, batterai alla nostra porta.
E noi ti apriremo, e protenderemo verso di te le braccia fraterne, salutandoti nel nome immortale della canzone di Napoli.

VINCENZO MIGLIARO

Il 3 Aprile 1938, nella Sala di Carlo V, alla Mostra dei tre secoli di pittura napoletana, Libero Bovio celebrò il Maestro scomparso.

Mentre Napoli, con la mostra dei tre secoli, compie opera di bellezza e di giustizia; mentre tutto un popolo, a compimento quasi di un rito, visita, ammirato e commosso, le sale ove il Genio palpita e vive, ecco che una notizia giunge, tragica e improvvisa, e par che diffonda il gelo sulle stesse tele ove l'accesa fantasia dei maestri di tre secoli di pittura s'è sbizzarrita con spavalda bravura. «Migliaro è morto» – e un brivido ci coglie alle reni. Nè il pensiero della sua tarda età ci è di conforto alla pena. È modesto compito dello stato civile quello di contar gli anni agli artisti: per noi, la loro giovinezza è eterna, come quella della Poesia.
Nato di popolo fu un pittore di popolo. Pochi maestri, poca scuola. Le cinque elementari furono la prigione dalla quale si liberò ben presto con uno di quei suoi urli selvaggi che lasciavano sgomento e ammirato suo padre, il buon vinaio di Via Nardones. «Voglio vivere al sole! Il mio libro è la strada; il mio maestro sono io!» E solo e taciturno sin da allora, ché la compagnia dei fanciulli non gli dava gioia, girava per tutti i vicoli della vecchia Napoli ove l'ardente dramma plebeo gli metteva una strana febbre nel sangue.
La miseria è canora e fantasiosa. Tutti i balconcelli sono in fiore: un garofano ad ogni finestra, ed un canto di uccelli da ogni soffitta senza sole.
Il piccolo è là, fermo, con gli occhi incantati. Tutto egli guarda. Il fabbro picchia forte sulla incudine, – ed egli guarda; nella bettola si beve e si canta; il barbiere, nella sua piccola bottega, strimpella la chitarra; il monaco va per la cerca; il venditore di ciliegie dà la prima voce di Primavera; – ed egli guarda; sospesi alle canne pendono, laceri e variopinti, i cenci dei poveri; l'acquaiola, florida e rossiccia, offre da bere al suo guappo, – ed egli guarda; nel fondaco il coltello ha colpito giusto e l'adultera è caduta dinanzi al Santo senza lampada; in fondo, lento e pauroso, passa il carro dei carcerati con le femmine scarmigliate e urlanti che lo seguono, – ed egli guarda. Ma quando un nodo gli stringe la gola, e l'anima più non gli resiste, egli fugge, fugge lontano, a Santa Lucia, perché gli occhi vogliono il mare, il mare, il sole; perché la giornata è chiara e si vede Capri celeste e d'oro; perché sul mare di seta e di velluto passano le vele latine perché tutto è lucente d'intorno, tutto è musica d'intorno. Tutto canta. È Napoli, il paese del sogno, il più bel paese del mondo, che ride e canta.
Ma le gambe ora gli dolgono pel troppo cammino: occorre che egli conceda un po' di sosta al suo incantato vagabondaggio; e per fortuna trova larga ospitalità presso tal mastro Giaquinto dal quale apprende ad incidere cammei nelle conchiglie. L'amore dell'arte ora gli brucia le vene. Egli è già stanco di incidere cammei: è un altro il suo destino. La giornata volge al tramonto. Una zingara s'è fermata all'angolo della bottega per leggere nella mano del soldato che parte. È un quadro. Migliaro non resiste. È un Dio che gli parla dentro? Su di un piccolo cartone ferma con la matita la testa della zingara. Di chi è? domanda stupito mastro Giaquinto. È mio – risponde Migliaro. Il vecchio lo bacia in fronte e si allontana senza dire parola. La zingara gli apre la strada della miseria e della gloria. Vincenzo è nato pittore.
Ora è lui che parla; questa paginetta è scritta di suo pugno, con mano tremante. È semplice e ingenua come lui. Val la pena di leggere, senza mutare nè aggiungere: è tutta una vita racchiusa in un foglio di carta ingiallito che, per cortesia di un artista egregio, è oggi in mio possesso.
«Nacqui nel '58. Ho troppi anni. Lavoro ancora. Studiai modellato e disegno con lo scultore Lista. Verso il '74 entrai nell'Istituto di Belle Arti con Domenico Morelli. Vinsi nel '76 il primo premio per una testa di donna dipinta dal vero. Nell' '83 dipinsi una testa di popolana – Carmela – che fu acquistata dalla Regina Margherita, ed è ora esposta nella Reggia di Capodimonte. Intorno a quell'epoca dipinsi una «napoletana» che si trova nel museo di Buenos-Aires, – una suonatrice di tamburello, un gallo, una testa di giovanetta, acquistata dal Banco di Napoli, ed il Tatuaggio, acquistato dalla Provincia. Debbo al mio quadro «Piazza Francese» il mio primo vero successo: fu allora che il Ministro dell'Istruzione mi incaricò di illustrare nei sette dipinti di S. Martino, i vecchi rioni che man mano andavano scomparendo.
Per la biennale di Venezia ho avuto sempre invito. Fra le opere esposte ricordo: Piazza Mercato, Porta Capuana, Una donna allo specchio, ed una «Vecchia Napoli». Alla esposizione internazionale di Barcellona, nel 1911, ebbi la medaglia d'oro. E con medaglia d'oro fui anche premiato alla prima Biennale di Napoli, ed anche questa mostra era nazionale.
Tra le cose che più amo ricordo ancora: Seduzione, Piedigrotta e i 14 studii di Capri. Ho lavorato sempre. Sono povero».

VINCENZO MIGLIARO

Ironia del destino! Tutta una vita di medaglie d'oro senza aver mai dimestichezza con questo capriccioso e ingiusto metallo!
Siamo nel secondo ottocento. Gli studi dei Maestri napoletani sono in pieno fervore di opera. Su ogni cavalletto palpita un capolavoro. È una grande ventata di poesia che vien dal Tirreno e riempie di sé tutta l'aria. Mai l'arte fu più gioioso tormento, mai gara fu più ardente e leale, mai risultato fu più generoso e proficuo. Entriamo. Ecco Morelli che dà un'anima al suo cielo notturno sul quale volano i tre angeli recanti su le braccia il martire cristiano, mentre Palizzi, con l'occhio incantato dei pastori d'Abruzzo, sparpaglia il suo armento su per il verde della montagna. Ecco Dalbono che dà musica e vita alle sue barche infiorate, mentre Michetti, aspro e solitario, ascende la Collina di Capodimonte, sognando, forse, i primi idolatri del «Voto» o le pallide femmine delle sue processioni, o gli accesi mietitori di Norca, pazzi di mala brama e di vituperio. Ecco Mancini che divinamente folleggia nella ricerca della luce, mentre Gemito strappa la creta dalle mani di Fidia per creare, impazzendo, le agonizzanti labbra del suo «malatiello». Ed ecco Cammarano che lancia i suoi bersaglieri all'assalto con l'ebbrezza della Vittoria, mentre D'Orsi si china tremante sul «Proximus tuus» e Toma, con l'infinita pietà dell'artista, indulge al prete che si confessa. E ancora: ecco Salvatore Postiglione nella sua piccola casa dell'Infrascata che cade, per la prima volta, sfinito davanti al suo Arnaldo da Brescia, mentre Gaetano Esposito urla e singhiozza ai piedi del Cristo che egli avrebbe voluto dipingere col sangue più vermiglio delle sue vene.
Par gloria di pochi, ed è gloria di tutti. Non è un uomo che vince sull'altro, non è una scuola che vince sull'altra, non è una vanità che vince sull'altra; no: è l'ottocento napoletano che, rivendicando i due meravigliosi secoli che lo precedettero, entra, con essi, trionfalmente nel libro d'oro della storia dell'Arte.
I più giovani non tremano dinanzi a tanta grandezza: è luce che li infiamma, è lauro che cade sulla fronte di tutti, sì che ora, in essi, il desiderio del lavoro diventa spasimo e gioia. Casciaro, Pratella, Balestrieri, Volpe, Irolli, Caprile ricevono la consegna: essi, a loro legittimo titolo di orgoglio, saranno gli insigni continuatori di una grande tradizione che se sdegna il turibolo, non tollera l'oblio.
Migliaro, taciturno e ribelle, ferma sulle tele il palpitante dramma di una città.
Gli altri, in avvenire, saranno i gloriosi pittori napoletani. Egli sarà il profondo e solitario pittore di Napoli.
Si viveva tutti insieme in quel tempo – mi diceva con voce stanca Michele Cammarano, quando nelle sere d'inverno, battevo alla porta di casa sua. Tutte le Arti non avevano che un solo nome: Poesia. Pittori, scultori, musicisti, scrittori, giornalisti, poeti erano famiglia. La profonda comunione di spiriti che ci univa, era la più commossa ed ideale delle collaborazioni. Dal quadro nasceva la poesia, dalla poesia la scultura, dalla scultura la musica, dalla musica il libro. Ed ognuno consigliava l'altro, aiutava l'altro, completava l'altro. Ogni quadro di Dalbono era una poesia di Di Giacomo; ogni poesia di Russo era una tela di Migliaro. Il giornale era sprone e conforto e il critico esaltava, esaltava, forse perché era un artista anche lui, forse perché serbava tra le carte ingiallite il suo primo sonetto d'amore, forse perché conosceva il tormento delle notti insonni quando il fantasma dell'arte ci assale alle spalle, ci martella alle tempie, ci stringe la gola, ci mozza il respiro. Esaltava per la gioia di esaltare, perché egli forse sapeva che ogni fatica d'artista, comunque espressa, è sempre una voce di tormento, un gesto di eroismo, un grido di Fede. No, non deve parlare di arte chi ne ignora il tormento, come non deve parlare di strazio un padre che non ha perduto il figlio.
Poi si rasserenava, il nobile vecchio, fiero e sdegnoso, e ridestava il passato con il più triste dei suoi sorrisi.
Tutte le sere lì, intorno ad un tavolo del vecchio caffè d'Europa. Eccoli: li vedo. Il più loquace è Dalbono, il più taciturno, Di Giacomo. Cafiero sorride ed indulge, D'Orsi parla col pollice e con l'indice come se plasmasse la creta; Esposito fuma e bestemmia, Costa sogna donne e canzoni; chiassosa e gracidante passa Matilde Serao; Gervasi, scettico e incaramellato, non ha tenerezze che pel suo cane sapiente; Conforti e Miranda si narrano pene d'amore, Peppino Turco lancia motti e facezie, De Leva sospira nell'orecchio di Salvatore la sua incantevole nenia di Natale. Bello come il sole irrompe Ferdinando Russo. Don Ciccio Mastriani, no, non entra; fa capolino, e si ritrae: il suo stiffelius lacero non gli consente simili lussi.
Solo, scuro in volto, con le mani affondate nelle tasche del vecchio pastrano, entra Migliaro. Non saluta nessuno, non dice una parola, non siede. Sta un attimo in piedi, poi volge lo sguardo d'intorno, batte forte sulla spalla di Salvatore, ed esce. È felice che i suoi compagni stiano insieme, ma lui sta solo, vuole star solo.

Si litiga, è vero, si litiga forte, ma per l'Arte, perché non si parla che di Arte, non si vive che per l'Arte. Talvolta gli urli squassano il soffitto dorato ed i bicchieri stanno per volare. È allora che Martino Cafiero fa un cenno a Di Giacomo, ed il poeta, pallido pallido, con gli occhi scontenti, ripete a fior di labbra:
St'ortenzie ca tenite 'int' a sta testa
che ll'adacquate a ffa'? Nun l'adacquate...
D'intorno s'è fatto il silenzio. Esposito cade tra le braccia di D'Orsi, gridando: Perdonami, non sono io. È la testa che non m'aiuta.
La pace è fatta, il sereno è tornato, ed i Maestri levano i bicchieri vuoti alla gloria di Napoli.
Scuro nel volto, e nero negli occhi, nella barba, nei capelli, Migliaro sembrava uno di quegli arabi emersi dalla fantasia di Domenico Morelli.
Vincenzo è un santo che bestemmia – diceva Salvatore di Giacomo. L'ho incontrato ieri. M'ha fatto un sorriso «ca pareva na iena».
Ma in quel petto villoso e leonino batte il cuore di un fanciullo.
Era un mondo a sé, Migliaro. Solitario nella vita, solitario nell'arte. Non somigliava a nessuno. Non ebbe maestri, non avrà discepoli: il genio non tollera parentele. Nessuno intese e rese prima e meglio di lui il dramma della città che piange ridendo. Ogni sua pennellata era uno strappo di chitarra, ogni sua tela una canzone. Accanto alla sorridente fantasia di Dalbono, ecco, s'impone, solitaria e schiva di lodi, la lirica verità di Vincenzo Migliaro.
Non occorre ridestare le grandi ombre del Seicento, nè gli spiriti leggiadri del secolo XVIII per tentare raffronti o per scoprire derivazioni. Migliaro è «lui». La sua tavolozza è «sua». Così direbbero il Goya ed il Renoir se battessimo alla loro porta; così oggi afferma con scultoreo giudizio un nobile maestro: Antonio Maraini. «Migliaro ha fatto dell'Utrillo quando questi non era ancora nato». Non si potrebbe dire più giusto e più vero di così.
Dire che Migliaro era un impressionista, o un espressionista, o un intimista – tutte voci d'un ricettario che sa di cabala – significherebbe voler catalogare e incasellare a tutti i costi un pittore grande e ribelle, attaccandogli al collo una etichetta arbitraria e bugiarda.
Migliaro fu una forza della natura, il prodigio dell'istinto, un popolano con una grande tavolozza nel cuore.
Entrare nel segreto della sua arte, contare le pennellate delle sue tele, scoprire l'impasto dei suoi colori, il mistero del suo sogno, fa parte di quella tecnica irriverenza che non ha mai allettato la nostra fantasia di poeti.
Poesia di Di Giacomo e Pittura di Migliaro sono miracoli di Dio. Ed il miracolo si accetta, non si discute.
Dalbono è Napoli che sogna, Migliaro è Napoli che vive. L'uno cerca la poesia al di fuori del vero; l'altro la trova dappertutto. Dalbono non riesce a sottrarsi, nell'incanto della sua arte, alle influenze straniere; Migliaro sì. Migliaro è un autarca della pittura. Vive di sé, della sua fiamma, dei suoi silenzi, dei suoi chiusi amori, delle sue contenute ire, della sua ricca povertà, del suo immenso dolore.
È il pittore napoletano per eccellenza. Napoletane le sue pennellate, la sua tavolozza; napoletani i suoi soggetti, i suoi paesaggi, i suoi vicoli, le sue marine, i suoi guappi, le sue femmine. Piazza francese, La strettola degli orefici, Santa Lucia, Suonatori sotto la neve, Nannarella del mare, Toletta del mattino, Tatuaggio, Suonatrice di tamburo, San Gregorio Armeno, son capolavori del genere.
Napoletano, ma senza smargiassate di colori e senza leggiadrie commerciali. Piace, perché non mette niente di suo per piacere. Non è lui che scende sino alla plebe, ma è la plebe che sale sino a lui in uno spasimante desiderio di purificazione.
In lui il dramma è istinto. Le sue albe sono grigie e i suoi tramonti affocati; dense sono le nuvole che solcano i suoi cieli e il suo mare è sempre in tempesta. Carmela, la divina Carmela di Napoli, Carmela di tutte le sue tele, Carmela di Santa Lucia, ha sempre tristezza negli occhi, anche quando suona il tamburo, perché guarda lontano, verso il mare, senza ombra di sorriso, con le chiome al vento.
Quando il pathos lo afferra alla gola egli reagisce su sé stesso, creando l'idillio delle quattordici tavolette di Capri che sono il più insigne documento del pittorico lirismo napoletano.
Settant'anni di lavoro. Settant'anni senza sosta, senza pace, senza gioie. È vecchio, ed è ancora il solo a trascinare il carro: tutti gravano sulle sue spalle. Lavora oggi, come lavorava ieri, da mastro Giaquinto. Il compagno povero batte alla sua porta, ed egli apre; la vecchia signora scaduta batte alla sua porta, ed egli apre, l'orfano batte alla sua porta, ed egli apre. Le mani ossute sanno ancora dividere un pane in due.
Dal primo sole è là, davanti al suo cavalletto e lavora, lavora, lavora. Unico premio alla sua fatica sono le interminabili passeggiate vespertine lungo la via del mare.
Sempre solo, sempre con le mani affondate nelle tasche del lungo pastrano. Non è un vecchio che cammina: è un mondo che passa.
Cadono le ombre della sera. Le donne di casa Migliaro sono raccolte per il rosario. Il vecchio è solo, nel suo studio, dinanzi al cavalletto al quale ha attaccato un cappio di corda per introdurvi la mano ossuta e gelida che ora gli trema nella fatica. Gli occhi semispenti sono inchiodati sulla tela. Un piccolo lume a petrolio rischiara a pena l'ambiente. Nè occorre di più: per i suoi occhi sole e tenebre sono una cosa sola. Il silenzio è alto e profondo. Il pennello va quasi senza guida, ma va sicuro; la tavolozza è ancora viva ed ardente; Piedigrotta ride negli occhi di Nannella, festosa e bizzarra. Il suo tamburo dà gioia. La tela è finita.
Il vecchio si volge. Qualcuno è entrato nello studio. È un'ombra. Il maestro indovina. È Carmela! Carmela dagli occhi color del mare e dalle chiome al vento, Carmela delle canzoni, Carmela della Reggia di Capodimonte, Carmela di San Martino.
È vecchia, ora; è curva, le chiome scinte e bianche. Veste povera: ha freddo, ha fame. La frugale cena del vecchio è là sul piccolo tavolo dello studio. Migliaro si leva e prende per mano Carmela.
– Assèttate. Mangia.
Un piccolo singhiozzo pieno di memoria. È il passato che torna. I due non si scambiano una parola. Carmela ora si leva per andarsene.
– Maestro, me ne vado.
– Aspetta.
Migliaro, quasi brancolando nelle tenebre, trova, tra le sue divine tavolette, una piccola Santa Lucia con l'ostricaro borbonico e Carmela che balla.
– Non ho altro da darti. Vendila. Addio.
E addio, diciamo oggi a te, vecchio e grande Maestro, nell'ora in cui Rosa, Bonito e Morelli ti aprono le braccia fraterne; nell'ora in cui la città del tuo amore e del tuo sogno, per commosso slancio dei valentuomini e degli artisti che presiedono a questa sagra dell'Arte, ti accoglie in trionfo nelle gloriose sale della mostra dei tre secoli. Addio! Il nostro piccolo esercito presenta le armi al grande soldato caduto nella battaglia, e, con un nodo alla gola, riprende la marcia.
Avanti! Il cammino dell'Arte non tollera soste.
Avanti! Non poniamo barriere tra un secolo e l'altro, nè segniamo date mortuarie sulla fronte del Genio umano!
Avanti, vecchi e giovani, nel nome glorioso dei morti, nel nome di quelli che hanno sofferto, di quelli che soffrono ancora.
Avanti, all'opera. Oggi tutto vive. Tutto aspira alla vita. È Primavera. Leviamo in alto lo sguardo e salutiamo in nome dell'Arte questa grande Italia rinverdita da un così alto soffio di Poesia.

ERNESTO MUROLO

Il XXIII novembre 1939 nel Salone del Circolo della Stampa di Napoli, Libero Bovio, per invito del Sindacato dei giornalisti, commemorò Ernesto Murolo.

Che raffica è passata sulla piccola casa del nostro sogno, una povera casa tutta verde di foglie e lucente di sole!
Triste il destino dei caduti in pieno fervore di opera, ma più triste ancora quello del superstite, che, sgomento, brancola nelle tenebre come uno di quei tragici fantasmi dal cupo pennello di Bruegel il vecchio.
Quattro corde della chitarra di Napoli si spezzano nel breve giro di due anni, e par che la Poesia oggi nasconda il suo volto tra le sanguigne nuvole del tramonto e la musica unisca il suo pianto a quello delle foglie di un autunno che muore.
Il primo a cadere è Tagliaferri, il più ardente di vita, il melodioso signore di una tavolozza nata e morta con lui; poi, il più dolce dei De Curtis, quello che aveva il pianto di Bellini nella voce; poi Falvo, ultimo ramo del fiorito albero gambardelliano; ed oggi, Ernesto, il poeta della allegra malinconia napoletana, il compagno della mia giovinezza, il più soave, il più estroso, il più leggiadro cantore del mare di Napoli!
***
Lo chiamavamo «Ernestino» perché era sempre odoroso di violette e di canzoni; perché vestiva aggraziato e ciancioso; perché la sua giovinezza squattrinata era tutta merlettata di amori e di poesia; perché aveva sempre due occhi di donna nel cuore e un verso sulle labbra; perché con lui entrava il sorriso della vita, il profumo dell'Arte, la gioia del Sole!
Egli era un po' il simbolo dei nostri venti anni fantasiosi, e scapigliati, tutti venati di sogno, accesi di orgoglio, ricchi di canti, trapuntati di malinconia.
***
Eravamo tutti giornalisti in quel tempo, piccoli oscuri giornalisti di cronaca, ed il buon ricordo costituisce ancora il nostro titolo nobiliare, e l'odore della carta stampata ci mette ancora non so che brivido nel sangue. Che cara e dolce bohème!
Ernesto, scappato via di casa per aver gettato i codici alle fiamme, divideva la sua giornata tra il «Pungolo» e il «Perrelli» ove Ugo Ricci profondeva i tesori di una genialità tutta profumata di gusto e di grazia. E nel «Perrelli» appunto apparvero i succosi sonetti della «Storia di Roma» che furono salutati come una prima semina, destinata in seguito a così biondo raccolto.
È in quella redazione così ricca di sorriso e povera di sedie che avvenne il nostro primo incontro. Dopo un'ora Rocco, Ernesto, Eduardo e io eravamo fratelli. Levammo i bicchieri alla nostra amicizia e scendemmo in istrada. Nevicava, ma Galdieri, squadrandoci compiaciuto, disse: Bene, – siamo d'accordo. I poeti hanno sempre sdegnato ombrelli e cappotti; al che Ernesto, alzandosi il bavero della giacca estiva, sospirò: Evviva la Poesia!
Che quartetto era nato! Il più fraterno e litigioso dei quartetti. Tutto ci separava e tutto ci univa; ma la strada era una, e se nelle giornate di sole ognuno andava lontano dall'altro, nelle ore di tempesta si camminava a braccetto.
Galdieri già guardava alla vita con filosofia a volte pacata, a volte beffarda, a volte schernitrice; Nicolardi gridava in strofe perfette il suo tormento d'amore; io sentivo che la farsa plebea, esaurendosi, spalancava le porte al dramma della piccola borghesia; Ernesto cantava. Cantava la gioia della vita, e a lui si univa, nel canto, il canario incarcerato nella gabbietta mentre l'edera si attaccava al balconcello di «Pusilleco addiruso» come ci si era attaccato il cuore del poeta.
***
La notte ci sorprendeva gai e loquaci dinanzi a un tavolo del vecchio «Corfinio», una malinconica topaia scavata nel cuore di Toledo. Procida, caro ed ardente Maestro, difendeva con la voce e col pugno il genio di Pirandello; Mascarillo insolentiva per amore le ubertose fanciulle del Teatro Nuovo; Pignalosa, tra una facezia e l'altra, già carezzava la rivoltella che doveva accecargli un occhio; ma Ernesto, pieno di piccoli misteri sentimentali, fermo sull'uscio, era sempre in attesa di una «carrozza col mantice alzato». La carrozza arrivava ed egli scompariva, sospirando con la sua voce d'oro il dolce motivo di un'arietta amata.
Quando l'alba, con il primo chiarore sdegnato, ci indicava la via di casa, Procida mi afferrava pel bavero per dirmi in un orecchio: Ernesto mi ha letto la prima strofa di una sua canzone. Che sole nel paesaggio e che musica nei versi!
Sì, è vero, era pittura, musica e poesia ogni strofa di Ernesto. Ogni verso una pennellata, ogni pennellata uno strappo di chitarra, e ogni strappo di chitarra un lembo del cielo di Napoli.
Chiudiamo gli occhi e rivediamo come in sogno questo suo incantato mondo poetico. E sono vele a mare, Pasque rosate, vicoli in festa, ninna-nanne di mamme e suono di campane, notti di stelle ed albe di aprile, e bocche d'amanti, e voluttà di Capri, e languori di Sorrento, e sogni, e amori e sorrisi, e qualche lacrima, e Napoli sempre Napoli, luce della sua arte, febbre delle sue vene, gioia della sua vita, fiamma della sua Poesia.
***
Quando dal paesaggio balzano tristi o ridenti, argute o malinconiche le piccole figure perfette, il quadro s'illumina di vita e di grazia.
Dall'alba alla notte è sempre l'Amore che passa:
Passa Amore ricco e galante
cu ha frezza cu 'a ponta 'argiento...
Zitelluccia, chisto è 'o mumento,
tengo l'ommo pronto pe' te.
E si ferma, e guarda, e sorride.
Su, ai Camaldoli, nella «casarella pittata rosa» risuona lenta e stanca la voce di «'gnora vavella» che canta la nenia a «ninno picciuso» che ha sul viso «doie fragulegulìo 'e mammà»; nella notte stellata voga solo e lontano il Pescatore di Posillipo, e il suo pianto d'amore trema nell'aria di estate, e sembra il lamento di tutti gli amanti in pena; dalla terrazza di San Martino – «loggia ca 'ncielo fravecata sta» – la bionda straniera dagli occhi chiari e sognanti guarda il golfo avvolto in una gloria di sole, e lancia lontano, sul mare, la più bella rosa del Monastero; nel grigiore dell'alba fredda, passa pel vicolo tristo, tutto scuro in volto, il malandrino che ha abbandonata la «casa di mamma» e sospira:
Chella mamma sta c' 'o penziere
ca st'ammore me perdarrà;
l'hanno ditto dint' 'o quartiere
ca è cchiù 'nfama d' 'à 'nfamità...
L'hanno ditto ca ll'uocchie belle
fanno chello ca vonno 'e me;
ca n'ha visto dint' 'e cancelle
figlie 'e mamma male patè...
Stavolta Amore sente tremargli nella mano la freccia che uccide, ma il sorriso torna ad illuminargli gli occhi quando nel tramonto d'ottobre – il cielo è un quadro di Dalbono – le tre comitive «'e vascio 'a Sanità» sbarcano a Marechiaro, dove la tavola è imbandita...
"E che tavola speciale:
'nterra, 'o cato cu 'e frutte e 'o vino;
nu mellone dint' 'a cantina:
'o cumpare, dint' 'a cucina,
ca discute c' 'a princepale".
È un trionfo di «crespi» e di «cappellucci alla sgherra». Le donne son ricche di gemme e d'oro, e gli uomini si «ammarteneano» nei loro «abiti a quadriglie».
Il vino e le canzoni hanno intenerito le tre comitive. Ogni mano cerca una mano quando il compare, «viecchio capo 'e suggità», si leva per fare un brindisi in «pulito».
Un po' di vento passa sul mare. È spuntata la luna.
E 'a luna guarda e dice:
«Si fosse ancora overo!
Chist'è 'o popolo 'e na vota,
– gente semplice e felice, –
chisto è Napule sincero
ca pur'isso se ne va!»
Che tavolozza smagliante! C'è tutta la vecchia Napoli in questo piccolo quadro nel quale palpita gioiosamente il cuore del più pittoresco poeta emerso dalle onde del Tirreno.
***
Ma quella che sembrava soltanto voce della giovinezza, è voce che lo accompagna per tutta la vita: è la voce della sua Poesia.
Ha cinquant'anni ora. Il bisogno batte alla porta di casa sua; la neve gli cade sulle tempie; la prima ruga gli scava il solco nella gota che è ancora rosea, ma Ernesto lancia il suo più grande grido di amore.
Napule!
A qua' parte d' 'o munno se fa Ammore
comme a Napule, 'e sera, 'int' a ll'està?!
Non è solo la voce di un poeta, no: è la voce di tutto un popolo che afferma il divino privilegio di amare; è un grido d'amore che investe la città da un capo all'altro, da una collina all'altra, e fa fremere di orgoglio le onde di Marechiaro, e fa tremare di gioia gli alberi di Capodimonte.
Quando questa poesia, irrobustendosi, sente che il pentagramma le mozza il respiro, il Poeta incide sul rame o le pallide femmine urlanti del «Miercurì d' 'o Carmine», o la tragica figura del vecchio marinaio che nella vela immota, bruciata dal sole, guarda lontano con gli occhi afflussionati perché aspetta il vento.
Zitto ca è isso:
è 'o viento!
Oì lloco... oì lloco!
Refola ca s'accosta chiano chiano,
se fa desiderà...
Pare comme a na femmena
ca se ciancea nu poco,
primma 'e se fa' vasà.
Ma la voce più alta e potente è quella della Madre che si rivolge alla Madonna nella chiesa del Carmine tutta ardente di ceri e odorosa di incenso. Ella ha già perduto due figli in guerra e non vuol perdere il terzo, quello che è pallido, biondo ed ha venti anni.
Che buò?
(sta dicenno na femmena gravanta
'nfacci' 'a Madonna). 'A vita mia? T' 'a dò!
Ma nun me fa' murì pure a chist'ato
comme a chill'ati duie.
Tu t' 'o tiene astrignuto 'o Figlio tuio!
'E mieie me ll'he luvate 'a sott' 'o sciato!
«Ogne casa nu guaio!» – mormora con voce tremante la più vecchia delle fedeli, quella che ha gli occhi infossati ed il volto ingiallito.
E l'altra continua più forte:
Che buò cchiù?
Pe' vvute e ccere, 'o bbì: vicino 'a recchia
manco 'e ricchine, 'o bbì: me sto luvanno
'e scanne 'a sott' 'o lietto... Che buò cchiù?
E con la voce sempre più roca, – pallida, scalza si arrampica su per le scale, e arriva al quadro. Ora minaccia a tu per tu. «Guardami... Con te parlo. Per tuo figlio morto in croce hai pianto una vita intera, e delle mie lacrime non t'importa? Non sono madre anch'io? No? Non t'importa?» Con i capelli grigi che le cadono sulle spalle curve e gli occhi impazziti batte forte con la mano gonfia e rossiccia contro la lastra santa. Ma d'un tratto si irradia nel volto, e ride, e singhiozza e agita nell'aria le mani tremanti, e grida: 'A Madonna chiagne!
– «Chiagne!» – sospira con un fil di voce una piccina malata che veste di nero.
– «Chiagne!» – gridano ad una voce i vecchi barcaiuoli del «granatiello» i più devoti del Mercoledì del Carmine.
– «È overo! È overo!» – ripetono pallide e tremanti le donne che sono cadute in ginocchio, e protendono le braccia verso l'Immagine.
Ora la madre, dall'alto della scala, mostra il suo dito bagnato di lacrime alla immensa folla in tumulto.
La chiesa è tutta una convulsa marea di idolatri. Mille voci di preghiera si levano al cielo; odor d'incenso e d'aliti umani si mischiano nell'aria senza respiro; le fiamme dei ceri serpeggiano in alto e par che incendino le navate.
Fuori, la campana del Carmine suona a lungo, suona a stesa con la sua voce profonda e armoniosa.
La Madre di tutte le madri, quella che più di ogni altra ha sofferto e pianto, ecco, ha accolto nel suo cuore il grido lacerante dell'umile popolana, e le ha fatto grazia della sua carne battezzata; le ha fatto grazia in nome del figlio di Dio che vuole che ogni nato di donna sia conservato alla divina carezza materna.
***
Se il dicitore era di una vigorosa potenza plastica, se il fantasioso bozzettista della «radio» dosava con pittoresca e sapiente grazia gli effetti, il narratore era soltanto incantevole. L'aneddoto più frivolo, l'episodio più scialbo, il fatterello più anemico prendevano corpo dalla gustosa efficacia della voce, dello sguardo, del gesto di Murolo.
Egli, da solo, era tutto un palcoscenico in azione sul quale una piccola umanità a volte gaia, a volte pietosa, a volte beffarda si moveva con sapiente disinvoltura. Con una parola, con un gesto Murolo costruiva campagne e marine, regge e tuguri, salotti dorati e vicoli in rovina; e li popolava di principi o plebei, di sante o di mondane, di preti o di soldati, di poeti o di strozzini, di sciantose o di beghine, di fanciulli o di vecchi, e ne imitava l'occhio, la voce, il passo, il «tic» la movenza, cogliendo sempre con impareggiabile grazia il comico nel tragico e il tragico nel comico. Era nato uomo di teatro. Tutto in lui diventava farsa, dramma, idillio, commedia. La vita per lui era tagliata a scene: ogni vicenda, un atto; ogni episodio, un finale. Il paesaggio non era che «scenario» e le persone non erano che «personaggi».
***
Se il lirico sfiora lievi stati di animo, morbidi abbandoni, piccoli baci che non lasciano segno con una sensualità, oserei dire, romantica, il poeta di teatro scava in profondità, entra nell'anima, vi legge chiaro e profondo, ce la rivela con la gioia di chi scopre un mondo con una scena, una «battuta», una parola.
***
Il suo ingresso al Nuovo – siamo verso il 1906 – fu accolto da sorrisi gioiosi: dopo il lungo silenzio di un glorioso Maestro, era una prima voce di Poesia che veniva a rinverdire un repertorio in rovina. Tra il roteare della mazza di «Tore 'e Criscienzo» e gli ultimi lazzi scurrili di un «pulcinella in agonia» ecco, si fa largo d'un tratto, la chiara e fresca opera di un poeta che per l'onore della sua città sogna un teatro più alto e più degno.
Se le poche scene di «'O 'mpuosto» – è questo il drammetto del battesimo – sono un pallido annunzio, i tre atti rapidi e concisi di «Ll'uocchie d' 'o pate» portano più alto il nome dell'autore, verso il quale convergono ora tutti gli sguardi della critica felice di scoprire in un poeta di paesaggi un ardente e vigoroso scrittore di teatro. Ma la personalità di Murolo acquista più precisi contorni in quel piccolo gioiello che è «Signorine». È questo ameno quadretto lievemente caricaturale, venato a pena di ingenua grazia amorosa, che apre le porte ad «Addio mia bella Napoli!», lo squisito acquerello che, accolto in trionfo al suo apparire, dà buon posto al poeta accanto ai maestri della scuola di Posillipo. Ma eccoci al primo colpo d'ala. Le poche scene vive, serrate, ardenti di «Anema bella» sono il primo e deciso segno di una mano ferma e sapiente.
La strana, bizzarra, capricciosa psicologia della popolana che ama e tormenta, ed uccide senza saper di commettere crimine è resa con pochi tocchi di pennello cupi ed ardenti. «Anema bella» è un piccolo capolavoro – conosco tutta la importanza di questa parola – ed io lo indico, con perfetta coscienza di artista, alla commossa ammirazione degli attori napoletani.
Una scena soltanto non impallidisce al confronto di questo superbo dramma di anime: quella famosa di «Giovannino o la morte» ove il dramma dei sensi, arsi dalla canicola e dall'amor del peccato, provoca il lacerante urlo di Chiarina che chiude con un gesto di ribellione alla vita la sua povera pagina d'amore.
Son passati venti anni e sento ancora il malinconico profumo dei tre fioriti, fantasiosi, commoventi atti di «Calamita», ed ho ancor vivo nell'orecchio l'infantile e capriccioso pianto di Mariella Gioia:
«Chella 'a lira era d' 'a mia!», come serbo profondo il ricordo della verità ammonitrice contenuta in quel «Se dice» dove l'incosciente pettegolezzo della folla e l'ingenuo cicaleccio dei vicini genera improvviso il dramma che travolge anime e cose. E, invertendo infine ogni ordine cronologico, volgo ora un tenero sguardo a quel «Gente nosta» che segnò l'inizio di una collaborazione fraterna che non avrebbe avuto mai fine se l'avvelenato pungolo del «se dice» non avesse turbato anche i puri entusiasmi della nostra onesta giovinezza.
***
Quante volte la vita ci aveva divisi, e quante volte l'arte era riuscita a riunirci, non so. Questo ricordo: che bastava una prima pioggia d'autunno, un lontano suono di zampogna, una luminosa giornata di primavera, perché l'uno cercasse l'altro.
Dopo lunghi mesi di silenzio, il telefono squillava improvviso, ed una voce domandava: Oggi dove ci vediamo? – Al caffè della Pietrasanta – rispondeva l'altro.
E l'incontro era pieno di gioia: nuovi sogni, nuovi propositi, nuove speranze, e tanta fede ancora, e tanta bontà nei nostri cuori eternamente fanciulli!
***
L'ultima volta ci rivedemmo nella malinconia di un tramonto, lungo la via del mare.
Da un anno l'uno non chiedeva notizie dell'altro: la vita ci aveva nuovamente divisi, e altra neve era caduta sulle nostre tempie. Ci mettemmo a braccetto senza parlare. L'uno, sott'occhi, squadrava pietosamente l'altro. – D'un tratto, Ernesto, stringendomi forte il braccio, e mostrandomi con lo sguardo Posillipo lontano... e Capri... e Sorrento esclamò con una voce che non riesco più a dimenticare: Ah, Libero, Libero: e comme faccio a lascià chesto... chesto... chesto...?
Socchiuse gli occhi di fanciullo naufrago e continuammo a camminare. Ma una lacrima cadeva sulla guancia scarna del compagno. Era già notte. Nell'abbracciarci sentimmo che tra noi c'era una intrusa: era l'ombra dell'addio!
Ma addio per poco, compagno mio. Fra non molto noi riprenderemo il colloquio bruscamente interrotto, in una piccola città lontana, tutta verde di alberi, dove nessuna mano strappa le rose, dove gli uccelli cantano sempre, dall'alba al tramonto.
***
Forse stanotte una stella ti recherà il saluto della città che ti ama, e tu con gli occhi socchiusi ed il libro di Di Giacomo sul cuore, risponderai con un sorriso più triste del pianto: – Addio mia bella Napoli!

DON LIBERATO SI SPASSA


A Maria

Don Liberato si spassa... e detta:
pensieri
aforismi
proverbi
aneddoti
battute
confessioni
paradossi
maleparole
e tutto quanto gli passa per la mente.

DON LIBERATO SI SPASSA

Aggio scritto stu libro addò aggio miso
'nzieme a ll'erba selvaggia 'e rrose thè;
addò ce stà l'inferno e 'o paraviso
e addò 'o pezzente è ricco comme 'o Re.
'O ppoco ca tenevo l'aggio spiso
dint' a sti ciente pagine, pecché
Don Liberato primma 'e murì acciso,
quacche suddisfazione l'ha da havé!
Chi legge 'o libro mio guappo e verace
o pe' cuscienza o pe' nun fa' vedé
me l'ha dà dì nu «requieschiatta in pace».
'O galantomo dice: «Parla 'e nuie»,
ma 'o galioto penza «Parla 'e me»
e allegramente j' sfotto a tutte e duie.

FRUSTA, COCCHIERE

I
La libertà, dacché mondo e mondo, non è servita che a creare delle donne libere.
II
Il galantuomo laureato è quasi sempre un furfante mancato, un ladro senza iniziativa, un manigoldo senza coraggio.
III
V'è qualcosa di più triste di un piccolo cimitero di campagna: il palcoscenico di un caffè «chantant».
IV
Gratta la modestia del grande uomo, e verrà fuori la vanità della sciantosa.
V
I bei libri non servono che a mettere addosso la paura di scriverne dei brutti.
VI
Spesso fo legare il libro non potendo far legare l'autore.
VII
La donna che scrive mi dà, quasi sempre, lo stesso fastidio dell'uomo che cucina.
VIII
Tutti sanno scrivere, – pochi sanno leggere.
IX
Io so leggere.
X
Amo gli scrittori semplici e chiari, quelli con pochi avverbii e pochi aggettivi.
XI
Nella donna tutto è sacrificio; nell'uomo tutto è dovere.
XII
Rileggo ogni anno «Cuore» e «Pinocchio»; e più invecchio, e più ho qualche cosa da imparare da questi due libri.
XIII
Conosco dei criticonzoli acidi che hanno venti anni, gli occhiali d'oro, e la tisi.
XIV
Dir male di Victor Hugo oggi è di moda.
XV
Victor Hugo era una grande voce di Umanità.
XVI
Quelli che ancora difendono la vita e l'onore della Francia sono i suoi poeti. I morti, s'intende.
XVII
I giovani scrittori sono così immaginifici che disdegnano chiamar sedia la sedia. Occorre che essi trovino una preziosa immagine per indicare con nobile grazia l'umile arnese sul quale posiamo le natiche.
XVIII
Le descrizioni mi danno fastidio; anche le più belle. Per attraversare «quel ramo del lago di Como» ci ho impiegati dieci anni.
XIX
Come è facile scrivere difficile, e come è difficile scrivere facile!
XX
Nelle notti insonni rileggo Settembrini, e nelle pagine del gran vecchio la mia anima trova pace.
XXI
Arte senza cuore: Primavera senza sole.
XXII
I piccoli critici – dove sono i grandi? – amano sezionare la poesia come il chirurgo seziona il cadavere sul marmo anatomico.
XXIII
Fate tacere i critici per un anno, molto più, poco meno, ed avrete la piena rinascita dell'Arte italiana.
XXIV
D'Annunzio era l'ultima luce di Poesia.
XXV
L'antiromanticismo in alcuni uomini è una forma di pudore romantico; in altri non è che mancanza di cuore.
XXVI
L'umanità è romantica.
XXVII
Nelle piccole chiese di campagna, sepolte sotto la neve, trovo sempre Iddio.
XXVIII
Il popolo non ama che i suoi eroi e i suoi poeti; unisce, anzi, in un palpito solo poeti ed eroi, ed affida ad essi la sua anima e la sua storia.
XXIX
Se l'eroismo non costasse sacrificio sarebbe un affare di ordinaria amministrazione.
XXX
Gli uomini hanno il dovere di ridare alla vita il suo contenuto ideale.
XXXI
Un giudice senza umanità è un giudice senza giustizia.
XXXII
La povertà è il solo lusso degli uomini onesti.
XXXIII
Se io fossi ricco i miei poveri sarebbero più ricchi di me.
XXXIV
La politica se non è Arte, è mestiere.
XXXV
Quelli che meglio s'intendono di politica sono i poeti.
XXXVI
Si può essere grande poeta senza aver scritto un sol verso.
XXXVII
La gloria dei cosiddetti –grandi uomini napoletani– comincia in Piazza della Carità e finisce al Gambrinus. È gloria di un kilometro. Non più.
XXXVIII
Un matrimonio senza figli non è che un libro con tutti i fogli in bianco.
XXXIX
Della donna sopratutto amo la voce.
XL
Napoli tutto tollera e perdona fuor che l'ingegno.
XLI
I miei soli nemici sono coloro che io ho beneficati, ma Dio mi ha messo in condizione di punirli, beneficandoli ancora.
XLII
Pochi uomini san portare sulle spalle il grave fardello della gratitudine.
XLIII
La parola "grazie" è stata cancellata dal vocabolario.
XLIV
Agli amici non debbo nulla: il piedistallo della mia piccola gloria l'hanno creato i miei nemici.
XLV
Si può essere energico e bene educato al tempo istesso. Molti confondono energia con malacreanza.
XLVI
La vita se non è alimentata dalla fiamma dell'Ideale, è una volgare partita d'introito e di esito.
XLVII
Grandi uomini sono tutti; uomini sono pochi.
XLVIII
Prima di scriverla bisogna viverla la Poesia.
XLIX
Angelo Conti era un santo. Tutto gli era superfluo, anche il necessario.
L
I ricordi più cari sono profumati di malinconia.
LI
La sola storia vera è quella che noi inventiamo.
LII
Fra' Cristoforo dovrebbe esistere, ma don Abbondio esiste.
LIII
L'acqua divide gli uomini; il vino li unisce.
LIV
A volte ci vuole più coraggio a non dare un ceffone che a darlo.
LV
I figli sono la sicura della rivoltella.
LVI
Quasi sempre si esalta il morto per far dispetto al vivo.
LVII
Il ladro è sempre severo nel giudicare l'altro ladro.
LVIII
Giudico l'uomo dalla moglie che ha scelta.
LIX
Il pudore è l'intelligenza della donna.
LX
Tutti osano parlare di Arte, specie coloro che non se ne intendono.
LXI
Oggi il dramma dell'Arte è questo: il vecchio è irrimediabilmente vecchio, – ed il nuovo non vale il vecchio.
LXII
Se io fossi Vanvitelli non vorrei riaprire gli occhi.
LXIII
Il "soffietto" è la vergogna del giornale. Vile chi lo chiede, e più vile chi lo dona.
LXIV
Gli imbecilli soltanto dicono a volte delle cose nuove. Poiché il genio della imbecillità è in continuo progresso.
LXV
Gli uomini si amano, ma sentono il fraterno bisogno di sbranarsi ancora.
LXVI
La guerra è il primo passo verso la pace.
LXVII
Occhio alla piccola borghesia: è quella che più soffre e più tace.
LXVIII
L'istruzione non può essere obbligatoria e proibitiva al tempo istesso: i libri per i figli dei poveri costano troppo cari.
LXIX
A Napoli il successo dura un'ora, l'insuccesso un anno, – quando non ti accompagna per tutta la vita.
LXX
Non difendetemi mai. La cosa che più mi offende è la difesa.
LXXI
Non amo che il popolo e il popolo mi ama. Questa è la mia sola gioia e il mio solo conforto.
LXII
Non ho mai messo piede in un salotto dorato. Non  conosco che le fabbriche e le officine; ed è in mezzo agli uomini del lavoro che ho trovato la sola aristocrazia che amo.
LXXIII
Non credo che alla Verità e alla Poesia della terra! Ah, se di mio figlio potessi farne un agricoltore!
LXXIV
A te, vecchio contadino, curvo con la vanga sulla terra, solo a te bacerei la mano. Come a mio padre.
LXXV
Amo il cielo nuvoloso ed il mare in tempesta.
LXXVI
Molti sono stanchi di vivere. Io sono stanco di morire.
LXXVII
L'uomo nasce malvagio. Provatevi ad accarezzare un piccolo ancora in fasce, ed egli vi caccerà un dito nell'occhio.
LXXVIII
Ieri ho trascorsa la giornata più allegra della mia vita: me ne sono stato in piedi, dietro il balcone, non so quante ore, a guardare la pioggia che cadeva.
LXXIX
Odiare non so, ma disprezzare, sì. E profondamente.
LXXX
Non fo più uso di orologio. L'alba me l'annunzia il gallo del terzo piano, e la sera la campana di Donnaregina.
LXXXI
Il medico dei nervi mi dice: Distraetevi.
Caro quel medico! Il giorno che io riuscissi a distrarmi, sarei bello e guarito.
LXXXII
Vorrei essere bambino per aspettar sempre Natale.
LXXXIII
Peccato che i piccoli diventino grandi!
LXXXIV
Lo zampognaro di quest'anno porta il fiore all'occhiello, il cappellino sulle ventitré, e suona il tango.
LXXXV
I giovani disprezzano i nostri capelli bianchi, dimenticando che se noi non li avessimo bianchi, essi non li avrebbero neri.
LXXXVI
La prudenza è la virtù dei vili.
LXXXVII
Il più grande dovere dell'uomo è quello di esercitare il proprio diritto.
LXXXVIII
La madre è orgogliosa del figlio che è salito in alto, ma darebbe la vita per l'altro: per il figlio senza fortuna.
LXXXIX
È ingiustizia dire di un uomo cattivo: ha il cuore di un cane; sarebbe assai più giusto, invece, dire di un cane cattivo: ha il cuore di un uomo.
XC
Al povero darei sempre il mio abito vecchio se questo, purtroppo, non fosse il solo abito nuovo del mio guardaroba.
XCI
I pazzi sono i soli morti senza pace.
XCII
Il folle più pericoloso è il psichiatra.
XCIII
La bontà è quasi sempre un gesto letterario; la cattiveria è un sentimento umano.
XCIV
La differenza tra sentimento e sentimentalismo è questa: che il sentimento è lo stemma nobiliare dello spirito, laddove il sentimentalismo è una debolezza delle sartine alle glandole lacrimali.
XCV
Nell'uomo l'amore comincia quando finisce; nella donna finisce quando comincia.
XCVI
Passa per «uno che non ha bisogno» quel povero diavolo che, prima di chiedere cinque lire, si farebbe saltare le cervella. Io per esempio, non ho bisogno. Ma le mie scarpe mi guardano a bocca aperta.
XCVII
Vorrei vivere sulla più alta cima di un monte, dimenticato sempre dagli uomini, ricordato qualche volta da Dio.
XCVIII
Amo il fischio della sirena perché mi annunzia che c'è un vapore che parte.
XCIX
Il suono delle campane giunge sempre come una carezza al mio cuore.
C
Il programma massimo della vita non è la gloria e la ricchezza: è quello assai più modesto del «quietovivere» – Ma è irraggiungibile.
CI
Vi sono uomini che non avranno mai un amico perché hanno troppa paura di crearsi dei nemici.
CII
L'aggettivo è il solo responsabile di tutte le nefandezze umane.
CIII
Al miglior pranzo della trattoria preferisco il peggior di casa mia.
CIV
Amerei il teatro se non esistessero gli attori.
CV
Eschilo no, ma i giovani autori squadrano con alterigia l'ombra di Shakespeare.
CVI
Ammiro tutti i nostri scrittori di teatro, – nessuno escluso – ma non amo che Goldoni.
CVII
Goldoni ha venti anni.
CVIII
Il «grande interprete» mi dà fastidio, perché egli cerca sempre di scavalcare il pensiero del Poeta, tradendolo. Shakespeare, per esempio, a teatro non lo amo; nel libro, lo adoro.
CIX
Il solo teatro al quale resisto è quello dei pupi.
CX
Gli uomini sono assai più pettegoli e vanesii delle donne.
CXI
L'adulazione è un'arma di sicura conquista. In ispecie con le persone modeste.
CXII
L'anonimo produce il suo effetto sempre, anche sugli spiriti superiori. Specie su quelli.
CXIII
La iettatura esiste. Quelli che, ostentando superiorità di animo, dicono di non crederci, ricorrono a tutti gli scongiuri del caso, e nascondono ciondoli in tutte le parti del corpo.
CXIV
Conosco ed amo tutti i vicoli della vecchia Napoli. È giusto che il piccone li squarci, ma è anche umano che il mio cuore senta i rumori del piccone.
CXV
La solitudine è la sorella maggiore della Poesia.
CXVI
Napoli si conquista con la simpatia.
CXVII
Se il ladro non rubasse, correrebbe il rischio di passare per un galantuomo.
CXVIII
La più grande gioia dell'uomo è quella di dominare l'altro uomo.
CXIX
Guai quando il servo diventa padrone!
CXX
Napoli ha avuto un grande filosofo: Pulcinella.
CXXI
Vi sono dei folli che scrivono per la gloria dei posteri; io scrivo per la gioia dei miei più lontani antenati.
CXXII
La verità è un genere di lusso; la menzogna, un genere di prima necessità.
CXXIII
Meno trucco, signorine, meno mostra di seni e di gambe e meno unghie al pomodoro se volete che si delinei all'orizzonte una cicca di marito.
CXXIV
Le spiagge balneari non sono che scuole di tirocinio per le case da thè.
CXXV
Il ballo moderno non è che un surrogato delle acrobazie da alcova.
CXXVI
È inutile dettar massime di onestà ai propri figli. È l'esempio quello che conta.
CXXVII
Le tre cose più difficili sono: leggere bene, – suonare bene il pianoforte, – cucinare bene un piatto di vermicelli.
CXXVIII
Non ho che una sola paura: quella di non aver paura.
CXXIX
Nulla ho mai chiesto e nulla ho da chiedere. Non aspiro a niente e non invidio nessuno. Mi trovo, quindi, in uno stato di grazia.
CXXX
Fortuna che io so gustare tutta la ricchezza della povertà.
CXXXI
L'uomo è vile per istinto: è il ragionamento, l'ambizione, il calcolo o l'incoscienza che lo rendono coraggioso.
CXXXII
Molte volte l'uomo taciturno è scambiato per un pensatore mentre non è che un povero fesso che non ha nulla da dire.
CXXXIII
Quando la bocca tace, son gli occhi che debbono parlare.
CXXXIV
Profumi e canzoni destano malinconie e ricordi.
CXXXV
Comincio con lo schernire me, – e poi, a distanza, vengono gli altri.
CXXXVI
I romanzi gialli più vorrebbero atterrirmi e più mi mettono di buon umore.
CXXXVII
Vi sono tre cose fastidiose delle quali – una volta introdotte nella nostra vita – non riusciamo più a fare a meno: la radio, il telefono, la moglie.
CXXXVIII
Un solo guaio, anche se piccolo, è sempre dramma; molti guai, messi insieme, diventano farsa.
CXXXIX
Nei concorsi il più delle volte sono giudici tutti coloro che, se concorressero, sarebbero riprovati.
CXL
Per la maturità non c'è più posto: a vent'anni si è giovani, e a trentacinque, si e vecchi.
CXLI
L'attesa è il solo filo che ci lega alla vita. Anche quando essa e vana.
CXLII
Per essere molto amato bisogna amare poco.
CXLIII
Se non mancasse niente alla nostra felicità, il pensiero della morte basterebbe a renderci infelici.
CXLIV
Che pagherei per essere una «Autorità!» – Almeno potrei dormire placidamente durante le conferenze.
CXLV
Molti scambiano per umorismo – suprema eleganza dello spirito – una specie di comicità violenta, cara ai vecchi comici delle farse pulcinellesche.
CXLVI
In tutti i salotti mondani o borghesi, vi è sempre il solito fastidioso idiota che passa per uomo di spirito. E si chiama Memè, Totò, Fifì. Alle sue facezie le signore esclamano: Dio, quanto è spassoso!
CXLVII
Nella famiglia l'uomo è «volto »; nella società è «maschera». Io lo giudico nella famiglia.
«DE AMICITIA»
CXLVIII
Gli amici occorrono per il cuore; i nemici per la gloria.
CXLIX
Non è vero che io sia un uomo d'ingegno: valgo appena venti volte più di tutti i miei nemici messi insieme.
CL
Se minacciassi un dizionario dei «piccoli grandi uomini» napoletani, molti di essi non chiuderebbero occhio la notte.
CLI
Il diritto ad avere dei nemici si conquista a caro prezzo.
CLII
Gli amici non servono ad altro che ad informarci che abbiamo dei nemici.
CLIII
Spesse volte vi capita di imbattervi in un amico che ha un favore da chiedervi. La prima cosa che egli vi dice è questa: «L'altra sera, nel caffè, tutti ti davano addosso, – io solo ti ho difeso» – E conchiude: «Convincitene, tu a Napoli non hai che un solo amico, e sono io».
Voi tornate a casa, barcollando. «Un solo amico? – Uno? – E gli altri novecentonovantanovemila abitanti?». E vi cacciate nel letto per la gioia di mordere il guanciale.
CLIV
– Sai, ieri sera Tizio mi ha detto che tu sei una canaglia.
– E tu?
– Caio mi ha detto che tu sei una lingua d'inferno.
– E tu?
– Sempronio mi ha detto che sei un idiota tronfio ed obeso.
– E tu?
– Io?! Io te lo vengo a riferire.
Phff! Un terribile ceffone. E cala la tela.

SONA, CHITARRA!

I
Tutto è azzurro a Napoli. Anche la malinconia è azzurra.
II
Se non fossi un poeta sarei veramente povero.
Poesia è la sola realtà eterna che eleva lo spirito dell'uomo fino a Dio.
III
I dialetti sono eterni.
Gesù parlava in dialetto.
Dante scriveva in dialetto.
Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto.
IV
Il Poeta del golfo di Napoli? – Eduardo Dalbono.
V
Conosco una giovane cieca dirimpetto casa mia che ha la voce d'oro. Ella, durante trecentosessantaquattro giorni dell'anno se ne sta, sola e silenziosa, seduta dietro il balcone. Nel giorno dei morti apre il balcone. E canta.
VI
Il tenore celebre è quasi sempre un idiota canoro.
VII
Non amo che un solo violinista al mondo: il cieco che suona alla cantonata di casa mia.
VIII
Lo strumento che più mi commuove è la chitarra. Ma deve essere suonata male.
IX
Il cantante che più ho amato è lo «Zingariello» il vecchio posteggiatore di Posillipo che cantava senza voce, quasi, accompagnandosi con la chitarra. Wagner lo condusse con sé in Germania per sentirgli sospirare nell'ora del tramonto, sotto gli alberi, nella sua casa di campagna:
Era de maggio e te cadeano 'nzino
a schiocche a schiocche li ccerase rosse...
X
A Napoli ogni alba è venata di tramonto, e ogni tramonto ha il chiarore di un'alba.
XI
Adoro la poesia, ma detesto i versi.
XII
Napoli ha avuto due poeti del popolo, due grandi poeti: un povero guantaio morto di tisi a venticinque anni ed un garzone di osteria di campagna, spentosi nella più squallida miseria: l'uno si chiamava Vincenzo Russo e l'altro Giuseppe Capaldo. Ai maestri, no: a questi due popolani invidio qualche poesia.
XIII
Di Giacomo è sempre arpa e flauto; Russo è orchestra.
XIV
Capurro e Di Capua, gli autori di «'O sole mio» sono morti l'uno in una squallida soffitta e l'altro all'ospedale...
"Che bella cosa è na iurnata 'e sole"!
XV
Gambardella, il musico istintivo che componeva le canzoni sulla chitarra, era il malinconico sorriso di Napoli.
XVI
I grandi tenori non sanno cantare le canzoni; una sola eccezione: Caruso. Le cantava come un Dio.
XVII
Tagliaferri – Falvo – De Curtis: tre corde d'oro della chitarra napoletana. E tutte e tre si sono spezzate. In meno di un anno.
«Sona chitarra, sona: t'è rimmasta una corda, si pur'essa se scorda, fernimmo 'e sunà!»
XVIII
Insegno da trent'anni – invano – che la differenza tra canzone e canzonetta è enorme. La canzonetta (chansonette) è di pura marca francese; la canzone è di purissima marca italiana.
XIX
È gran segno di ignoranza rimpiangere le canzoni antiche: in ogni canzone moderna vi sono, a dir poco, cinque motivi di canzoni antiche.
XX
La canzone di Napoli è ambasciatrice di pace nel mondo.
– È voce d'Italia in terra straniera.
– È grido di amore, ma è segno di forza.
– E sempre profumata di malinconia, anche quando è allegra.
XXI
Un popolo che non canta o è fiacco o è scontento.
XXII
I nostri soldati hanno combattuto cantando.
XXIII
I nostri soldati hanno vinto cantando.
XXIV
Napoli lavora e canta.
XXV
Capri, Sorrento, Amalfi, Ischia sono paesi di sogno. Ma Posillipo è una realtà sognante: è una tela di Dalbono che piange e ride sul mare.
Ridestiamo Posillipo, cuore palpitante del golfo, e facciamolo cantare.
XXVI
Inventiamola la «Festa di Posillipo». Una festa di luce, di canti e di suoni, con la cantatrice del popolo e tutte le barche a mare. Barche infiorate di rose e garofani e di belle figliole.
XXVII
Una gara gastronomica, in tanta festa di poesia, non guasterebbe. Gli iconoclasti soltanto possono disconoscere l'importanza mistica del vermicello alle vongole.

PAROLE CHE SON MUSICA

XXVIII
I proverbi napoletani sulla madre sono di una rara bellezza. Ecco, ammiratene alcuni:
– Chi te vò cchiù bbene 'e mamma te 'nganna.
(chi dice di amarti più di tua madre, ti inganna).
– Ogni scarrafone è bello a mmamma soia.
(ogni scarafaggio è bello agli occhi di sua madre).
– Chi tene mamma nun chiagne.
(chi ha la madre non piange).
– 'E mamma ce ne stà una.
(di mamma non ce n'è che una).
– Na mamma è bbona pe' ciente figlie, e ciente figlie nun so' buone pe' na mamma.
(Una sola madre è utile a cento figli, e cento figli non sono utili ad una sola madre).

PIEDIGROTTA

XXIX
Pasquariello e Donnarumma. Donnarumma e Pasquariello.
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  e poi, poi, e poi tutti gli altri.
XXX
(da agosto a settembre)
Il mio giovane e fantasioso figaro che tresca con le Muse e con la moglie del beccaio dirimpetto, ha scritto la sua poesia e me la declama con gli occhi chiusi. Io lo ascolto con la faccia insaponata e con rispetto, ma gli trattengo la mano armata di rasoio. L'entusiasmo dei poeti mi fa paura.
XXXI
Non v'è napoletano che in questi giorni non abbia bella e pronta la sua musica o la sua poesia. Tutti sono in amore con le Muse: il medico, l'avvocato, il farmacista, il professore di latino e greco, il commesso del bancolotto, l'impiegato alle pompe funebri, l'usciere di tribunale, il furiere di marina, la guardia di finanza, il venditore di cocomeri. Uomini di tutte le caste, di tutte le categorie, di tutte le età: un vero trionfo del Genio umano.
XXXII
A Posillipo si canta, a Santa Lucia si canta, a Via Caracciolo si canta, nei vicoli senza aria e senza sole si canta. La miseria è romantica e canora; vuole un po' di verde al balconcello e una chitarra. Tutto è musica intorno. Musica è il violino del vecchio cieco che piange nelle ore della canicola sotto casa mia e musica è la campana del Carmine che suona a lungo sull'imbrunire; musica è la nenia delle mamme e musica è la voce dei venditori ambulanti che destano l'alba e cantano la ninna nanna alla sera. È una città questa o è una canzone? È forse l'una e l'altra cosa, messe insieme. Mentre l'anima si culla in questo sogno dolcemente canoro, le prime trombette di Piedigrotta la destano con violenza. Sono i primi monelli vestiti di «carta velina», con elmi e sciabole che passan per la via.
XXXIII
L'altra notte (venti dicembre) un uomo sui quaranta anni si è fermato sotto il mio balcome per sospirare «Signorinella» accompagnandosi con la chitarra.
Faceva freddo e le nuvole erano minacciose, ma il mio interprete sfidava gli elementi.
«Bei tempi di baldoria,
dolce felicità fatta di niente...
brindisi coi bicchieri colmi d'acqua
al nostro amore povero e innocente.
... Negli occhi tuoi passavano
una speranza, un sogno, una carezza...
avevi un nome che non si dimentica,
un nome lungo e breve: Giovinezza.»
Poi l'uomo ha gridato: Buonanotte. E si è allontanato barcollando. Ma non era ubriaco.
XXXIV
Una illustre scrittrice diceva: «Al popolo nessuno parla di patria e di libertà, nessuno gli dice che ha un diritto, nessuno gli suggerisce la parola eguaglianza: il popolo non sa la storia, e nessuno cura d'insegnargliela; eppure il popolo si solleva, combatte, cade, risorge, è glorioso: una canzone patriottica lo ha infiammato, ne ha risvegliato il valore e sostenuto il coraggio. Nel 1860 vennero fuori mille canzoni di guerra, senza sapere chi ne avesse gettato il primo verso, la prima nota; al loro suono sorgevano i soldati dalla terra, i giovani ed i vecchi sentivano per le vene un fremito; i cervelli si mettevano in tumulto, le mani correvano alle armi; e si moriva, si moriva con la gioia negli occhi ed il canto sulle labbra».
E ventidue anni or sono, mentre i nostri fanti si battevano al fronte, il soldato «Di Gaetano Salvatore» scriveva questa lettera a sua madre:
Mia cara matre,
non mi scrivere quelle lettere che mi spartono l'anima. Io sono contento. Non mi manga niente. La porto sempre appresso la chitara che mi regalai zio Ferdinando, e le suono io medesimo e le canto tutti le canzoni di Napoli. Mia cara matre, io penso sempre a voi a Maria, a Luigiello e a Ninuccio che lo lasciò più piccolo ed ora si sarà fatto più crande, e sono sicuro che torno perché voi mi aspettate e quella bella Mamma del Carmine ci deve fare questa grazia. Il tenente mi vuole bene, e quando nessuno lo vede, anche lui si mette a cantare: è forastiero, ma travede per Napoli...
Come facessi, mamma mia, senza la chitara!
Ma il nemico non metterà piede sulla terra d'Italia! – Mia cara matre, i sordati napoletani sanno cantare, ma quando è il momento sanno combattere e morire.
Ti bacio la mano
il vostro figlio
Di Gaetano Salvatore
Il soldato abitava al Vicolo Lammatari, 48, e cadde nell'estate del 1916, durante la presa di Gorizia.
XXXV
Di lettere ne conservo molte, anche troppe. Ma la più cara mi è questa, perché mi viene da un Eroe che è un Poeta. Non affetto un piccolo sentimento di vanità nel pubblicarla: obbedisco ad un grande sentimento di orgoglio.
Firenze, 14-5-928
Illustre Amico,
dalle fraterne mani di Feliciano Lepore ho avuto il prezioso dono, ma prima di scriverle ho voluto farmi leggere in buon accento partenopeo la maggior parte del volume.
Le canzoni le conoscevo quasi tutte, anche perché ho il vizio di cantarle a dispetto della mia pronunzia toscanissima, e già ammirava il poeta; vorrei ora poter dire la mia ammirazione all'artista che mi è parso non meno singolare nella più compiuta opera, per quanto la rudimentale conoscenza del dialetto napoletano mi dia ragione di temere che non tutte le grazie dello stile io abbia potuto afferrare.
Leggendo questi versi che sono di per sé musica, si capisce perché in tempi di estrema povertà melodica i maestri napoletani abbiano trovato tanta ispirazione al canto.
Ho poi notato che i suoi accenti più felici scaturiscono da uno stato d'animo che chiamerei di ironia dolorosa e credo di potere affermare che certe sue strofe fra la disperazione e il sarcasmo, piene di intensità lirica e insieme drammatica, siano tra le cose più belle scritte ai giorni nostri.
Vorrei infine fare la mia dichiarazione d'amore a Napoli che veramente ci fa «chiagnere e cantà» ma sarebbe una concorrenza temeraria la mia; mi limiterò a dirle che il mio è l'accorato amore di un cieco per la città della luce e del canto.
Tante grazie.
Carlo Del Croix

RIDI, PAGLIACCIO
I
Un giorno il vecchio attore Mimì De Cesare, sdentato e obeso, con tono di estrema desolazione mi diceva:
– Ah, caro signore, i miei compagni di arte mi combattono, perché io nella mia vita non ho che un solo torto: quello di sapere leggere e scrivere.
Per confortarlo, battendogli forte la mano sulla spalla, gli gridai:
– No, caro De Cesare: voi non avete nessun torto.
II
Si provava, trent'anni or sono, al teatro Nuovo, una mia commedia per la quale ho ancora qualche tenerezza, e ne curavo io stesso la messa in scena.
Eravamo alla decima prova, ma, fra i miei interpreti, v'era una piccola attrice che non riusciva a imbroccare una battutina di cinque parole, che, in sostanza, rappresentava tutta la parte. Io che avevo fatto sforzi sovrumani per contenermi, quel giorno scattai, e, con quanto fiato avevo in gola, gridai il mio sdegno alla bellissima giovinetta:
– Taci – le dissi – tu non riuscirai mai a dire tre parole «Sei nata per tacere.»
Difatti, dopo un anno, poco più, poco meno, quella piccola attrice – Francesca Bertini – era già una diva dell'arte muta.
III
Ero alle mie prime armi – si tratta di quarant'anni or sono (vedi Lombroso «delinquenza precoce») quando inviai al direttore d'un «settimanale letterario» che si pubblicava una volta all'anno, una mia novella dal titolo «Ninetta mi vuol bene». Dopo qualche tempo, nella «piccola posta» di quel giornale, il direttore – un letterato austero, così mi rispose:
– «La vostra novella non vale niente. È sgrammaticata. «Insegnate» prima a scrivere»!
IV
Ad un nostro giovane scrittore che con sussiego mi annunziava che il suo nuovo romanzo sarebbe stato tradotto in tedesco, francese, spagnuolo, inglese e giapponese, io, ingenuamente, osai domandare:
– E sarà tradotto anche in italiano?
V
Non avevo venti anni, quando fui invitato a parlare al convitto di Aversa. Nella piccola sala erano un centinaio di convittori, non più, – e qualche vecchia signora. Le prime file di sedie erano occupate da uomini o che sorridevano a pena, o senza sorriso.
Per tre quarti d'ora, la cosa andò bene, ma, verso la fine, si levò, inaspettatamente, un vecchio, che, protendendo le braccia in alto, si mise a gridare: «Ingiustizia! Ingiustizia! Ingiustizia!
È un'ora che costui parla da solo e nessuno osa toccarlo. A me, se parlo da solo un minuto, mi mettono la camicia di forza, e mi trascinano nella cella».
VI
Giorni or sono, sul pianerottolo di casa mia, mi imbattei in quattro becchini che recavano sulle spalle una grossa bara che doveva ospitare una vecchia signora che abitava nel mio palazzo.
I quattro, nel vedermi, furono presi da un accesso di cortesia e mi gridarono a coro:
– A servirvi sempre, commendatò.
– A favorirmi quanto meno è possibile – risposi con un fil di voce.
Ma ricorsi per circa un'ora ai più efficaci scongiuri del caso.
VII
– Don Liberato, ho da parlarvi.
– Dite.
E ci fermammo presso il portone di casa mia.
– Sono un poeta.
– Bene.
– È questo il mio libro di versi. Ve l'offro in omaggio.
Il poeta era un ometto biondiccio. L'epa abbondante gli ballonzolava sulle gambe esili, e dal faccione gonfio e pallido gli emergeva un incredibile naso a becco di pappagallo. Oro al panciotto, alla cravatta, al collo, al polso, alle mani: oro dappertutto; e un grosso brillante al mignolo, che egli agitava senza tregua per mettere in mostra il mostruoso anello.
Egli parlava con voce melliflua, socchiudendo gli occhi grigiastri.
– Io vivo in alto, nel mondo dei sogni. L'umile vicenda quotidiana non mi sfiora.
– Bene.
– L'Ideale: ecco il mio Dio.
– Bene.
– La Poesia è il solo piatto della mia mensa.
– Meglio ancora.
– A tutto resisto, ma al dolore degli umili, no.
– Tutto d'oro, anche il cuore.
– E questi che vi offro non sono versi: sono lacrime.
Un silenzio pieno di commozione.
– E d'altro non vi occupate? – Di poesia soltanto?
– Ho anche un'agenzia di pegni in piazza del Mercato.
VIII
Un poeta dialettale, facilmente identificabile, venne tutto turbato in cerca di me, perché aveva ricevuto una lettera anonima nella quale la sua effige era raffigurata da un disegno osceno.
– A me questo affronto? Dopo trenta anni di arte?!
Io cercavo di rasserenarlo, ma ogni mia parola era vana. Egli era agitatissimo, e carezzava violenti propositi di vendetta.
Ora non rivolgeva più a me la parola, ma al suo ipotetico offensore, e, agitando le braccia, gli gridava:
– Tu vuoi scrivere una lettera anonima, – e sta bene. Ma devi avere almeno il coraggio di firmarla col tuo nome e cognome.
IX
Quando Ferdinando Russo fu esonerato per poco rendimento dal suo ufficio di ispettore del Museo, il vecchio custode dell'esportazione, Filippo Imparato, entrò singhiozzando in una stanza nella quale eravamo tutti raccolti, e cadde in ginocchio ai piedi del poeta.
– È overo, signore Rispettore, ca v'hanno dissonorato?
– No, se so' dissonorate loro, Filì.
X
Ferdinando Russo che amava sostare davanti a Wan Bol, nel vedermi passare sul marciapiede dirimpetto, mi chiamò.
– Don Liberà, questa bella signora desidera conoscervi, perché ama le vostre poesie, ed io sono lieto di presentarvela.
La bella signora indietreggiò per squadrarmi dalla testa ai piedi. Poi, a fior di labbra esclamò: Dio, che delusione!
Don Ferdinando mi confortò offrendomi un cannolo alla siciliana.
XI
Zacconi rappresentava «Spettri» al Politeama. La sala trasudava terrore. Gli spettatori trattenevano il respiro. La pipa di Osvaldo metteva brividi nel sangue. Quando però la signora Alving svela al figliuolo che Regina è sua sorella, un signore che mi sedeva accanto, e che io non avevo il bene di conoscere, dandomi un terribile colpo sulla gamba, grida con una voce di cannone singhiozzante: Ma che bell'intreccio!
XII
– Avete visto, don Liberato? – quell'oratore ha parlato per un'ora e tre quarti senza sputare mai...
– Lasciava a me questo diritto.
XIII
Avevo venti anni, poco più, poco meno, quando fui assunto in qualità di avventizio al Museo Nazionale di Napoli. Ero pagato a settimana, come gli operai, e, se le cose andavano bene, riuscivo perfino a guadagnare una sessantina di lire al mese, con un po' di lavoro straordinario, s'intende.
Il direttore di quel tempo non aveva per me eccessive tenerezze, tanto è vero che stimò opportuno relegarmi in una specie di casalone gelido e abbandonato che non presentava altro pregio che quello di una cucinetta nascosta in fondo ad un corridoio fetido e buio.
In questa isola vivevo io solo, come un appestato. E copiavo carte dalla mattina alla sera.
Nel febbraio del 1904 ebbi "un alto incarico di fiducia", un incarico nel quale dovevo dar prova della mia intelligenza: la copiatura di un vecchio inventario del Museo di San Martino. Si trattava, naturalmente, di un lavoro scemo ed inutile che sapeva più di castigo che di altro.
Ed io copiavo...
Un giorno, mentre me ne stavo con la testa china sugli enormi registri impolverati, mi vidi dinanzi il direttore, un austero retore affetto da insanabile megalomania, il quale era entrato, in punta di piedi quasi, con un giovanotto scalcagnato, rossiccio, mezzo calvo, con un po' di mosca al mento.
– Bovio, da oggi ti è compagno questo giovane scienziato di larga preparazione e di severi costumi. È un archeologo che vien di Sicilia. È caro a Napoleone Colaianni, e ti sarà collega e maestro.
***
L'austero giovane prese posto alla scrivania dirimpetto.
– Che aiu a ffare?
– Dividiamoci il compito. Copiamo.
– Il siciliano mi guardò a lungo, avrebbe voluto dire qualche cosa, poi preferì tacere. E brandì la penna. L'indomani trovai che i suoi fogli erano candidi, ma non osai muovergli rimprovero.
A mezzogiorno, egli che già si era reso conto di tutto, mi fece notare che in fondo, nascosta, c'era una piccola cucina, e che egli, un piatto caldo riusciva a cucinarlo.
– E per la spesa?
– Ci penso io.
Gli diedi pochi soldi, ché lui non si trovava spiccioli, ed il mio giovane maestro provvide a tutto. I suoi fagioli erano un capolavoro.
Passarono dei giorni ed i suoi fogli erano sempre bianchi, ma le sue zuppettine, che io pagavo per due, erano sempre più saporose.
Egli già m'era devoto e mi dava del «Signore»; finché un giorno mi disse piangendo:
– Io le debbo parlare.
– Parla.
– Per carità, signor Bovio, non mi rovini. Io nun sugno scienzato. Io non so scrivere.
– E chi sei? Che sai fare?
– Io sugno coco.
– Ora ti ammiro, gli gridai. E sollevandolo da terra, strinsi tra le mie braccia fraterne l'Archeologo dei fagioli.
XIV
– La mia più bella caricatura la fece due anni or sono, durante una interminabile seduta del Consiglio della Società degli autori, il filosofo Bodrero – dice Marinetti.
– La mia più bella caricatura è opera di una pittrice olandese, – sospira Mascagni.
– La mia più bella caricatura l'ho fatta io, – brontola Luigi Chiarelli.
E a te, Bovio, chi ha fatto la più bella caricatura? Domandano tutti e tre in coro.
– Iddio!
XV
È vera come la luce del sole.
Un ladro in attività di servizio aveva sposato una donnina allegra. Ora entrambi comparivano davanti al tribunale non so per quale reato.
– E costei è vostra moglie legittima? – domandò il presidente al ladro.
– Sì, Eccellenza.
– E avete avuto il coraggio di sposarla?
– Sì, Eccellenza. Anche la donna caduta ha il diritto di essere riabilitata.
XVI
Un mio vecchio zio che si tingeva i capelli, mi gridò un giorno:
– Rispetta almeno i miei capelli bianchi!
– Non posso rispettarli. Sono troppo neri.
XVII
Petrolini mi disse: Vieni anche tu a Salerno, eseguirò per la prima volta Amleto. O ci porteranno in trionfo, o ci "meneranno forte".
Il pubblico, che aveva ascoltato in un silenzio glaciale ed ostile la "irriverente macchietta" mi sembrò che propendesse per la seconda manifestazione, quella delle botte.
Corsi a ripararmi nel camerino di Ettore che si truccava per "I salamini".
– Non ti hanno menato? – gridò ridendo Ettore, e si mise a sghignazzare:
Ho comprato i salamini e me ne vanto.
Entrò un brigadiere seguito dall'appuntato.
– Petrolini è lei?
– Sì. E questo è Bovio.
– Mi seguano in questura.
– Io verrò dopo. Per ora si porti Liberaccio in pegno.
Il brigadiere era possessore di un paio di baffi senza precedenti nella storia dei peli.
– Me lo impresta questo paio di baffi? La richiesta di Petrolini decise il brigadiere a trascinarmi per il braccio, dopo aver fulminato con lo sguardo il mio insolente collaboratore.
– Me seguisse.
Lo seguii.
***
Lunga anticamera.
Finalmente sono ammesso alla presenza del brigadiere che, nella sua prima giovinezza, aveva scritto per il teatro. L'uomo di ferro, seduto al suo tavolo, faceva roteare gli occhi nell'orbita, squadrandomi torvo e minaccioso.
– Voi e quell'altro buffone siete due pessimi italiani...
– Due pessimi inglesi, tutto al più.
– Silenzio! Con una parodia scema e balorda avete profanato il nostro più grande autore tragico.
– Ma...
– Non c'è ma che tenga! Amleto è un capolavoro, ed io me ne intendo...
– D'accordo.
– Silenzio! Voi due avete offeso la memoria di Vittorio Alfieri. Che schifo!
XVIII
Al consiglio della società degli autori sedevo sempre tra Mascagni e Marinetti, e mi studiavo di apparire gioviale anche nelle mie giornate più nere. Quella volta però ogni mio sforzo era vano: non riuscivo a sorridere. Il caro Forges, nostro presidente, parlava parlava parlava, e diceva, come sempre, con previsione e chiarezza, cose di singolare importanza, ma io non gli prestavo ascolto: non facevo che scarabocchiare pupazzetti su grossi fogli di carta che m'erano davanti.
– Che hai?
– Niente, Marinetti.
– Non sei Bovio "tuttanapoli" oggi.
E riprendevo a scarabocchiare pupazzetti.
– Ti senti male?
– Mi pesa la testa.
Ecco che s'apre la porta, e l'usciere mi reca un telegramma. Lo apro con mano tremante e leggo.
D'improvviso mi trasformo; ora gli occhi mi ridono di gioia: sono un altro uomo.
– Dunque? – domanda Marinetti che, come sempre, aveva compreso tutto.
– Mio figlio ha vinto gli esami – gli rispondo con voce gioiosa e commossa.
– S'è laureato?
– No: è passato in seconda elementare.
XIX
Uscivo dal vecchio Roma, dove lavoravo di notte, in cronaca, e mi avviavo verso casa, quando mi si pararono dinanzi, nell'ombra, due amici della repubblica delle lettere.
– Si va dal pizzaiolo di Vico Baglivo?
– Si va. – risposi. Ma senza entusiasmo.
La notte era gelida, ed avevo più sonno che fame, ma la parola "no" sulle mie labbra non fiorisce.
La pizzeria di Vico Baglivo era una topaia divisa in due vani: cucina con forno e tre metri di sala da pranzo. Un breve arco separava i due buchi.
Sedemmo alla nostra solita tavola, in fondo, ed Alfonso, senza interrogarci, gridò con la sua voce nasale:
– Una, mozzarella e pommarola a numero 3.
(Una pizza con mozzarella e pomodoro al n. 3).
Alfonso aveva sessant'anni, ed era possessore di un solo dente, un paio di gambette arcuate ed un frak verdastro nel quale aveva riposte le ultime briciole del suo orgoglio. Leggere non sapeva, ma per gli uomini di lettere nutriva una speciale tenerezza perché non so per quale motivo "gli ricordavano di suo padre" che era morto in galera. Ma non per motivi letterari.
Avevamo già dato la stura ai nostri discorsi preferiti: (di Giacomo, Russo, Scarfoglio, il teatro Nuovo, don Gennaro Pantalena, Scarpetta, Gambardella, Di Capua, la Sampieri, ecc.) quando la porta a vetri si spalanca ed insieme ad una gelida ventata di febbraio, entra una comitiva di formose bagasce e di mastodontici malandrini: gruppo da teatro dialettale: "crespi" di vario colore e bombette sulle ventitré. I più guappi avevano il neo sulla guancia ed una grossa moneta d'oro attaccata alla catena.
Alfonso portò il mento sull'ombelico; in segno di rispetto: non ho memoria di più profondo inchino.
Ordinarono, e, nell'attesa, aprirono il libro delle bravure: mazze, ceffoni, pistole, coltelli, fughe, ospedali, galera, assuocci, dichiaramenti, e ad ogni bravura un orgoglioso sorriso di bagascia in amore.
Ecco che sotto l'arco appare Alfonso con il ruoto della nostra pizza nella palma destra. E sta per avviarsi verso il nostro tavolo.
– Addò vai? grida uno di quei ceffi.
– Numero 3 – mozzarella e pommarola risponde Alfonso con un fil di voce.
– Ferma. Addò stamme nuie, nisciuno mangna primmo 'e nuie.
Alfonso divenne Don Bartolo, nel Barbiere: sembrava una statua.
I miei compagni già da un pezzo cercavano qualche cosa che forse non era caduta, sotto la tavola.
Mi alzai sorridente e tranquillo, e, senza parola, presi il ruoto dalle mani di Alfonso e lo portai a tavola. E sedetti calmo calmo al mio posto.
Un momento drammatico. Le donne si guardavano sgomente. C'era un candidato alla morte: ero io.
– Giuvinò... (era il più malandrino che ora rompeva il silenzio, fissandomi bene in viso e scandendo le parole con una calma piena di minacce)... voi forse non avete bene capito con chi avete da fare...
(Il guappo giovane si mordeva mezzo labbro, ridendo nervosamente).
– No.
– Noi siamo gli Ammendola di Secondigliano (e fece per alzarsi, ma la sua femmina lo trattenne).
– Bè siete dei guappi?
– ...Eggià...
– Ed io i guappi sapete come li tratto?
– Comme 'e ttratte? – urlò la belva con gli occhi di fuoco.
– Io i guappi li prendo a calci in culo.
XX
Andai a veder Musco sulle scene, al Mercadante. Erano molti anni che ci eravamo perduti di vista, da quando cioè, seduti davanti ad un tavolo del caffè Nazionale, a Roma, presente Ernesto Murolo, io gli consigliavo di formar compagnia da solo.
– E li piccioli?
Un sorriso amaro, ed il consiglio fu cestinato.
L'incontro fu pieno di tenerezza. Ricordammo la sua prima venuta a Napoli, in un agosto di fuoco, al teatro Rossini, e qualche pacchetto di sigarette fraternamente diviso. Data la stura ai ricordi, qualche lacrimuccia cadde sul panciotto multicolore del siciliano. Poi Angelo volle donarmi una sua fotografia.
Gli occorse una buona mezz'ora per la dedica, la quale gli venne fuori – 'mpruvvisa e spuntanea –.
Era il cuore che gli parlava. La dedica era questa: A Libero Bovio – mente grande e cuore sano – Angelo Musco.
Un abbraccio suggellò il dono.
Io, che come tutti gli uomini modesti, sono affetto da una insanabile vanità, corsi a casa, perché non vedevo l'ora di mostrare la fotografia a mia moglie, ai miei figli, agli amici, alla domestica e a Musetta, la piccola cagna bastarda e fedele che partecipa con formidabili capriole, alle mie più grandi gioie.
Tornai dopo due sere per portare a Musco il mio libro di teatro che egli mi aveva chiesto. Sulla porta del palcoscenico mi imbattei nel suggeritore che, sorridendo commosso, non si stancava di ammirare una grande fotografia della quale era l'unico possessore.
– Chi è?
– Don Angelo.
– Bravo.
– Fighiuzzo! E che dedica m'ha scritta!
– Lascia vedere.
Gli strappai la fotografia di mano, colto da un tragico presentimento.
– Ad Angelo Sapuppo – mente grande e cuore sano – Angelo Musco –.
XXI
Il lustrascarpe, smettendo di lustrarmi le scarpe, mi domandò all'improvviso, con aria minacciosa:
– Bè, e quando arrivano i diritti di autore?
– I diritti di autore? E a te che importa?
– Gesù, che importa?! Io sono socio a Roma. I' so' poeta.

SIAMO ARRIVATI

I
L'umorista con un occhio ride, e con l'altro piange.
II
L'amore è una cosa seria; gli innamorati sono una cosa ridicola.
III
L'uomo, quando sta per andarsene, fa testamento. Il mio testamento è questo libriccino nel quale lascio a tutti, anche agli immeritevoli, un piccolo dono di esperienza. Esperienza che m'è costata quarant'anni di martirio.
IV
Per me, ho dettato questa epigrafe:
Qui non riposa
Libero Bovio
perché gli altri morti
la notte
litigano tra loro
e gli danno fastidio.
V
Cogliere il lato comico delle cose, non significa fare della maldicenza come qualche vecchio cipresso potrebbe credere. Significa, invece, avere ingegno, molto ingegno. Troppo ingegno.
VI
O tutto da ridere o tutto da piangere. Perché? Non è forse la vita triste, gaia, malinconica, spassosa, tragica, comica al tempo istesso?
E perché il libro non deve essere triste, gaio, malinconico, spassoso, tragico, comico, come la vita?
VII
La donna vuole essere compatita sempre, e non vuole compatire mai. Anche al becchino che scava tutto il giorno fosse per i morti, allo scopo di portare sì e no una stentatissima zuppa di fagioli a casa, la sua donna osa gridare le quattro parole che più avviliscono e offendono l'uomo che lavora:
– Tu, almeno, ti distrai...
VIII
La donna per mortificare la nostra iracondia, ha un'arma formidabile della quale raramente si avvale: la dolcezza.
IX
Il primo amore non è che un ricordo scritto a lapis nella nostra memoria: si cancella facilmente.
X
La stessa mano che ieri ha chiesto l'obolo, è quella che oggi brandisce il coltello per colpire il benefattore.
XI
Quando il povero si caccia nelle coltri (è notte alta e stiamo a tre gradi sotto zero) e sente la pioggia battere forte contro i vetri, prova una ineffabile gioia nel pensare che a quell'ora v'è un altro povero, che rannicchiato sulle scale della Chiesa, si riceve sul capo tutta quella gelida provvidenza.
XII
Le gambe delle donne non mi danno più brividi. Qualche brivido me lo danno le mie: quando mi dolgono.
XIII
Ci affrettiamo ogni giorno, puntualmente, a strappare un foglietto al calendario, senza pensare che è un'altra piccola foglia che strappiamo al piccolo albero della nostra vita.
XIV
Nessuno scriverà mai il romanzo di Napoli. La penna non può fermare sulla carta l'anima della città che piange, ridendo; prega, bestemmiando; soffre, cantando.
XV
Io mi diverto soltanto, quando, dopo pranzo, dormo o sonnecchio, sprofondato nella mia vecchia poltrona, con lo scialle sulle gambe e la «papalina» in testa.
XVI
L'uomo, ad un certo momento della vita, stanco di ogni lotta, ripara nella propria casa. Sì, è vero, anche in questo tenero asilo non mancano scaramucce, battibecchi e fastidi, ma, grazie a Dio, non luccica nell'ombra nessuna lama di coltello. Puoi vivere sicuro: è gente che ti ama quella che ti tormenta.
XVII
Chi ama tutti, non ama nessuno.

INTERMEZZO

XVIII
a) Non hai una laurea:
sei un povero diavolo che non ha voluto mai studiare.
b) Tieni cattedra di enciclopedia giuridica all'Università:
sei uno «scocciatore» che «sa un sacco di cose» per rompere le scatole alla gente.
c) Non scrivi un libro:
sei un talentaccio che non ha voglia di far niente.
d) Scrivi un libro:
sei un pericoloso idiota che dovrebbe avere almeno il pudore di starsene un anno tappato in casa.
e) Hai il coraggio di dire qualche verità:
sei un volgare maldicente.
f) Taci per prudenza:
sei il più grande gesuita di questo mondo.
g) Vai in Chiesa:
sei un bigotto.
h) Non vai in Chiesa:
sei un ateo.
i) Sposi una donna senza quattrini:
sei un povero pazzo che non ne ha mai combinata una.
l) Sposi la figlia di Pierpont Morgan:
sei un miserabile che s'è venduto ad una donna.
m) Rubi:
sei un ladro.
n) Non rubi:
sei un fesso.
...e così di seguito.
XIX
Non vado a teatro, non frequento circoli, non entro nei caffè, non sosto sui marciapiedi, non sono poligamo, ma vado ogni mattina all'ufficio, qualche volta dò una scorsa ai giornali, governo il canario, amo Musetta, la cagna bastarda, giuoco al tressette, leggo le commedie col Pulcinella, e non fumo la pipa, perché i miei figli ne piangerebbero di malinconia.
XX
La donna anche se piange, si mira nello specchio.
XXI
Il più furbo degli uomini è sempre meno furbo della più ingenua delle donne.
XXII
Le donne non hanno mai fame. Avvertono soltanto un «leggiero languore di stomaco».
XXIII
Sono molto severo con le donne, perché ho avuto sempre poca fortuna in amore. E dire che possedevo tutti i requisiti indispensabili per piacere all'altro sesso: avvenenza fisica, poco cervello e molti quattrini.
XXIV
È notte. Sei solo nel tuo studio. La penna stride sui fogli. Ti esalti, ti commuovi, piangi.
Dopo tanti anni di attesa, ecco, il capolavoro è venuto fuori, all'improvviso, dal tuo genio incompreso.
Vai a letto felice.
Ma il sole dell'indomani – tragico sole d'inverno – ti strappa dalla fronte, una ad una, tutte le foglie di lauro.
Scialbe, vecchie, malinconiche scemenze sono quelle che hai scritte. E tu laceri i fogli, ti mordi le labbra, e ti avvii mogio mogio al tuo modesto ufficio, povero impiegatuccio senza gloria!
XXV
Come è brutto fare un bel sogno.
XXVI
Detesto l'automobile e il bar. Amo la carrozzella di Castellammare ed il caffè della vecchia macchinetta napoletana.
XXVII
La povertà è il collaudo del genio.
XXVIII
XXVIII
lunedì
martedì
mercoledì
giovedì :      grandi progetti per la
venerdì
sabato:
→Domenica, giorno nel quale probabilmente ti purghi,
e resti in casa a meditare sulla legge filosofica delle cause
e degli effetti.
XXIX
Sei giovane?    Non ti invidio
Sei bello?    Non ti invidio
Sei ricco?    Non ti invidio
Sei potente?    Non ti invidio
Hai fortuna con le donne?    Non ti invidio
Hai fortuna al giuoco?    Non ti invidio
Hai ingegno?    Non ti invidio
Sei celebre?    Non ti invidio
Stai bene in salute?
Ti invidio! Ti invidio! Ti invidio!
XXX
La più grande gioia dell’uomo dovrebbe essere quella di donare. Ma, purtroppo, chi vorrebbe non può, e chi potrebbe, non vuole.
XXXI
Inchiostro e bugia sono nati nello stesso giorno dalla stessa madre. È il semplice fatto di «scrivere» che ci porta a mentire. Esempio: il contadino che va soldato scrive a sua madre: «cara madre, pensando a te e al momento che t'ho lasciata, non sono riuscito a chiudere occhio». Non è vero. Il soldato non avrebbe voluto chiudere occhio, pensando a sua madre che adora e alla sua sposa che gli ha spiccato il primo bacio sulla punta delle dita mentre il treno si allontanava, ma, purtroppo, egli ha dormito, tutta la notte, pesantemente. Ed ha russato anche.
XXXII
Ho l'onore di ospitare il più generoso gatto del mondo. Preferisce portarmi via tutti i giorni il secondo piatto, ma non uccide un topo nemmeno se lo pagano a peso d'oro. È uno zoofilo
XXXIII
Una infanzia senza giocattoli è più triste, quasi, di una giovinezza senza amori.
XXXIV
Penso che una gioia improvvisa potrebbe piombarmi addosso da un momento all'altro, e ne tremo. Come farei a riceverla, io povero diavolo, che per questi ricevimenti non sono attrezzato?
XXXV
Avviso. – Quando assumo, nei vostri rapporti, aria di eccessiva deferenza o di francescana umiltà, mettetevi in guardia; è allora che vi sfotto. A meno che non siate un genio.
XXXVI
Oh, quanto male ha fatto all'umanità la tisica e lacrimosa "Signora dalle Camelie"! Ogni imbecille ha creduto di scoprire in una sgualdrina da marciapiede una sorella di Margherita Gauthier. E si è coperto di corna.
XXXVII
Quanto più si «sale» tanto più si dovrebbero amare quegli amici che ci sono stati fedeli nei giorni di poca letizia.
XXXVIII
Il potere rende più grandi i grandi, più piccoli i piccoli.
XXXIX
D'Annunzio e Pirandello sono stati due forze della natura. Il dannunzianesimo ed il pirandellismo sono state due sciagure nazionali.
XL
La gerarchia che scavalca tutte le altre è quella della intelligenza.
XLI
Ah, poter chiamare fesso il fesso, e ladro il ladro, e poi morire!
XLII
Ho grande rispetto per il furfante completo, appunto perché ho infinito disprezzo per la mezza onestà: quella che fa le beffe al codice.
XLIII
In casa mia, di me volevano fare un medico, e non sono riusciti che a farne un ammalato.
XLIV
Conosco tutti i giornalisti di Napoli, – ne amo parecchi, ne ammiro qualcuno, – ma non salgo mai nelle redazioni dei giornali. Gli accattoni di gloria mi fanno schifo.
XLV
Ad un vedovotto e una vedovella che ad onta dei loro lutti recenti s'erano sposati per «realizzare il loro bel sogno d'amore» volevo inviare questo biglietto di augurii:
«Avete unite due bare per farne il vostro letto nuziale».
XLVI
Se l'avversario è degno di me, mi batto con lui, e lo rado al suolo; se è indegno, lo lascio grugnire. Per vent'anni, e anche più.
XLVII
È la pace sleale che io temo, non la guerra leale.
XLVIII
Una modesta domanda: pensate che l'umanità ci rimetterebbe molto del suo decoro se gli uomini fossero un poco meno canaglie?
XLIX
Detesto le conferenze, ma, come l'oratore smette di parlare, il primo ad andargli incontro per stringerlo tra le braccia, sono io. È poca sincerità la mia? Tutt'altro. È grande sincerità, poiché con quell'abbraccio io gli esprimo tutta la mia gioia perché egli ha finito da parlare.
L
Quando entro in un cantiere, in una fabbrica, in una officina, e gli operai mi accolgono con gioia, nessuno si allarmi o diventi più verde del solito. Non ho velleità politiche io, ché, se ne avessi avuto, a quest'ora, in un paese civile come il nostro, dovrei sentirmi stanco di essere ministro. Alla mia età la vita si conchiude non si inizia. Agli operai io non porto che Poesia.
LI
Assai spesso, i soli veggenti sono i ciechi.
LII
Quando non avevo figliuoli, il chiasso o il pianto dei bambini mi dava grande fastidio. Ora la cosa è diversa: se un piccolo fa chiasso, me ne rallegro; se piange, gli tengo compagnia.
LIII
Se Aldo alla scuola ha otto punti nel latino, mia moglie tutta trionfante mi grida:
– Sai, mio figlio ha avuto otto al latino!
Ma se i punti sono quattro, ella entra torva nel mio studio per dirmi:
– Vostro figlio ha avuto quattro in latino.
LIV
Il medico non si accorge che mentre egli crede di studiare l'ammalato, è l'ammalato che studia lui.
LV
Io leggo tutti i giornali perché ne leggo uno solo.
LVI
Il problema di mettere al mondo dei figliuoli non dovrebbe presentare, spero, eccessive difficoltà. Quello di educarli è un poco più complicato.
LVII
Io sono mezzo impazzito da quando Biancuccia mia, quattro anni or sono, stette per morire. Furono per me nove mesi di martirio, ed il ricordo è più che mai vivo nella mia memoria e ancora mi dà brividi di terrore.
Ma state pur tranquilli, ché questo non è il libercolo di un pazzo: è stato scritto nei momenti di troppo lucido intervallo.
LVIII
Che la figlia assista alla morte del padre, è nell'ordine naturale delle cose; ma che il padre componga la figlia nella bara, no: è contro tutte le leggi della natura.
Nel grido del vecchio Lear che reca sulle braccia scarne e tremanti il corpo esanime di Cordelia, è forse lo stesso Iddio che si ribella.
LIX
I miei figli da me non avranno fastidi. Non voglio esequie. Me ne andrò io solo al Cimitero. In carrozzella.
LX
Il dolore è la scuola di perfezionamento per il cuore umano. Io, per esempio, mi sono troppo perfezionato.
LXI
Avviso. – Cerco un barbiere che non mi chiami «signor cavaliere», che non mangi cipolla, che non abbia le unghie orlate di nero, che non mi narri i fatti degli altri, e che sappia anche fare la barba.
LXII
Non invidio il re del carbone, nè quello del ferro, nè quello dell'acciaio. Invidio soltanto il re del sonno, quel povero diavolo, cioè, che riesce a dormine tranquillamente ventiquattro ore al giorno.
LXIII
Io sono il «Padreterno» della parola «gratis». Ma, appena c'è da lucrare una lira, le mie azioni precipitano, ed il mio posto viene occupato da un altro. Da un fesso, s'intende.
LXIV
Non è vero che sia stato io a drammatizzare la poesia. È Dio che ha drammatizzato la vita.
LXV
Il passato ci commuove, l'avvenire ci preoccupa. Il presente è la sintesi del passato e dell'avvenire: ci commuove e ci preoccupa.
LXVI
La critica d'arte è facile, troppo facile; l'arte della critica è un poco poco poco più difficile.
LXVII
Un pensiero per album.
Ah, potessi non pensare!
LXVIII
Tutti posseggono un piccone per demolire; pochissimi la pietra e la calce per riedificare.
LXIX
L'ammirazione toglie sempre qualcosa all'amore.
LXX
I vedovi che passano a seconde nozze cercano sempre qualche motivo patetico per giustificare la recidiva: «i figli piccini... la solitudine... il bisogno di assistenza, ecc.». Non è vero. È il maschio che vuole un'altra femmina, ed è la femmina che vuole un altro maschio.
LXXI
Non ho nessuna carica pubblica; non sono nemmeno pompiere o metropolitano. Eppure non vi è infelice che non batta alla porta di casa mia.
LXXII
Sul mio labbro non esiste la parola «no». La porta di casa mia si apre a tutti, e vi è sempre un pezzo di pane per quelli che sono più poveri di me.
LXXIII
Ai crisantemi preferisco i garofani e le rose; ai malinconici cipressi, gli agili e snelli pini che oserei chiamare i moschettieri delle notti stellate.
LXXIV
Avviso. – Tutti coloro che hanno drammi, novelle, poesie da leggermi sono invitati a venire a casa mia nei giorni di scirocco, in quei giorni, cioè, in cui il catarro mi ottura il naso ed, in conseguenza, le trombe di Eustachio. Ed io divento sordo come Beethoven.
LXXV
Lacrima e risata son figlie alla stessa madre, si tratta di diversità di temperamento: ecco tutto.
LXXVI
Solo dal tragico emerge il comico: si trovano a volte più elementi di comicità in una visita di condoglianze che in tutte le commedie del vecchio San Carlino.
LXXVII
Provate a mettere piede nella casa del morto, ed una voce singhiozzante vi griderà: «Quanto vi voleva bene! È morto con il vostro nome sulle labbra!». Bugia. Il defunto vi odiava, ma la pietosa menzogna della moglie tende ad avvicinarvi alla memoria di lui. Alla memoria, almeno.
LXXVIII
La vita mi dà lo stesso fastidio che mi dà il pensiero della morte.
LXXIX
Se la notte potessi dormire, io farei a meno di scrivere. Ma il guaio è questo: che io non riesco a chiudere  occhio. L'insonnia tormenta me, e io mi auguro di tormentare voi.
LXXX
Tutti coloro che si credono baciati in fronte dal genio dichiarano con orgoglio di non intendersi affatto di numeri, e di ignorare perfino che due più due fan quattro.
Si tratta di una posa ridicola. Nemmeno io mi intendo di numeri, è vero, ma penso che questa deficienza aggiunga poco al «mio genio» e molto alla mia ignoranza.
LXXXI
Alla conquista del benessere economico si uniscono quasi sempre tali amarezze che tu sei costretto a rimpiangere i giorni più squattrinati della tua vita.
LXXXII
Finalmente la mia fatica di quarant'anni è stata largamente premiata: mi hanno eletto con votazione unanime capo del palazzo ove abito. Quando le lampadine della scala si fulminano, sono io che penso a farle sostituire, e se la «signora» del Portinaio, donna Virginia, spande il bucato nel cortile, intervengo con molta energia, ma con poco successo.
Certi posti, una volta raggiunti, bisogna saperseli guardare.
LXXXIII
Mi rifiuto sempre di conoscere i nuovi grandi uomini. Ho provato delusioni tali da dovermi convincere che grande uomo sono anche io.
LXXXIV
Il giorno in cui non possiamo più dire la parola «mamma» noi diventiamo vecchi. Fino allora siamo stati fanciulli. Fanciulli di sessant'anni, forse.
LXXXV
Dal Cimitero torno ogni volta turbato e sgomento. V'è poca pietà per i morti. La sacra custodia delle tombe dovrebbe essere affidata o a vecchi frati o a suore di carità. Insomma, vorrei sentire più Dio tra i cipressi.
LXXXVI
La sventura fabbrica il danaro.
LXXXVII
A quel forsennato che viene a leggervi il suo «capolavoro» perché voi siete un «maestro», un giudice inappellabile, un alto e sereno spirito critico, non dite mai la verità neanche se ve la chiede a mani giunte. Vi fareste un nemico per tutta la vita.
LXXXVIII
Amo i frati di Santa Maria del Presepe.
Quelle poche volte che sono andato a vederli, son tornato a casa con l'anima fanciulla.
Quando muoio li voglio vicino a me i frati di Santa Maria del Presepe.
LXXXIX
Vi consiglio di non far mai partecipare i vostri figliuoli ad un concorso di bellezza infantile. È una cosa pericolosissima. Io, per esempio, all'età di tre anni avrei, senza dubbio, ottenuto il primo premio in uno di questi concorsi. Ma oggi non potrei narrare la mia vittoria di cinquantun'anni or sono senza destare la più irrefrenabile ilarità negli ascoltatori.
XC
Giorni or sono mi son recato a discutere il mio reclamo sulla complementare dinanzi alla commissione provinciale. Ero triste e sorridente. Dissi:
Mi chiamo Libero Bovio, sono nato l'otto giugno dell'83. Lavoro da quarantuno anni. Il mio dramma lo scrissi quando ero ancora fanciullo. Non ho disonorato il mio paese. Sono povero.
Al rappresentante dell'Intendente di Finanza rivolgo io qualche domanda:
a) quale è il numero delle stanze di casa mia?
b) quante domestiche ho al mio servizio?
c) dove villeggio l'estate?
d) quali sono i teatri, i circoli, i caffè che frequento?
e) come si chiama il mio sarto?
f) quale è il numero della mia automobile?
g) quanti piatti mangio a tavola?
Un silenzio.
La commissione si levò in piedi per salutarmi, ed il buon vecchio che rappresentava l'Intendente di Finanza, mi strinse forte la mano. E aveva le lacrime agli occhi.
XCI
Il passato è sempre triste, perché somiglia all'avvenire.
XCII
Uno degli scrittori che più amo è Murger. La Boheme è un piccolo grande libro nel quale ritrovo la mia giovinezza sospirosa e scalcagnata.
È proprio Murger che scriveva:
«Nelle lotte dell'arte accade presso a poco come alla guerra: tutta la gloria risplende sui capi mentre l'armata si fa a pezzi per guadagnarsi una linea nell'ordine del giorno».
«In quanto ai soldati caduti, essi vengono sepolti là, ove furono uccisi, ed un solo epitaffio basta per ventimila morti».
XCIII
Oggi ho voglia di morire; chiamate il medico.
Ho finito.
Napoli, 9 Ottobre 1938
Un momento: ho qualche cosa da aggiungere. Fatene tesoro:
Penso che sarebbe bene amarli più in vita gli uomini degni che dopo morti, poiché la lode postuma o è un primo segno di rimorso o un ultimo gesto di ipocrisia.

NOVELLE

IL SIGNORE PAZZO

Padronissimi voi di non credere alla storia di Venturino La Rosa; padronissimo io di ripeterla a me stesso per ingannare queste notti insonni che mi mettono un brivido nel sangue.
Fa freddo, sapete, tanto freddo che il vecchio braciere di ottone fa sforzi sovrumani per riscaldare il mio studiolo gelido.
Io me ne sto avvolto in un vecchio scialle, curvo sul mio scrittorio, con la mente popolata di vaghi fantasmi, gelidi come questa veglia invernale.
Nevica.
Purché stanotte riodo, dopo tanti anni, la voce tremula del vecchio che narrava a mia madre la storia di Venturino La Rosa?
L'alba è vicina. La zampogna di 'Ntonio accompagna la caduta della neve.
Ha freddo anche la Madonnina di Portosalvo, quella che salvò la paranza dei marinai dal naufragio.
E ascolta la novena con gli occhi pietosi.
***
Dall'albero genealogico dei La Rosa non pendono che vinai e salumieri. Non un poeta nè un pensatore, nemmeno a pagarlo a peso d'oro. Di facce sparute e di zazzere al vento nessuna traccia.
Non vi è memoria di alcun La Rosa che non sia morto di marasma senile.
Quattrini e buona salute. Quattrini soprattutto.
Le diverse fortune, accumulate col piccolo risparmio e tramandate di padre in figlio, avevano finito col formare una sola grossa fortuna che cadde un giorno sulle spalle di Venturino La Rosa, che ne rimase più sgomento che lieto. Già suo padre e sua madre, morendo, gli avevano lasciato tanti quattrini...
E cosa farebbe, ora, lui solo al mondo, di tutto quest'altro danaro?
***
Una casa immensa, diciotto camere, due cucine e una terrazza; mobili del primo impero, dipinti di Massimo Stanzione, di Annella di Massimo, dello Spagnoletto e di Micco Spadaro, antiche ceramiche di Capodimonte. Ma poco sole.
I maestri del '600 vivevano nella più tragica casa di Napoli. Le loro opere erano affidate al gusto di Venturino, il quale trovava tutto grazioso e gentile. Anche il quadro della peste di Micco Spadaro e «La strage degli innocenti» di Luca Giordano gli suggerivano aggettivi leggiadri e piacevoli.
Venturino si era creato mille occupazioni per ammazzare il tempo. Il suo era un via-vai continuo. Era riuscito a dividere la sua giornata in tali e tante occupazioni che non gli rimaneva più il tempo per governare gli uccelli e leggere il giornale. Una delle giornate più piene e laboriose. La sera soltanto era destinata alla chitarra, lo strumento che egli più amava.
Prendeva lezioni da Giacobbe Di Capua, padre del celebre autore di «'O sole mio» e al quale per quella oretta corrispondeva cento lire al mese.
***
Venturino, senza pensarci su due volte, aveva sposato Paola Vergani, una povera orfana senza un quattrino, che, per pietà, aveva avuto un posto di maestra aggiunta a Cimitile, e che, per raggiungere la scuola che si trovava a metà della montagna, era costretta a fare non meno di cinque ore di cavallo al giorno: due e mezza all'andata, due e mezza al ritorno.
Paola, come tutte le maestrine di questo mondo, aveva la voce rauca e il naso in sù, alla francese. Parlava sempre a voce alta, come se avesse davanti a sé la scolaresca, e scandiva le sillabe.
Non di rado, nei suoi discorsi, faceva capolino qualche parola straniera, alla quale Paola cercava di dare il maggiore rilievo possibile.
Si truccava come una corista di operette, e mostrava, in una pretensiosa eleganza cafona, le sue nudità intisichite dalla storia sacra e dal sillabario.
Paola portò in dote a Venturino un bel maschietto di dodici anni che aveva gli occhi neri neri. Come era nato quel piccolo? Chissà! L'ispettore scolastico aveva un figlio intraprendente, bello come il sole, sottotenente di cavalleria. Povera maestrina! La solitudine, la povertà, la divisa... e nacque il piccolo, senza quasi che i genitori se ne accorgessero.
Paola, che era appassionata della «Boheme», volle che il piccolo si chiamasse Marcello. E Marcello, chissà perché, era attaccatissimo a Venturino. È difficile che un figlio ami un padre con la stessa tenerezza con la quale Marcello amava Venturino, che se lo portava a braccetto per la città, con gli occhi che gli ridevano di gioia.
– Che ragazzone, eh? – Si fa ogni giorno più bello. E che cuore! Un cuore d'oro! È lui che benefica i poverelli. Non sono io. Egli pensa: io agisco. Ecco tutto. C'è piena rispondenza tra noi due. I quattrini sono miei, ma il cuore è suo. E il cuore è tutto.
E si trascinava il piccolo dovunque: nei bassi, nelle soffitte, dove v'era un dolore da soccorrere, una miseria da lenire, nella Chiesa, alla Congrega, Paola a volte aveva degli scatti: – Me lo immalinconisci, così: non vedi che è tornato con la faccia bianca bianca?
– No, mamma, non dire così. Lo zio mi conduce con sé perché mi ama, e vuol farmi amare dagli altri. Non essere ingrata con lui. Egli dice che il benefattore sono io. (E nel dire questo gli occhi gli si velavano di lacrime, e un po' di tosse gli scuoteva il petto).
Ora Venturino La Rosa non si occupava che di beneficenza: 12 matrimoni per le figlie del «Cuore di Gesù»; fondazione di un grande asilo intitolato a suo padre; offerte alla Congrega delle orfanelle; soccorso ai disoccupati; restauro della piccola Chiesa dove sua madre andò sposa; tavola per i poveri; largo contributo all'Ospizio dei ciechi; sussidio pel piccolo cimitero di Cimitile.
Conosceva tutte le soffitte e tutti i «bassi». Sostava a lungo nelle corsie degli ospedali.
Quando, in compenso a queste sue opere di bene, gli fu offerta una croce di cavaliere, egli rifiutò con una lettera che non sembrava mai scritta da lui, la quale finiva con questa frase: la carità è premio a se stessa. I malevoli sostengono che la frase appartenesse a don Rocco il prete, tanto più che il buon servo di Dio rimise in pochi giorni tutti i denti, sembrava che in bocca nascondesse una collana di perle.
(E dire che era rimasto con un molare e un paio di incisivi).
Ecco che una sera, d'improvviso, gli piomba addosso un suo vecchio compagno di scuola, al quale Venturino fa fraterne accoglienze.
– Il mio primo pensiero, nel tornare dall'America, è stato per te.
– Il mio primo abbraccio per te.
– Grazie, fratello mio. Tua moglie?
– Scusa se non ti avevo presentato.
– Magnifica scelta.
– Tutto è questione di fortuna, credimi.
– Al mondo non esiste altro. Torno dopo cinque anni, squattrinato come sono partito.
– Beato te che non hai la preoccupazione del danaro. Non invidio che i poveri e nessun altro.
Il compagno di scuola, Valerio Biondi, trovò presso Venturino ospitalità e occupazione. A Paola questo tipo di avventuriero fece subito simpatia; a Marcello no. Il piccolo si limitò a dire: – Non mi piace. – E non disse altro.
Valerio, bel giovane, di pochissimi scrupoli, fece presto a spadroneggiare in casa di Venturino e, d'accordo con Paola, divenne il tiranno dei beneficati di Venturino. Ogni gesto di bontà di Venturino La Rosa era giudicato come un gesto di follia.
– Questo si chiama gettare il danaro dalla finestra.
– Non è bontà: è scempiaggine.
– Sei diventato la favola di tutto il paese.
– Bene. Ne sono contento.
E Venturino lasciava dire e taceva.
Finché un giorno, a tavola, scattò improvvisamente. E rivolgendosi a Valerio e a Paola, gridò: – Basta. Qua non c'è che un padrone, e sono io. Chi non accetta il mio metodo di vita può anche lasciare la casa.
– Ci scacci? – gridò Valerio.
– Bene, faremo tesoro di queste parole – soggiunse Paola.
– Perché, – domandò Venturino, fissando ora l'uno, ora l'altra, – avete fatta causa comune? Bene, e io vi scaccio.
– Veniamo ai conti – sentenziò, freddo e crudele, Valerio. – È questione di intendersi.
– Quel che volete. Basta che io non vi veda più.
– E io? – piagnucolò Marcello.
– Tu? Tu vieni con tua madre. – gridò Paola.
***
A Micco Tonno De Lia
Mio caro Micco Tonno,
ci conosciamo da cinquant'anni circa. Ho deciso; e tu sai che le mie decisioni sono irremovibili. Me ne verrò a vivere in campagna, perché sono stufo e nauseato della vita della città. Fa riattare la casa colonica in breve tempo, e annunzia la cosa a tutti; e fammi conoscere l'impressione. Spero che questa buona e umile gente della campagna accoglierà in trionfo il figlio di donna Clementina Lusardi e di Vito Antonio La Rosa.
Solo tra voi altri, a questo mondo, c'è felicità e amicizia.
Ti abbraccia il tuo
Venturino La Rosa.
***
L'arrivo di Venturino La Rosa fu salutato da dimostrazioni di entusiasmo. I «cafoni» erano in delirio. Non potevano sperare in un più alto e commosso riconoscimento. Mezzo paese era intervenuto; e qualche tricolore sventolava dal più alto pino.
La giornata si conchiuse con il ringraziamento alla Vergine e la tavola per i poveri. Venturino, tra la commossa ammirazione di tutti, recò tutto il tempo tra le braccia Angelina, una piccola di quattro anni alla quale era morta la madre nel parto. E colmò la piccola di doni e carezze.
La sera fu dedicata alle visite. Vennero il notaio, il medico condotto, il maresciallo dei carabinieri e tante e tante altre persone a cui Venturino, con gli occhi bagnati di lacrime, non poté fare a meno di dire tutta la sua gratitudine. Don Luca Apicella intervenne a notte inoltrata, con la sua musica. E si fece baldoria, fino all'alba.
***
– Bada, Cecco Tonno, si pranzerà ogni giorno a mezzo giorno, nell'orto di Clementina. E io siederò a tavola con voi. E sarà per me una vera gioia. Quel che mangiate voi, nè più, nè meno. E voglio anche per me posate di stagno. È chiaro? Da domani.
L'indomani tutti i lavoratori dell'orto di Clementina erano seduti in attesa di Venturino. A mezzo giorno preciso, arrivò il padrone.
Angelina gli andò incontro e lo fece sedere a capotavola. Venturino fece sedere la piccola sulla sua gamba.
– Mangia con me, vicino a me.
Le donne della contrada Lavinia cominciarono le danze a suono di organetto. Era uno spettacolo di rara bellezza.
Maria la bionda danzava con grazia ignota alle grandi ballerine del teatro San Carlo.
Il pranzo era in fine, quando, pallida e urlante, sbucò da contrada Pietrosa la figlia di Rocco Maroni.
– Correte, per amore di Dio. Mio padre insegue mia madre con l'accetta. L'ammazza, sapete, l'ammazza.
Cecco Tonno le turò la bocca con tutte e due le mani. E scomparve.
Tornò dopo poco, torvo e sudato.
– Bè? – domandò Venturino.
– Niente, padrone. Scene di gelosia. Non vi date pensiero. Conseguenza di cattivi matrimoni. Qui si sposano senza pensarci su due volte. Poi accade quello che accade... E i carabinieri ci pensano.
– Di' a Rocco Maroni che gli voglio parlare.
– Sarai ubbidito, padrone.
All'Ave Maria, Rocco Maroni entrò nell'orto di Clementina.
– Ho aspettato che la notte scendesse, perché i carabinieri vanno in cerca di me.
– Già parlato – disse Venturino.
Poi, cambiando tono, e volendo apparire aspro, cominciò a dire:
– Sempre tu. Sempre tu la pietra dello scandalo. E sai che mi dispiace, sai che non voglio.
– La colpa non è mia. È il sangue che è buono ed onesto.
– Che c'entra il sangue?
– Ah, padrone, mi meraviglio di te! Tuo padre non mi avrebbe detto: – E che c'entra il sangue? – Me lo ricordo il padrone: per lui tutto era punto di onore.
– D'accordo. Ma tu non hai il diritto di fare spaventare i tuoi figli.
– Permetti, padrone, che io parli liberamente, come a mio fratello?
– Così voglio.
– Bè, poniamo caso che quello che è accaduto a me, fosse accaduto a te. Tu che avresti fatto?
– Chi sa!
– Come chi sa? No, padrone, noi ci conosciamo. Guardami in faccia e dimmi la verità. Tu avresti ammazzato.
– Non esageriamo.
– Come esagero? Za! Un colpo d'accetta: uno solo, forte e sicuro: ma cornuto mai... Mi intendi, padrone? Mai.
– Mai – ripetette, sbiancandosi in viso, Venturino, e fissò lo sguardo su Rocco: uno sguardo pieno di commozione stavolta. – Mai.
– Non puoi uscire di casa... Ti mostrano a dito... Ridono alle tue spalle. E la vergogna cade su te, sui tuoi genitori, sui tuoi figli. È terribile.
Rocco parlava con gli occhi che sprigionavano fuoco, e Venturino era preso da un tremito convulso.
***
E, anche a Cimitile, cominciò per Venturino la solita vita.
Conobbe i suoi nuovi poverelli, ai quali si interessava con nuova fede e con più appassionato fervore. Nel pomeriggio non faceva che ricevere bisognosi. E un po' di conforto e qualche quattrino c'erano per tutti.
Di Venturino ora si faceva un gran parlare in tutto il paese. Tutti ricorrevano a lui, tutti si proponevano di ricorrere a lui. Gli umili sapevano che c'era una porta sempre aperta.
Si preparava in paese una grande processione alla Madonna, alla quale partecipavano tutti: uomini, donne, vecchi, bambini, e, sopratutto, la gente della campagna. C'era un gran fervore. Quest'anno volevano fare le cose più in grande. Venivano tre bande dai paesi vicini, e avevano ottenuto una piccola riduzione ferroviaria. Ai piccoli, che dovevano figurare gli angeli, avrebbe pensato Venturino; e a Napoli stavano confezionando i sette abitini, sette piccoli capolavori. La processione era fissata per il sette ottobre: non mancavano che dieci giorni appena, e anche le donnette erano intente a cucire le loro vesti nuove.
Gli idolatri, che dovevano portare sulle spalle la statua della Madonna, dovevano essere sorteggiati, per amore di pace. Era questa una usanza religiosa del paese. La Madonna usciva dalla Chiesa e le andava incontro, levato sulle spalle dagli uomini, il più degno di lei, il benefattore, il soldato mutilato, la donna che aveva ottenuta la grazia.
E le campane della Chiesa suonavano a lungo, a distesa, per un'ora, e la fiaccolata insanguinava tutta la campagna. Gli angeli volavano su fili d'argento con gigli stretti nelle manine.
Uno spettacolo incantevole. E le bande suonavano canzoni sacre e profane. I primi ubriachi erano fatti rincasare a furia di pedate.
***
Siamo, dunque, alla grande domenica. All'alba giungono, da Nola i cavallari per la fiera dei cavalli, verso le nove calano i pastori dalla montagna con le loro belle pecore. E tutto il paese è allietato.
Il pranzo è anticipato di un'ora. Tutti han dato una mano alla cucina. Il via-vai è fantastico. L'opera ferve dovunque. Alle due il pranzo è finito. Venturino resta un po' a tavola con Angelina seduta sulle gambe. Al nostro amico La Rosa, il quale in fondo è molto più bizzarro di quanto non mostri, proprio quel giorno, salta in mente di sottoporre la povera Angelina ad uno strano interrogatorio.
– Di' bella, quanto mi vogliono bene?
– Assai.
– E come mi chiamano? Don Provvidenza, è vero?
– No.
– Il Santo dei poverelli?
– Noooo...
– E di', allora, – domandò con voce tremante: – come mi chiamano?
– Il signore pazzo.
L'urlo di Venturino scavalcò le più alte cime della montagna e arrivò lontano lontano.
Scesa a terra la piccola, Venturino si dié a chiamare l'appello.
– Micco Tonnoooooo!
– Peppe il Guercio!
– Maria la Bionda!
E voci confuse rispondevano da lontano.
– Oh, padrone!
– Presto, padrone!
Quando gli eroi della comitiva furono tutti intorno a Venturino, il padrone fissando ognuno di loro negli occhi, prese a gridare:
– Chi sono io?
– Il figlio di don Vito e di donna Clementina, signò.
– Nooo!
– Quello che fa bene a noi tutti...
– Nooo! Io sono il signore pazzo.
Un brivido passò nella folla. Uomini e femmine si guardarono, minacciosi e torvi.
Chi aveva tradito, mannaggia?!...
Chi aveva parlato?...
– No, padrone, non è un'offesa, credimi – si insinuò, con la sua voce melliflua, Maria la Bionda – ti chiamano il «Signore Pazzo», perché solo un pazzo, al mondo, può fare bene a tutti.
– Tutti ci tradivano.
– Tutti ci affamavano.
– E tu, tu non fai che bene.
– Sembra un sogno, padrone.
– Non crediamo ai nostri occhi.
– Non c'era accaduto mai, perdonaci. – E caddero tutti in ginocchio. Annottava. La processione era pronta per uscire. Le campane della chiesa cominciavano a suonare. Il vocio era alto e solenne.
D'un tratto Venturino, volgendosi ai suoi beneficati, disse, fermo e forte:
– Vi perdono a un patto: che mi alziate sulle spalle e mi portiate incontro alla Madonna, gridando: viva il Signore Pazzo!
Non fu il desiderio espresso che già gli uomini e le donne avevano levato sulle loro spalle il padrone e lo recavano in trionfo, al grido di: – Viva il Signore Pazzo!
Quando Venturino fu a dieci passi dalla Madonna, tutta quella immensa folla che levava ai cieli il suo canto religioso, come ad un solo segnale, scoppiò in un grido: – Viva il Signore Pazzo!
E Venturino, mezzo impazzito, salutando con il cappello e abbandonandosi a mille gesti da marionetta, andava incontro alla Madonna.
In fondo, in tutta fretta, passò Rocco Maroni, e lanciò l'accetta nel fiume per raggiungere correndo l'erta della montagna.
Tutte le campane delle chiese suonavano a lungo con le loro voci argentine, e la fiaccolata sembrava un immenso incendio nel verde delle foglie.

IL DOTTOR LIBERO BOVIO

Perché mia madre volesse far di me a tutti i costi un medico, non riesco ancora a comprendere; e dire che da quel tempo ad oggi sono trascorsi quarantacinque anni, più e non meno. Forse perché ero bassino e rotondo, con un po' di pancetta; forse perché ero tranquillo e sorridente; forse perché nel suo prodigioso istinto materno sentiva che il destino avrebbe fatto di me un inutile e squattrinato discepolo delle Muse.
Non avevo ancora compiuto i tredici anni, e già tutti in casa mi chiamavano «il dottore». La cosa, accolta in sulle prime da me senza entusiasmo, ora cominciava a darmi piacere. Il mio sogno era una carrozza a due cavalli, un paio di occhiali d'oro ed una canna d'India con il pomo d'avorio.
***
Parlavo poco e solenne, e quel «poco e solenne» era assai spesso condito di «se andrei» e «se farei». E in ciò, forse, cominciava a rivelarsi il mio amore per la carriera delle lettere.
Palpavo il polso alla serva, una sedicenne villanella ingenua e ubertosa; curavo il mio vecchio portinaio, don Andrea Spasiano, cabalista e beone, al quale donavo le mie piccole economie a patto che sopportasse le mie quotidiane visite mediche. Mi preoccupavo della salute di tutti, facevo diagnosi, scrivevo ricette, in ogni Ercole scoprivo un cardiaco, un tubercolotico; non consigliavo che chinino e purganti: ero un vero castigo di Dio.
Un giorno mio cugino, buon chirurgo, mi disse con tono secco: «Voglio che tu assista ad una operazione. Domani verrai con me all'ospedale». Il cuore mi andò per aria. La notte non chiusi occhio, e all'alba ero già in piedi. Era il giorno della consacrazione.
Alle nove ero già nell'ampio atrio dell'ospedale, in attesa di mio cugino. Un'ora dopo ero con lui e con gli altri chirurghi nella sala operatoria.
La paziente era in attesa. La rivedo ancora oggi. Era una bellissima popolana alla quale l'amante, un guappo della Vicaria, aveva accecato un occhio con un colpo di rivoltella. Ora le dovevano estirpare l'occhio malato.
Letto operatorio, ferri chirurgici, camici bianchi, puzzo di acido fenico, gesti più che parole, lamento della inferma, confortata da una suora francese dal volto di celluloide: un primo brivido alle reni.
Ad uno sguardo di mio cugino risposi con un sorriso, ma le gambe non mi reggevano.
La mascherina col cloroformio già aveva prodotto il suo effetto: l'inferma, ora, dormiva, e nel sonno ripeteva soltanto queste parole: «Nun m'accidere Salvatò!».
Silenzio di tomba. I chirurghi camminavano in punta di piedi. Erano gli ultimi preparativi. La monaca fredda, impassibile, guardava il soffitto.
Ci siamo. La punta delle forbici non era ancora penetrata nell'orbita di quella infelice, ed io ero già caduto tra le braccia erculee di due infermieri.
Il dottor Libero Bovio era svenuto.
Quando riaprii gli occhi ero seduto su di un poggiuolo di marmo nell'immenso giardino dell'ospedale.
Profumo di fiori, volo di farfalle, canto d'uccelli, trionfo di sole ed altre sconcezze romantiche che accadevano nei giardini dell'Ottocento. Un venterello fresco e leggero mi dava una strana ebbrezza di vita. Respiravo a pieni polmoni.
L'arancio era in fiore, ed il più lungo, il più fiorito, il più indiscreto dei rami di un albero centenario riusciva ad introdursi nell'ampio finestrone della prima corsia.
Guardai su, in alto. Una giovinetta (era forse una Madonnina del Trecento balzata fuori dal pennello di un maestro senese?) si divertiva a strappare i fiori dal ramo, ne aspirava il profumo, e li abbandonava al breve volo. Non ho ricordo, in vita mia, di una più sorridente malinconia. Era una piccola inferma senza speranza di guarigione.
Un fiore cadde ai miei piedi. Lo raccolsi e lo misi all'occhiello. Ella sorrise e disparve.
Mamma mi aspettava sul pianerottolo di casa con le braccia aperte.
– Com'è andata, dottore?
– Bene, bene, mamma. – E scappai via.
Non volli toccar cibo. Mi rinchiusi nella mia cameretta e scrissi per un paio d'ore. Poi mi distesi sul letto e dormii un sonno lungo e pesante, come un ubriaco. Nel ridestarmi, scorsi mia madre, ritta a pié del lettuccio, col volto scuro e minaccioso.
Sentii che la tempesta batteva le ali.
Mia madre stringeva nella mano un foglio gualcito.
– Malatella! Che roba è questa?
– Non so, mamma.
– Sono versi?...
– Forse, mamma. (Era, quella, la mia prima poesia!).
– E tu dài di questi dolori a tua madre? A me che t'amo tanto? Ricordati che sei figlio di gente onesta.
Mammà aveva il pianto nella voce.
Non ne potevo più.
Ebbi allora il mio primo scatto: «Perdonami, mamma, ma io giuro che farò il vagabondo, il truffaldino, il ladro di scasso, il brigante della Sila: il medico, mai».
E, su per giù, il giuramento l'ho mantenuto.

L'UOMO CHE HA PIÙ UCCISO

Febbraio 1935

L'altra sera il «tiranno» ha battuto alla porta di casa mia. Lo ricordavo minaccioso e aitante: l'ho ritrovato umile e curvo. L'occhio non è più torvo, ma la voce è cavernosa ancora. Il tempo gli ha spianato le rughe che il crimine quotidiano gli aveva scavate nel volto di ferro. Il suo nome è Giuseppe Pironi, e nel nome feroce par che palpiti un destino. Intorno alle sue gesta s'è un tempo sbizzarrita la fantasia del popolo napoletano, e nessun uomo fu più odiato e più amato di lui. «Sì cchiù 'nfame 'e Pirone!» era questa l'ingiuria più sanguinosa che si potesse scagliare contro una creatura di carne battezzata. E alla ingiuria era consentito di rispondere con la punta del coltello.
***
Il tiranno ha qualcosa da dirmi; s'è trascinato a stento sino a casa mia, ed ora ha fretta di andar via: le ombre della notte incominciano a fargli paura. Ma anche io ho qualcosa da chiedergli, e lo costringo a sedere accanto a me, nel mio studio. Ora tutto è silenzio, ché i miei piccoli sono andati a letto per paura. Il tiranno, mentre gli verso il caffè, mi avverte: poco zucchero. E sorride a pena. Non lo avevo mai visto sorridere, e questo lusso delle sue labbra d'inferno mi riempie di stupore.
Rivedo il mio eroe nella sua età felice: padrone del piccolo mondo nel quale egli tramava crimini e misfatti. La sua apparizione era annunziata da lampi e tuoni. Poi arrivava lui, alto, arcigno, minaccioso, avvolto nel mantello a ruota. I baffi folti e neri, e le grosse sopracciglia aggrottate lo rendevano terribile. Per la platea del «San Ferdinando» correva un brivido. Una gragnuola di applausi, alla quale il tiranno rispondeva a pena, portando il dito alla larga tesa del cappello. Volgeva d'intorno l'occhio sospettoso; poi batteva alla porta della taverna. I suoi complici erano là ad attenderlo, da quando la campana del Carmine aveva sonato lenti e paurosi i dodici tocchi. Un vociare alto e concitato accoglieva il tiranno; poi un subito silenzio.
Nel buio della notte, passava, solo, con la camicia aperta sul petto, con la testa alta, e con gli occhi roteanti – simbolo di Giustizia – Federico Stella.
***
– Vi aspettavo da un pezzo, Pironi, e sono lieto di rivedervi.
– Occorre assai poco alla vostra letizia.
– Da tempo non vado raccogliendo che ricordi.
– È un lusso dei vecchi, questo.
– E forse voi siete uno dei più cari e strani ricordi della mia infanzia.
– Toh!
– Mi ci conduceva mio padre, al San Ferdinando, e anche lui, povero e grande papà mio, trovava nella acuminata lama del vostro pugnale un gaio diversivo alla sua umanissima filosofia.
– Bovio! – mormora il tiranno a fior di labbra, e con la mano tremante bacia in terra.
Un lungo silenzio, come a teatro, durante il quale Pironi, con gli occhi socchiusi, agita lievemente le mani e scuote la testa.
– Che siate nato è importante: quanti anni or sono, dipende dalla vostra cortesia il dirmelo.
– 68 inverni or sono.
– Bene.
– Alle cinque del mattino, in un vicolo nelle adiacenze di S. Antonio Abate. Quella notte – a quanto affermava mio padre – gli elementi si eran dato convegno: lampi, tuoni, fulmini, saette.
Albeggiava quando io venni al mondo. Le vecchie non avevano memoria di un'alba più nera. Un ultimo tuono spaventoso, ed io mi presentai alla scena. Il tiranno era nato.
Ricordo: mio padre, impiegato al Banco Lotto era mite e remissivo; mia madre era una donna tutta fuoco: camminava col frustino allacciato alla cintola: ed era un frustino che lasciava segni, mia madre lo agitava con mano maestra.
Alle prime elementari pensò la scuola privata di un vecchio prete che sopportava me e i miei fratelli, per venti lire al mese.
Poi, tutti i miei fratelli abbandonarono la scuola; io solo passai al ginnasio. Mio padre aveva qualche fiducia in me, mentre mia madre andava ripetendo per tutta la casa: Peppino è pazzo! – Sbarea isso e 'e libre! – Mia madre naturalmente ignorava che
«libri quosdam ad scientiam,
quosdam ad insaniam deduscere...»
– Latinista?
– Anche. – ruggì il tiranno.
– E il poeta preferito?
– Orazio. Ma a Virgilio non torcerei un capello.
Ringraziai per Virgilio, e ripresi, con molta prudenza a interrogare.
– Università?
– Niente. La mia non è che la povera vita di un fallito. Fallito in tutto. E dire che qualche cosa avrei potuto fare. Poca cosa. (La terribile feroce smorfia che accompagnò queste ultime parole mi mise un brivido nel sangue).
– E il teatro?
– Come arrivai? Ecco: le cose della mia famiglia precipitavano. Una miseria nera, e la impossibilità assoluta di alimentare un fantasioso parassita quale io ero. Un giorno, chiamati a raccolta i miei fratelli e me, mio padre disse, pallido e severo: «Ho deciso. Da lunedì ognuno di noi farà qualcosa: tu, Cirillo, ti recherai ogni mattina da Tagliaferri, il barbiere che ti corrisponderà dodici soldi alla settimana; tu, Ferdinando, andrai a lavorare dal sarto, e ti creerai il tuo avvenire: Don Antonio Cerroni veniva dalla miseria ed oggi l'oro lo lascia indifferente; tu, Nannina, troverai lavoro presso donna Carmela la sarta, al Cavone; e voi, don Peppino, batterete la vostra strada. Posto per i vagabondi non ce n'è, a casa mia. Non ho altro da dire».
Alle sette di sera io già battevo alla porta di don Tommaso Zampa, grande attore dei miei tempi, ricevendone accoglienza paterna.
– Domani parto con voi, don Tommaso.
– Bè: tuo padre s'è deciso?
– Tanto deciso che mi ha scacciato di casa. Non ha pane per il mio latino.
– Alle cinque, in Piazza Municipio. La diligenza è pronta. Debutterai con la Francesca da Rimini! Conosci la parte del paggio?
– A memoria.
– Tanto di guadagnato.
L'indomani, partenza. Anche mamma stavolta piangeva nel dirmi addio.
Facemmo viaggio per le Puglie, ove ci trattenemmo sei mesi circa. Affari mediocri, ma successo grande. Don Tommaso mandava in delirio le platee.
Non ero nato nè per gli amorosi, nè per i brillanti. La voce, il gesto, l'occhio erano quelli del Tiranno. Ero felice di uccidere: ecco tutto.
La prima parte di vera importanza don Tommaso Zampa me la affidò nella «Cieca di Sorrento». Fui un terribile Tommaso Basileo. «Peccerì, tenive stu ppoco 'ncuorpo!» andava ripetendo Zampa per tutte le scene.
Di ritorno dalla Puglia, Pironi si trovò con Antonio Allegretti nel caffè dei Fiorentini, che era il convegno, allora, di tutti i comici a spasso.
– Peppì, io e Federico Stella facimmo compagnia. Otto mesi dell'anno al Teatro S. Ferdinando.
– Bel teatro: ricco di tradizioni.
– Tutti i ruoli a posto. Non manca che il tiranno.
– E 'o tiranno sta ccà. – Gridò Peppino Pironi, stringendo tra le braccia erculee Antonio Allegretti.
Dopo dieci giorni Peppino Pironi entrava nel vecchio palcoscenico del S. Ferdinando per uscirne, curvo e povero, dopo cinquant'anni.
– Un mondo, tutto un mondo è passato davanti a questi miei occhi, un mondo che mi incatenava e del quale è così vivo in me il ricordo che talvolta qualche ridicola lacrimuccia, alla mia insaputa, mi cade dagli occhi.
– E il repertorio?
– Un po' di tutto, senza esclusioni: dal divino Shakespeare agli autori dei drammi a forti tinte. Una sera «Amleto»; un'altra «Le due orfanelle». Una sera «Il fiacre n. 13»; un'altra «La statua di carne». C'era un posto anche per Alfieri: Allegretti era un mirabile Saul. Ma i drammi che mandavano in visibilio il pubblico (platea di favore cent. 30) erano quelli del Minichini e di Stella. Ricordo le 120 repliche di La Bella di Portacapuana, un piccolo capolavoro nel suo genere. Capolavoro, intendiamoci. E gli interpreti!
– Ricordo, Pironi.
– Tutti grandi, tutti. Anche i piccoli. Chiudo gli occhi, e mi par di sognare.
Il tiranno volge l'occhio intorno, e con la mano tremante mi indica le ombre. Eccoli là: Artale, la Pedretti, e la Del Giudice.
Il tiranno impallidisce e guarda in cielo. Immensa! Immensa! e ripete: Marietta Del Giudice. E là è Giuseppe Cecchi, e là è Carlo Pretolani... e là bello, aitante, generoso, caldo, umano è Enrico Altieri.
Il tiranno è pallido e trema.
Poi manda un grido. «E su tutti passa alta e vendicatrice la figura di Federico Stella. È la verità, è l'onore, è la Giustizia. Facciamogli largo. Quell'uomo piccolo e miope, tutto ossa, è la più bella pagina del codice dell'Umanità».
– Ma senza di voi...
– So quello che volete dire. Io, per cinquant'anni ho rappresentato il suo termine antitetico. Egli era il Bene, perché io ero il Male. E da ogni male nasce il Bene.
– Filosofo?
– Anche. Chissà. Tutti, in fondo, siamo un po' filosofi, senza saperlo.
Pausa.
– Quanto avete ucciso Pironi?
– Molto. Più del necessario.
Ora ritrovo sulle labbra del tiranno il sorriso che gli conoscevo.
– Ma un certo conto anche approssimativo, non è possibile?
– Forse. In media ne ho ucciso quattro per sera – due per ogni spettacolo – vale a dire centoventi al mese. Moltiplicate 120 × 12 = 1440. (L'operazione mi costa fatica, ma la grande anima di Pitagora, ecco che viene in mio soccorso, e la cifra mi si presenta gloriosa e trionfante davanti agli occhi: 1440).
– Non meno – esclama Pironi.
– Sicché?...
– Sicché moltiplicate 1440 × 50, ed avrete il numero esatto delle mie vittime.
– 72.000! Magnifica cifra!
– Occorrevano venti tiranni messi insieme. Ed io ho lavorato da solo. In cinquant'anni! Ho fatto il ladro, la spia, l'usuraio, il beone, il contrabbandiere, il baro, ho detto il falso dinanzi a Dio e alla Legge; ho sostituito persone, ho coniato monete false. Nessun medico primario vanta al suo attivo un più cospicuo numero di vittime.
– Ho accusato l'innocente, ho percosso il debole, ho tradito mio padre, ho abbandonato i miei figli. Ho ucciso con tutte le armi; conosco tutti i veleni. Non c'è culla che io non abbia incendiata; non v'è tomba che io non abbia profanata. Figuratevi che comincio ad aver paura della mia ombra. Rincaso la sera assai presto perché temo di imbattermi nel «Lampionaio del Porto».
***
Arrivati sull'uscio di casa, il tiranno teneva strette le mie mani tra le sue. Erano le undici. Fuori era assai buio, e incominciava a piovere.
– Sono un povero diavolo senza memoria. Di tutto vi ho parlato fuorché del motivo della mia visita.
– C'è sempre tempo.
– Grazie. So che ora è un anno vi siete interessato alla sorte di un altro attore, facendolo rinchiudere nell'Albergo dei poveri. Questo oggi chiedo. Ed è la prima volta che chiedo qualcosa. Ma non voglio elemosine. In cambio di un pane e di un tetto, io insegnerei arte rappresentativa ai giovani volenterosi.
– Bene.
– E il povero «serragliuolo» potrebbe dire: Ho studiato con Peppino Pironi, l'attore che un giorno, a S. Carlo, fu Jago, accanto a Tommaso Salvini, il sommo maestro, il quale battendo la mano sulla spalla dell'attore, pronunziò queste parole: Caro Pironi, non ho memoria di un più crudele Jago.
E il tiranno prese a scendere lentamente le scale. A un punto si fermò un istante per raccogliere due mozziconi di toscano che nascose nelle tasche del vecchio pastrano. Poi, per la tema che qualcuno ne avesse osservato il gesto, rialzò la testa; guardò intorno e disparve.

IL FUORICLASSE

Ad un terzo invito, non seppi opporre nuova resistenza. Un altro «no» mi avrebbe tirato addosso tutte le ire dei pittori dei Camaldoli, i miei vecchi compagni di baldoria e di digiuno, i quali volevano ad ogni costo che io presiedessi la «commissione artistica per un premio di bellezza infantile. La festa si sarebbe svolta nella prima domenica di ottobre, lassù, al vomero, nella incantevole villa della Floridiana, gaia e discreta testimone dei nostri primi amori.
«Vieni, vecchio orso malato di malinconia. Ti aspettiamo. Levati dalla vecchia poltrona dove ti si impigriscono le gambe e l'anima, e torna a noi. Faremo baldoria come trenta anni or sono. A prima sera, dopo la festa dei piccoli, risaliremo l'erta dei Camaldoli. E canteremo. La luna ha annunziato il suo intervento. La troverai più pallida del solito, perché anch'essa è malata di malinconia; ma le figliuole dell'oste – sono ancora nubili, sai! – ed il vino rosso nei boccali di creta daranno corda alla nostra antica gaiezza. Il vecchio che suonava la chitarra e cantava senza voce, ti aspetta. E ti aspetta anche l'ultima figlia dell'oste. Addio».
Seguivan le firme, tante firme; ed ognuna di esse era per me l'improvviso ridestarsi di care e generose memorie. Dunque, li avrei ritrovati tutti i compagni della mia giovinezza? Tutti? Peppe Murillo, fantasioso e iperbolico; Sandro Ferrigni, generoso e violento; Micco Falconi, occhialuto e soave; Battista Curti, niveo e sonnolento; e avrei stretta al mio cuore la testa saracena di Sante Giordani, e avrei baciato la mano gonfia e tremante di Cosimo Laurenti, il mite e trasparente preterello di S. Martino, candido nell'animo e nella chioma?
Il cuore cominciava a far capriole. Il passato si ridestava ad un tratto con sospirosa prepotenza, e mi portava per mano sulla verdissima collina dei miei scalcagnati vent'anni.
***
La prima domenica di ottobre non si fece attendere a lungo; si presentò, anzi, sollecita e festosa. «Ci siamo, dunque, – dissi tra me – non manca che un'ora al convegno. Frusta, cocchiere!» Ed il mio fido «Auciello» furfante e camuso, picchiò sodo sul dorso di «Giorgio» il vecchio sauro famelico, che egli aveva comprato dalla cavallerizza di un povero circo equestre.
La carrozza ora si arrampicava lenta e stanca per via Salvator Rosa. L'aria odorava di autunno, ed un venticello fresco e leggero metteva gioia nell'anima. Addossato ad un muro cadente un bimbo lacero rideva, al sole, recando tra le manine sudice una grossa melagrana spaccata in due. Gli uccelli cantavano come nelle canzoni, e il cuore mi si cominciava a spoltrire.
Era un tramonto divino, uno di quei tramonti che avrebbero intenerito i maestri della scuola di Posillipo. «Giorgio» ora dilatava le potenti nari per respirare l'ebbrezza della vita.
Mancava un minuto alle cinque, quando Auciello, stracco e trionfante, mi fermò davanti alla Floridiana, ove mi attendevano i miei vecchi compagni con a capo il vecchio prete di San Martino.
L'incontro fu tutta una esplosione di spassosa tenerezza: si rideva per non piangere. Eran dieci anni, poco più poco meno, che non ci si ritrovava più insieme, ed ecco che, ora, ogni abbraccio assumeva l'importanza di un fatto storico. Ci squadravamo sott'occhi. Dio, quanta neve era caduta sulle nostre tempie!
Tempeste di domande, «aspri rimbrotti», brevi silenzi, commosse rievocazioni, risate, parentesi di malinconia, ma gioia, soprattutto, gioia, gioia, gioia! Pochi minuti eran stati più che sufficienti perché in noi si ridestasse l'anima fanciulla che schermisce alle offese del tempo. Gli occhi del prete brillavano, e un po' di rosso venava gli zigomi di cera. – «Prima di morire, volevo rivedervi tutti. Ho toccato gli ottanta. Ora posso andarmene a servir messe in Paradiso».
***
Tutto un pittoresco e tumultuoso popolo minuscolo si aggirava, ora, fra gli alberi della Floridiana: ne affollava i viali; ne riempiva le piccole ville nascoste nel verde. Il vocìo era alto e festoso: voci di piccoli, odore di rose e canto di uccelli erano una cosa sola. Una fiacca orchestrina eseguiva con snervante languore il minuetto del Boccherini, mentre i rami degli alberi che si cominciavano a spogliare con pudicizia, si muovevano, sotto la fresca ed agile direzione del vento, con grazia settecentesca. Il vocìo si faceva sempre più alto saliva ai cieli. Mi staccai dal gruppo per sentirmi solo. Volevo ritrovare il bosco delle camelie, e il capelvenere, e le roselline rampicanti, e il vecchio mandarino, e gli alti pini che qualche memoria dovevano ancora serbare della mia prima giovinezza. La malinconia mi fu buona compagna in quei pochi minuti di solitudine.
Tre squilli di tromba mi destarono dal sogno. Un diavoletto vestito da angelo (idea bizzarra di Micco Falconi?) dall'alto di una colonnina di marmo ci chiamava a raccolta.
***
Prendiamo posto sotto un albero centenario che ci ripara generosamente dall'ultimo sole. Una gran tavola ci separa dalla folla. La commissione è al completo. Funziona da segretario un giovane esteta che affida la sua gloria ad un grosso monocolo cerchiato di oro. La folla è ansiosa, irrequieta, tumultuosa. Le mamme, che accompagnano i piccoli, sono più preoccupate che sorridenti; gli uomini affettano indifferenza, i bimbi si squadrano con occhi di rivali.
Un improvviso volo di colombi: la gara ha inizio. E la sfilata dei piccoli comincia. Alcuni sono timidi e ritrosi, altri baldanzosi e sicuri; ma i più sono sorridenti e commossi. Che trionfi di riccioli d'oro e d'occhi cilestri, e di bocche di rosa e di faccine di alabastro, e di capelli d'ebano e di occhi neri e lucenti! È venuta fuori dallo scalpello di Fidia questa piccola umanità che commuove ed incanta? Un continuo mormorio di ammirazione accompagna l'apparizione dei piccoli candidati; e spesso scoppiano gli applausi, quando, cioè, la bellezza è perfetta perché si accoppia ad una calda ed artistica simpatia.
Sandro Ferrigni e Sante Giordani non consentono limiti al loro entusiasmo. Anche in questo sono generosi e violenti. Si agitano, «disegnano» i piccoli col pollice e l'indice; gridano la loro gioia; lanciano baci sulla punta delle dita.
– Botticelli! Botticelli! – esclama di tratto in tratto Sandro Ferrigni.
– Tiepolo! – mormora con le palpebre semichiuse Battista Curti. – Riconosco la mano di Tiepolo.
– Che Tiepolo e Tiepolo! – scatta feroce Sante Giordani. – Sono angeli nostri! è roba nostra! È Settecento napoletano!
E la gara che si è svolta in un rossiniano crescendo di entusiasmo e di gioia, sta per volgere al suo termine. Ogni rivalità è finita. È la Bellezza che trionfa. Anche i piccoli par che ora si ammirino tra loro, e gli occhi delle mamme son divenuti più sereni e più dolci. Ma ecco che, improvviso e inatteso, appare un piccolo con gli occhi guerci e le gambine leggermente arcuate. È un attimo di stupore. Il piccolo è brutto, irrimediabilmente brutto, e la sua è una di quelle bruttezze comiche che non riescono a sfuggire all'occhio beffardo della folla.
I pittori lo guardano sgomenti. La folla ora urla e si agita. Sante Giordani pensa ad un cattivo scherzo, e guarda torvo il piccino. Sandro Ferrigni grida: «È una beffa dei nostri nemici!» Il bimbo tenta di sorridere. Ora la farsa uccide il dramma. La folla non è più feroce, è crudelmente gaia. È lunga, spasmodica, clamorosa la risata che accompagna la strana apparizione. Anche gli alberi ridono. Solo il prete non ride. Quando però il piccolo si sente investito in pieno da questa ondata di ilarità che man mano diventa sberleffo, insolenza, scherno, non sa più resistere all'urto, e, chinando il capo, quasi per sottrarsi allo sguardo della folla, tutto sbiancato in volto, grida con vocetta di dolore e di rabbia:
– Io non volevo venire. È stato lui.
Non ha finito di parlare il piccolo, che una donnetta pallida e tremante si fa largo tra la folla, giunge a noi, si china al mio orecchio, e dice:
– Suo padre è cieco di guerra... Sta là, in fondo, nascosto tra le foglie... Non conosce il volto del figlio... gli abbiamo fatto credere che è bello... Scusate...!
Poi, s'accosta al piccolo, che trema tutto, e se lo stringe al cuore, esclamando:
– Bello di mamma tua!
Sandro Ferrigni, che ha colto a volo, si leva, batte forte con i pugni di acciaio sulla tavola, e urla:
– Primo premio, perdio; primo premio! Primo premio!
La folla che non sa, che non ha compreso, risponde con alte invettive. È un fracasso di inferno. Mi levo. Fo cenno di parlare. Il mio pallore si impone all'ira della folla. D'intorno si fa silenzio. Gli animi sono sospesi.
– Questo piccolo è figlio di un cieco di guerra. Suo padre è un eroe. Non ne conosce il volto. Il piccolo è bello. Mi intendete voi? È bello. È un fuori classe. E noi gli conferiamo il «premio di eccezione».
Un silenzio. Poi, lo scoppio di un applauso formidabile. La folla è in delirio. Il piccolo è sollevato in trionfo. I tre vincitori – tre angeli di Dio – gli stringono le manine, e con le loro vocette di argento, gridano:
– Primo premio! Primo premio!
E il corteo si avvia per l'uscita. Cade la sera. I bengala rossi incendiano l'aria. Gli evviva diventano sempre più alti. Il piccolo cerca con lo sguardo, qualcuno, ed agita le manine. La campana di San Francesco suona a lungo.
Il cieco, alto, cereo, stecchito, segue, per ultimo, il corteo. È triste, e una lacrima gli trema nelle pupille spente. Chissà! Forse un primo sospetto...
***
«Frusta, cocchiere. A casa». Lo so, lo so: io non debbo muovermi dalla vecchia poltrona nella quale muoio un poco ogni giorno. Tranquillamente.

L'OMBRA
 DEL PADRE DI AMLETO

Voi forse non li amate i «guitti». – Io li adoro.
Par che si portino addosso tutta la malinconia dei caffè di provincia e tutta la neve delle montagne.
Mettono tenda dovunque: anche nei paeselli che han trenta case e un cimitero. Sono pallidi e impettiti. Camminano a bocca aperta, come le loro scarpe, e incedono lenti e solenni. In ognuno di essi freme un Tommaso Salvini andato a male. La loro barba non è mai rasa di fresco, e sulle loro guance vi è sempre un residuo di rossetto. Al sole di mezzo agosto resistono con fierezza, e ai dieci gradi sotto zero non oppongono che una fascia di lana intorno al collo e un sorriso di scherno. Le loro donne sono sempre incinte. Vivono in tutte le soffitte del regno; muoiono in una corsia di ospedale. Ma all'arte ci credono.
Sono Amleti, Osvaldi, Margherite Gautier, che si alimentano di miserie e di sogni. Sotto la fame palpita l'orgoglio. Si trascinano dietro un mondo di cartapesta ingiallito e fradicio, ma in questo mondo essi respirano in attesa della giustizia degli uomini e della provvidenza di Dio. Hanno l'anima vagabonda e lo stomaco pieno di gastronomiche aspirazioni. Un tempo conoscevano tutti i nomi dei sindaci e dei segretari comunali dei piccoli centri, la loro geografia è piena di risorse; il carro bestiame li trasporta da Pescolanciano a Castiglione della Valle, da San Benedetto Ullano a Falconara Marittima, da Camporotondo di Fistrone a Arciano di Pesaro, senza che essi oppongano la nonché menoma resistenza.
Recitano, in mancanza di teatri, nella palestra dell'edificio scolastico, nel giardino dell'osteria, nel cortile del seminario. Passano da Giulietta e Romeo alla Pagina dell'archivio Segreto, senza un attimo di esitazione; tagliano mezzo dramma senza che la loro mano tremi; sopprimono donne e fanciulli senza che una sola lacrima veli i loro occhi. Lasciano in ogni caffè un amico, in ogni osteria un creditore. Finiscono col dimenticare l'esistenza delle agenzie di pegni, perché non hanno più cosa impegnare.
Di questi malinconici eroi – buffi e malinconici al tempo istesso – ne conobbi uno venti anni or sono, e ne serbo ancora memoria. Si chiamava Efisio Tacconi, era alto, magro, aveva gli occhietti infossati, il naso a becco di pappagallo e i capelli ispidi e neri, chiazzati di bianco. Il colore della pelle era d'avorio antico, gli mancavano la erre e la esse: null'altro. Era il più buono degli uomini: era il più cane dei guitti. Adorava la sua donna ed avrebbe dato tutti e due gli occhi della fronte per i figli. Divideva il sigaro con il compagno più povero, e alla sua tavola non mancava mai la dodicesima bocca. Le maggiori tenerezze le serbava per Ermete, l'ultimo rampollo, che a voler prestar fede alle sue parole, gli somigliava impressionantemente. Ma, in realtà, il piccolo aveva tagliata la testa al comandante delle guardie municipali di Ortona a Mare.
La storia di Efisio Tacconi è breve come quella di Mimì nella Bohème, e val la pena di narrarla, perché è a lieto fine. Figlio d'arte, egli era nato sul palcoscenico durante il secondo atto di Jacopo lo Scortichino. A cinque anni già recitava, a venti era marito, a ventidue padre, e a trenta capocomico e direttore di un'amena tribù di scavalcamontagne. A quarant'anni era padre di nove figli, nove cani di razza bastarda, che gli pesavano sulle spalle e non tolleravano le sue carezze. A cinquant'anni era solo al mondo. Ché la sua famiglia l'aveva disseminata un po' dappertutto: la moglie, una pallottola bionda dagli occhietti d'acciaio, se n'era rimasta a Caltagirone con il figlio del Sindaco; le sei figlie femmine avevano messo in rivoluzione l'esercito, e ognuna di esse aveva scelto un'arma: chi il genio, chi la fanteria, chi la finanza, chi l'artiglieria; i maschi s'erano acconciati alla meglio: Tom presso la madre, ed Ermete, il cuore del papà, non aveva voluto distaccarsi da Nennele, la prima delle sorelle, che aveva avuto una vera fortuna con il tenente di cavalleria.
Il primogenito soltanto, Kean, aveva rotto ogni rapporto con la famiglia, ed ora viveva solo, in un paesello della Toscana, con una vecchia signora che aveva un po' di quattrini. No, per Dio, con l'onore lui non transigeva! Non perdonava alla madre e alle sorelle perché menavano vita scandalosa, e non perdonava al padre perché era stato un debole. Tollerava soltanto che la madre e le sorelle, ogni mese, gli inviassero il solito vaglia, perché il sangue è sempre sangue ed egli non era ancora riuscito a distruggere il profumo delle memorie.
***
Lo rivedo seduto su di una panchetta di legno, in quella lurida taverna che era il «Buco del Carbone», lassù, a via Sergente Maggiore. Era tempo di guerra e la notte era alta e gelida. Il comico, con il sigaro spento tra le labbra e gli occhi semichiusi, assisteva alla cena frugale dei suoi compagni d'arte, quelli stessi che lo avevano accolto per pietà nella loro tribù in isfacelo.
– Non mangia – mi disse all'orecchio uno dei compagni: – beve soltanto; ma non per vizio: per dimenticare. E della famiglia non parla mai. Non è stato mai una cima, ma ora a tutto ha rinunziato. Sa che vive di elemosina e se ne umilia. Una «parte» soltanto non cederebbe per tutto l'oro del mondo: quella dello spettro nell'Amleto. In quella barba ha riposto le ultime briciole del suo povero orgoglio. Stranezze della vita, gli han detto che anche Shakespeare amava di presentarsi sotto le spoglie del Re morto, ed egli a Shakespeare non vuol mancare di riguardo.
All'alba i comici partivano per Francavilla, ove dovevano restare per pochi giorni. Non era grande letizia intorno. Il primo a levarsi fu l'attore giovane, calvo e cinquantenne. Stirò lentamente le braccia e sospirò un malinconico: si parte!...
Ci lasciammo alla svolta del vicolo: io per raggiungere il quartiere del 280 Artiglieria, ed i comici per avviarsi alla stazione.
– Buona fortuna – dissi loro. Mi risposero con un sorriso.
Cominciava a nevicare.
A Francavilla, il comico andò ad abitare in casa di Orsola la bionda: due metri di muro per mezza lira al giorno, e nemmeno il lumino per la notte. Era crudele e manesca la bionda, e per un soldo avrebbe dato mano al coltello. Dopo la morte di Nunzio il serparo, era passata a seconde nozze con un mercante di Puglia, e qualche carezza la serbava per i figli del mercante che erano belli e floridi; per il piccolo del serparo solo bestemmie e busse. Niuccio – era questo il nome del mostriciattolo – trascinava le gambette arcuate sotto il peso del testone enorme, e i capelli erano ispidi e rossi, e tutto il corpicino era cosparso di piccole croste.
Gli occhi soltanto erano belli, ma erano tristi e spauriti.
Le botte non gli facevan più paura: ci s'era abituato; qualche pena gli faceva ancora la clamorosa risata colla quale i figli del mercante accompagnavano gli scapaccioni della bionda.
V'è un Dio che vede e provvede. Il comico ed il mostriciattolo diventarono amici. Tutti e due vivevano ora di una gioia triste: una gioia minacciata ogni giorno dal pensiero del distacco. Erano tre mesi ormai che i comici vivevano a Francavilla, e v'erano andati per rimanerci tre giorni.
Il comico avrebbe dato un occhio della fronte perché Niuccio qualche volta lo avesse chiamato «papà» – ma non aveva il coraggio di dirglielo.
La mano del comico era pesante ed ossuta e quasi sempre fredda; tuttavia il piccolo andava orgoglioso di quelle carezze. Quando quel manone gli sfiorava i capelli, non so quale nuova luce accendesse gli occhi del mostriciattolo e un lieve sorriso appariva sulle labbra gonfie e biancastre.
Ora, quando Orsola picchiava il piccolo, il comico soffriva le pene dell'inferno. Una sola volta osò intervenire e la bionda gridò: «Pagami i dieci giorni di affitto, furfante, invece di difendere questo avanzo di galera». Niuccio aspettò il comico fino a notte alta, per dirgli in un orecchio: «Non difendermi più, se no quella te ne caccia, ed io perdo la persona che mi vuole bene».
Trascorrevano gran parte del giorno insieme, parlavano poco. Il comico conosceva la pena del piccolo; Niuccio intuiva il tormento del comico.
Ogni notte, nel tornare a casa, Tacconi trovava un piattello sul tavolo: era Niuccio che divideva la scarsa cena con lui; ed il comico era tutto felice quando, privandosi del necessario, riusciva a comperare trenta centesimi di cioccolattini per il piccolo.
Niuccio, nell'accettare il cartoccino, non riusciva a balbettare che un: «perché?». E gli occhi gli si facevano rossi.
Il giorno se ne andavano tutti e due, soli, a braccetto, per la via del mare. Il comico camminava a piccoli passi per non mortificare le gambette arcuate del piccolo. Spesso entravano nel teatrino dei pupi ove Tacconi – per colleganza – aveva libero accesso, e Niuccio si divertiva un mondo alle gesta di Orlando: si accendeva in volto, mandava piccoli gridi, e si stringeva forte forte al braccio del comico.
– Me lo regali un pupo?
– Sì, bello.
– Con la corazza?
– Sì, bello.
– Con l'elmo?
– Anche con l'elmo.
– E con la durlindana?
– Sì, bello, con la durlindana.
– Grande, grande?
– Sì, grande, grande.
– Come te?
– Come me.
– E quando?
– Appena avrò i danari.
– Non ne hai danari tu?
– Pochi ne ho.
– Pochi pochi, – ripeteva con voce pietosa il piccino. – E allora non fa niente: non me lo regalare.
***
«Ordine del giorno»: domani, domenica, ore 18: Statua di carne; ore 21: Amleto. Lunedì, all'alba, partenza.
Il comico ebbe un brivido alle reni. Era l'addio a Niuccio. Non si sarebbero rivisti più.
E con qual cuore avrebbe annunziata la partenza al piccolo povero amico dagli occhi pietosi? Ed egli, egli stesso, come avrebbe fatto a vivere senza Niuccio? Il cervello gli si annebbiava, e le mani ossute cominciavano a tremargli come nel giorno in cui Ermete, «il cuore di papà» gli aveva detto: No, io me ne sto con mia sorella che ha avuto fortuna col tenente: con te non ci vengo.
Niuccio lo aspettava sulla porta di casa, ed era sorridente, quel giorno.
– Più tardi, oggi?
– Sì, Niuccio.
– Come sei pallido!
– No, piccolo, sto bene.
– Hai le mani fredde fredde.
Il comico tirò a sé il piccino, e, guardandolo negli occhi, gli carezzò lungamente i capelli. Poi tentò abbozzare un sorriso.
– Lunedì è partenza, gli zingari se ne vanno. Il comico ti lascia. Ti dispiace?
– Lo dici per farmi piangere, cattivo!
– No, bello. Un giorno o l'altro bisognava che ci lasciassimo. Era già troppo tempo che eravamo fermi qui... Ora ce ne andiamo.
– Mi lasci? Non ci vediamo più? Perdo le sole carezze?
– Piccolo bello, io ti scriverò sempre.
– Per me non restano che le busse della bionda. Anche tu mi lasci, cattivo!
Ed il bimbo scoppiò a piangere forte, e scappò via facendo a due a due le scale che menavano a casa. Che pena quelle povere gambette arcuate!
***
Domenica delle palme. L'armoniosa e nitida piazza di Francavilla è un quadro di Michetti. Un venterello fresco e leggero agita appena gli ulivi che gli amanti recano tra le mani. Le campane suonano a lungo. Suonano a festa, e fanno malinconia. Il comico e Niuccio ascoltano in ginocchio la messa cantata nella chiesa grande e pregano con gli occhi fissi nel vuoto.
Poi fanno l'ultima passeggiata per la via del mare: camminano pallidi e lenti, a piccoli passi, senza scambiarsi una parola, uno sguardo. Sulle vele, lontano, si posano gli uccelli neri e qualche nuvola rossa annunzia il temporale.
Si lasciarono un'ora dopo mezzogiorno sull'uscio di casa.
– Salutiamoci ora, perché domani parto all'alba, e non voglio che tu prenda freddo: l'aria è ancora gelida a quell'ora. Nelle lettere ti accluderò sempre il francobollo. E tu mi risponderai.
Nel dire queste ultime parole levò il piccolo fra le sue braccia per poterlo baciare in fronte.
Niuccio gli gettò le braccia al collo, e non riuscì che a balbettare un «Addio, papà!»
Il comico poco mancò che non venisse meno. Si allontanò barcollando, ed entrò nella taverna ove non trovò cibo: bevve soltanto. Poi, come al solito, si addormentò in un angolo col mozzicone di sigaro spento fra le labbra e la punta del naso sul petto.
***
Sull'imbrunire si avviò a teatro e si rinchiuse nel suo camerino per uscirne soltanto all'inizio del quinto atto della «Statua di carne», quando, cioè, Padre Anselmo di Acquapendente, custode del cimitero di Sant'Elmo, sente il bisogno di balbettare le poche e profonde scemenze che riempiono di lacrime i romanticissimi occhi del conte Paolo di Santarosa.
Breve intervallo tra il primo ed il secondo spettacolo. Ora i guitti si preparano per l'Amleto.
Già spira un po' dappertutto il vento gelido dell'addio. Il palcoscenico è un carro funebre di terza classe. Il direttore del dazio di Consumo – un omettino calvo ed occhialuto, con un accenno di pancetta – dona l'ultima gardenia alla quarantenne Ofelia, ma alla bionda innamorata del principe di Danimarca occorrono di urgenza due pasticcetti di crema: ha il veleno alla bocca per il distacco.
Intanto Efisio Tacconi dopo che ha lustrati, con una polvere di sua invenzione la corazza, l'elmo e la spada, comincia a vestire, a calzare e a truccare con meticolosa cura l'ombra del padre di Amleto. Si mira nel piccolo specchio incrinato, e ride. Ride forte, con una terribile smorfia.
Quando il prodigioso guerriero, verso il quale la moglie non ha serbato irreprensibile condotta, emerge intero dal suo logoro vestiario, egli Efisio Tacconi non può fare a meno di esclamare: Che bel pupo!
E gli occhietti, infossati e smorti, hanno un lampo di gioia.
***
Per fortuna quella sera il nostro eroe non si «impaperò» quasi; tanto è vero che alla parola «giurate» non sottrasse che un «u», sicché dalla bocca sdentata venne fuori un lento, lungo, lugubre: Giraaaaate!...
Ed Amleto, Orazio e Marcello, sgomenti e solenni, sfoderando le spade, risposero ad una voce sola: Giriamo. E fecero un piccolo giro intorno al re defunto.
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Siamo al finale. La scena è cosparsa di cadaveri. Amleto, dopo lunga e straziante agonia, rende la bell'anima a Dio. Cade la tela. Una cinquantina di spettatori fedeli rivolgono un lungo e caldo saluto ai guitti che partono. Il principe folle, fra la generale commozione, rivolge poche e sentite parole alla generosa e nobile terra d'Abruzzo.
Il vice direttore del dazio di Consumo piange forte, felice di mettere in mostra le lacrime del suo primo amore.
Mezz'ora dopo lo spettacolo, il palcoscenico è deserto. L'ultimo ad uscire è Efisio Tacconi.
Non ha voluto svestirsi: l'anima del guerriero gli palpita ancora nel corpo in isfacelo.
Si butta sulle spalle il vecchio cappotto che non ha più nè pelo nè colore, e col mezzo sigaro spento tra le labbra, scompare per la porticina del palcoscenico.
La città è avvolta nelle tenebre e la casa è a pochi passi dal teatro. Il comico cammina a piccoli passi e camminando parla, ride, annaspa, saltella.
Eccolo là, povero Tacconi, ora è solo nella sua cameretta. S'è liberato del cappotto, del berretto di lana, ed è caduto a sedere davanti alla piccola tavola, ove una mano pietosa ha deposto per l'ultima volta un malinconico piattello. Egli non tocca il cibo, guarda la cena e a fior di labbra esclama: Niuccio bello!
E rimane così, per un pezzo, gli occhi fissi nel vuoto e la bocca aperta.
Poi scrive qualche cosa su di un foglio con il lapis. Legge e rilegge lo scritto. Fa una smorfia, e lacera il foglio.
Si leva lentamente (povero comico, com'è buffo sotto le spoglie del Re morto!) e guarda in alto: le mani gli tremano, ma gli occhi gli ridono. Spegne il lume, sale sulla tavola, e ripete con voce d'oltre tomba: «Essere o non essere»: le folleggianti parole del figlio.
Niuccio si leva all'alba: vuol salutare per l'ultima volta il comico. Cammina in punta di piedi.
Batte una volta alla porta: silenzio. Torna a battere: silenzio. Batte una terza volta: ancora silenzio. Il cuore gli arriva alla gola. Con un piccolo colpo di spalla apre l'uscio, e si arresta sulla soglia. Il comico, vestito da guerriero, con l'elmo e la durlindana, è immoto, nel mezzo della stanza. Indietreggia tremando. Si caccia le mani nei capelli. Chiama a nome il comico, poi col poco fiato che ha in gola, comincia a gridare: Corri, mamma, il comico fa il pupo, e mi fa paura.

FERNANDO CAPOCELLI

Ai tempi di Virginia la fioraia – quando via Roma si chiamava ancora Toledo, e Re Pappone era sindaco di Napoli – Capocelli era un elegantone: (finanziera, tuba, guanti, caramella e mazzolino di viole all'occhiello).
Le sartine e le modiste di Ghiaia se lo disputavano fra la più grande costernazione delle «meze cazette» dell'Infrescata e di Foria, quelle, cioè, che si intenerivano sino alle lacrime quando nelle «serate» Capocelli con la sua voce di capretto pasquale cantava il «Se» di Denza.
Giovine, non brutto, trecento lire il mese ai «Benefici vacanti», Capocelli era un magnifico partito per le signorine che leggevano «L'amore illustrato» e «La farfalla napoletana».
Ma un bel giorno Capocelli scomparve, nè per lungo tempo si ebbe alcuna notizia di lui. Fin quando, cioè, il «vivace e spigliato cronista dell'Occhialetto» – un settimanale del tempo, che usciva tre volte l'anno – si decise a dare la notizia che da più tempo Fernando Capocelli era infermo. Lutto generale per le signorine Savelli del vicolo Lammatari; quella domenica non andarono alla messa di Santa Brigida, e il martedì seguente si rifiutarono di intervenire al battesimo del tredicesimo figliuolo del ricevitore del Lotto. Di Capocelli si parlò ancora per qualche giorno. Poi, silenzio. Era già stato sostituito, in quel piccolo mondo, da Fefè Durelli, il secondo genito del primo usciere della Corte di Appello: un giovanotto che aveva gli occhi azzurri, i capelli fini fini e color dell'oro, e conosceva una mezza dozzina di parole francesi, tanto che la zia delle De Ciutis, una zitellona che s'intendeva di tutto, lo definiva un «autentico policotto».
***
L'eroe delle «serate» napoletane dopo un anno di assenza ricomparve. Ma non camminava più solo. Lo accompagnava sua madre, una vecchietta alta un metro, sepolta sotto un cappellino nero sul quale ballonzolava un tulipano di velluto rosso.
La vecchia lo conduceva per mano come un bambino. Il cocò di Toledo aveva smessi la tuba e l'abito elegante. La giacchetta ed il panciotto erano chiazzati di frittelle, i baffi gli venivano giù alla cinese, ed il suo occhio era smorto. Ma Capocelli rideva.
Saltellava più che non camminasse, e recava ancora un piccolo mazzetto di viole all'occhiello. Quando era lì lì per mangiarsene qualcuna, la vecchia gli picchiava dolcemente sulla mano: – Sono fiori e non si mangiano, a mammà!
Non era occorso molto a dimezzare quell'intelletto modesto: otto giorni di meningite erano stati più che sufficienti.
***
Ora Capocelli, perduto il posto ai «Benefici vacanti» a causa del male che lo aveva ridotto in uno stato di pietosa imbecillità, non si occupava che di poesia e di teatro.
Un perfetto stato di ebetismo può consigliare a una creatura umana anche follie più spaventose di queste.
Il poeta canticchiava i suoi versi in istrada, accompagnando il canto con un balletto che poteva indurre al riso soltanto i suoi numerosi colleghi in idiozia.
«Stelletella stelletella,
piccerella piccerella,
chi nun tene à mammarella
comme campa? comme fa?
Tra lla lla, la llà
tra lla lla, la llà!
comme fa?
comme fa?..
La vecchia che lo accompagnava non aveva ancora la perfetta coscienza di una così grande sventura, ma metteva una infinita tristezza nel cuore quando con una enorme pezzuola nettava le labbra al figliuolo. Già, perché quando Capocelli finiva di cantare, dall'angolo sinistro della sua bocca veniva fuori una specie di bava giallastra.
«Povero piccerillo – diceva la vecchia a quel po' di folla che si faceva intorno – ora sta malato. Non può fare più cose serie. Ha lasciato l'impiego, e fa il poeta e scrive sopra i giornali. Di' un'altra volta la poesia, ma con le mosse se no non fa effetto. Mò vedete come la dice bene, figlio mio d'oro. Fa piangere pure le pietre della via».
E Capocelli ricominciava:
Stelletella stelletella
piccerella piccerella...
E accompagnava il canto col balletto, e faceva anche le mosse. E rideva. Ma qualche volta gli veniva da piangere, e allora la mamma se lo conduceva via, tenendolo per la mano, e ammonendolo anche: Zitto, zitto, a mamma, non si piange per la strada. Se no che dicono? Che sei un bambino di tre anni? ... Tu sei un poeta come Parzanese e non le devi fare queste cose a mamma, se no io me ne muoio appresso a te...
***
Le serate d'inverno Capocelli e sua madre le trascorrevano in un caffettuccio alla salita di Santa Teresa, un caffè piccolo piccolo che vantava una storia gloriosa. Luigi Settembrini e i suoi compagni avevano, un giorno, cospirato in quel guscio di noce. Ma gli eredi di Don Ciccio De Stasio, il defunto padrone del caffè, erano devoti al Borbone, e non parlavano di Settembrini con eccessiva deferenza. Lo chiamavano «lo scombinato». E tutti intendevano a chi alludessero.
***
Capocelli e la madre sedevano sempre all'istesso tavolo del caffè, quello in fondo, a sinistra, il più vicino al «bancone». E intorno a quel tavolo facevano circolo, la sera, il parroco della chiesa di Santa Teresa, un vecchio magistrato a riposo, un ufficiale giudiziario che, «quando lui era ancora lui» s'era dato il tu con don Nicola Amore ed Erricuccio Pessina, un medico senza ammalati e uno strozzino assai devoto alla Madonna dell'Arco. Si leggeva il giornale, si discuteva un po' di tutto, si inneggiava sottovoce a Re Nasone, si animavano vivacissimi dibattiti sul tressette e sulla calabresella, e talvolta si trovava persino squisita quella tazzina di cicoria che il lepido erede di don Ciccio de Stasio, un umorista incompreso, soleva definire «cafè antinervastenico» Per l'onestà della cronaca aggiungerò che a questa facezia non rideva che lui solo.
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La vecchia non prendeva mai nulla, ma per il figlio ordinava una «mezza veneziana» nella quale Capocelli lentamente bagnava un «panino» duro come una pietra. – «Piano piano, a mammà, non fare i bocconi grossi se no t'affoghi».
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La conversazione languiva man mano. Poi i vecchi lentamente s'addormentavano. Lo strozzino devoto alla Madonna dell'Arco reclinava la testa sulla spalla dell'ufficiale giudiziario al quale questa cosa dava grandissimo fastidio, e assai spesso ripeteva cifre, nomi, indirizzi, nel sonno.
Capocelli, rimasto padrone del campo, canticchiava con un fil di voce la sua canzone a Leopoldo il cameriere, un vecchietto rossiccio che si trascinava per tutto il caffè una sciassa verdastra e una gamba a semicerchio.
Più i vecchi russavano forte e più Capocelli si eccitava a quella specie di accompagnamento orchestrale.
Leopoldo non era facile alle lodi, ma in una sera piovosa nella quale Capocelli gli lesse il principio di una sua novella dal titolo «Nannina mi fa morire!» il vecchio cameriere non poté fare a meno d'esclamare: Prufessò, manco don Ciccio Mastriani scriverebbe una cosa di questa.
E si asciugò, forse per la prima volta in vita sua, una lacrima grossa come un chicco d'uva.
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La mala vernata spazzò via Capocelli come una foglia secca. Se lo portò via il carro dei poveri in una sera di lampi e di tuoni, a metà febbraio.
La vecchia si trascinò dietro il carro trotterellando anch'essa con due scheletri sciancati che funzionavano da cavalli. Il vento ogni tanto le alzava le vesti ed il cocchiere, mezzo brillo, col mozzicone fra le labbra, spassandosi un mondo a quello spettacolo, non faceva che «fabbricare» facezie oscene.
La vecchia non gli prestava ascolto. Seguiva il carro agitando le braccia e cantando la canzone del figlio. Con le stesse mosse.
«Gesù santo, "quella scienza" che fine doveva fare! Nemmeno la musica dietro quel carro!... Che ingiustizia, sentite, che ingiustizia!»
***
Ma la vecchia, per una di quelle bizzarrie del destino, vive ancora. E la sera se ne sta sola in un angolo del caffettuccio di Santa Teresa. Sorbisce la sua tazza di caffè scambia qualche parola con il vecchio parroco, e poi si addormenta.
Quando russa forte, Leopoldo le batte dolcemente sulla spalla: Signò, scetateve!
Ella riapre gli occhi come per cercare qualcuno. Poi si ricorda che ora è sola al mondo e reclina la testa sul petto. Stavolta russa più forte.
E il tulipano che trionfa sul suo cappello si diverte a fare la campana.
PRIMA E ULTIMA
Sono bassino e grasso; conservo i lineamenti infantili, porto gli occhiali alla Cavour, e vesto trasandato. Somiglio – dicono – a Napoleone, in brutto. E dire che Napoleone non era bello!
Non ho avuto vita avventurosa: pochi soldi, pochi amori, pochi viaggi. Esistenza grigia, monotona, senza sogni, senza aspirazioni. Obeso e parsimonioso, scettico e sentimentale, ingenuo e astuto, sono un eterno fanciullo; e dir che la neve m'è fioccata sulle tempie ed il cocuzzolo mi si è pretescamente pelato. Sto tra il tribuno ed il parroco, perché, in fondo, ho qualcosa dell'uno e dell'altro.
Ero nato per fare il segretario comunale in un piccolo paese di provincia: ho preferito battere altra via, e sono quarant'anni e più che sconto il mio errore. Vivo senza gloria e senza quattrini, perché sono un povero diavolo che non è mai riuscito a far nulla di buono. Quest'è tutto.
Io ho fatta la mia confessione: ora aspetto quella dei miei fratelli in Elicona.
Breve preambolo biografico, non del tutto ozioso, quando si pensi che unica protagonista è stata la mia avvenenza fisica. È ad essa che io della mia prima e ultima avventura di amore debbo tutto. Le rendo, quindi, ancora una volta grazie, ed entro in argomento.
Ricordo che da poco era finita la guerra, ed io dovevo recarmi a Roma non so per quale faccenda. Allora di elettrotreni non era nemmeno a parlare, e da Napoli alla Capitale si impiegavano dalle sei alle sette ore: poco meno di quanto occorre oggi per trovarsi da Santa Lucia in piazza del Duomo, a Milano.
Avevo annunziato a casa il mio viaggio tre giorni prima, ed eran tre giorni che mia madre piangeva in silenzio, e mia moglie cercava di non incontrare i suoi occhi nei miei. Avevo tutta l'aria del generale Nobile alla vigilia della spedizione polare. Un nodo mi stringeva la gola, e ridevo per non piangere.
Il treno partiva alle sette del mattino: alle sei tutti erano pronti sul pianerottolo di casa per la scena dell'addio.
Baci, abbracci, sventolio di fazzoletti con commossa partecipazione del vicinato e raccomandazioni di mia madre.
– Chiudi bene lo sportello!
– Bada quando sali!
– Telegrafa!
– Non affacciarti al finestrino!
Mia moglie, intanto, mi aveva preparato un cartoccio con un po' di merenda: «C'è la frittata, un po' di formaggio e la frutta. La bottiglina col vino è bene che tu la porti in mano».
– Figlio, figlio mio! – gridò per l'ultima volta mia madre, abbracciandomi con tenerezza infinita. Ed era tutta bianca in volto e le mani le tremavano.
Mi sentivo morire, quando un ameno poeta napoletano, claudicante e infido, che allora non si scostava mai dalle mie calcagna, per confortare mia madre pronunziò queste testuali parole che io affido alla commossa ammirazione dei posteri:
«Nun chiagnite, signò. Dio è grande: pò essere pure ca Don Liberato torna».
Mi rincantucciai in una seconda classe, con il giornale aperto tra le mani, ed il pensiero rivolto altrove. Non riuscivo a leggere, perché i caratteri stampati facevano una specie di danza pazzesca che io con tutto il buon volere non riuscivo a frenare.
Avevo gli occhi gonfi, e l'anima dell'emigrante. Per fortuna, nessun compagno di viaggio: ero solo, e non mancavano che due minuti alla partenza. Quand'ecco che ad un tratto, sotto forma di raffica, di fulmine, di saetta sopraggiunge una signorina dai capelli dipinti da Tiziano e dagli occhi color del mare. Aveva un nasino bizzarro e prepotente, e due file di denti che nulla avevano da invidiare alle perle d'Oriente. Era carica di valigie, di fagotti, di cappelliere e di molto altro ben di Dio, sicché riuscì da sola quasi, ad occupare tutto lo spazio disponibile. Poi sedette nell'angolo dirimpetto a me e mandò un sospiro che non accennava mai a finire.
Feci un piccolo cenno di saluto: ella non rispose, ma – chi sa perché – si coprì gli occhi con le mani, facendo una smorfietta di disgusto, della quale riuscii a rendermi conto soltanto più tardi.
Teteeè! Teteeè! In vettura! Partenza! Suono di campane, «buon viaggio», «arrivederci», «scrivimi», e la lumaca si avviò malinconicamente verso Roma.
Erano le sette del mattino, ed il termometro doveva segnare trentotto gradi sopra zero. Non si respirava. Accesi la prima delle cento sigarette, e cominciai a fumare.
Da Roma a Cassino io e il fulmine non scambiammo una sola parola: io ripetevo tra me la frase celebre del poeta claudicante; ella se ne stava con gli occhi socchiusi e la testina riversa sulla spalliera del vecchio divano scolorito e calvo. A Cassino le cose mutarono, ché fu proprio durante quella interminabile fermata che il nostro scompartimento, o, meglio, la nostra fornace, fu allietata dalla allegra e clamorosa presenza di due ragazzoni belli come il sole.
Con loro due il Signore ci si era spassato, davvero, come d'altra parte aveva fatto con me, in senso inverso, molti anni prima. Erano due ercoli ventenni dal volto gioioso e dal sorriso dolce e intelligente: occhi grandi e neri, riccioli d'oro al vento, e un metro e ottanta di altezza. Non avevano valigie, nè altri ingombri: recavano soltanto tra le mani, quasi un trofeo, un grosso cartoccio caldo e profumato. Salutarono a gran voce, ma il solo a rispondere fui io. I due atleti occuparono gli altri due angoli dello scompartimento, e, come il treno si rimise in cammino, cominciarono ad intonare bei canti montanari, festosi e malinconici al tempo istesso. Cantavano a piena gola, e le loro voci vellutate mettevano gioia, perché erano sospirose di felicità e di giovinezza.
La viaggiatrice bizzarra gettò un fugacissimo sguardo sui nuovi venuti, ma, subito, brusca e pentita, volse gli occhi verso la campagna che era vestita di verde, come Ornella nella «Figlia di Jorio».
– Mano al cartoccio! – gridò il primo.
– Assalto alla baionetta! – rispose l'altro.
E davanti ai miei occhi sbalorditi si aprì una intera gustosa rosticceria. C'era tutto in quel cartoccio, financo l'incredibile: un pane così bianco che sembrava fatto di neve, grosse fette di arrosto, prosciutto crudo e cotto, timballetti di maccheroni, tramezzini, galantina, olive di Spagna, Bel Paese, carciofini, banane, pere, pesche e albicocche grosse quanto un'arancia. Ce n'era per dieci persone, ma due furono più che sufficienti per distruggere in pochi minuti una colazione che ad altre ganasce avrebbe richiesta mezza giornata di fatica. Il vinello fresco ch'era nei fiaschetti aveva dato corda al giocattolo amore, sicché i due ragazzi cominciarono a narrarsi storie di baci, di attese, di addii, di gelosie, e qua e là qualche nota piccante infiorava le allegre confessioni. E che ridere e che spasso, e che improvvise e violente esplosioni di allegria: erano i bei vent'anni che affermavano il loro diritto ad una gioia senza controllo e senza limite! Forse avrei riso anch'io se l'animo me lo avesse consentito; ma in me era troppo vivo il ricordo del dramma svoltosi all'alba sul pianerottolo di casa mia.
Erano le undici, e lo stomaco mi si andava illanguidendo. Prima di morire come Ugolino, mi decisi a sciogliere, umile e mortificato, il mio povero cartoccino per mettere fuori la francescana merenda. Fu in quel momento appunto che la mia dirimpettaia, guardandomi con un sorriso pietoso, mi rivolse per la prima volta la parola.
– Me ne date un poco?
Avrei voluto che la terra mi si aprisse sotto i piedi. Rifiutarmi alla signorina non era possibile, ma, d'altra parte, non volevo in alcun modo arrecare offesa agli atleti. Rimasi un istante indeciso con la frittata tra le mani, poi, illuminato da un improvviso lampo di genio, mi rivolsi con un adorabile sorriso ai due ragazzi, e chiesi: – Loro permettono?
– Siii! – risposero all'unisono i due compagni, con una risata che mi squassa ancora i timpani; ed io, senza indugio, offrii ai denti orientali tre quarti della mia povera frittata, e poi il formaggio, e mezza pera. Ella non rifiutava mai, anzi, con un piccolo gesto di protezione portò alle labbra la mia bottiglina di vino e bevve d'un fiato, lasciando un piccolo fondo di bottiglia anche per me; della qual cosa, a distanza di anni, serbo commosso ricordo.
Rimasi digiuno, ma, in compenso ella ora teneva inchiodati i suoi occhi nei miei, e mi sorrideva anche e spesso continuava a rivolgermi la parola. Aveva una vocina di suora di carità: dolce dolce, lenta e morbida. E le piccole cose, che diceva con grazia scanzonata, rivelavano la strana originalità di un temperamento bizzarro e sentimentale.
D'un tratto, senza mai schiodare i suoi occhi dai miei, sbiancandosi in volto, esclamò: «Come è dolce amare... e soffrire!». E rimase per un istante in estasi, con la mia bottiglia di vino tra le mani.
Incominciavo a sentire un certo formicolio nel sangue. Fino a quel giorno, lo confesso, mi ero sempre rifiutato di credere alle «avventure di viaggio», perché le avevo giudicate frutto dell'accesa fantasia dei romanzieri da appendice; ma stavolta no, stavolta c'era poco da non credere: il cuore di quella ragazza era andato in fiamme per me, e l'incendio, sviluppatosi in un attimo, si andava allargando di minuto in minuto.
Mille vigili del fuoco non sarebbero riusciti a spegnerlo. Incredibile, fantastico, d'accordo; ma ogni più lontano dubbio avrebbe avuto tutta l'aria di una troppo audace provocazione alla divina provvidenza.
– Che donna sublime! – pensavo tra me; – mi si è rivelata così, all'improvviso, inaspettatamente: ha preferito un povero diavolo come me, con una piccola merenda, a questi due angeli muscolosi, scesi in terra per essere amati da tutte le donne del globo!
– Vi fermate a Roma? – mi domandò con un languore pieno di sorridenti promesse.
– Sì, fino a domani.
– Fino a domani? – ripeté dolcemente, socchiudendo le palpebre. Un lungo silenzio. – Siete sindaco del vostro paese?
– Il mio paese è Napoli, e non hanno pensato ancora a farmi sindaco.
– Viaggiatore di commercio?
– Nemmeno.
– Vi occupate di generi alimentari?
– Non ancora.
– E allora?
– Scrivo. Sono uno scrittore.
– Voi?!
– Io.
– E il vostro nome?
– Libero Bovio.
– Non conosco...
– È possibile. E voi?
– Mi chiamo Nennele.
– Nennele?
– Ricordate «Come le foglie»?
– Ricordo.
– Mio padre era un filodrammatico appassionato di Giacosa...
– Ho capito...
– Nennele Masini: nome e cognome; vivo a Roma con un mio fratello macchinista delle ferrovie: è un orso con il cuore d'oro che di moglie non ne ha voluto sapere per dedicarsi tutto a me: e torno da Napoli ove mi son trattenuta un po' di giorni presso una mia zia, sorella di mia madre, una povera donna che ha i mesi contati... È tutta roba che mi ha donato lei questa che è nelle valigie... Mi ha detto: Nennele, prendi tutto... io sono una vecchia foglia che se ne andrà con l'autunno, e non voglio che tanti ricordi vadano nelle mani di un estraneo. Tutto a me! Ha dato tutto a me, signor... Come avete detto?
– Bovio.
– Signor Bovio... – E gli occhi le si fecero rossi di lacrime.
Mentre continuava tenero e ininterrotto il dialogo tra me e Nennele (sento ora il prepotente bisogno di chiamarla per nome) i due ragazzi più allegri di prima, si scambiavano impressioni e facezie nell'orecchio, e ridevano, ridevano sino allo spasimo, ed io, purtroppo, non dovevo essere del tutto estraneo a quella irrefrenabile ilarità.
Per fortuna ci avvicinavamo a Roma.
Non mancavano che pochi minuti all'arrivo, quando Nennele, sempre piena di delicati pensieri per me, con un gesto che non ammetteva replica, mi chiamò a collaborare con lei nella difficile opera di sgombero. Che fatica! Mi sentivo le braccia rotte, ma l'amore vuol pazienza e sacrificio. Eravamo giunti. Ora il vecchio treno, asmatico e sonnolento, entrava nella stazione a passi di formica, e sembrava che con il suo incedere grave e pesante volesse tentare la comica imitazione di quei pagliacci di circo equestre che, a loro volta, imitano l'assordante rumore del treno.
– Roma! – gridò con voce stanca un discendente dei Cesari.
– Un facchino! Chiamate un facchino! – mi ordinò Nennele...
– Facchino! Facchiiinooò! – mi diedi a gridare con quanto fiato avevo in gola, ma la mia voce se la portava il vento. Niente facchini. Sicché Nennele Masini, figliuola dell'appassionato interprete di Giacosa, con una di quelle sue improvvise e geniali trovate, non esitò un solo istante a caricare le mie mani, le mie spalle, la mia testa, di tutte quelle valigie che a portarle ci sarebbero occorsi tre uomini. Mi sentivo venir meno, ma Nennele, dolce e pietosa sempre, mi confortava con degli energici: – Su, su, fino alla vettura... Pochi passi... Siamo arrivati!
I ragazzoni mi passarono frettolosi davanti, lanciandomi uno spassoso: – Ciao! – che mi sapeva più di scherno che di saluto.
Con un sol colpo di spalla scaricai tutta quella immensa montagna su di una «botticella», e feci per accomiatarmi, quando Nennele, prendendomi graziosamente per l'orecchio, mi costrinse a salire.
– Signor Bovio, con me... a casa. A vetturì, frusta forte. A Trastevere.
In una tortuosa traversa di Trastevere, al quinto piano, abitava Ferruccio Brunetti (solo in seguito compresi perché Ferruccio Brunetti e Nennele non avessero lo stesso cognome) capomacchinista delle ferrovie dello Stato, alto, magro, le mani di acciaio, gli occhi piccoli piccoli e feroci, un ciuffo enorme di capelli neri che gli piovevano sulla fronte e il naso rosso e rincagnato. Aveva una voce di basso profondo e la risata di Mefistofele.
– Un po' alta, – disse Nennele, – ma piena di aria e di sole. Si vede tutta Roma.
A salire le valigie fin su al quinto piano ci aiutarono il portinaio, un ciabattino effeminato e umorista, che a quell'ora era già brillo e «la sua signora» una pallottola cisposa «che se non aveva avuto figli la colpa non era sua».
Ferruccio era lì, sul pianerottolo, che ci aspettava in maniche di camicia e mutande. Il petto villoso, mezzo scoperto, metteva paura.
L'abbraccio tra lui e Nennele non accennava mai a finire: una scena da teatro.
– Quindici giorni! Quindici secoli. Ti sei fatta più bella!
– Cuor mio! – sospirò l'altra, con gli occhi chiusi e le labbra che le tremavano.
L'umorista e la pallottola erano scomparsi. Ora, d'intrusi, non c'ero che io. Caddi a sedere su di una sedia e volsi lo sguardo d'intorno. In un angolo era apparecchiata una tavola zoppicante per due.
– Il signore Libero Bovio, scrittore.
– Piacere.
E la mia mano fu stretta in una morsa.
– È stato il mio compagno di viaggio. Ha fatto le tue veci.
– Chi?!... Lui?!...
– Lui.
– Davvero?
– Te lo giuro.
Ferruccio mi guardò sbalordito; poi fu preso da una risata convulsa, una risata di gioia e di gratitudine, e strinse tra le sue dita la mia pappagorgia, senza lasciarla più.
– Mangi con noi? (Ci diamo del «tu» non è vero?)
– Troppo onore, ma io ho finito poc'anzi di far colazione; e poi ho mille cose da sbrigare.
– Sei pazzo! Tu rimani con noi.
– ...È impossibile.
– Liberio, non farmi andare in bestia, ti prego.
Mi levò di peso per farmi sedere a tavola. Gli occhi di Nennele lampeggiarono di gioia.
– Si mangia polenta fatta da me, con le mie mani; polenta con gli uccelletti. Ieri, a caccia, phim! phim!, due colpi... Sei cacciatore?
– No.
– Peccato! Guarda: è il mio compagno.
E mi indicò un fucile minaccioso, che faceva bella mostra di sé...
Nennele ricomparve con la polenta che fumava. Ferruccio sedette a capo tavola, fra noi due.
E il martirio ebbe inizio.
Quella polenta era di cemento armato, e gli uccelletti erano mezzo sanguinanti ancora. Non riuscivo a portare il cucchiaio alle labbra.
– Mangia, Liberio: è un capolavoro. Quando noi uomini ci mettiamo, eh!, ne vogliamo mille di donne... Mangia, perdio!... E mi lasciò andare tre colpi sulla pancia, in segno di protezione. Poi, rivolgendosi a Nennele, la pregò di dirgli tutto, senza nascondergli niente. – Niente, capisci?
– Eravate soli nello scompartimento?
– No: c'erano due giovanotti belli come il sole...
– Sìiii? Belli?
– Assai. Dite voi, signor Bovio, come erano?
– Belli. Due statue greche.
– Sì... greche.
– Ma io non li ho guardati nemmeno.
– Mai?
– Mai... I miei occhi erano fissi nei suoi... così, vedi, così... E vero?
– Sì, è vero, ma...
– Non negare, Liberio, non negare, ché mi addolori. Un tuo «no» mi farebbe impazzire.
– Avevo fame, ma dai due ragazzi che avevano con loro tutto il ben di Dio non ho accettato niente. Da lui solo ho accettato...
– Povera Santa!
– La frittata... il formaggio... mezza pera tagliata da lui... con le sue mani.
– Da lui?!... Con le sue mani?!... Ah, coccola benedetta, vorrei inginocchiarmi ai tuoi piedi!
– E il vino... Abbiamo bevuto nella stessa bottiglia...
– ...nella stessa bottiglia?! È fantastico! È fantastico! – gridò commosso Ferruccio, mettendo fuori due zanne che avrebbero fatto paura a un cinghiale.
– E non ho parlato che con lui, con lui solo...
– Grazie, grazie, amore santo!
– E mi sono fatta aiutare da lui per le valigie: le nostre mani si toccavano.
– Si toccavano? Dio! Dio, Dio! Che anima grande! Che anima bella!
– Chi? – osai domandare.
– Nennele, s'intende. Ah, che non riesco più a trattenermi...
E caddero ancora una volta l'uno nelle braccia dell'altra, per tempestarsi di baci lunghi, cocenti, pieni di ardore. Non avevo mai visto un fratello e una sorella baciarsi a quel modo: soltanto nelle farse di Eschilo.
– E l'ho costretto ad accompagnarmi qui, da te, perché tu lo conoscessi.
Vennero fuori dei carciofi di legno annegati in un mare di olio fetido.
– Sono felice... felice... felice di averti conosciuto (e qui altri cento baci a Nennele). Mangia, mangia, Liberio! ché se fai il cattivo ci pensa il fucile... Phim! Un colpo, e addio.
Il vino dei Castelli cominciava a fare effetto. Ferruccio aveva vuotato il primo fiasco, e si preparava a vuotare il secondo. Nennele lo guardava incantata.
Una decina di nespole, un po' di cicuta, e il pranzo era finito. Non vedevo l'ora di scappare. Sì, è vero, Nennele mi amava, ma suo fratello era quello che con due colpi: phim! phim!...
– Ora puoi andare, Liberio... Non ti trattengo più... (E qui una strizzatina d'occhi piena di significato). Ora sono io che ti dico vattene. E chiaro?
– Chiarissimo.
Mi ficcò con le sue mani il cappello in testa, e, mettendomisi a braccetto, mi trasportò verso la porta.
Nennele, tutta rossa in viso corse ad aprire la porta, mentre Ferruccio, per affetto s'intende, con la sinistra mi stringeva fortemente al suo cuore, e con la destra mi lasciava andare tale una tempesta di sculaccioni che per un mese fui costretto a starmene sempre in piedi. Era una maniera come un'altra per esprimere il dolore del distacco.
M'ero quasi svincolato dalla sua stretta, quando – eravamo ora sul pianerottolo – Ferruccio, afferrandomi per il bavero, mi grida: Ferma.
Fu un attimo di terrore.
– Ferma! A te non si può mentire. Tu ora sei di casa. Sei mio fratello. Ho qui sul cuore una cosa che se non la metto fuori, soffoco... Ascolta. Nennele non è mia sorella; è qualche cosa di più: è tutto, capisci? E oggi (e nel dire «oggi» mi cadde nuovamente tra le braccia) mi ha dato una prova della sua passione, della sua fedeltà che io e tu non dobbiamo mai dimenticare.
– No, Ferruccio... non voglio che tu dica...
– Lascia fare, Nennele.
– Te ne scongiuro.
– No, Liberio deve saper tutto, voglio che sappia tutto. Egli è mio padre. Dunque, ascolta, e cadi anche tu ai piedi di questa povera santa.
Mi sentivo impazzire, e sudavo freddo.
– Nennele ha una specie di idiosì... come si dice? Idiocrasia...
– Idiosincrasia – balbettai io.
– Bravo!... per gli uomini grossi... L'anno scorso... al cinematografo un uomo come te venne a sedersi avanti a noi... Ti somigliava, sai, Liberio, ti somigliava: due gocce d'acqua... e Nennele solo a guardarlo svenne... Mi moriva tra le braccia, sai...
– Non dire... non dire...! – supplicava Nennele.
– La carnaccia umana le fa ribrezzo. Oggi è stata la giornata del suo martirio. Ed ella si è sottoposta a questo tormento per me... per me... Ha disprezzato i due angeli, per me... Ha accettata la tua merenda, per me... Ti ha fatto portare qui le valigie, per me... Ti ha invitato a casa mia, ti ha fatto sedere alla mia tavola, per me, per me. È l'ultimo collaudo di una fedeltà che mi dà gioia, e mi fa piangere.
E qui mise fuori dagli occhi di fuoco una mezza dozzina di lacrime di acciaio.
Voleva ancora darmi prove di gratitudine con la mano destra, ma io stavolta ero riuscito a svincolarmi, e facevo le scale a precipizio. Sentivo gli ultimi saluti che mi cadevano dall'alto, ma non avevo la forza di rispondere.
Ero fremente di collera e di rabbia, avevo la gola arsa, e nuotavo in un bagno di sudore.
Chiesi alla pallottola cisposa un bicchiere di acqua. Me lo porse con grazia, ma nello squadrarmi sorrise:
– Dio, tale e quale! Somigliate a mio zio Cirillo, il canonico di Frascati...
Non fui più buono a far nulla. La sera ripresi il treno per Napoli.