Antonio
Gramsci
Letteratura
e vita nazionale
IV. I nipotini di padre Bresciani
www.liberliber.it
Q 23 §9
I nipotini di padre Bresciani. Esame di una parte cospicua della
letteratura narrativa italiana, specialmente degli ultimi decenni. La
preistoria del brescianesimo moderno (del dopoguerra) può essere
identificata in una serie di scrittori come: Antonio Beltramelli, con
libri del tipo Gli Uomini Rossi, Il Cavalier Mostardo ecc.; Polifilo
(Luca Beltrami), con le diverse rappresentazioni dei «popolari di
Casate Olona»; ecc. La letteratura abbastanza folta e diffusa in certi
ambienti e che ha un carattere più tecnicamente «sagrestano»; essa è
poco conosciuta nell’ambiente laico di cultura e per niente studiata.
Il suo carattere tendenzioso e propagandistico è apertamente
confessato: si tratta della «buona stampa». Tra la letteratura di
sagrestia e il brescianesimo laico sta una corrente letteraria che
negli ultimi anni si è molto sviluppata (gruppo cattolico fiorentino
guidato da Giovanni Papini, ecc.): un esempio tipico di essa sono i
romanzi di Giuseppe Molteni. Uno di questi, L’Ateo, riflette il
mostruoso scandalo Don Riva ‑ suor Fumagalli in un modo ancor più
mostruosamente aberrante: il Molteni giunge ad affermare che appunto
per la sua qualità di prete obbligato al celibato e alla castità
bisogna compatire Don Riva (che violentò e contagiò una trentina di
fanciullette di pochi anni, offertegli dalla Fumagalli per tenerselo
«fedele») e crede che a tale massacro possa essere contrapposto, come
moralmente equivalente, il volgare adulterio di un avvocato ateo. Il
Molteni era molto noto nel mondo letterario cattolico: è stato critico
letterario e articolista di tutta una serie di quotidiani e periodici
clericali, fra i quali l’«Italia» e «Vita e Pensiero».
Il brescianesimo assume una certa importanza nel «laicato» letterario
del dopoguerra e va sempre più diventando la «scuola» narrativa
preminente e ufficiosa.
Ugo Ojetti e il romanzo Mio figlio ferroviere. Caratteristiche generali
della letteratura dell’Ojetti e diversi atteggiamenti «ideologici»
dell’uomo. Scritti sull’Ojetti di Giovanni Ansaldo che d’altronde
rassomiglia all’Ojetti molto più di quanto potesse parere una volta. La
manifestazione più caratteristica di Ugo Ojetti è la sua lettera aperta
al padre Enrico Rosa, pubblicata nel «Pègaso» e riprodotta nella
«Civiltà Cattolica» con commento del Rosa. L’Ojetti dopo l’annunzio
della avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa non solo era persuaso
che ormai tutte le manifestazioni intellettuali italiane sarebbero
state controllate secondo uno stretto conformismo cattolico e
clericale, ma si era già adattato a questa idea e si rivolse al padre
Rosa con uno stile untuosamente adulatorio delle benemerenze culturali
della Compagnia di Gesù per impetrare una «giusta» libertà artistica.
Non si può dire, alla luce degli avvenimenti posteriori (discorso alla
Camera del Capo del Governo) se sia stata più abbietta la prostrazione
dell’Ojetti o più comica la sicura baldanza del padre Rosa che, in ogni
caso, diede una lezione di carattere all’Ojetti, s’intende al modo dei
gesuiti. L’Ojetti è rappresentativo da più punti di vista: ma la
codardia intellettuale dell’uomo supera ogni misura normale.
Alfredo Panzini: già nella preistoria con qualche brano, per esempio,
della Lanterna di Diogene (l’episodio del «livido acciaro» vale un
poema di comicità), poi Il padrone sono me, Il mondo è rotondo e quasi
tutti i suoi libri dalla guerra in poi. Nella Vita di Cavour è
contenuto un accenno proprio al padre Bresciani, veramente strabiliante
se non fosse sintomatico. Tutta la letteratura pseudo‑storica del
Panzini è da riesaminare dal punto di vista del brescianesimo laico.
L’episodio Croce‑Panzini, riferito nella «Critica» è un caso
digesuitismo personale, oltre che letterario.
Di Salvatore Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del
Rapisardi: «Oremus sull’altare, e flatulenze in sacrestia»; tutta la
sua produzione letteraria è brescianesca.
Margherita Sarfatti e il suo romanzo Il Palazzone. Nella recensione di
Goffredo Bellonci pubblicata dall’«Italia Letteraria» del 23 giugno
1929, si legge: «verissima quella timidezza della vergine che si ferma
pudica innanzi al letto matrimoniale mentre pur sente che “esso è
benigno e accogliente per le future giostre”». Questa vergine pudica
che sente con le espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è
impagabile: la vergine Fiorella avrà presentito anche le future «molte
miglia» e il suo «pelliccione» ben scosso. Sul punto delle giostre ci
sarebbe da fare qualche amena divagazione: si potrebbe ricordare
l’episodio leggendario su Dante e la meretricula, riportato nella
raccolta Papini (Carabba) per dire che di «giostre» può parlar l’uomo,
non la donna; sarebbe anche da ricordare l’espressione del cattolico
Chesterton nella Nuova Gerusalemme sulla chiave e la serratura a
proposito della lotta dei sessi, per dire che il punto di vista della
chiave non può essere quello della serratura. (È da rilevare come
Goffredo Bellonci, che civetta volentieri con l’erudizione «preziosa» –
a buon mercato – per fare spicco nel giornalistume romano, trovi «vero»
che una vergine pensi alle giostre).
Mario Sobrero e il romanzo Pietro e Paolo può rientrare nel quadro
generale del brescianesimo per il chiaroscuro.
Francesco Perri e il romanzo Gli emigranti. Questo Perri non è poi
Paolo Albatrelli dei Conquistatori? In ogni modo è da tener conto anche
dei Conquistatori. Negli Emigranti il tratto più caratteristico è la
rozzezza, ma non la rozzezza del principiante ingenuo che in tal caso
potrebbe essere il grezzo non elaborato ma che lo può diventare: una
rozzezza opaca, materiale, non da primitivo ma da rimbambito
pretenzioso. Secondo il Perri il suo romanzo sarebbe «verista» ed egli
sarebbe l’iniziatore di una specie di neorealismo; ma può oggi esistere
un verismo non storicistico? Il verismo stesso del secolo XIX è stato
in fondo una continuazione del vecchio romanzo storico nell’ambiente
dello storicismo moderno. Negli Emigranti manca ogni accenno
cronologico e si capisce. Vi sono due riferimenti generici: uno al
fenomeno dell’emigrazione meridionale, che ha avuto un certo decorso
storico e uno ai tentativi di invasione delle terre signorili
«usurpate» al popolo che anche essi possono essere ricondotti a epoche
ben determinate. Il fenomeno migratorio ha creato una ideologia (il
mito dell’America) che ha contrastato la vecchia ideologia alla quale
erano legati i tentativi sporadici ma endemici di invasione delle
terre, prima della guerra. Tutt’altro è il movimento del 19‑20 che è
simultaneo e generalizzato ed ha una organizzazione implicita nel
combattentismo meridionale. Negli Emigranti tutte queste distinzioni
storiche, che sono essenziali per comprendere e rappresentare la vita
del contadino, sono annullate e l’insieme confuso si riflette in modo
rozzo, brutale, senza elaborazione artistica. È evidente che il Perri
conosce l’ambiente popolare calabrese non immediatamente, per
esperienza propria sentimentale e psicologica, ma per il tramite di
vecchi schemi regionalistici (se egli è l’Albatrelli occorre tener
conto delle sue origini politiche, mascherate da pseudonimi per non
perdere, nel 1924, l’impiego al Comune o alla Provincia di Milano).
L’occupazione (il tentativo di) a Pandure nasce da «intellettuali», su
una base giuridica (nientemeno che le leggi eversive di G. Murat) e
termina nel nulla, come se il fatto (che pure è verbalmente presentato
come un’emigrazione di popolo in massa) non avesse sfiorato neppure le
abitudini di un villaggio patriarcale. Puro meccanismo di frasi. Così
l’emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco
Blèfari, è (per dirla con la parola di un altro calabrese dal carattere
temprato come l’acciaio, Leonida Répaci) un parafulmine di tutti i
guai. Insistenza sugli errori di parola dei contadini, che è tipica del
brescianesimo, se non dell’imbecillità letteraria in generale. Le
«macchiette» (Il Galeoto ecc.), compassionevoli, senza arguzia e
umorismo. L’assenza di storicità è «voluta» per poter mettere in un
sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in realtà
sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio.
Leonida Répaci: nell’Ultimo Cireneo è da smontare il congegno combinato
in modo rivoltante; da vedere I fratelli Rupe che sarebbero i fratelli
Répaci che pare siano stati da qualcuno paragonati ai Cairoli.
Umberto Fracchia: da vedere specialmente: Angela Maria. (Nel quadro
generale occupano il primo posto Ojetti-Beltramelli‑Panzini; in essi il
carattere gesuitesco‑retorico è più appariscente, e più importante è il
posto loro assegnato nelle valutazioni letterarie più correnti).
Q 23 §25
Letteratura di guerra. Quali riflessi ha avuto la tendenza
«brescianistica» nella letteratura di guerra? La guerra ha costretto i
diversi strati sociali ad avvicinarsi, a conoscersi, ad apprezzarsi
reciprocamente nella comune sofferenza e nella comune resistenza in
forme di vita eccezionali che determinavano una maggiore sincerità e un
piú approssimato avvicinarsi all'umanità «biologicamente» intesa. Cosa
hanno imparato dalla guerra i letterati? E in generale cosa hanno
imparato dalla guerra quei ceti da cui normalmente sorgono in maggior
numero gli scrittori e gli intellettuali? Sono da seguire due linee di
ricerca: 1) Quella riguardante lo strato sociale, ed essa è già stata
esplorata per molti aspetti dal prof. Adolfo Omodeo nella serie di
capitoli Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei
caduti, usciti nella «Critica» e poi raccolti in volume. La raccolta
dell'Omodeo presenta un materiale già selezionato, secondo una tendenza
che si può anche chiamare nazionale-popolare, perché l'Omodeo
implicitamente si propone di dimostrare come già nel 1915 esistesse
robusta una coscienza nazionale-popolare, che ebbe modo di manifestarsi
nel tormento della guerra, coscienza formata dalla tradizione liberale
democratica; e quindi mostrare assurda ogni pretesa di palingenesi in
questo senso nel dopo guerra. Che l'Omodeo riesca ad assolvere il suo
compito di critico è altra quistione; intanto l'Omodeo ha una
concezione di ciò che è nazionale-popolare troppo angusta e meschina,
le cui origini culturali sono facili da rintracciare; egli è un epigono
della tradizione moderata, con in piú un certo tono democratico o
meglio popolaresco che non sa liberarsi da forti striature
«borbonizzanti». In realtà la quistione di una coscienza
nazionale-popolare non si pone per l'Omodeo come quistione di un intimo
legame di solidarietà democratica tra intellettuali-dirigenti e masse
popolari, ma come quistione di intimità delle singole coscienze
individuali che hanno raggiunto un certo livello di nobile disinteresse
nazionale e di spirito di sacrifizio. Siamo cosí ancora al punto
dell'esaltazione del «volontarismo» morale, e della concezione di
élites che si esauriscono in se stesse e non si pongono il problema di
essere organicamente legate alle grandi masse nazionali.
2) La letteratura di guerra propriamente detta, cioè dovuta a scrittori
«professionali» che scrivevano per essere pubblicati, ha avuto in
Italia varia fortuna. Subito dopo l'armistizio è stata molto scarsa e
di poco valore: ha cercato la sua fonte d'ispirazione nel Feu di
Barbusse. È molto interessante da studiare Il diario di guerra di B.
Mussolini per trovarvi le tracce dell'ordine di pensieri politici,
veramente nazionali-popolari, che avevano formato, anni prima, la
sostanza ideale del movimento che ebbe come manifestazioni culminanti
il processo per l'eccidio di Roccagorga e gli avvenimenti del giugno
1914. Si è poi avuta una seconda ondata di letteratura di guerra, che
ha coinciso con un movimento europeo in questo senso, prodottosi dopo
il successo internazionale del libro del Remarque e col proposito
prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque. Questa
letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello
culturale, cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti e di
emozioni» da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra
perfettamente nel tipo «brescianesco». Esempio caratteristico il libro
di C. Malaparte La rivolta dei santi maledetti a cui si è già
accennato. È da vedere l'apporto a questa letteratura del gruppo di
scrittori che sogliono essere chiamati «vociani» e che già prima del
1914 lavoravano con concordia discorde per elaborare una coscienza
nazionale-popolare moderna. Dai «minori» di questo gruppo sono stati
scritti i libri migliori, per esempio quelli di Giani Stuparich. I
libri di Ardengo Soffici sono intimamente repugnanti, per una nuova
forma di rettoricume peggiore di quella tradizionale. Una rassegna
della letteratura di guerra sotto la rubrica del brescianesimo è
necessaria.
Q 23 §10
Due generazioni. La vecchia generazione degli intellettuali è fallita,
ma ha avuto una giovinezza (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.). La
generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse
(Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.). Asini brutti anche da
piccoletti.
Q 14 §31
A molti poetuzzi odierni si potrebbe applicare il verso del Lasca
contro il Ruscelli: «delle Muse e di Febo mariuolo». E piú che di
poesia si deve infatti parlare di mariuoleria per ottenere premi
letterari e sovvenzioni d'Accademia.
Q 5 §66
Ugo Ojetti e i gesuiti. La Lettera al Rev. Padre Enrico Rosa di U.
Ojetti è stata pubblicata nel Pègaso del marzo 1929 e riportata nella
«Civiltà Cattolica» del 6 aprile successivo con la lunga postilla del
p. Rosa stesso. La lettera dell'Ojetti è raffinatamente gesuitica.
Comincia così: «Rev.do Padre, tanta è dall'11 febbraio la calca dei
convertiti a un cattolicesimo di convenienza e di moda che Ella
permetterà ad un romano, di famiglia, come si diceva una volta,
papalina, battezzato in S. Maria in Via ed educato alla religione
proprio in S. Ignazio di Roma e da loro Gesuiti, d'intrattenersi
mezz'ora con Lei, di riposarsi cioè dal gran bailamme considerando un
uomo come lei, integro e giudizioso, che era ieri quel ch'è oggi e
quello che sarà domani». Più oltre, ricordando i suoi primi maestri
gesuiti: «Ed eran tempi difficili, ché fuori a dir Gesuita era come
dire subdola potenza o fosca nequizia, mentre là dentro, all'ultimo
piano del Collegio Romano sotto i tetti (– dove era posta la scuola –
di religione – gesuita dove l'Ojetti fu educato –), tutto era ordine,
fiducia, ilare benevolenza e, anche in politica, tolleranza e mai una
parola contro l'Italia, e mai, come purtroppo accadeva nelle scuole di
Stato, il basso ossequio alla supremazia vera o immaginaria di questa o
di quella cultura straniera sulla nostra cultura». Ancora: ricorda di
essere «vecchio abbonato della "Civiltà Cattolica"» e «fedele lettore
degli articoli ch'Ella vi pubblica» e perciò «io scrittore mi dirigo a
lei scrittore, e le dichiaro il mio caso di coscienza».
C'è tutto: la famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica,
l'educazione gesuitica, l'idillio culturale di queste scuole, i gesuiti
soli o quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura
della «Civiltà Cattolica», il padre Rosa come vecchia guida spirituale
dell'Ojetti, il ricorso dell'Ojetti oggi alla sua guida per un caso di
coscienza. L'Ojetti dunque non è un cattolico di oggi, un cattolico
dell'11 febbraio, per convenienza o per moda; egli è un gesuita
tradizionale, la sua vita è un «esempio» da portare nelle prediche ecc.
L'Ojetti non è mai stato «made in Paris», non è mai stato un dilettante
dello scetticismo e dell'agnosticismo, non è mai stato voltairriano,
non ha mai considerato il cattolicesimo tutto al piú come un puro
contenuto sentimentale delle arti figurative. Perciò l'11 febbraio l'ha
trovato preparato ad accogliere la Conciliazione con «ilare
benevolenza»; egli non pensa neppure (dio liberi) che si possa trattare
di un instrumentum regni perché egli stesso ha sentito «che forza sia
nell'animo degli adolescenti il fervore religioso, e come, una volta
acceso, esso porti il suo calore in tutti gli altri sentimenti,
dall'amore per la patria e per la famiglia fino alla dedizione verso i
capi, dando alla formazione morale del carattere addirittura un premio
e una sanzione divina». Non è questa, in compendio, la biografia, anzi
l'autobiografia dell'Ojetti? Però, però: «E la poesia? E l'arte? E il
giudizio critico? E il giudizio morale? Tornerete tutti a obbedire ai
Gesuiti?» domanda uno spiritello all'Ojetti, nella persona di «un poeta
francese, che è davvero un poeta».
L'Ojetti non per nulla è stato alla scuola dei gesuiti: a queste
domande ha trovato una soluzione squisitamente gesuitica, salvo che in
un aspetto: nell'averla divulgata e resa aperta. L'Ojetti dovrebbe
ancora migliorare la sua «formazione morale del carattere» con sanzione
e premio divino: queste sono cose che si fanno e non si dicono. Ecco
infatti la soluzione dell'Ojetti: «... la Chiesa, fermi i suoi dogmi,
sa indulgere ai tempi e ben l'ha dimostrato nel Rinascimento (ma dopo
il Rinascimento c'è stata la Controriforma, di cui i gesuiti sono
appunto campioni e rappresentanti) e Pio undecimo, umanista, sa di
quant'aria abbisogni la poesia per respirare; e che ormai da molti
anni, senza aspettare la Conciliazione, anche in Italia la cultura
laica e quella religiosa collaborano cordialmente nella scienza e nella
storia». «Conciliazione non è confusione. Il Papato condannerà com'è
suo diritto; il Governo d'Italia permetterà com'è suo dovere. E Lei, se
lo crederà opportuno, spiegherà sulla "Civiltà Cattolica" i motivi
della condanna e difenderà le ragioni della fede; e noi qui, senza ira,
difenderemo le ragioni dell'arte, se proprio ne saremo convinti, perché
potrà darsi, come spesso è avvenuto da Dante al Manzoni, da Raffaello
al Canova, che anche a noi fede e bellezza sembrino due lati dello
stesso volto, due raggi della stessa luce. E talvolta ci sarà caro
educatamente discutere. Baudelaire, ad esempio, è o non è un poeta
cattolico?» «Il fatto è che oggi il conflitto pratico e storico è
risolto. Ma quell'altro – tra assoluto e relativo, tra spirito e corpo,
eterno contrasto che è nella coscienza di ciascuno di noi, dice Ojetti,
cosa per cui B. Croce e G. Gentile, non cattolici, furono contro il
Modernismo (?), soddisfatti (?) di vederlo sconfitto perché (?) sarebbe
stato la cattiva (?) Conciliazione, il subdolo equivoco fatto sacra
dottrina – che è intimo ed eterno (e se è eterno come può essere
conciliato?) non lo è, non può esserlo; e l'aiuto che a ciascuno può
dare e dà quotidianamente la religione per risolverlo, a noi cattolici
(come si può essere cattolici col "contrasto eterno"? si può essere
tutt'al piú gesuiti!) la religione lo dava anche prima. Pochezza nostra
se non siamo riusciti ancora con quell'aiuto a risolverlo una volta per
sempre (!?); ma Ella sa che proprio dal continuo risorgere, rinnovarsi
e rinfocarsi di quell'eterno conflitto sprizzano e sfavillano poesia ed
arte».
Documento stupefacente davvero di gesuitismo e di bassezza morale.
L'Ojetti può creare una nuova setta supergesuitica: un modernismo
estetizzante gesuitico!
La risposta del p. Rosa è meno interessante perché gesuiticamente più
anodina: il Rosa si guarda bene dal guardare per il sottile nel
cattolicismo di Ojetti e in quello dei neo convertiti. Troppo presto: è
bene che Ojetti e C. si dicano cattolici e si strofinino ai gesuiti,
forse anzi da loro non si domanderà di più. Dice bene il Rosa:
«convenienza o moda tuttavia – diciamolo tra noi in confidenza e di
passaggio – che è forse un minor male e quindi un certo bene, rispetto
a quella convenienza o moda antecedente, di futile anticlericalismo e
di gretto materialismo, per cui molti [...] si tenevano lontani dalla
professione della fede che pure serbavano ancora in fondo all'anima
"naturalmente cristiana"».
Q 23 §50
Alfredo Panzini. In altra nota è stato già rilevato come F. Palazzi,
nella sua recensione del libro di Panzini I giorni del sole e del grano
osservi come l'atteggiamento del Panzini verso il contadino sia
piuttosto quello del negriero che non quello di un disinteressato e
candido georgico; ma questa osservazione si può estendere ad altri,
oltre che al Panzini, che è solo il tipo o la maschera di un'epoca. Ma
altre osservazioni fa il Palazzi che sono strettamente legate al
Panzini (e collegate a certe ossessioni del Panzini, come quella, per
esempio della «livida lama»). Scrive il Palazzi (ICS del giugno 1929):
«Quando (il Panzini) vi fa l'elogio, a mezza bocca, del frugale pasto
consumato sulle zolle, a guardarlo bene vi accorgerete che la sua bocca
fa le smorfie di disgusto e nell'intimo pensa come mai si possa vivere
di cipolle e di brodo nero spartano, quando Dio ha messo sotto la terra
il tartufo e in fondo al mare le ostriche. [...]. "Una volta – egli
confesserà – mi è venuto anche da piangere". Ma quel pianto non sgorga
dai suoi occhi, come da quelli di Leone Tolstoi, per le miserie che
sono sotto i suoi occhi, per la bellezza intravista di certi umili
atteggiamenti, per la simpatia viva verso gli umili e gli afflitti che
pur non mancano tra i coltivatori rudi dei campi? Oh, no! egli piange
perché a sentir ricordati certi dimenticati nomi di masserizie, si
ricorda di quando sua madre li chiamava pure così, e si rivede bambino
e ripensa alla brevità ineluttabile della vita, alla rapidità della
morte che ci è sopra. "Signor arciprete, mi raccomando: poca terra
sopra la bara". Il Panzini insomma piange perché si fa pena. Piange di
sé e della morte e non per gli altri. Egli passa accanto all'anima del
contadino senza vederla. Vede le apparenze esteriori, ode quel che esce
appena dalla sua bocca e si domanda se pel contadino la proprietà non
sia per caso sinonimo di "rubare"».
Q 23 §12
Nell'«Italia che scrive» del giugno 1929, Fernando Palazzi, recensendo
I giorni del sole e del grano del Panzini, nota: «... soprattutto si
occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un
padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie
da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi
e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà
quale spera». Panzini negriero, in una parola.
Q 5 §26
La traduzione delle Opere e i Giorni di Esiodo, stampata dal Panzini
nel 1928 (prima nella «Nuova Antologia» poi in volumetto Treves), è
esaminata nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 da Angiolo Orvieto (Da
Esiodo al Panzini). La traduzione tecnicamente è molto imperfetta. Per
ogni parola del testo il Panzini ne adopera due o tre delle sue; si
tratta piú di una traduzione commento che di una traduzione, alla quale
manca «il colorito particolarissimo dell'originale, salvo quella certa
solennità maestosa ch'egli in piú luoghi è riuscito a conservare».
L'Orvieto cita alcuni gravi spropositi del Panzini: invece d'«infermità
che portano la vecchiezza all'uomo» il Panzini traduce «infermità che
la vecchiezza porta agli uomini». Esiodo parla della «quercia che porta
in vetta le ghiande e in mezzo (nel tronco) le api» e il Panzini
traduce comicamente «le querce montane (!) maturano le ghiande, e
quelle delle convalli (!) accolgono le api nel loro tronco»,
distinguendo due famiglie di querce ecc. (un alunno di liceo sarebbe
stato bocciato per un tale sproposito). Per Esiodo le Muse sono
«donatrici di gloria coi carmi», per Panzini «gloriose nell'arte del
canto». Altri esempi porta l'Orvieto in cui appare che oltre alla
conoscenza superficiale del greco, gli spropositi del Panzini siano
anche dovuti al pregiudizio politico (caso tipico di brescianesimo)
come là dove muta il testo per far partecipare Esiodo alla campagna
demografica.
Sarà da vedere se le riviste di filologia classica si sono occupate
della traduzione del Panzini: in ogni modo l'articolo dell'Orvieto mi
pare sufficiente per il mio scopo (bisogna rivederlo perché in questo
momento me ne manca una parte).
Q 23 §32
La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata a puntate nell'«Italia
Letteraria» nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929 ed è stata
ristampata (riveduta e corretta? sarebbe interessante un esame
minuzioso, se ne valesse la pena) dall'editore Mondadori, in un volume
delle «Scie» con notevole ritardo. Nell'«Italia Letteraria» del 30
giugno, col titolo Chiarimento è pubblicata una lettera inviata dal
Panzini, con la data del 27 giugno 1929, al direttore del «Resto del
Carlino»: il Panzini, con stile seccato e intimamente allarmato, si
lamenta per un piccante commento, pubblicato dal giornale bolognese
alle due prime puntate del suo scritto che era giudicato «piacevole
giocherello» e «cosa leggera». Il Panzini risponde in stile da
telegramma: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera
romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e
drammatico, tutto però documentato (Carteggio Nigra-Cavour)». (Come se
la sola documentazione per la vita del Cavour fosse questo Carteggio!)
Il Panzini cerca poi di difendersi, assai male, dall'aver accennato a
una forma di dittatura propria del Cavour, «umana», che ellitticamente
poteva sembrare un giudizio critico su altre forme di dittatura:
figurarsi la tremarella del Panzini nel procedere per questi «ignes».
L'episodio ha un certo significato, perché mostra come molti si siano
cominciati ad accorgere che queste scritture pseudo-nazionali e
patriottiche del Panzini sono stucchevoli, insincere e mostrano la
trama. L'imbecillità e l'inettitudine del Panzini di fronte alla storia
sono incommensurabili: il suo scrivere è un puro e infantile gioco di
parole, ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe far
credere all'esistenza di chissà mai quali profondità, come quelle che
certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di parlare. Bertoldo
storico! In realtà è una forma di stenterellismo che si dà l'aria del
Machiavelli in maniche di camicia e non in abito curiale. Un'altra
puntata contro il Panzini si può leggere nella «Nuova Italia» di quel
torno di tempo: si dice che la Vita di Cavour è scritta come se il
Cavour fosse Pinocchio!
Né si può dire che lo stile del Panzini, nelle sue scritture di storia,
sia «piacevole e drammatico»: egli è piuttosto farsesco e la storia è
rappresentata come una «piacevolezza» da commesso viaggiatore o da
farmacista di provincia: il farmacista è Panzini e i clienti sono
altrettanti Panzini che si beano della propria fatua stupidaggine.
Tuttavia la Vita di Cavour ha una sua utilità: è una raccolta
stupefacente di luoghi comuni sul Risorgimento e un documento di primo
ordine del gesuitismo letterario del Panzini. Esemplificazione: «Uno
scrittore inglese ha chiamato la storia dell'unità d'Italia la più
romanzesca storia dei tempi moderni». (Il Panzini, oltre a creare
luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per
raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati
messi in circolazione da altri scrittori, specialmente stranieri, senza
accorgersi che in molti casi, come in questo, è implicito un giudizio
«diffamatorio» del popolo italiano: il Panzini deve essersi fatto uno
schedario speciale di luoghi comuni, per condire opportunamente i
propri scritti). «Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due
terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la
musica del cannone. Un gran Re».
Questo luogo comune, questa oleografia da bettola di Vittorio Emanuele
è da unire all'altro sulla «tradizione» militare del Piemonte e della
sua aristocrazia. In realtà in Piemonte è proprio mancata una
«tradizione» militare nel senso non burocratico della parola, cioè è
mancata una «continuità» di personale militare di prim'ordine, e ciò è
proprio apparso nelle guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata
nessuna personalità (eccetto che nel campo garibaldino), ma invece sono
affiorate molte deficienze interne gravissime. In Piemonte esisteva una
tradizione militare «popolare»; dalla sua popolazione era sempre
possibile trarre un buon esercito; apparvero di tanto in tanto capacità
militari di primo ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc.,
ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell'aristocrazia,
nell'ufficialità superiore. La situazione fu aggravata dalla
restaurazione e la prova se ne ebbe nel '48 quando non si sapeva dove
metter le mani per dare un capo all'esercito e dopo aver domandato
invano un generale alla Francia, si finí con l'assumere un minchione
qualsiasi di polacco. Le qualità guerriere di Vittorio Emanuele II
consistevano solo in un certo coraggio personale, che si dovrebbe
pensare essere stato molto raro in Italia se tanto si insiste per farlo
rimarcare: lo stesso si dica per il «galantomismo»; si dovrebbe pensare
che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l'essere
galantuomini viene elevato a titolo di distinzione. A proposito di
Vittorio Emanuele II è da ricordare l'aneddoto riferito da F. Martini
nel suo libro postumo di memorie (ed. Treves); racconta il Martini che
dopo la presa di Roma Vittorio Emanuele abbia detto che gli dispiaceva
non ci fosse più nulla da «piè» (pigliare) e ciò a chi raccontava
l'aneddoto (credo Q. Sella) pareva dimostrare che non ci fosse stato
nella storia un re più conquistatore di Vittorio Emanuele.
Dell'aneddoto si potrebbe dare forse altra spiegazione più terra terra,
legata alla concezione dello stato patrimoniale e alla varia misura
della lista civile. È da ricordare poi l'epistolario di Massimo
D'Azeglio pubblicato dal Bollea nel «Bollettino Storico Subalpino» e il
conflitto tra Vittorio Emanuele e Quintino Sella su quistioni
economiche.
Ciò che poi stupisce molto è che si insista tanto sugli episodi
«galanti» della vita di Vittorio Emanuele come se essi fossero tali da
rendere più popolare la figura del re: si narra di alti funzionari e di
ufficiali che andavano nelle famiglie di contadini per convincerle a
mandare delle ragazze a letto col re per quattrini. A pensarci bene è
stupefacente che tali cose siano raccontate credendo di rafforzare
l'ammirazione popolare.
«... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una nobiltà
guerriera». Si potrebbe osservare che Napoleone III, data la
«tradizione» guerriera della sua famiglia, si occupò di scienza
militare e scrisse libri che pare non fossero troppo malvagi per i suoi
tempi.
«Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli (Cavour) andava molto
d'accordo col suo re, benché anche in questo ci fosse qualche
differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbe potuto
attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori», e via di
questo tono fino a ricordare che i propositi galanti (!) del re alla
corte delle Tuglierí (sic) furono cosí audaci «che tutte le dame ne
rimasero amabilmente (!) atterrite. Quel forte, magnifico Re
montanaro!» (Il Panzini si riferisce agli aneddoti raccontati dal
Paleologue, ma che differenza di tòcco. Il Paleologue, pur data la
materia scabrosa, mantiene il tono del gentiluomo cortigiano: il
Panzini non sa evitare il linguaggio del lenone da trivio, del
commerciante in tratta delle bianche). «Cavour era assai più raffinato.
Cavallereschi però tutti e due, e oserei (!) dire, romantici (!)».
«Massimo D'Azeglio... da quel gentiluomo delicato che era...».
L'accenno del Panzini, di cui si parla a p. 37 e che gli attirò i
fulmini... confinari del «Resto del Carlino» è contenuto nella seconda
puntata della Vita di Cavour edizione «Italia Letteraria» (numero del
16 giugno) ed è bene riportarlo perché sarà stato cassato o modificato
nell'ed. Mondadori: «Non ha bisogno di assumere atteggiamenti
specifici. Ma in certi momenti doveva apparire meraviglioso e
terribile. L'aspetto della grandezza umana è tale da indurre negli
altri ubbidienza e terrore, e questa è dittatura piú forte che non
quella di assumere molti portafogli nei ministeri».
Pare incredibile che una tale frase sia potuta sfuggire al pavido
Panzini ed è naturale che il «Resto del Carlino» l'abbia beccato. Dalla
risposta del Panzini si può spiegare l'infortunio: «Quanto a certe
puntate contro la dittatura, forse fu errore fidarmi nella conoscenza
storica del lettore. Cavour, nel 1859, domandò (?!) i poteri dittatori
assumendo diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con
molto (!?) scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non
questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la
dittatura dell'umana grandezza di Cavour». Pare evidente che l'intento
del Panzini fosse adulatorio, ma la sua innocenza politica e quindi
storica gli diede lo sgambetto e trasformò l'adulazione servile in una
smorfia equivoca. Non si può parlare di dittatura per il Cavour, tanto
meno nel 1859 e anzi questa fu una debolezza nello svolgimento della
guerra e nella posizione dei piemontesi in seno all'alleanza con
Napoleone. Sono note le opinioni del Cavour sulla dittatura e sulla
funzione del Parlamento, opinioni di cui il Panzini pavidamente tace,
sebbene il parlarne non sarebbe stato certo pericoloso. Ciò che è
curioso è che più oltre il Panzini stesso mostra come il Cavour fosse
stato tagliato fuori dallo svolgimento della guerra e sebbene ministro
della guerra, non ricevesse neppure i bollettini dell'esercito. Per un
dittatore non c'è male. Il Cavour non riuscì neppure a far valere le
sue prerogative costituzionali di capo del Governo, che del resto non
erano contemplate nello Statuto, e quindi il suo conflitto col re dopo
l'armistizio di Villafranca. In realtà non la politica di Cavour fu
continuata dalla guerra del '59, ma un miscuglio delle velleità
politiche di Napoleone e delle tendenze assolutiste piemontesi
impersonate dal re e da un gruppo di generali. Si ripeté la situazione
del 1848-49, e se non ci fu disastro militare, ciò fu dovuto alla
presenza dell'esercito francese: ma il risultato della situazione
politica anormale fu grave lo stesso, perché nell'alleanza Napoleone
ebbe l'egemonia illimitata, e il Piemonte un posto troppo subordinato.
«... la guerra d'Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per
chiarezza di discorso si omette». (Affermazione impagabile per uno
storico: si afferma che Cavour è stato un genio politico ecc., ma
l'affermazione non diventa mai dimostrazione e rappresentazione
concreta. Il significato della partecipazione piemontese alla guerra di
Crimea e della capacità politica di Cavour nell'averla voluta, è
«omesso» per «chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è sguaiatamente
triviale: non si cerca di spiegare perché Napoleone abbia collaborato
con Cavour (le citazioni d'appoggio dovrebbero essere troppe: occorrerà
rivedere il libro o l'annata dell'«Italia Letteraria»).
«Al Museo napoleonico in Roma c'è un prezioso pugnale con una lama che
può passare il cuore (non è un pugnale dei soliti, a quanto pare!)».
«Può questo pugnale servire di documento? Di pugnali io non ho
esperienza (!), ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che
si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.». (Il Panzini deve
sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la «livida
lama» della Lanterna di Diogene. Forse si è trovato per caso presente a
qualche torbido in Romagna e [deve] aver visto qualche paio d'occhi
guatarlo biecamente: onde le «livide lame» che passano il cuore ecc.).
«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l'aspetto di
Belzebù, legga il romanzo L'Ebreo di Verona di Antonio Bresciani e si
divertirà (sic) un mondo, anche perché, a dispetto di quel che ne
dicono i moderni (ma il De Sanctis era contemporaneo del Bresciani),
quel padre gesuita fu un potente narratore». (Questo brano si potrebbe
porre come epigrafe al saggio sui «Nipotini del padre Bresciani»: esso
si trova nella puntata terza della Vita di Cavour edizione dell'«Italia
Letteraria», n. del 23 giugno 1929).
Tutta questa Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite
romanzate sono la forma attuale della letteratura storica amena tipo
Alessandro Dumas, A. Panzini è il Ponson du Terrail del quadro. Il
Panzini vuole così ostentatamente mostrare di «saperla lunga»
sull'animo e sulla natura degli uomini, di essere un così furbissimo
furbo, un realista così disincantato dalla tenebrosa nequizia dell'uman
genere e specialmente dei politici, che, dopo averlo letto, viene
voglia di rifugiarsi in Condorcet e in Bernardin de Saint-Pierre, che
almeno non furono così trivialmente filistei. Nessun nesso storico è
ricostruito nel fuoco di una personalità: la storia ti diventa una
sequela di storielle poco divertenti perché insalivate dal Panzini,
senza nesso né di individualità eroiche, né di altre forze sociali;
quella del Panzini è veramente una nuova forma di gesuitismo, molto piú
accentuata di quanto si pensava leggendo la Vita a puntate. Al luogo
comune della «nobiltà guerriera e non da anticamera» si possono
contrapporre i giudizi che il Panzini volta per volta dà dei singoli
generali come il La Marmora e il Della Rocca, spesso con espressioni di
scherno trivialmente spiritoso: «Della Rocca è un guerriero. A Custoza,
1866, non brillerà per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e
perciò tien duro coi bollettini». (È proprio una frase da «demagogo».
Il Della Rocca non voleva piú mandare i bollettini dello Stato Maggiore
a Cavour, che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla
quale collaborava il re). Altre allusioni del genere per il La Marmora
e per il Cialdini (anche se Cialdini non fu piemontese) e mai è
riferito il nome di un generale piemontese che abbia in qualche modo
brillato: altro accenno al Persano.
Non si comprende proprio cosa il Panzini abbia voluto scrivere con
questa Vita di Cavour, perché non si tratta certo di una vita di Cavour
né di una biografia dell'uomo Cavour, né di un profilo del politico
Cavour. In verità, dal libro del Panzini, il Cavour, uomo e politico,
esce piuttosto malconcio e ridotto a proporzioni da Gianduia: la sua
figura non ha nessun rilievo concreto, perché a dare un rilievo non
bastano certo le giaculatorie che il Panzini continuamente ripete:
eroe, superbo, genio ecc. Questi giudizi, non essendo giustificati
(perciò si tratta di giaculatorie), potrebbero addirittura parere
canzonature, se non si comprendesse che la misura che il Panzini
adopera per giudicare l'eroismo, la grandezza, il genio ecc. non è
altro che la sua personale misura, la genialità, la grandezza,
l'eroismo del sig. Panzini Alfredo. Allo stesso modo e per la stessa
ragione, il Panzini abbonda nel trovar attivi il dito di dio, il fato,
la provvidenza negli avvenimenti del Risorgimento; si tratta della
concezione volgare dello «stellone» condita con parole da tragedia
greca e da padre gesuita, ma non perciò meno triviale. In realtà
l'insistenza balorda sull'«elemento extra umano» oltre che imbecillità
storica, significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che
pure ebbe non piccola parte negli avvenimenti. Cosa potrebbe
significare che la rivoluzione italiana è stata un evento miracoloso?
Che tra il fattore nazionale e quello internazionale dell'evento, è
l'internazionale che aveva il peso maggiore e creava difficoltà che
parevano insormontabili. È questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse
la grandezza di Cavour sarebbe messa ben più in rilievo e la sua
funzione personale, il suo «eroismo» apparirebbe ben più da esaltare (a
parte ogni altra considerazione). Ma il Panzini vuol dare colpi a molte
botti con molti cerchi e non riesce a raccapezzare niente di sensato:
né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i rivoluzionari:
tutti furono grandi, rivoluzionari ecc. come al buio tutti i gatti sono
bigi.
Nell'«Italia Letteraria» del 2 giugno 1929 è pubblicata un'intervista
di Antonio Bruers col Panzini: Come e perché Alfredo Panzini ha scritto
una «Vita di Cavour». Vi si dice che lo stesso Bruers ha indotto il
Panzini a scrivere il libro «in modo che il pubblico potesse avere
finalmente un "Cavour" italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno
inglese, e uno francese». Nell'intervista il Panzini dice che la sua
Vita «non è una monografia nel senso storico-scientifico della parola;
è un profilo destinato non ai dotti, agli "specialisti" ma al vasto
pubblico» (cioè chincaglieria per negri). Il Panzini è persuaso che nel
suo libro ci siano delle parti originali e precisamente il fatto di
aver dato importanza all'attentato di Orsini per spiegare
l'atteggiamento di Napoleone III; secondo il Panzini Napoleone III
sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale vincolò
con impegno d'onore (!) il futuro sovrano della Francia»; Orsini,
mandatario della Carboneria (che non esisteva piú da un bel pezzo)
avrebbe ricordato a Napoleone il suo impegno e quindi ecc. (proprio un
romanzo alla Ponson du Terrail; Orsini, se mai vi appartenne, doveva
aver dimenticato, al tempo dell'attentato, da un bel pezzo, la
Carboneria; le sue repressioni del '48 nelle Marche furono proprio
dirette contro i vecchi carbonari, e ancora, l'Orsini, dopo aver
superato, come gli altri rivoluzionari, la Carboneria nella «Giovane
Italia» e nel mazzinianismo, era stato già in rotta con Mazzini). Le
ragioni dell'atteggiamento personale di Napoleone verso Orsini (che in
ogni modo fu ghigliottinato) si spiegano forse banalmente con la paura
del complice sfuggito e che poteva ritentare la prova; anche la grande
serietà dell'Orsini che non era un qualunque scalmanato, dovette
imporsi e dimostrare che l'odio dei rivoluzionari italiani per
Napoleone non era una bazzecola: occorreva far dimenticare la caduta
della Repubblica Romana e cercare di distruggere l'opinione diffusa che
Napoleone fosse il maggior nemico dell'unità d'Italia. Il Panzini poi
dimentica (per «chiarezza») che c'era stata la guerra di Crimea e
l'orientamento generale di Napoleone pro-italiano (che però, essendo
conservatore, non doveva essere gradito ai rivoluzionari); tanto che
l'attentato sembrò spezzare la trama già ordita. Tutta l'ipotesi del
Panzini si basa sull'aver visto il famoso pugnale che passava il cuore
e sull'ipotesi che fosse un oggetto carbonaro: un romanzo alla Ponson e
niente altro.
Q 17 §24
G. Papini. In Papini manca la rettitudine: dilettantismo morale. Nel
primo periodo della sua carriera letteraria questa deficienza non
impressionava, perché Papini basava la sua autorità su se stesso, era
il «partito di se stesso». Divertiva, non poteva essere preso sul
serio, altro che da pochi filistei (ricordare la discussione con
Annibale Pastore). Oggi Papini si è innestato in un vasto movimento da
cui trae autorità: la sua attività è divenuta perciò canagliesca nel
senso più spregevole, dello sparafucile, del sicario mercenario. Se un
bambino rompe i vetri per divertirsi e per monelleria, sia pure
artificiosa, è una cosa: ma se rompe i vetri per conto dei venditori di
vetro è un'altra cosa.
Q 8 §98
Nel marzo 1932 Papini ha scritto un articolo nella «Nuova Antologia»
(contro Croce) e uno sul «Corriere della Sera» sull'Edipo di A. Gide.
Ho letto finora solo quest'ultimo: è raffazzonato, prolisso, pomposo e
vuoto. Nel marzo devono essere nominati i nuovi Accademici che devono
completare i seggi dell'Accademia d'Italia: i due articoli sono
evidentemente la «tesi» e la «tesina» di laurea di G. Papini.
Q 17 §16
È da vedere la conferenza Carducci, alma sdegnosa, tenuta dal Papini a
Forlí per l'inaugurazione della «Settimana romagnola di poesia» e
pubblicata nella «Nuova Antologia» del 1° settembre 1933. La falsità,
l'insincerità istrionica di questa conferenza è tale da cavar gli occhi.
Sarebbe interessante, oltre che per il Papini, fare una ricerca
dell'avversione contro Roma che fu di moda in Italia fino al 1919 nel
movimento vociano e futurista. Discorso del Papini Contro Roma e B.
Croce; del binomio odioso per il Papini del 1913 è rimasto odioso
Benedetto Croce. Da confrontare l'atteggiamento verso il Croce
apertamente triviale di questo discorso sul Carducci e quello
untuosamente gesuitico e cristianuccio del saggio Il Croce e la Croce.
Q 8 §105
Papini come apprendista gesuita. L'articolo di Papini nella «Nuova
Antologia» del 1° marzo 1932 (Il Croce e la Croce) mi pare dimostri che
anche come gesuita il Papini non sarà mai piú che un modesto
apprendista. Questo è un vecchio somaro che vuole continuare a fare il
somarello nonostante il peso degli anni e gli acciacchi e sgambetta e
saltella turpemente. Mi pare che la caratteristica di questo articolo
sia l'insincerità. Vedere come il Papini inizi l'articolo coi soliti
lazzi stereotipati e meccanici contro il Croce e come verso la fine,
facendo l'agnello pasquale, annunzi untuosamente che nella raccolta
delle sue opere, gli scritti sul Croce saranno espurgati di ogni
«piacevolezza» e apparirà solo la discussione «teorica». L'articolo è
scritto di getto, si vede, e nel corso della scrittura il Papini ha
cambiato atteggiamento, ma non si è curato d'intonare i latrati delle
prime pagine ai belati delle ultime: il letterato soddisfatto di sé e
dei colpi di fioretto, che egli crede azzeccati, è sempre superiore al
pseudocattolico, ma anche al gesuita, ahi lui! e non ha voluto
sacrificare il già scritto. Ma tutto lo scritto appare impacciato,
tirato, costruito meccanicamente, come una ciliegia tira l'altra,
specialmente la seconda parte, in cui la ipocrisia traspare in modo
repugnante. Mi pare però che Papini appaia ossessionato dal Croce: il
Croce ha in lui la funzione della coscienza, delle «mani insanguinate»
di lady Macbeth, e che egli reagisca a questa ossessione ora facendo lo
spavaldo, tentando lo scherzo e lo sfottimento, ora piagnucolando
miseramente. Lo spettacolo è sempre pietoso. Lo stesso titolo
dell'articolo è sintomatico: che il Papini si serva della «croce» per
fare dei bisticci testimonia della qualità letteraria del suo
cattolicesimo.
Q 23 §37
È da notare come gli scrittori della «Civiltà Cattolica» se lo tengono
diletto, lo vezzeggiano, lo coccolano e lo difendono da ogni accusa di
poca ortodossia. Frasi di Papini contenute nel libro su S. Agostino e
che mostrano la tendenza al secentismo (i gesuiti furono spiccati
rappresentanti del secentismo): «quando si dibatteva per uscire dalle
cantine dell'orgoglio a respirare l'aria divina dell'assoluto», «salire
dal letamaio alle stelle» ecc. Papini si è convertito non al
cristianesimo, ma propriamente al gesuitismo (si può dire, del resto,
che il gesuitismo, col suo culto del papa e l'organizzazione di un
impero assoluto spirituale, è la fase piú recente del cristianesimo
cattolico).
Q 8 §160
Il cattolicismo atteggia lo stile del Papini. Non dirà più «sette» ma
«quanti sono i peccati capitali»: «Non già che mancassero traduzioni
italiane del capo d'opera goethiano: il Manacorda ne ha tenute
presenti, fra integre e no, tante quanti sono i peccati capitali» (Il
Faust svelato in «Corriere della Sera» del 26 aprile 1932).
Q 23 §16
G. Papini, quando voleva far venire i vermi ai filistei italiani, nel
1912-13, scrisse in «Lacerba», l'articolo Gesú Peccatore, sofistica
raccolta di aneddoti e di sforzate congetture tratte dagli Evangeli
apocrifi. Per questo articolo pareva dovesse subire un'azione
giudiziaria, con grande suo spavento. Aveva sostenuto come plausibile e
probabile l'ipotesi di rapporti omosessuali tra Gesú e Giovanni. Nel
suo articolo su Cristo romano, nel volume Gli operai della vigna, con
gli stessi procedimenti critici e lo stesso «vigore» intellettuale,
sostiene che Cesare è un precursore di Cristo, fatto nascere a Roma
dalla Provvidenza per preparare il terreno al cristianesimo. In un
terzo periodo è probabile che il Papini, impiegando le geniali
illuminazioni critiche che caratterizzano A. Loria, giunga a concludere
della necessità di rapporti tra il cristianesimo e l'inversione.
Q 17 §13
Nell'«Italia Letteraria» del 27 agosto 1933 Luigi Volpicelli così
scrive di Papini (incidentalmente, in un saggio su Problemi della
letteratura d'oggi, uscito in varie puntate): «Non basta a
cinquant'anni – voglia perdonare Papini la mia franchezza – non basta
dire: lo scrittore dev'essere maestro; occorre poter dire almeno: ecco
qui, gente ruffiana, l'arte vera, l'arte maestra. Ma limitarsi a
proporre, nel cinquantesimo anno di età, o giú di lí, lo scrittore come
maestro, quando maestri non si è mai stati, non vale nemmeno da mea
culpa. E già, siamo alle solite, infatti! Papini ha esercitato tutti i
mestieri, per poi sporcificarli tutti: il filosofo, per concludere che
la filosofia è una specie di cancrena al cervelletto, il cattolico, per
incenerare l'universo con un appropriato dizionario, il letterato, per
sancir da ultimo che della letteratura non sappiamo che farcene. Ciò
non toglie che Papini non si sia conquistato un posticino nella storia
della letteratura dentro il capitolo i "polemisti". Ma la polemica vale
l'oratoria: è proprio la forma pura e vuota, è mero amor di parola e di
tecnica, di gesto, un calligrafismo spirituale e congenito; insomma, la
cosa piú lontana possibile dallo scrittore come maestro».
Papini è sempre stato un «polemista» nel senso che dice il Volpicelli,
e lo è ancor oggi, poiché non si sa se nell'espressione «polemista
cattolico» a Papini interessi più il sostantivo o l'aggettivo. Col suo
«cattolicismo» Papini avrebbe voluto dimostrare di non essere un puro
«polemista», cioè un «calligrafo», un funambolo della parola e della
tecnica, ma non c'è riuscito! Il Volpicelli ha torto nel non precisare:
il polemista è polemista di una concezione del mondo, sia pure il mondo
di Pulcinella, ma Papini è il polemista «puro», il boxeur di
professione della parola qualsiasi: Volpicelli avrebbe dovuto giungere
esplicitamente all'affermazione che il cattolicismo in Papini è un
vestito da clown, non la «pelle» formata dal suo sangue «rinnovato»,
ecc.
Q 23 §31
Prezzolini. Il Codice della Vita italiana (Editrice la S. A. «La Voce»,
Firenze, 1921) conchiude il periodo originario e originale
dell'attività del Prezzolini, dello scrittore moralista sempre in
campagna per rinnovare e ammodernare la cultura italiana. Subito dopo,
Prezzolini «entra in crisi», con alti e bassi curiosissimi, fino a
imbrancarsi nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva
vituperato.
Un momento della crisi è rappresentato dalla lettera scritta nel 1923 a
P. Gobetti, Per una società degli Apoti, ristampata nel volumetto Mi
pare. Il Prezzolini sente che la sua posizione di «spettatore» «è un
po', un pochino (!), vigliacca». «Non sarebbe nostro dovere di prender
parte? Non c'è qualche cosa di uggioso (!), di antipatico (!), di mesto
(!), nello spettacolo di questi giovani [...] che stanno (quasi tutti)
fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come
si danno i colpi e perché e per come?» Trova una soluzione, molto
comoda: «Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente
ed anche [...] per le contese stesse che ora dividono e operano, per il
travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può
essere che quello al quale ci siamo messi e cioè di chiarire delle
idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un
patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi
futuri». Il modo di vedere la situazione è strabiliante: «Il momento
che si traversa è talmente credulo (!), fanatico, partigiano, che un
fermento di critica, un elemento di pensiero (!), un nucleo di gente
che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo
tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle (! e al
tempo della guerra libica non era lo stesso? eppure allora Prezzolini
non si limitò a proporre una Società di Apoti!): il documento falso, la
leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza
esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale.
E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito
come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai
politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la
Congregazione degli Apoti, di "coloro che non le bevono", tanto non
solo l'abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta
ovunque».
Un'affermazione di un gesuitismo sofistico singolare: «Ci vuole che una
minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti
successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di
eroismo (!), non dirò per andare proprio contro corrente, ma stabilendo
un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà», ecc. ecc.
Differenza tra il Prezzolini e Gobetti; vedere se la lettera ha avuto
risposta e quale.
Q 1 §90
L'articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e «rivendica di pieno
diritto un posto per essa nella preparazione dell'Italia contemporanea»
è citato nella «Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve
essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche giorno prima
(nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio). L'articolo è stato
provocato da una serie di articoletti della «Tribuna» contro Papini,
nel quale, per il suo studio Su questa letteratura (pubblicato nel
primo numero del «Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio
«protestantesimo» della «Voce». Lo scrittore della «Tribuna»
ex-nazionalista della prima «Idea Nazionale» non riusciva ancora a
dimenticare i vecchi rancori contro la «Voce», mentre Prezzolini non
ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d'allora. Su questo
argomento Prezzolini pubblicò anche una lettera nel «Davide» che usciva
irregolarmente a Torino nel '25-'26 diretto da Gorgerino. Bisogna poi
ricordare il suo libro sulla Cultura Italiana del '23 e il suo volume
sul «Fascismo» (in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile
potrebbe ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito su
alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisionismo. Sua
collaborazione e di Papini, nonché di molti vociani, al primo «Popolo
d'Italia».
Q 9 §20
Articolo di Giuseppe Prezzolini, Monti, Pellico, Manzoni, Foscolo
veduti da viaggiatori americani, in «Pègaso» del maggio 1932.
Prezzolini riferisce un brano del critico d'arte americano H. Y.
Tuckermann (The Italian Sketch-Book, 1848, p. 123): «Alcuni dei giovani
elementi liberali, in Italia, si dimostrano assai disillusi perché uno,
il quale stava per diventare un martire della loro causa, si sia votato
invece alla devozione, e si mostrano spiacenti che egli abbia ad
impiegar la sua penna per scrivere inni cattolici e odi religiose».
Cosí commenta il Prezzolini: «Il dispetto che i piú accesi provavano
per non aver trovato in Pellico uno strumento di piccola polemica
politica, è dipinto in queste "osservazioni"». Perché si dovesse
trattare di volgare «dispetto» e perché, prima del '48, la polemica
contro le persecuzioni austriache e clericali dovesse esser «piccola» è
appunto un mistero «profano» della mentalità brescianesca.
Q 23 §42
Luca Beltrami (Polifilo). Per rintracciare gli scritti brescianeschi
del Beltrami (I popolari di Casate Olona) è da vedere la Bibliografia
degli scritti di Luca Beltrami, dal marzo 1881 al marzo 1930, curata da
Fortunato Pintor, bibliotecario onorario del Senato, con prefazione di
Guido Mazzoni. Da un cenno pubblicato nel «Marzocco» dell'11 maggio
1930 appare che gli scritti del Beltrami sull'ipotetico «Casate Olona»
sono stati ben trentacinque. Il Beltrami ha postillato questa sua
Bibliografia. A proposito di «Casate Olona» il «Marzocco» scrive: «...
la bibliografia dei trentacinque scritti sull'ipotetico "Casate Olona"
gli suggerisce l'idea di ricomporre in unità quelle sue dichiarazioni
proposte e polemiche d'indole politico-sociale che, male intonate a un
regime democratico parlamentare, sotto un certo aspetto devono
considerarsi un'anticipazione di cui altri – non il Beltrami – avrebbe
potuto menar vanto di antiveggente precursore (!?)». Il Beltrami era un
conservatore moderato e non è certo che il suo «precorrimento» sia
accettato con entusiasmo. I suoi scritti, d'altronde, sono di una
volgarità intellettuale sconcertante.
Q 23 §40
Bellonci e Crémieux. La «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 riassume
un articolo, abbastanza scemo e spropositante, pubblicato da G.
Bellonci nel «Giornale d'Italia». Il Crémieux nel suo Panorama scrive
che in Italia manca una lingua moderna, ciò che è giusto in un senso
molto preciso: 1) che non esiste una concentrazione della classe colta
unitaria, i cui componenti scrivano e parlino «sempre» una lingua
«viva» unitaria, cioè diffusa ugualmente in tutti gli strati sociali e
gruppi regionali del paese; 2) che pertanto tra la classe colta e il
popolo c'è un distacco marcato: la lingua del popolo è ancora il
dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che in gran parte è
il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste inoltre un forte influsso
dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche la cosí detta
classe colta parla la lingua nazionale in certi momenti e i dialetti
nella parlata famigliare, cioè in quella piú viva e aderente alla
realtà immediata; d'altra parte, però, la reazione ai dialetti, fa sí
che, nello stesso tempo, la lingua nazionale rimanga un po'
fossilizzata e paludata e quando vuol essere famigliare si frange in
tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus e la
musica del periodo) che caratterizza le regioni, sono influenzati il
lessico, la morfologia e specialmente la sintassi. Il Manzoni sciacquò
in Arno il suo lessico personale lombardizzante, meno la morfologia e
quasi affatto la sintassi, che è piú connaturata allo stile, alla forma
personale artistica e all'essenza nazionale della lingua. Anche in
Francia qualcosa di simile si verifica come contrasto tra Parigi e la
Provenza, ma in misura molto minore, quasi trascurabile; in un
confronto tra A. Daudet e Zola è stato trovato che Daudet non conosce
quasi piú il passato remoto etimologico, che è sostituito
dall'imperfetto, ciò che in Zola si verifica solo casualmente.
Il Bellonci scrive contro l'affermazione del Crémieux: «Sino al
cinquecento le forme linguistiche scendono dall'alto, dal seicento in
poi salgono dal basso». Sproposito madornale, per superficialità e per
assenza di critica e di capacità di distinguere. Poiché proprio fino al
Cinquecento Firenze esercita un'egemonia culturale, connessa alla sua
egemonia commerciale e finanziaria (papa Bonifazio VIII diceva che i
fiorentini erano il quinto elemento del mondo) e c'è uno sviluppo
linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, sviluppo
rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza
di Firenze, l'italiano diventa sempre piú la lingua di una casta
chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica. Non è questa forse
la quistione posta dal Manzoni, di ritornare a un'egemonia fiorentina
con mezzi statali, ribattuta dall'Ascoli, che, piú storicista, non
crede alle egemonie culturali per decreto, non sorrette cioè da una
funzione nazionale piú profonda e necessaria?
La domanda del Bellonci: «Negherebbe forse, il Crémieux, che esista
(che sia esistita, avrà voluto dire) una lingua greca perché vi hanno
da essa varietà doriche, joniche, eoliche?», è solo comica; mostra che
egli non ha capito il Crémieux e non capisce nulla in queste quistioni,
ma ragiona per categorie libresche, come lingua, dialetto, «varietà»,
ecc.
Q 1 §100
Goffredo Bellonci, Pagine e idee, Edizione Sapientia, Roma. Pare che
sia una specie di storia della letteratura italiana originalmente
sovvertita dal luogo comune. Questo Bellonci è proprio una macchietta
del giornalismo letterario; un Bouvard delle idee e della politica, una
vittima di Mario Missiroli che era già una vittima di Oriani e di Sorel.
Q 23 §23
Giovanni Ansaldo. In un posticino a parte, nella rubrica dei «Nipotini
del padre Bresciani» deve essere inserito anche Giovanni Ansaldo. È da
ricordare il suo dilettantismo politico-letterario, che gli fece
sostenere, in un certo periodo, la necessità di «essere in pochi», di
costituire un'«aristocrazia»: il suo atteggiamento era banalmente
snobistico piú che espressione di un fermo convincimento
etico-politico, un modo di fare della letteratura «distinta», da
salotto equivoco. Cosí l'Ansaldo è divenuto la «Stelletta nera» del
«Lavoro», stelletta con cinque punte, da non confondersi con quella che
nei «Problemi del Lavoro» serve a indicare Franz Weiss e che ha sei
punte (che l'Ansaldo ci tenga alle sue cinque punte appare
dall'Almanacco delle Muse del 1931, rubrica genovese; l'Almanacco delle
Muse fu pubblicato dall'Alleanza del Libro). Per l'Ansaldo tutto
diventa eleganza culturale e letteraria: l'erudizione, la precisione,
l'olio di ricino, il bastone, il pugnale; la morale non è serietà
morale ma eleganza, fiore all'occhiello. Anche questo atteggiamento è
gesuitico, è una forma di culto del proprio particolare nell'ordine
dell'intelligenza, una esteriorità da sepolcro imbiancato. Del resto,
come dimenticare che appunto i gesuiti sono sempre stati maestri di
«eleganza» (gesuitica) di stile e di lingua?
Q 23 §14
Curzio Malaparte. Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert, italianizzato
verso il 1924 in Malaparte per un bisticcio con i Buonaparte (cfr.
collezione della rivista «La Conquista dello Stato»). Nel primo
dopoguerra sfoggiò il nome straniero. Appartenne all'organizzazione di
Guglielmo Lucidi che arieggiava al gruppo francese di «Clarté» di H.
Barbusse e al gruppo inglese del «Controllo democratico»; nella
collezione della rivista del Lucidi intitolata «Rassegna (o Rivista)
Internazionale» pubblicò un libro di guerra La rivolta dei santi
maledetti, una esaltazione del presunto atteggiamento disfattista dei
soldati italiani a Caporetto, brescianescamente corretta in senso
contrario nella edizione successiva e quindi ritirata dal commercio. Il
carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo, una
smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco: per aver successo il
Suckert era capace di ogni scelleraggine. Suoi libri sull'Italia
barbara e sua esaltazione della «Controriforma»; niente di serio e di
meno che superficiale.
A proposito dell'esibizione del nome straniero (che a un certo punto
cozzava con gli accenni a un razzismo e popolarismo di princisbecco e
fu perciò sostituito dallo pseudonimo, in cui Kurt – Corrado – viene
latinizzato in Curzio) è da notare una corrente abbastanza diffusa in
certi intellettuali italiani del tipo «moralisti» o moralizzatori: essi
erano portati a ritenere che all'estero si era piú onesti, piú capaci,
piú intelligenti che in Italia. Questa «esteromania» assumeva forme
tediose e talvolta repugnanti in tipi invertebrati come il Graziadei,
ma era piú diffusa che non si creda e dava luogo a pose snobistiche
rivoltanti; è da ricordare il breve colloquio con Giuseppe Prezzolini a
Roma nel 1924 e la sua esclamazione sconsolata: «Avrei dovuto procurare
a tempo ai miei figli la nazionalità inglese» o qualcosa di simile.
Tale stato d'animo pare non sia stato caratteristico solo di alcuni
gruppi intellettuali italiani, ma si sia verificato, in certe epoche di
avvilimento morale, anche in altri paesi. In ogni modo è un segno
rilevante di assenza di spirito nazionale-popolare oltre che di
stupidaggine. Si confonde tutto un popolo con alcuni strati corrotti di
esso, specialmente della piccola borghesia (in realtà poi questi
signori, essi stessi, appartengono essenzialmente a questi strati) che
nei paesi essenzialmente agricoli, arretrati civilmente e poveri, è
molto diffusa e può paragonarsi al Lumpen-proletariat delle città
industriali; la camorra e la maffia non è altro che una simile forma di
malavita che vive parassitariamente sui grandi proprietari e sul
contadiname. I moralizzatori cadono nel pessimismo piú scempio perché
le loro prediche lasciano il tempo che trovano; i tipi come Prezzolini,
invece di concludere alla propria inettitudine organica, trovano piú
comodo giungere alla conclusione della inferiorità di un intero popolo,
per cui non rimane altro che accomodarsi: «Viva Franza, viva Lamagna,
purché se magna!» Questi uomini, anche se talvolta mostrano un
nazionalismo dei piú spinti, dovrebbero essere segnati dalla polizia
tra gli elementi capaci di far la spia contro il proprio paese.
Q 23 §22
Vedi nell'«Italia Letteraria» del 3 gennaio 1932 l'articolo di
Malaparte: Analisi cinica dell'Europa. Negli ultimi giorni del 1931 nei
locali dell'«École de la Paix» a Parigi, l'ex Presidente Herriot tenne
un discorso sui mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo
Herriot parlò il Malaparte in contradditorio: «Siccome anche voi, sotto
certi aspetti (sic), siete un rivoluzionario, dissi tra l'altro a
Herriot (scrive Malaparte nel suo articolo), penso che siate in grado
di capire che il problema della pace dovrebbe essere considerato non
solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma anche da un punto
di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito patriottico e lo spirito
rivoluzionario (se è vero, come è vero, ad esempio, nel fascismo, che
l'uno non esclude l'altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la
pace europea. – Io non sono un rivoluzionario, mi rispose Herriot; sono
semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che un
patriota».
Cosí, per Malaparte, anche Herriot è un rivoluzionario, almeno per
certi aspetti, e allora diventa ancor piú difficile comprendere cosa
significa «rivoluzionario» e per Malaparte e in generale. Se nel
linguaggio comune di certi gruppi politici, rivoluzionario stava
assumendo sempre piú il significato di «attivista», di «interventista»,
di «volontarista», di «dinamico» è difficile dire come Herriot possa
esserne qualificato e perciò Herriot con spirito ha risposto di essere
un «cartesiano». Per Malaparte pare possa intendersi che
«rivoluzionario» è diventato un complimento, come una volta
«gentiluomo» o «grande galantuomo» o «vero galantuomo» ecc. Anche
questo è brescianesimo: dopo il '48 i gesuiti chiamavano se stessi
«veri liberali» e i liberali, libertini e demagoghi.
Q 3 §9
L'accademia dei Dieci. Vedi articolo di C. Malaparte Una specie di
Accademia nella «Fiera Letteraria» del 3 giugno 1928: il «Lavoro
d'Italia» avrebbe pagato 150.000 lire il romanzo Lo Zar non è morto
scritto in cooperativa dai Dieci. «Per il "Romanzo dei Dieci" i
tesserati della Confederazione, in grandissima maggioranza operai,
hanno dovuto sborsare ben 150.000 lire. Perché? Per la sorprendente
ragione che gli autori son dieci e che fra i Dieci figurano, oltre i
nomi del Presidente e del Segretario generale del "Raduno", quelli del
Segretario nazionale e di due membri del Direttorio del Sindacato
autori e scrittori!... Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di
Giacomo di Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei dirigenti,
cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti, non importa se
di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via per denunciare
gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti, cioè, al Segretario del
P. N. F. Ma trattandosi di personaggi senza tessera, politicamente poco
puliti e mal compromessi alcuni, altri infilatisi nei Sindacati all'ora
del pranzo, abbiamo preferito sbrigar le cose senza scandalo (!), con
queste quattro parole dette in pubblico». Questo pezzo è impagabile.
Nell'articolo c'è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora
Sottosegretario all'Istruzione Pubblica e contro Fedele, ministro.
Nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno, il Malaparte, pubblica un
secondo articolo Coda di Accademia in cui rincara sornionamente la dose
contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato una lettera sulla
quistione Salgari, che fu il «pezzo forte» del «Sindacato Scrittori» e
che fece ridere mezzo mondo).
Q 1 §102
«La Fiera letteraria» divenuta poi «L'Italia letteraria» è stata
sempre, ma sta diventando sempre piú un sacco di patate. Ha due
direttori, ma è come se non ne avesse nessuno e un segretario
esaminasse la posta in arrivo, tirando a sorte gli articoli da
pubblicare. Il curioso è che i due direttori, Malaparte e Angioletti,
non scrivono nel loro giornale ma preferiscono altre vetrine. Le
colonne della redazione devono essere Titta Rosa ed Enrico Falqui, e
dei due il piú comico è quest'ultimo che compila la Rassegna della
Stampa, saltabeccando a destra e a sinistra, senza bussola e senza
idee. Titta Rosa è piú ponteficale e si dà arie da grande pontefice
disincantato anche quando scrive delle baggianate. L'Angioletti pare
abbastanza ritrosetto a lanciarsi in alto mare: non ha l'improntitudine
di Malaparte. È interessante notare come l'«Italia letteraria» non si
arrischi a dare giudizi propri e aspetti che abbiano parlato prima i
cani grossi. Cosí è avvenuto per gl'Indifferenti di Moravia, ma cosa
piú grave per il Malagigi di Nino Savarese, libro veramente saporoso,
che fu recensito solo quando entrò in terna per il premio dei trenta,
mentre non era stato notato nelle pagine della «Nuova Antologia». Le
contraddizioni di questo gruppo di graffiacarte sono veramente
spassose, ma non vale la pena di notarle. Ricordano i Bandar Log del
Libro della Jungla: «noi faremo, noi creeremo», ecc. ecc.
Q 23 §20
Adelchi Baratono. Ha scritto nel II fascicolo della rivista «Glossa
perenne» (che era diretta da Raffa Garzia e iniziò a pubblicarsi nel
1928 o '29) un articolo sul Novecentismo che deve essere ricchissimo di
spunti «sfottendi». Tra l'altro: «L'arte e la letteratura di un tempo
non può e non dev'essere (!) che quella corrispondente alla vita (!) e
al gusto del tempo, e tutte le deplorazioni, come non servirebbero a
mutarne l'ispirazione e la forma, cosí sarebbero anche contrarie a ogni
criterio (!) storico (!) e quindi giusto (?) di giudicare».
Ma la vita e il gusto di un tempo sono qualcosa di monolitico o non
sono invece pieni di contraddizioni? E allora come si verifica la
«corrispondenza»? Il periodo del Risorgimento era «corrisposto» dal
Berchet o dal padre Bresciani? La deplorazione lamentosa e moralistica
sarebbe certo scema, ma si può fare la critica e giudicare senza
piangere. Il De Sanctis era un fautore deciso della rivoluzione
nazionale, tuttavia seppe giudicare brillantemente il Guerrazzi e non
solo il Bresciani. L'agnosticismo del Baratono non è altro che
vigliaccheria morale e civile. Se fosse vero che un giudizio di merito
sui contemporanei è impossibile per difetto di obbiettività e
universalità, la critica dovrebbe chiudere bottega; ma Baratono
teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria
coniglieria.
Q 1 §124
I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio
di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino e sono stati
ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.
Q 23 §30
Novecentisti e strapaesani. Il Barocco e l'Arcadia adattati ai tempi
moderni. (Il solito Malaparte che fu redattore capo del «900» di
Bontempelli, divenne poco dopo il «caposcuola» degli strapaesani e il
calabrone punzecchiatore di Bontempelli).
Q 23 §29
Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto scritto da Bontempelli per la
rivista «900» non è altro che l'articolo di G. Prezzolini Viva
l'artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a p. 51 della raccolta di
articoli Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Il Bontempelli non
ha fatto che svolgere e illanguidire, meccanizzandoli, una serie di
spunti contenuti nell'articolo del Prezzolini. La commedia Nostra Dea
del 1925 è una meccanica estensione delle parole del Prezzolini
stampate a pagina 56 di Mi pare... È da rilevare che l'articolo del
Prezzolini è molto goffo e pedantesco: risente dello sforzo fatto
dall'autore, dopo l'esperienza di «Lacerba» per diventare piú «leggero
e brioso»: ciò che potrebbe essere espresso in un epigramma viene
masticato e insalivato con molte smorfie tediose. Bontempelli imita la
goffaggine moltiplicandola. Un epigramma diventa in Prezzolini un
articolo e in Bontempelli un volume.
Q 6 §27
Stracittà e strapaese. Confrontare nell'«Italia Letteraria» del 16
novembre 1930 la lettera aperta di Massimo Bontempelli a G. B.
Angioletti con postilla di quest'ultimo (Il Novecentismo è vivo o è
morto?). La lettera è stata scritta dal Bontempelli subito dopo la sua
nomina ad Accademico e sprizza da ogni parola la soddisfazione
dell'autore di poter dire d'aver «fatto mordere la polvere» ai suoi
nemici, Malaparte e la banda dell'«Italiano». Questa polemica di
Strapaese contro Stracittà, secondo il Bontempelli, era mossa da
sentimenti oscuri e ignobili, cosa che si può accettare, a chi tenga
conto dell'arrivismo dimostrato dal Malaparte in tutto il periodo dopo
la guerra: era una lotta di un gruppetto di letterati «ortodossi» che
si vedevano colpiti dalla «concorrenza sleale» dei letterati già
scrittori del «Mondo», come il Bontempelli, l'Alvaro, ecc., e vollero
dare un contenuto di tendenza ideologico-artistico-culturale alla loro
resistenza ecc. Meschinità da una parte e dall'altra. La postilla
dell'Angioletti è ancora piú meschina della lettera del Bontempelli.
Q 23 §33
Riccardo Bacchelli. Il diavolo al Pontelungo (ed. Ceschina, Milano).
Questo romanzo del Bacchelli è stato tradotto in inglese da Orlo
Williams e la «Fiera Letteraria» del 27 gennaio 1929 riporta
l'introduzione del Williams alla sua traduzione. Il Williams nota che
il Diavolo al Pontelungo è «uno dei pochi romanzi veri, nel senso che
noi diciamo romanzo in Inghilterra», ma non pone in rilievo (sebbene
parli dell'altro libro di Bacchelli Lo sa il tonno) che il Bacchelli è
uno dei pochi scrittori italiani che si possono chiamare «moralisti»
nel senso inglese e francese (ricordare che il Bacchelli è stato
collaboratore della «Voce» e anzi per qualche tempo ne ha avuto la
direzione in assenza del Prezzolini); lo chiama invece raisonneur,
poeta dotto: raisonneur nel senso che troppo spesso interrompe l'azione
del dramma con commenti intorno ai moventi delle azioni umane in
generale. (Lo sa il tonno è il libro tipico di Bacchelli «morale» e non
pare molto ben riuscito). In una lettera al Williams, riportata
nell'introduzione, Bacchelli dà queste informazioni sul Diavolo: «Nelle
linee generali (!) il materiale è storico strettamente (!) tanto nella
prima che nella seconda parte. Sono storici (!) i protagonisti, come
Bakunin, Cafiero, Costa. Nell'intendere l'epoca, le idee e i fatti, ho
cercato d'essere storico in senso stretto: rivoluzionarismo
cosmopolita, primordi della vita politica del Regno d'Italia, qualità
del socialismo italiano agli inizi, psicologia politica del popolo
italiano e suo ironico buon senso, suo istintivo e realistico
machiavellismo (sarebbe piuttosto da dire guicciardinismo nel senso
dell'uomo del Guicciardini di cui parla il De Sanctis) ecc. Le mie
fonti sono l'esperienza della vita politica fatte a Bologna, che è la
città politicamente piú suscettibile e sottile d'Italia (mio padre era
uomo politico, deputato liberale conservatore) (il giudizio che il
Bacchelli dà di Bologna politica è essenzialmente giusto, ma non per il
popolo, per le classi possidenti e intellettuali collegate contro la
campagna irrequieta e violenta in modo elementare; a Bologna vivono in
uno stato permanente di panico sociale, con la paura di una jacquerie e
il timore aguzza l'orecchio politico), i ricordi di alcuni fra gli
ultimi sopravvissuti dei tempi e dell'Internazionale anarchica (ho
conosciuto uno che fu compagno e complice di Bakunin nei fatti di
Bologna del '74) e, per i libri, sopra tutto il capitolo del professor
Ettore Zoccoli nel suo libro sull'anarchia e i quaderni di Bakunin che
lo storiografo austriaco dell'anarchia, Nettlau, ha ristampato nella
sua rarissima biografia stampata in pochi esemplari. Il francese (era
invece svizzero) James Guillaume tratta anch'egli di Bakunin e Cafiero
nell'opera sull'Internazionale, che non conosco, ma dalla quale credo
di discostarmi in vari punti importanti. Quest'opera fece parte (!) di
una polemica posteriore sulla Baronata di Locarno, della quale non mi
sono curato (tuttavia questa polemica illuminò il carattere di Bakunin
e quindi i suoi rapporti col Cafiero). Tratta di cose meschine e di
quistioni di danaro (puah!). Credo che Herzen, nelle sue memorie, abbia
scritto le parole piú giuste e piú umane intorno alla personalità
variabile, inquieta e confusa di Bakunin. Marx, come non di rado, fu
soltanto caustico e ingiurioso. In conclusione credo di poterle dire
che il libro si fonda sopra una base di concetto sostanzialmente
storico. Come e con quale sentimento artistico io abbia saputo svolgere
questo materiale europeo (!) e rappresentativo, questo è argomento sul
quale il giudicare non spetta a me». (Il diavolo al Pontelungo è da
porre insieme a Pietro e Paolo del Sobrero per il chiaroscuro nel
saggio sui «nipotini del padre Bresciani»: del resto nel Bacchelli c'è
molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la
«Ronda» fu una manifestazione di gesuitismo artistico.
Q 23 §34
Jahier, Raimondi e Proudhon. Articolo di Giuseppe Raimondi Rione
Bolognina nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno 1928; ha in epigrafe
questo motto di Proudhon: «La pauvreté est bonne, et nous devons la
considérer comme le principe de notre allégresse». L'articolo è una
specie di manifesto «ideologico-autobiografico» e culmina in queste
frasi: «Come ogni operaio e ogni figlio di operaio, io ho sempre avuto
chiaro il senso della divisione delle classi sociali. Io resterò,
purtroppo (sic), fra quelli che lavorano. Dall'altra parte, ci sono
quelli che io posso rispettare, per i quali posso anche provare della
sincera gratitudine (!); ma qualcosa mi impedisce di piangere (!) con
loro, e non mi riesce di abbracciarli con spontaneità (!). O mi mettono
soggezione (!) o li disprezzo». (Un bel modo di presentare una
superiore forma di dignità operaia!) «È nei sobborghi che si sono
sempre fatte le rivoluzioni, e il popolo non è da nessuna parte cosí
giovane, sradicato da ogni tradizione, disposto a seguire un improvviso
moto di passione collettivo, come nei sobborghi, che non sono piú città
e non sono ancora campagna. [...] Di qui finirà per nascere una civiltà
nuova, e una storia che avrà quel senso di rivolta e di riabilitazione
secolare proprio dei popoli che solo la morale dell'età moderna ha
fatto riconoscere degni. Se ne parlerà come oggi si parla del
Risorgimento italiano e dell'Indipendenza americana. L'operaio è di
gusti semplici: si istruisce con le dispense settimanali delle Scoperte
della Scienza e della Storia delle Crociate: la sua mentalità resterà
sempre quella un poco atea e garibaldina dei circoli suburbani e delle
Università Popolari. [...] Lasciategli i suoi difetti, risparmiategli
le vostre ironie. Il popolo non sa scherzare. La sua modestia è vera,
come la sua fiducia nell'avvenire». (Molto oleografico, ma abbastanza
alla moda del Proudhon deteriore, anche nel tono assiomatico e
perentorio).
Nell'«Italia Letteraria» del 21 luglio 1929 lo stesso Raimondi parla
della sua deferente amicizia per Piero Jahier, e delle loro
conversazioni: «... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della
sua modestia, dell'influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo
moderno, dell'importanza che queste idee hanno assunto in un mondo
retto dal lavoro socialmente organizzato, in un mondo dove la coscienza
degli uomini si va sempre piú evolvendo e perfezionando in nome del
lavoro e dei suoi interessi. Proudhon ha fatto un mito, umano e
vivente, di questi poveri (!) interessi. In me l'ammirazione per
Proudhon è piuttosto sentimentale, d'istinto, come un affetto e un
rispetto, che io ho ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In
Jahier è tutta di intelletto, derivata dallo studio, perciò (!)
profondissima».
Questo signor Giuseppe Raimondi era un discreto poseur con la sua
«ammirazione ereditata»; aveva trovato uno dei cento modi di
distinguersi nella gioventú letterata odierna; ma da qualche anno non
se ne sente piú parlare. (Bolognese: collabora con L. Longanesi
nell'«Italiano», poi viene violentemente e sprezzantemente diffidato
dal Longanesi, «rondista»).
Q 5 §27
Enrico Corradini. È stata ristampata nel 1928 nella Collezione teatrale
Barbera la Carlotta Corday di E. Corradini, che nel 1907 o 8, quando fu
scritta, ebbe accoglienze disastrose e [fu] ritirata dalle scene. Il
Corradini stampò il dramma con una prefazione (anch'essa ristampata
nella ed. Barbera) in cui accusava del disastro un articolo
dell'«Avanti!» che aveva sostenuto il Corradini aver voluto diffamare
la rivoluzione francese. La prefazione del Corradini deve essere
interessante anche dal punto di vista teorico, per la compilazione di
questa rubrica del brescianesimo, perché il Corradini sembra far
distinzione fra «piccola politica» e «grande politica» nelle «tesi»
contenute nei lavori d'arte. Naturalmente per il Corradini, la sua
essendo «grande politica», l'accusa di «politicantismo» in sede
artistica non potrebbe essere elevata contro di lui. Ma la quistione è
un'altra: nelle opere d'arte si tratta di vedere se c'è intrusione di
elementi extra-artistici, siano questi di alto o di basso carattere,
cioè se si tratta di «arte» o di oratoria a fini pratici. E tutta
l'opera del Corradini è di questo tipo: non arte e anche cattiva
politica, cioè semplice rettorica ideologica.
Q 7 §82
Saranno da vedere i giornali contenenti la sua commemorazione (il
Corradini è morto il 10 dicembre 1931). Del Corradini è da vedere la
sua teoria della «nazione proletaria» in lotta con le nazioni
plutocratiche e capitaliste, teoria che serví di ponte ai sindacalisti
per passare al nazionalismo prima della guerra libica e dopo. La teoria
connessa col fatto dell'emigrazione di grandi masse di contadini in
America e quindi con la quistione meridionale. I romanzi e i drammi del
Corradini sotto rubrica del Brescianesimo.
Q 23 §48
Antonio Fradeletto. Già radicale massone, convertito poi al
cattolicismo. Era un pubblicista retorico sentimentale, oratore delle
grandi occasioni, rappresentava un tipo della vecchia cultura italiana
che pare tenda a sparire in quella forma primitiva, perché il tipo si è
universalizzato e stemperato. Scrittori di argomenti artistici,
letterari e «patriottici». In ciò appunto consisteva il tipo: che il
patriottismo non era un sentimento diffuso e radicato, lo stato d'animo
di uno strato nazionale, un dato di fatto, ma una «specialità oratoria»
di una serie di «personaggi» (cfr. Cian, per esempio), una qualifica
professionale per cosí dire. (Non confondere con i nazionalisti,
sebbene Corradini sia appartenuto a questo tipo e si differenziasse in
ciò dal Coppola e anche dal Federzoni. Neanche D'Annunzio è mai
rientrato perfettamente in questa categoria. Ciò che è notevole è che
sarebbe molto difficile spiegare a uno straniero, specialmente a un
francese, in che consisteva questo tipo, che è legato allo sviluppo
particolare della cultura e della formazione nazionale italiana. Nessun
confronto possibile, per esempio, col Barrès o con Peguy).
Q 23 §38
Mario Puccini. Cola o Ritratto dell'Italiano, Casa Editrice Vecchioni,
Aquila, 1927. Cola è un contadino toscano, territoriale durante la
guerra, nel quale il Puccini vorrebbe rappresentare il «vecchio
italiano» ecc.: «... il carattere di Cola, [...] senza reazioni ma
senza entusiasmi, capace di fare il proprio dovere e anche di compiere
qualche atto di valore ma per obbedienza e per necessità e con un
tenero rispetto per la propria pelle, persuaso sí e no della necessità
della guerra ma senza nessun sospetto di valori eroici [...] il tipo di
una coscienza, se non completamente sorda, certo passiva alle esigenze
ideali, tra la bacchettona e pigra, resistente a guardare oltre gli
"ordini del governo" e oltre le modeste funzioni della vita
individuale, contento in una parola dell'esistenza di pianura senza
ambizione delle alte cime». (Dalla recensione pubblicata nella «Nuova
Antologia» del 16 marzo 1928, p. 270).
Q 7 §105
Ardengo Soffici. Filiazione del Lemmonio Boreo dal Jean-Christophe di
Romain Rolland. Perché il Lemmonio Boreo fu interrotto? Il piglio
donchisciottesco del Lemmonio Boreo è esteriore e fittizio: in realtà
esso manca di sostanza epico-lirica: è una coroncina di fatterelli, non
un organismo.
Potrebbe aversi in Italia un libro come il Jean- Christophe?
Jean-Christophe, a pensarci bene, conclude tutto un periodo della
letteratura popolare francese (dai Miserabili a Jean-Christophe); il
suo contenuto supera quello del periodo precedente: dalla democrazia al
sindacalismo. Jean-Christophe è il tentativo di un romanzo
«sindacalista» ma fallito: il Rolland era tutt'altro che un
antidemocratico, quantunque risentisse fortemente gli influssi morali e
intellettuali della temperie sindacalista.
Dal punto di vista nazionale-popolare quale era l'atteggiamento del
Soffici? Una esteriorità donchisciottesca senza elementi ricostruttivi,
una critica superficiale ed estetistica.
Q 23 §54
Giulio Bechi. Morto il 28 agosto 1917 al fronte (cfr. giornali e
riviste del tempo: ne scrisse Guido Biagi nel «Marzocco»; cfr. i
Profili e caratteri di Ermenegildo Pistelli). Mario Puccioni
(Militarismo e italianità negli scritti di Giulio Bechi, nel «Marzocco»
del 13 luglio 1930), scrive: «La mentalità dei parlamentari sardi volle
vedere in Caccia grossa solo un attacco spietato contro usi e persone e
riuscí a fargli passare un guaio – cosí Giulio diceva con frase
partenopea – di due mesi di arresto nella fortezza di Belvedere»; ciò
che non è esatto perfettamente (pare che il Bechi sia stato sfidato a
duello per aver «parlato male delle donne sarde» e quindi punito
dall'autorità militare per essersi messo in condizioni di essere
sfidato). Il Bechi andò in Sardegna col 67° fanteria. La quistione del
contegno del Bechi nella repressione del cosí detto brigantaggio
nuorese, con misure da stato d'assedio, illegali, e l'aver trattato la
popolazione come negri, arrestando in massa vecchi e bambini, risulta
dal tono generale del libro e dallo stesso titolo di esso ed è piú
complessa di quanto paia al Puccioni, il quale cerca di mettere in
rilievo come il Bechi protestasse per l'abbandono in cui era lasciata
la Sardegna e come esaltasse le virtú native dei sardi. Il libro mostra
invece come il Bechi abbia colto l'occasione di fare della mediocre
letteratura su avvenimenti gravi e tristi per la storia nazionale.
Q 8 §75
Cfr. l'articoletto di Croce («I seminatori di G. Bechi») riportato
nelle Conversazioni critiche, Serie seconda, pp. 348 sgg. Il Croce dà
un giudizio favorevole di questo romanzo e in generale dell'opera
letteraria del Bechi, specialmente della Caccia grossa, sebbene
distingua tra la parte «programmatica e apologetica» del libro e la
parte piú propriamente artistica e drammatica. Ma anche Caccia grossa
non è essenzialmente un libro da politicante e dei peggiori che si
possano immaginare?
Q 23 §56
Lina Pietravalle. Dalla recensione scritta da Giulio Marzot del romanzo
della Pietravalle Le Catene (Mondadori, 1930, pp. 320, L. 12): «A chi
domanda con quale sentimento partecipa alla vita dei contadini, Felicia
risponde: "Li amo come la terra, ma non mischierò la terra col mio
pane". C'è dunque la coscienza di un distacco: si ammette che anche (!)
il contadino possa avere la sua dignità umana, ma lo si costringe entro
i limiti della sua condizione sociale».
Il Marzot ha scritto un saggio su Giovanni Verga ed è un critico
talvolta intelligente.
Sarebbe da studiare questo punto: se il naturalismo francese, nelle sue
pretese di obbiettività scientifica e sperimentale, non contenesse già,
in genere, la posizione ideologica che ebbe poi grande sviluppo nel
naturalismo o realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga:
il popolo della campagna è visto con «distacco», come «natura»
estrinseca sentimentalmente allo scrittore, come spettacolo ecc. È la
posizione di Io e le belve di Hagenbeck. In Italia, la pretesa
«naturalistica» dell'obbiettività sperimentale degli scrittori
francesi, che aveva un'origine polemica contro gli scrittori
aristocratici, si innestò in una posizione ideologica preesistente,
come appare dai Promessi Sposi, in cui esiste lo stesso «distacco»
dagli elementi popolari, distacco appena velato da un benevolo sorriso
ironico e caricaturale. In ciò Manzoni si distingue dal Grossi che nel
Marco Visconti non canzona i popolani e persino dal D'Azeglio delle
Memorie, almeno per ciò che riguarda le note sulla popolazione dei
castelli romani.
Q 9 §2
Una sfinge senza enigmi. Nell'«Ambrosiano» dell'8 marzo 1932 Marco
Ramperti aveva scritto un articolo La Corte di Salomone in cui, tra
l'altro scriveva: «Stamattina mi sono destato sopra un "logogrifo" di
quattro righe, intorno a cui avevo vegliato nelle ultime sette ore di
solitudine, senza naturalmente venirne a capo di nulla. Ombra densa!
Mistero senza fine! Al risveglio mi accorsi, però, che nell'atonia
febbrile avevo scambiato la Corte di Salomone con l'Italia Letteraria,
il "logogrifo" enigmatico con un carme del poeta Ungaretti...». A
queste eleganze del Ramperti l'Ungaretti risponde con una lettera
pubblicata nell'«Italia Letteraria» del 10 aprile e che mi pare un
«segno dei tempi». Se ne possono ricavare quali «rivendicazioni»
l'Ungaretti ponga al «suo paese» per essere compensato dei suoi meriti
nazionali e mondiali. (L'Ungaretti non è che un buffoncello di mediocre
intelligenza): «Caro Angioletti, di ritorno da un viaggio faticoso per
guadagnare lo scarso pane dei miei bimbi, trovo i numeri
dell'"Ambrosiano" e della "Stampa" nei quali un certo signor Ramperti
ha creduto di offendermi. Potrei rispondergli che la mia poesia la
capivano i contadini, miei fratelli, in trincea; la capisce il mio Duce
che volle onorarla di una prefazione; la capiranno sempre i semplici e
i dotti di buona fede. Potrei dirgli che da 15 anni tutto ciò che di
nuovo si fa in Italia e fuori, porta in poesia l'impronta dei miei
sogni e del mio tormento espressivo; che i critici onesti, italiani e
stranieri, non si fanno pregare per riconoscerlo; e, del resto, non ho
mai chiesto lodi a nessuno. Potrei dirgli che una vita durissima come
la mia, fieramente italiana e fascista, sempre, davanti a stranieri e
connazionali, meriterebbe almeno di non vedersi accrescere le
difficoltà da parte di giornali italiani e fascisti. Dovrei dirgli che
se c'è cosa enigmatica nell'anno X (vivo d'articoli nell'assoluta
incertezza del domani, a quaranta anni passati!), è solo l'ostinata
cattiveria verso di me da parte di gente di... spirito. – Con affetto –
Giuseppe Ungaretti». La lettera è un capolavoro di tartuferia
letteraria e di melensaggine presuntuosa.
Q 15 §54
Ugo Bernasconi. Scrittore di massime morali, novelliere, critico d'arte
e credo anche pittore. Collaboratore del «Viandante» di Monicelli e
quindi di una certa tendenza.
Si potrebbero estrarre alcune delle sue massime migliori. «Vivere è
sempre un adattarsi. Ma adattarsi a qualche cosa per salvare qualche
cos'altro. In questa alternativa si forma e si palesa tutto il
carattere di un uomo».
«La vera Babele non è tanto dove si parlano lingue diverse, ma dove
tutti credono di parlare la stessa lingua, e ciascuno dà alle stesse
parole un significato diverso».
«Tanto è il valore del pensiero teorico per un proficuo operare, che
talvolta può dare buon frutto anche la piú balorda delle teorie, che è
quella: non teorie ma fatti». («Pègaso» del giugno 1933).
Q 1 §16
Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova Antologia»
(16 giugno 1929) chiama l'uniforme del bagno penale «quella specie di
ignobile pijama». Ma forse già molti modi di vedere e di pensare a
proposito delle cose carcerarie sono andati mutando. Quando ero nel
carcere di Milano ho letto nella «Domenica del Corriere» una «Cartolina
del pubblico» che press'a poco diceva: «In treno due si incontrano e
uno dice che è stato 20 anni in carcere. – "Certo per ragioni
politiche" dice l'altro». Ma la punta epigrammatica non è in questa
risposta, come potrebbe apparire nel riferimento. Dalla «cartolina»
appare che l'essere stato in carcere non desta piú repulsione, perché
si può esservi stati per ragioni politiche. E le «cartoline del
pubblico» sono uno dei documenti piú tipici del senso comune popolare
italiano. Il Barilli è perfino al di sotto [di] questo senso comune:
filisteo per i filistei classici della «Domenica del Corriere».
Q 1 §17
Riccardo Balsamo-Crivelli. A proposito di «Cartoline del Pubblico»
della «Domenica del Corriere» è da notare questo inciso del signor
Domenico Claps («L'Italia che scrive», giugno 1929) in un articolo su
Riccardo Balsamo-Crivelli (che nel titolo e nel sommario è confuso con
Gustavo!): «chi gliel'avrebbe detto che questo libro (Cammina...
cammina...) si sarebbe adottato come testo di lingua all'Università di
Francoforte?» Ahilui! una volta che prima della guerra all'Università
di Strasburgo adoperavano come testo di lingua le «Cartoline del
Pubblico»! Naturalmente per Università bisogna intendere solo il
seminario di filologia romanza, chi sceglie non è il professore ma solo
il lettore d'italiano che può essere un semplice studente universitario
italiano e per «testo di lingua» bisogna intendere il testo che dia
agli studenti tedeschi un modello della lingua parlata dalla media
degli italiani e non della lingua letteraria o artistica. La scelta
delle «Cartoline del Pubblico» è pertanto molto assennata e il signor
Domenico Claps è anch'egli un «italiano meschino» al quale il
Balsamo-Crivelli dovrebbe mandare i padrini.
Q 23 §19
Tommaso Gallarati Scotti. Nella sua raccolta di novelle Storie
dell'Amor Sacro e dell'Amor Profano è da ricordare il racconto in cui
si parla del corpo di una prostituta saracena portato nell'Italia
Meridionale da un barone crociato e che la popolazione adora come la
reliquia di una santa: sono sbalorditive le considerazioni del
Gallarati Scotti, che pure è stato un «modernista» antigesuita. Tutto
ciò dopo la novella boccaccesca di frate Cipolla e il romanzo del
portoghese Eça de Queiroz La Reliquia, tradotto da L. Siciliani (ed.
Rocco Carabba, Lanciano) e che è una derivazione del Cipolla
boccaccesco. I Bollandisti sono rispettabili, perché almeno hanno
contribuito a estirpare qualche radice di superstizione (sebbene le
loro ricerche rimangano chiuse in una cerchia molto ristretta e servano
piú che altro per far credere agli intellettuali che la chiesa combatte
le falsificazioni storiche), l'estetismo gesuitico-folcloristico del
Gallarati Scotti è rivoltante. È da ricordare il dialogo riferito nelle
Memorie di W. Steed tra un giovane protestante e un Cardinale a
proposito di S. Gennaro e la noticina di B. Croce a una lettera di G.
Sorel a proposito di una sua conversazione con un prete napoletano sul
sangue di S. Gennaro (a Napoli esistono, pare, altri tre o quattro
sangui che bollono «miracolosamente» ma che non sono «sfruttati» per
non screditare quello popolarissimo di S. Gennaro). La figura
letteraria del Gallarati Scotti entra di scorcio fra i nipotini di
padre Bresciani.
Q 5 §154
Cardarelli e la Ronda. Nota di Luigi Russo su Cardarelli nella «Nuova
Italia» dell'ottobre 1930. Il Russo appunto trova nel Cardarelli il
tipo (moderno-fossile) di ciò che fu l'abate Vito Fornari a Napoli in
confronto del De Sanctis. Dizionario della Crusca. Controriforma,
Accademia, reazione, ecc.
Sulla Ronda e sugli accenni alla vita pratica del '19-'20-'21
confrontare Lorenzo Montano, Il Perdigiorno, Edizione dell'Italiano,
Bologna 1928 (sono raccolte nel volumetto le note d'attualità del
Montano pubblicate dalla Ronda).
Q 6 §67
Valentino Piccoli. Del Piccoli sarà utile ricordare la nota Un libro
per gli immemori (nei «Libri del giorno» dell'ottobre 1928) in cui
recensisce il libro di Mario Giampaoli 1919, (Roma-Milano, Libreria del
Littorio, in 16°, pp. 335 con 40 illustrazioni fuori testo, L. 15). Il
Piccoli adopera per il Giampaoli gli stessi aggettivi che adopera per
Dante, per Leopardi e per qualsiasi grande scrittore che egli passa il
tempo a coprire delle sue allumacature. Ricorre spesso l'aggettivo
«austero», ecc., «pagine d'antologia», ecc.
Q 6 §48
Ritratto del contadino italiano. Cfr. Fiabe e leggende popolari del
Pitré (p. 207), una novellina popolare siciliana, alla quale (secondo
D. Bulferetti nella «Fiera Letteraria» del 29 gennaio 1928) corrisponde
una xilografia di vecchie stampe veneziane, in cui si vede Iddio
impartire dal cielo questi ordini: al papa: tu prega, all'imperatore:
tu proteggi, al contadino: e tu affatica.
Lo spirito delle novelline popolari dà la concezione che di se stesso e
della sua posizione nel mondo il contadino si è rassegnato ad assorbire
dalla religione.
Q 23 §18
«Arte Cattolica». Edoardo Fenu, in un articolo Domande su un'arte
cattolica pubblicato nell'«Avvenire d'Italia» e riassunto nella «Fiera
Letteraria» del 15 gennaio 1928, rimprovera a «quasi tutti gli
scrittori cattolici» il tono apologetico. «Ora la difesa (!) della fede
deve scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del
racconto, deve cioè essere, manzonianamente, il "sugo" dell'arte
stessa. È evidente (!) che uno scrittore cattolico per davvero (!), non
andrà mai a battere la fronte contro le pareti opache (!) dell'eresia,
morale o religiosa. Un cattolico, per il solo fatto (!) di essere tale,
è già investito (! dal di fuori?) di quello spirito semplice e profondo
che, trasfondendosi nelle pagine di un racconto o di una poesia, farà
della sua (!) un'arte schietta, serena, nient'affatto pedante. È dunque
(!) perfettamente inutile intrattenersi a ogni svolto di pagina a farci
capire che lo scrittore ha una strada da farci percorrere, ha una luce
per illuminarci. L'arte cattolica dovrà (!) mettersi in grado di essere
essa medesima quella strada e quella luce, senza smarrirsi nella
fungaia (solo le lumache si possono smarrire nelle fungaie) degli
inutili predicozzi e degli oziosi avvertimenti». (In letteratura) «...
se ne togli pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche
Manacorda, il bilancio è pressoché fallimentare. Scuole... ne verbum
quidem. Scrittori? Sí; a voler essere di manica larga si potrebbe tirar
fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli argani! A meno che
non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di
romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere
di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per "signorine"».
Molte contraddizioni, improprietà e ingenuità melense nell'articolo del
Fenu. Ma la conclusione implicita è giusta: il cattolicismo è sterile
per l'arte, cioè non esistono e non possono esistere «anime semplici e
sincere» che siano scrittori colti e artisti raffinati e disciplinati.
Il cattolicismo è diventato, per gli intellettuali, una cosa molto
difficile, che non può fare a meno, anche nel proprio intimo, di una
apologetica minuziosa e pedantesca. Il fatto è già antico: risale al
Concilio di Trento e alla Controriforma. «Scrivere», d'allora in poi, è
diventato pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. Da
allora la chiesa ha adoperato un doppio metro, per misurare
l'ortodossia: essere «cattolici» è diventato cosa facilissima e
difficilissima nello stesso tempo. È cosa facilissima per il popolo, al
quale non si domanda che di «credere» genericamente e di avere ossequio
per le pratiche del culto: nessuna lotta effettiva ed efficace contro
la superstizione, contro le deviazioni intellettuali e morali, purché
non siano «teorizzate». In realtà un contadino cattolico,
intellettualmente può essere inconscio protestante, ortodosso,
idolatra: basta che dica di essere «cattolico». Anche agli
intellettuali non si domanda molto, se si limitano alle esteriori
pratiche del culto; non si domanda neanche di credere, ma solo di non
dare cattivo esempio, trascurando i «sacramenti» specialmente quelli
piú visibili e sui quali cade il controllo popolare: il battesimo, il
matrimonio, i funerali (il viatico ecc.). È invece difficilissimo
essere intellettuale attivo «cattolico» e artista «cattolico»
(romanziere specialmente e anche poeta), perché si domanda un tale
corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi, lettere
apostoliche ecc., e le deviazioni dall'indirizzo ortodosso chiesastico
sono state nella storia tante e cosí sottili che cadere nell'eresia o
nella mezza eresia o in un quarto di eresia è cosa facilissima. Il
sentimento religioso schietto è stato disseccato: occorre essere
dottrinari per scrivere «ortodossamente». Perciò nell'arte la religione
non è piú un sentimento nativo, è un motivo, uno spunto. E la
letteratura cattolica può avere dei padri Bresciani e degli Ugo Mioni,
non può avere piú un S. Francesco, un Passavanti, un [Tommaso] da
Kempis; può essere «milizia», propaganda, agitazione, non piú ingenua
effusione di fede che non è incontrastata, ma polemizzata, anche
nell'intimo di quelli che sono sinceramente cattolici. L'esempio del
Manzoni può essere portato a prova: quanti articoli sul Manzoni ha
pubblicato la «Civiltà Cattolica» nel suoi 84 anni di vita e quanti su
Dante? In realtà i cattolici piú ortodossi diffidano del Manzoni e ne
parlano il meno che possono: certo non lo analizzano come fanno per
Dante e qualche altro.
Q 23 §35
Scrittori «tecnicamente» cattolici. È notevole la scarsità degli
scrittori cattolici in Italia, scarsità che ha una sua ragione
d'essere, nel fatto che la religione è staccata dalla vita militante in
tutte le sue manifestazioni. S'intende «scrittori» che abbiano una
qualche dignità intellettuale e che producano opere d'arte, dramma,
poesia, romanzo. Già accennato al Gallarati Scotti per un tratto
caratteristico delle Storie dell'Amor Sacro e dell'Amor Profano, che ha
una sua dignità artistica ma che puzza di modernismo. Paolo Arcari (piú
noto come scrittore di saggi letterari e politici, del resto già
direttore della rivista liberale «L'azione liberale» di Milano, ma che
ha scritto qualche romanzo). Luciano Gennari (che scrive in lingua
francese). Non è possibile un confronto tra l'attività artistica dei
cattolici francesi (e la statura letteraria) e quella degli italiani.
Crispolti ha scritto un romanzo di propaganda Il Duello. In realtà, il
cattolicismo italiano è sterile nel campo letterario come negli altri
campi della cultura (cfr. Missiroli, Date a Cesare...) Maria di Borio
(ricordare l'episodio tipico della Di Borio durante la conferenza della
indú Arcandamaia sul valore delle religioni ecc.). Gruppo fiorentino
del «Frontespizio», guidato dal Papini, svolge una attività
letterario-cattolica estremista, ciò che è una riprova
dell'indifferentismo dello strato intellettuale per la concezione
religiosa.
Q 5 §63
Scrittori «tecnicamente» brescianeschi. Per questi scrittori occorre
vedere: Giovanni Casati, Scrittori cattolici italiani viventi.
Dizionario biobibliografico ed indice analitico delle opere, con
prefazione di Filippo Meda, Milano, Romolo Ghirlanda editore. Via
Unione 7, in 8°, pp. VIII-112, L. 15,00. Di questo dizionario occorrerà
vedere anche le possibili successive edizioni e confrontarle tra loro,
per controllare le aggiunte o le omissioni volute.
Don Giovanni Casati è lo specialista cattolico in bio-bibliografia.
Dirige la «Rivista di Letture» che consiglia e sconsiglia i libri da
leggere e da acquistare per i privati e per le biblioteche cattoliche;
sta compilando un repertorio Scrittori d'Italia dalle origini fino ai
viventi in ordine alfabetico (secondo l'articolo della «Civiltà
Cattolica» del 2 marzo 1929 da cui tolgo queste notizie, sono comparsi
finora quelli delle lettere A-B); ha scritto un volume di Saggi di
libri letterari condannati dall'Indice.
Nel dizionario degli Scrittori cattolici italiani viventi ne sono
registrati 591. Alcuni non risposero all'appello; il Casati, nel caso
di scrittori che pubblicano libri presso librerie non cattoliche, ne ha
interpretato il silenzio «come tacita preghiera di non farli figurare
nel dizionario». Bisognerebbe vedere perché sono stati richiesti:
perché «battezzati» o perché nei loro libri appariva un carattere
strettamente e confessatamente «cattolico»? Dice la «Civiltà Cattolica»
che nel Dizionario mancano, per esempio, Gaetano De Sanctis, Pietro
Fedele e «non pochi altri professori d'Università e scrittori di
vaglia». Il De Sanctis è certamente uno scrittore «cattolico»,
volutamente, confessatamente cattolico: ma Pietro Fedele? Lo sarà
diventato negli ultimi anni; non lo fu certamente almeno fino al 1924.
Appare dunque che il criterio nel fissare la «cattolicità» non è stato
molto rigoroso e che si è voluto confondere tra «cattolici» scrittori e
scrittori «cattolici».
Nel Dizionario non sono inclusi i giornalisti e pubblicisti che non
hanno pubblicato qualche libro: cosí non appare il conte Della Torre,
direttore dell'«Osservatore Romano» e il Calligari (Mikros) direttore
dell'«Unità Cattolica» (morto recentemente). Alcuni si scusano «per
modestia».
Chi sono i «convertiti» compresi nel Dizionario (Tipi: Papini,
Giuliotti, Mignosi, ecc.). Dice la «Civiltà Cattolica»: «Dalla guerra
in qua si nota un certo ridestarsi della coscienza religiosa negli
scrittori contemporanei, un interessamento insolito per i problemi
religiosi, un orientarsi piú di frequente verso la Chiesa Cattolica, al
quale (orientarsi) avranno certamente non poco contribuito i convertiti
compresi nel dizionario del Casati».
Dei 591 scrittori cattolici italiani viventi, 374 («salvo errore»,
scrive la «Civiltà Cattolica») sono uomini di Chiesa, sacerdoti e
religiosi, tra cui tre cardinali, nove vescovi, tre o quattro abati
(senza contare Pio XI); 217 sono laici, tra cui 49 donne: una sola
donna è religiosa.
La «Civiltà Cattolica» nota qualche errore. Esiste un Katholischer
Literaturkalender (ed. Herder, Freiburg i. B., 1926) che registra 5313
scrittori cattolici tedeschi. Per la Francia, l'Almanach Catholique
Français (pubblicato da Bloud et Gay, Parigi, fin dal 1920) pubblica un
piccolo dizionario delle «principales personnalités catholiques». Per
l'Inghilterra, The Catholic Who's Who, 1928 (Londra, Burns Oates and
Washbourne).
La «Civiltà Cattolica» si augura che, allargati i quadri (inclusione
giornalisti e pubblicisti) e vinta la ritrosia dei «modesti», l'elenco
italiano si raddoppi, il che sarebbe sempre ben poco. Il curioso è che
la «Civiltà Cattolica» parli di «snidare alcuni dalla propria modestia»
e accenna all'«orientalista prof. P. S. Rivetta», il quale se è modesto
come «orientalista» e come «prof. P. S. Rivetta», non è certo modesto
come «Toddi», freddurista del «Travaso delle Idee», e redattore del
foglio «Via Vittorio Veneto» per le garçonnes e per i frequentatori dei
caffè di lusso e per tutti gli snobs.
Q 23 §49
Per questi scrittori è da confrontare Monsignor Giovanni Casati,
Scrittori Cattolici Italiani viventi. Dizionario biobibliografico ed
indice analitico delle opere, con prefazione di F. Meda, pp. VIII-112,
in-8°, nelle varie edizioni.
È da rilevare il fatto che da qualche anno gli scrittori cattolici in
senso stretto cercano di organizzarsi a sé, di formare una corporazione
solidale e che si controlla e si esalta attraverso tutta una serie di
pubblicazioni e di iniziative. Ragione di questo atteggiamento
militante e spesso aggressivo, che è connesso alla nuova situazione che
legalmente e ufficialmente il cattolicismo è venuto conquistando nel
paese.
Q 8 §104
Alessandro Luzio. Articolo di A. Luzio nel «Corriere della Sera» del 25
marzo 1932 (La morte di Ugo Bassi e di Anita Garibaldi) in cui si tenta
una riabilitazione del padre Bresciani. Le opere del Bresciani «al
postutto non possono, quanto al contenuto, venir liquidate con sommarie
condanne». Il Luzio pone insieme il saggio del De Sanctis con un
epigramma del Manzoni (il quale, interrogato se conoscesse l'Ebreo di
Verona, avrebbe risposto, secondo il diario di Margherita di Collegno:
«Ho letto i due primi periodi; paiono due sentinelle che dicano non
andate avanti») e poi chiama «sommarie» le condanne; non c'è del
gesuitico in questo furbo giocherello?
E ancora: «Non simpatico certo è il tono con cui egli, portavoce della
reazione susseguita ai moti del '48-49, rappresentava e giudicava gli
assertori delle aspirazioni nazionali: ma in piú d'uno dei suoi
racconti, soprattutto nel Don Giovanni ossia il Benefattore occulto
(volumi 26-27 della "Civiltà Cattolica"), non mancano accenti di umana
e cristiana pietà per le vittime; parziali episodi vengono equamente
messi in bella luce, per esempio la morte di Ugo Bassi e la straziante
fine di Anita Garibaldi». Ma forse che il Bresciani poteva far
diversamente? Ed è proprio notevole, per giudicare il Luzio, che egli
dia per buono al Bresciani proprio il suo gesuitismo e la sua demagogia
di bassa lega.
Q 5 §101
Filippo Crispolti. Uno dei documenti piú brescianeschi del Crispolti è
l'articolo La madre di Leopardi nella «Nuova Antologia» del 16
settembre 1929. Che dei puri eruditi, appassionati anche delle minuzie
biografiche dei grandi uomini, come il Ferretti, abbiano cercato di
«riabilitare» la madre del Leopardi, non fa meraviglia: ma le
allumacature gesuitiche che il Crispolti sbava sullo scritto del
Ferretti, fanno ribrezzo. Tutto il tono è ripugnante, intellettualmente
e moralmente. Intellettualmente perché il Crispolti interpreta la
psicologia del Leopardi con i suoi «grandi dolori» giovanili
(certamente suo è il manoscritto inedito di memorie cui si riferisce
due volte) per essere povero, cattivo ballerino e noioso conversatore:
paragone ripugnante. Moralmente perché il tentativo di giustificare la
madre del Leopardi è meschino, cavilloso, gesuitico nel senso tecnico
della parola. Davvero che tutte le madri aristocratiche dei primi del
secolo XIX erano come Adelaide Antici? Si potrebbero portare documenti
in contrario a profusione e anche l'esempio del D'Azeglio non serve,
perché la durezza nell'educazione fisica per avere dei soldati, è ben
diversa dalla secchezza morale e sentimentale: quando il D'Azeglio
bambino si ruppe il braccio e il padre lo indusse a tenere nascosto il
male una notte intera per non spaventare la madre, chi non vede quale
sostrato affettuoso famigliare è contenuto nell'episodio e come ciò
doveva esaltare il bambino e legarlo piú intimamente ai genitori?
(Questo episodio del D'Azeglio è citato in un altro articolo dello
stesso fascicolo della «Nuova Antologia», Pellegrinaggio a Recanati, di
Alessandro Varaldo). La difesa della madre del Leopardi non è un puro
fatto d'erudizione curiosa, è un elemento ideologico, accanto alla
riabilitazione dei Borboni, ecc.
Q 6 §56
Ho già notato in altro paragrafo come il Crispolti non esiti a porre se
stesso come paradigma per giudicare il dolore del Leopardi. Nel suo
articolo Ombre di romanzi manzoniani il Manzoni diventa paradigma per
autogiudicare il romanzo effettivamente scritto dal Crispolti Il duello
e un altro romanzo Pio X che poi non fu scritto. L'arroganza del
Crispolti è persino ridicola: i Promessi sposi trattano di un
«impedimento brutale ad un matrimonio», il Duello del Crispolti tratta
del duello; ambedue si riferiscono al dissidio che esiste nella società
tra l'adesione al Vangelo che condanna la violenza, e l'uso brutale
della violenza. C'è una differenza tra il Manzoni e il Crispolti; il
Manzoni proveniva dal giansenismo, il Crispolti è un gesuita laico; il
Manzoni era un liberale e un democratico del cattolicesimo (sebbene di
tipo aristocratico) ed era favorevole alla caduta del potere temporale;
il Crispolti era un reazionario nerissimo e lo è rimasto; se si staccò
dagli intransigenti papalini e accettò di essere senatore è stato solo
perché voleva che i cattolici diventassero il partito ultradestro della
nazione.
È interessante la trama del romanzo non scritto Pio X solo perché
riferisce alcune difficoltà obbiettive che si presentano nella
convivenza a Roma di due potenze come la monarchia e il papa,
riconosciuto come sovrano già dalle guarentigie. Ogni uscita del papa
dal Vaticano per attraversare Roma domanda: 1) ingenti spese statali
per l'apparato d'onore dovuto al papa; 2) è una minaccia di guerra
civile perché bisogna obbligare i partiti progressivi a non fare
dimostrazioni e implicitamente pone la quistione se questi partiti
possano mai andare al potere col loro programma, cioè interferisce
sulla sovranità dello Stato sinistramente.
Q 23 §17
In un articolo pubblicato nel «Momento» del giugno 1928 (prima
quindicina, pare, perché riportato in estratto dalla «Fiera Letteraria»
dopo questo periodo) Filippo Crispolti ha raccontato come qualmente,
quando nel 1906 si pensò in Isvezia di dare il premio Nobel a Giosuè
Carducci, nacque il dubbio che un simile attestato di ammirazione al
cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: furono
chieste pertanto informazioni al Crispolti che le dette per lettera e
in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni
del Crispolti furono favorevoli. Cosí, il premio Nobel al Carducci
sarebbe stato dato da nessun altro che da Filippo Crispolti.
Q 1 §99
Un famoso parabolano arruffone è Antonio Bruers, uno dei tanti tappi di
sughero che salgono sulle creste melmose dei bassifondi agitati. Nel
«Lavoro fascista» del 23 agosto 1929 egli dà per probabile l'affermarsi
in Italia di una filosofia, «la quale, pur non rinunciando a nessuno
dei valori concreti dell'idealismo, è in grado di comprendere, nella
sua pienezza filosofica e sociale, l'esigenza religiosa. Questa
filosofia è lo spiritualismo, dottrina sintetica (!), la quale non
esclude l'immanenza, ma conferisce il primato logico (!) alla
trascendenza, riconosce praticamente (!) il dualismo e quindi
conferisce al determinismo, alla natura, un valore che si concilia con
le esigenze dello sperimentalismo». Questa dottrina corrisponderebbe al
«genio prevalente della stirpe italica» di cui il Bruers, nonostante il
nome esotico, sarebbe naturalmente il coronamento storico, spirituale,
immanente, trascendente, ideale, determinato, pratico e sperimentale
nonché religioso.
Q 6 §115
Angelo Gatti. Suo romanzo Ilia e Alberto pubblicato nel 1931 (vedi):
romanzo autobiografico. Il Gatti si è convertito al cattolicismo
gesuitico. Tutta la chiave, il nodo centrale del romanzo, è in questo
fatto: Ilia, donna sana, riceve in bocca gocciole di saliva di un
tubercolotico, per uno starnuto o un colpo di tosse (o che so io – non
ho letto il romanzo, ma solo delle recensioni) o altro; diventa
tubercolotica e muore.
Mi pare strano e puerile che il Gatti abbia insistito su questo
particolare meccanico ed esterno, che pure nel romanzo deve essere
importante, se un recensore ci si è trattenuto. Ricorda le solite
sciocchezze che le comari dicono per spiegare le infezioni. Forse Ilia
stava sempre a bocca aperta dinanzi alla gente che le tossiva e le
starnutava sul viso in tramvai e nelle calche dove si sta pigiati? E
come ha potuto accertare che proprio quella sia stata la causa del
contagio? O si tratta di un ammalato che a bella posta infettava la
gente sana? È veramente strabiliante che il Gatti si sia servito di
questa ficelle per il suo romanzo.
Q 6 §201
Bruno Cicognani. Il romanzo Villa Beatrice. Storia di una donna,
pubblicato nel «Pègaso» del 1931. Il Cicognani appartiene al gruppo di
scrittori cattolici fiorentini: Papini, Enrico Pea, Domenico Giuliotti.
Villa Beatrice può chiamarsi il romanzo della filosofia neoscolastica
di padre Gemelli, il romanzo del «materialismo» cattolico, un romanzo
della «psicologia sperimentale» tanto cara ai neoscolastici e ai
gesuiti? Confronto tra romanzi psicoanalitici e il romanzo di
Cicognani. È difficile dire in che cosa la dottrina e la religiosità
del cattolicismo contribuiscano alla costruzione del romanzo (dei
caratteri del dramma): nella conclusione, l'intervento del prete è
esteriore, il risveglio religioso in Beatrice è solamente affermato, e
i mutamenti nella protagonista potrebbero anche solo essere
giustificati da ragioni fisiologiche. Tutta la personalità, se può
parlarsi di personalità, di Beatrice, è descritta minuziosamente come
un fenomeno di storia naturale, non è rappresentata artisticamente: il
Cicognani «scrive bene», nel senso volgare della parola, come
«scriverebbe bene» un trattato del gioco degli scacchi. Beatrice è
«descritta»; come la freddezza sentimentale impersonificata e
tipizzata. Perché essa è «incapace» di amare e di entrare in relazione
affettiva con chiunque altro (anche la madre e il padre) in un modo
esasperato e da decalcomania? Ella è fisiologicamente imperfetta negli
organi genitali, soffre fisiologicamente nell'abbraccio e non potrebbe
partorire? Ma questa imperfezione intima (e perché la natura non la
costruí brutta esteriormente, indesiderabile ecc.? Contraddizione della
natura!) è dovuta al fatto che ella soffre di cuore. Il Cicognani crede
che fin dallo stato di ovulo fecondato il nuovo essere che eredita una
malattia organica si prepara alla difesa contro l'attacco futuro del
male: ecco che l'ovulo-Beatrice, nata con il cuore debole, si
costruisce un organo sessuale imperfetto che la farà repugnare
dall'amore e da ogni emotività ecc. ecc. Tutta questa teoria è del
Cicognani, è il quadro generale del romanzo: naturalmente Beatrice non
è cosciente di questa determinazione della sua esistenza psichica; essa
non opera perché crede di essere cosí, ma opera perché è cosí
all'infuori della sua coscienza: in realtà la sua coscienza non è
rappresentata, non è un motore che spieghi il dramma. Beatrice è un
«pezzo anatomico» non una donna.
Il Cicognani non evita le contraddizioni, perché pare che talvolta
Beatrice soffra di dover essere fredda, come se questa sofferenza non
fosse essa stessa una «passione» che potrebbe precipitare il mal di
cuore; pare quindi che solo l'unione sessuale e il concepimento col
parto siano pericolosi «per la natura», ma allora la natura avrebbe
dovuto provvedere altrimenti alla «salvaguardia» dell'ovaia di
Beatrice: avrebbe dovuto costruirla «sterile» o meglio
«fisiologicamente» incapace di unione sessuale. Tutto questo pasticcio
Ugo Ojetti ha esaltato come il raggiungimento da parte del Cicognani
della «classicità artistica».
Il modo di pensare del Cicognani potrebbe essere incoerente ed egli
potrebbe aver scritto tuttavia un bel romanzo: ma questo appunto non è
il caso.
Q 23 §52
Su Bruno Cicognani scrive Alfredo Gargiulo nell'«Italia Letteraria» del
24 agosto 1930 (cap. XIX di 1900-1930): «L'uomo e l'artista fanno nel
Cicognani una cosa sola: nondimeno si sente il bisogno di dichiarar
subito, quasi in separata sede (!), la simpatia che ispira l'uomo.
L'umanissimo Cicognani! Qualche sconfinamento, lieve del resto,
nell'umanitarismo di tipo romantico o slavo: che importa? Ognuno sarà
disposto a perdonarglielo, in omaggio a quell'autentica (!)
fondamentale umanità». Dal seguito non si capisce bene ciò che il
Gargiulo intende dire: è forse «mostruoso» criticamente che l'uomo e
l'artista si identifichino? O la attività artistica non è l'umanità
dell'artista? E cosa significa quell'aggettivo «autentica» e l'altro
«fondamentale»? Sono sinonimi dell'aggettivo «vero» che ormai è
screditato per la sua vacuità. (Occorrerà, per questa rubrica,
rileggere tutta l'esposizione del Gargiulo).
Umanità «autentica, fondamentale» può significare concretamente, nel
campo artistico, una cosa sola: «storicità», cioè carattere
«nazionale-popolare» dello scrittore, sia pure nel senso largo di
«socialità», anche in senso aristocratico, purché il gruppo sociale che
si esprime sia vivo storicamente e il «collegamento» sociale non sia di
carattere «pratico-politico» immediato, cioè predicatorio-moralistico,
ma storico o etico-politico.
Q 23 §27
Arnaldo Frateili. È il critico letterario della «Tribuna», ma
appartiene alla schiera intellettuale dei Forges che isterilisce la
terra ove pone piede. Ha scritto un romanzo Capogiro (Milano, Bompiani,
1932). Frateili: si presenta alla fantasia come appare in una
caricatura-ritratto pubblicata dall'«Italia Letteraria»: una faccia da
fesso pretenzioso con la goccetta al naso. Prende tabacco il Frateili?
Ha il cimurro il Frateili? Perché quella goccetta? Si tratta di un
errore «zincografico»? di un colpo di matita fuori programma? E perché
allora il disegnatore non ha cancellato la goccetta? Problemi
angosciosi: i soli che interessano a proposito del Frateili.
Q 16 §22
Sentimento religioso e intellettuali del secolo XIX (fino alla guerra
mondiale). Nel 1921 l'editore Bocca di Torino raccolse in tre grossi
volumi, con prefazione di D. Parodi, una serie di Confessioni e
professioni di fede di Letterati, Filosofi, uomini politici, ecc.,
apparse precedentemente nella rivista «Coenobium», pubblicata a Lugano
dal Bignami, come risposte a un quistionario sul sentimento religioso e
i suoi diversi rapporti. La raccolta può essere interessante per chi
vuole studiare le correnti di opinione verso la fine del secolo scorso
e il principio dell'attuale tra gli intellettuali specialmente
«democratici», sebbene sia difettosa per molti aspetti. Nel 1° volume
sono contenute le risposte dei seguenti letterati, ecc. italiani:
Angiolo Silvio Novaro, prof. Alfredo Poggi, prof. Enrico Catellani,
Raffaele Ottolenghi, prof. Bernardino Varisco, Augusto Agabiti, prof.
A. Renda, Vittore Marchi, direttore del giornale «Dio e Popolo», Ugo
Janni, pastore valdese, A. Paolo Nunzio, Pietro Ridolfi Bolognesi,
Nicola Toscano Stanziale, direttore della «Rassegna critica», dott.
Giuseppe Gasco, Luigi Di Mattia, Ugo Perucci, maestro elementare, prof.
Casimiro Tosini, direttore di Scuola Normale, Adolfo Artioli, prof.
Giuseppe Morando, direttore della «Rivista Rosminiana», preside del
Liceo Ginnasio di Voghera, prof. Alberto Friscia, Vittorio Nardi, Luigi
Marrocco, pubblicista, G. B. Penne, Guido Piccardi, Renato Bruni, prof.
Giuseppe Rensi.
Nel 2° volume: Francesco Del Greco, prof. direttore di Manicomio,
Alessandro Bonucci, prof. d'Università, Francesco Cosentini, prof.
d'Università, Luigi Pera, medico, Filippo Abignente, direttore del
«Carattere», Giampiero Turati, Bruno Franchi, redattore-capo della
«Scuola Positiva di Diritto Criminale», Manfredi Siotto-Pintor, prof.
di Università, prof. Enrico Caporali, Giovanni Lanzalone, direttore
della rivista «Arte e Morale», Leonardo Gatto-Roissard, tenente degli
alpini, Pietro Raveggi, pubblicista, Widar Cesarini-Sforza, Leopoldo De
Angelis, prof. Giovanni Predieri, Orazio Bacci, Giuseppe Benetti,
pubblicista, prof. G. Capra-Cordova, Costanza Palazzo, Pietro Romano,
Giulio Carvaglio, Leone Luzzatto, Adolfo Faggi, prof. d'Università,
Ercole Quadrelli, Carlo Francesco Gabba, senatore, prof. di Università,
dott. Ernesto Lattes, pubblicista, Settimio Corti, prof. di filosofia,
Bruno Villanova d'Ardenghi (Bruno Brunelli), pubblicista, Paolo
Calvino, pastore evangelico, prof. Giuseppe Lipparini, prof. Oreste
Ferrini, prof. Luigi Rossi Casè, prof. Antioco Zucca, Vittoria Fabrizi
de' Biani, prof. Guido Falorsi, prof. Benedetto De Luca, pubblicista,
Giacomo Levi Minzi, bibliofilo (!) della Marciana, prof. Alessandro
Arrò, Bice Sacchi, prof. Ferdinando Belloni-Filippi, Nella
Doria-Cambon, prof. Romeo Manzoni.
Nel 3° volume: Romolo Murri, Giovanni Vidari, professore d'Università,
Luigi Ambrosi, prof. d'Università, Salvatore Farina, Angelo Flavio
Guidi, pubblicista, Conte Alessandro d'Aquino, Baldassarre Labanca,
prof. di Storia del Cristianesimo all'Università, Giannino
Antona-Traversi, autore drammatico, prof. Mario Pilo, Alessandro
Sacchi, prof. d'Università, Angelo De Gubernatis, prof. d'Università,
Giuseppe Sergi, prof. d'Università, Adolfo Zerboglio, prof.
d'Università, Vittorio Benini, prof. d'Università, Paolo Arcari, Andrea
Lo Forte Randi, Arnaldo Cervesato, Giuseppe Cimbali, prof.
d'Università, Alfredo Melani, architetto, Silvio Adrasto Barbi, prof.,
prof. Massimo Bontempelli, Achille Monti, prof. Università, Velleda
Benetti, studentessa, Achille Loria, prof. Francesco Pietropaolo, prof.
Amilcare Lauria, Eugenio Bermani, scrittore, Ugo Fortini del Giglio,
avv. Luigi Puccio, Maria Nono-Villari, scrittrice, Gian Pietro Lucini,
Angelo Valdarmini, prof. Università, Teresina Bontempi, ispettrice
degli asili d'infanzia nel Canton Ticino, Luigi Antonio Villari, Guido
Podrecca, Alfredo Panzini, avv. Amedeo Massari, prof. Giuseppe Barone,
Giulio Caprin, avv. Gabriele Morelli, Riccardo Gradassi Luzi, Torquato
Zucchelli, tenente colonnello onorario (sic), Ricciotto Canudo, prof.
Felice Momigliano, Attilio Begey, Antonino Anile, prof. Università,
Enrico Morselli, professore Università, Francesco Di Gennaro, Ezio
Maria Gray, Roberto Ardigò, Arturo Graf, Pio Viazzi, Innocenzo Cappa,
duca Colonna Di Cesarò, Pasquale Villari, Antonio Cippico, Alessandro
Groppali, prof. Università, Angelo Marzorati, Italo Pizzi, Angelo
Crespi, E. A. Marescotti, F. Belloni-Filippi, prof. Università,
Francesco Porro, astronomo, prof. Fortunato Rizzi.
Un criterio metodico da tener presente nell'esaminare lo atteggiamento
degli intellettuali italiani verso la religione (prima del Concordato)
è dato da ciò che in Italia i rapporti tra Stato e Chiesa erano molto
piú complessi che negli altri paesi: essere patriotta significò essere
anticlericale, anche se si era cattolici, sentire «nazionalmente»
significava diffidare del Vaticano e delle sue rivendicazioni
territoriali e politiche. Ricordare come il «Corriere della Sera» in
una elezione parziale a Milano, prima del 1914, combatté la candidatura
del marchese Cornaggia, temporalista, preferendo che fosse eletto il
candidato socialista.