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Storia: l’Italia napoleonica
In Italia il dispiegarsi della Rivoluzione francese provocava
insieme una crisi del riformismo dei principi e il manifestarsi di
gruppi giacobini che univano presto alle aspirazioni rinnovatrici in
campo politico-sociale quella dell'unificazione nazionale. Deluse
dalla politica spoliatrice degli eserciti di Francia in Savoia e a
Nizza, le speranze dei giacobini si ravvivarono nel 1796 all'arrivo
del generale Napoleone Bonaparte salutato come “liberatore” perché
più aperto a tali aspirazioni sociali e nazionali. Nasceva così in
un'assemblea di patrioti di città dell'Emilia l'idea di una
Repubblica Cispadana alleata a quella francese con proprio esercito
e propria bandiera, il tricolore verde-bianco-rosso (gennaio 1797).
Intanto Bonaparte aveva imposto al re di Sardegna la cessione di
Nizza e Savoia alla Francia, aveva battuto gli austriaci, imposto le
proprie condizioni ai duchi di Parma e di Modena, nonché a Pio VI,
compresa un'indennità di guerra in denaro e in opere d'arte,
aggravando le condizioni nella Pace di Tolentino (febbraio 1797).
Nella Lombardia sgombrata dagli austriaci veniva costituita la
Repubblica Cisalpina con il confine all'Adige in virtù del
sacrificio dello Stato della laguna (Pace di Campoformido, 1797). La
Repubblica Cisalpina, come le similari Repubbliche Ligure, Romana e
Napoletana (1798-99), rappresentava l'esperienza delle nuove idee e
forze politico-culturali affiorate al potere. Esse però, con i
regimi filofrancesi di Toscana e Piemonte, venivano travolte di lì a
poco dal ritorno offensivo austro-russo in coordinazione con forze
popolari ostili a Milano, Roma, Napoli. Ma la riapparizione
vittoriosa di Bonaparte, ora primo console, che travolgeva le forze
austriache della seconda coalizione imponendo, in concomitanza con
l'esercito del Reno, il Trattato di Lunéville (1801), permetteva il
ricostituirsi della Repubblica Cisalpina, che diveniva ora
Repubblica Italiana, e ai Borbone di Parma di divenire “re
d'Etruria”.
Ma altra ridistribuzione era riservata ai territori d'Italia nel
quadro dell'Impero napoleonico (1805-14). L'intento era di mantenere
la penisola soggetta all'Impero francese, sia pur provvedendo al suo
sviluppo economico e civile, dando così soddisfazione iniziale a
quanti attendevano da Napoleone l'unità politica e l'indipendenza
dell'Italia. Nel Regno d'Italia allargato a E e a S vennero così
favoriti con il miglioramento della viabilità i commerci, già
promossi anche dall'introduzione del Codice napoleonico; la
subordinazione dell'economia italiana agli interessi industriali
francesi veniva però accentuata dal blocco continentale del 1806.
Maggiore autonomia ebbe il Regno di Napoli, sia sotto il re Giuseppe
Bonaparte sia sotto Gioacchino Murat, e anche più incisive riforme
(abolizione del regime feudale, Codice napoleonico, istituzioni
cautamente rappresentative, esercito nazionale). Nel 1810 tra i due
regni d'Italia e Napoletano era incuneato in profondità l'Impero
francese che si era annesso la Toscana e lo Stato Pontificio:
rimaneva fuori la Sicilia sempre sotto i Borbone protetti dalla
flotta inglese come pure la Sardegna sabauda. E questa
semplificazione di confini facilitava gli interscambi in più vaste
zone.
Ma, nonostante questo, pure in Italia il sentimento nazionale si
rivoltava contro il dispotismo napoleonico, sempre più oppressivo
per le leve militari, la pressione fiscale, il blocco, gli arbitri,
le prepotenze (per esempio nei riguardi di papa Pio VII). Di questo
approfittarono gli austriaci nella grande, decisiva controffensiva
del 1813-14, annunciandosi anch'essi quali liberatori dallo
straniero e fautori dell'unità italiana. Invano il viceré Eugenio di
Beauharnais cercava di conservare il regno: gli antifrancesi
prevalevano sui suoi fautori e Milano veniva rioccupata dagli
austriaci.
Nel contempo a Torino rientrava dalla Sardegna Vittorio Emanuele I,
a Roma dall'esilio coatto Pio VII e così gli altri principi avviando
la Restaurazione.
Più tenace la resistenza, insieme politico-diplomatica e militare,
di Murat a Napoli, che già nel 1813 si era dissociato da Napoleone e
che inalberava addirittura il programma dell'unità durante i Cento
Giorni del ritorno di Napoleone al potere (proclama di Rimini, 30
marzo 1815). Ma egli pure travolto dalle armi doveva sgombrare a
favore di Ferdinando IV di Borbone e un tentativo di ritorno si
concludeva con la sua cattura e fucilazione (ottobre 1815).
Storia: Restaurazione e primi moti
Le rilevanti innovazioni napoleoniche, ispirate a esigenze
economiche, oltreché politico-dinastiche e strategiche, lasciavano
le loro impronte anche negli Stati anterivoluzione restaurati con le
decisioni stabilite dal Congresso di Vienna (1815). Dalle
unificazioni realizzate nel Regno d'Italia traeva vantaggio
l'Austria mantenendo un Regno Lombardo-Veneto, e in esso talune
riforme assieme a corpi rappresentativi (le Delegazioni), pur
reintroducendo il Codice austriaco.
Nella Restaurazione dei Lorenesi in Toscana riemergevano le
tradizioni del riformismo leopoldino e mite era pure, per ragioni
diverse, l'assolutismo reintegrato da Maria Luisa d'Austria (la
madre del “Re di Roma” Napoleone II ora duca di Reichstadt), di
Luisa di Borbone a Lucca, pur sotto il controllo della corte di
Vienna. Più radicale la reazione alle istituzioni, alle idee, agli
uomini del periodo francese a Modena e Reggio con Francesco IV
d'Austria-Este; come pure nei domini dei Savoia, inoltre accresciuti
dal Genovesato, al ritorno di Vittorio Emanuele I. Diverse
istituzioni napoleoniche aveva dovuto conservare nel Napoletano
Ferdinando IV di Borbone, pur non tardando a reintegrare in
privilegi e beni i nobili e, con il concordato del 1818, anche la
Chiesa. Assumendo poi il titolo di re delle Due Sicilie nel 1815
egli si illudeva di spezzare, con le tradizionali autonomie della
Sicilia, anche le aspirazioni liberali in esse implicite che pure
aveva lasciato sviluppare nell'isola durante il periodo napoleonico,
anche per sollecitazione inglese.
Nello Stato Pontificio la Restaurazione, dapprima sotto il cardinale
Rivarola, significò reazione radicale alle istituzioni francesi e
persecuzione dei loro fautori; in un secondo tempo però, con il più
illuminato governo del cardinale Consalvi, essa valorizzò le
esperienze del periodo napoleonico. Anche in politica estera
Consalvi mantenne un certo distacco dal direttorio delle grandi
potenze, tra l'altro rifiutando di aderire, oltreché alla Santa
Alleanza, alla stessa Lega Italica progettata da Metternich.
Il malcontento che fermentava a opera di ex ufficiali napoleonici,
di ex funzionari filofrancesi, di liberi spiriti aveva una prima
manifestazione nel 1820-21. Da Napoli, sotto la suggestione della
rivoluzione di Spagna del gennaio 1820 e per iniziativa di
“carbonari” muratiani, il moto si estendeva alla Sicilia, dove però
le istanze autonomistiche del governo liberale formatosi a Napoli
secondo la richiesta costituzione di modello spagnolo furono subito
represse. Presto erano corse intese anche tra le società segrete di
Lombardia, Romagna, Piemonte, dove raggiungevano persino un erede al
trono, Carlo Alberto di Savoia-Carignano.
Ma anche l'organo repressivo della Santa Alleanza si metteva in
movimento: nel Congresso di Lubiana, con l'adesione dello spergiuro
re Ferdinando, era decisa la repressione nel regno del Sud con
truppe austriache (1821). Cosa analoga queste facevano per
iniziativa del reggente Carlo Felice in Piemonte (aprile 1821). In
Lombardia, a Modena, nello Stato Pontificio avrebbero completato
l'azione repressiva polizia e tribunali nel 1823-24 (S. Pellico, P.
Maroncelli, F. Confalonieri).
La Rivoluzione francese del luglio 1830 spingeva nel 1831 nuovamente
all'azione gruppi di carbonari, che facevano affidamento sulla
Francia liberatrice, ma pare, con calcolo errato, anche su ambizioni
dinastiche di Francesco IV di Modena: l'insurrezione dilagava da
Modena e Reggio alle Legazioni e alle Marche, dove gli insorti
creavano uno Stato delle province unite con governo provvisorio a
Bologna. Nuovamente intervenivano le truppe austriache su richiesta
del duca di Modena. Queste entravano poi ancora nelle Legazioni e
nelle Marche quando i liberali, insoddisfatti delle riforme
introdotte nell'amministrazione in seguito al memorandum delle
potenze (21 maggio 1831), avevano ripreso le agitazioni. Ma stavolta
a controbilanciare la presenza austriaca nello Stato Pontificio,
sbarcavano ad Ancona forze francesi: e la duplice occupazione durò
fino al 1835.
Dal 1831, a fianco dell'iniziativa liberal-costituzionale e
indipendentistica, appoggiata a principi e sostenuta dalla
Carboneria, si dispiegarono dal basso quella
democratico-repubblicana e rigorosamente unitaria di G. Mazzini e
della sua Giovine Italia, società inserita presto nel più ambizioso
quadro della Giovine Europa. Essa fece le sue prime esperienze,
invero negative, in Piemonte (1834) partecipe Garibaldi, in Calabria
nel 1844 con i fratelli Bandiera, poi in Romagna nel 1854. Tali
azioni accentuavano la polemica politica e fornivano argomenti ai
programmi moderati che prospettavano l'unità politica nella forma
attenuata di una confederazione degli Stati esistenti, previe
riforme interne che li modernizzassero nelle strutture, nella vita
economica, nella cultura, e questo con il rilievo precipuo
dell'elemento cattolico-papale nella tradizione nazionale in spirito
neoguelfo (V. Gioberti, A. Rosmini, N. Tommaseo, M. D'Azeglio) e con
riguardo alle possibilità offerte dal gioco dell'equilibrio delle
potenze (C. Balbo). E non mancava un federalismo repubblicano (C.
Cattaneo) con forte accento anticlericale (G. Ferrari), che era
condiviso dai “neoghibellini” (G. Niccolini).
A codesti moti e a codesti sviluppi di pensiero risorgimentale in
concordia discors si contrapponevano sia la repressione poliziesca
sia la polemica ideologicamente conservatrice, particolarmente
impegnata nel fronteggiare il movimento mazziniano. E questo nel Sud
sotto Ferdinando II, in Sicilia (1837), nello Stato Pontificio sotto
Gregorio XVI, a Modena; mentre nel Lombardo-Veneto dal nuovo
imperatore Ferdinando I erano elargite amnistie e in Toscana
perdurava la tradizione leopoldina di buona amministrazione e di
tolleranza.
In Piemonte sotto Carlo Alberto si venivano intanto preparando gli
uomini e i programmi che avrebbero fatto del regno subalpino la
guida del moto risorgimentale nella direttiva liberale-moderata.
Un impulso imprevisto veniva dato al movimento delle riforme dal
nuovo papa Pio IX con amnistie per reati politici, con
l'introduzione di laici nel governo, con la creazione di una
Consulta di Stato, creando con ciò l'equivoco e il mito del papa
“liberale”.
Intanto si delineava nell'economia del Paese una crescita, sia pur
lenta e graduale, della produzione industriale con la
meccanizzazione delle imprese di tessitura e filatura; più invero
nel Lombardo-Veneto e in Toscana e meno nello Stato Pontificio e nel
Piemonte. Sostanzialmente rurale e a coltura estensiva rimaneva
l'economia nel Sud con la proprietà terriera accentrata in
latifondi. La cultura invece passando dal classicismo al
romanticismo era in vigoroso sviluppo.
L'Italia, già in fermento fin dal 1846-47 per le riforme di Pio IX e
la loro valorizzazione da parte dei promotori di liberalismo e unità
nazionale, veniva investita dal movimento rivoluzionario di fuori
con sviluppi cui apportavano il loro contributo sia iniziative
dall'alto (dei Savoia, di Pio IX, parzialmente dei Borbone di Napoli
e dei Lorenesi di Toscana), sia iniziative popolari (di Mazzini, di
Garibaldi, di Cattaneo con i democratici lombardi, di Montanelli e
dei democratici toscani).
Anche in Italia il biennio 1848-49 può essere distinto in due fasi:
una prima di insurrezioni vittoriose e una seconda di rallentamento
nei moti, di isolamento dei radicali e infine di eliminazione dei
governi insurrezionali. Inoltre l'insuccesso delle correnti liberali
e democratiche nella loro fase di potere, a Milano, in Toscana, a
Napoli-Palermo, a Roma, con la confermata egemonia austriaca nella
“seconda Restaurazione”, aprì la strada al costituzionalismo
piemontese (D'Azeglio, Cavour), che dispiegava ardite iniziative
tanto nelle innovazioni interne quanto nella politica estera in
vista dell'ormai prossima indipendenza e dell'unità nazionale.
Storia: il 1848
Questo anno si caratterizza per la molteplicità dei centri e la
multiformità delle forze che premono per il mutamento o addirittura
per il rovesciamento dell'ordine esistente. Con il passare del
tempo, alle richieste di libertà politica, di istituzioni
rappresentative, di indipendenza e unità nazionale, si sono aggiunte
istanze più radicali di rivendicazione del potere al popolo o
addirittura socialiste di una nuova struttura economica e sociale.
Però nel biennio sono gli interessi della borghesia che in
prevalenza si fanno valere (libero commercio, sviluppo di strade,
canali, ferrovie, espansione del capitale, applicazione delle
macchine alla produzione artigianale).
Già nel gennaio 1848 la Sicilia era insorta reclamando la
Costituzione autonomistica del 1812 e Ferdinando II (1830-59)
elargiva a Napoli il 29 gennaio una Costituzione. Carlo Alberto il 4
marzo 1848 pubblicava lo Statuto formando un governo costituzionale
con a capo C. Balbo; già Leopoldo II di Toscana aveva concesso la
richiesta Costituzione sul modello di quella francese del 1830; e
pure Pio IX pubblicava una Costituzione (14 marzo), invero con
disposizioni particolari. Per riflesso della rivoluzione di Vienna
si agitava anche il Lombardo-Veneto come pure i ducati padani. I
milanesi respingevano un editto imperiale che prevedeva
rappresentanze di tutte le province in una dieta e, con lo stimolo e
sotto la direzione di radicali democratici (Cattaneo), organizzavano
la rivolta armata, obbligando gli austriaci a sgombrare la città
(Cinque Giornate, 18-22 marzo). E con il ritiro delle truppe
austriache anche i duchi di Parma e di Modena erano costretti a
cedere ai rivoltosi. A dare man forte agli insorti lombardi
organizzatisi rapidamente in milizie volontarie, interveniva Carlo
Alberto inalberando il tricolore del Regno d'Italia, sia pure
inserendovi la croce sabauda.
La guerra antiaustriaca si proclamava guerra “nazionale” e a essa
aderivano i governi costituzionali di Toscana e Napoli e,
inizialmente, lo stesso Pio IX. Questi però, a breve scadenza, in
un'allocuzione del 29 aprile, limitava la funzione delle truppe
pontificie alla salvaguardia dei confini, pur consigliando a Vienna
di rinunziare alle sue province di qua dalle Alpi.
Intanto anche Venezia era stata sgombrata dagli Austriaci e aveva
creato un governo provvisorio inalberando nuovamente l'insegna di
San Marco su ispirazione di Manin.
I successi militari di Carlo Alberto (Peschiera) e politici (il
plebiscito di annessione al Piemonte) erano però di corta durata;
sconfitto nel luglio a Custoza, nell'Armistizio Salasco si obbligava
a sgomberare i ducati padani e a sciogliere i corpi di volontari
lombardo-veneti.
Queste vicende politico-militari, in cui si era inserito anche G.
Garibaldi, accorso dall'America, avevano avuto immediate
ripercussioni su quelle interne dei singoli Stati, dove i partiti si
scontravano nei giornali, nei Parlamenti, nei comizi, propugnando i
loro programmi: dal costituzionalismo moderato al radicalismo
democratico-repubblicano, dal tradizionale municipalismo al
federalismo giobertiano o addirittura all'unitarismo mazziniano, che
sollecitava la “costituente italiana”, in cui i radicali senza
volerlo facevano il gioco dei fautori dell'assolutismo.
Infatti già nel maggio 1848 Ferdinando II scioglieva la Camera a
Napoli, senza tuttavia, per il momento, piegare il separatismo
siciliano; Pio IX, con l'assassinio del suo ministro costituzionale
P. Rossi a opera di un popolano mazziniano (Ciceruacchio), vedeva
infranto il suo tentativo di stabilire ordine nel quadro delle nuove
istituzioni e abbandonava Roma per non contestare né subire le
direttive del nuovo governo “democratico”. In tal modo i radicali
mazziniani avevano mano libera: un triumvirato, Mazzini, Saffi e
Armellini, convocava un'Assemblea Costituente romana, pensata come
parte della Costituente italiana (febbraio 1849), che dichiarava
decaduto il potere temporale dei papi e proclamava la Repubblica
Romana.
Una radicalizzazione analoga era avvenuta pure in Toscana con il
governo di D. Guerrazzi, inducendo il granduca a raggiungere Pio IX
nell'esilio di Gaeta (febbraio 1849).
Anche a Torino falliva il moderatismo del governo Gioberti sia in
politica interna sia in quella estera: i democratici con U. Rattazzi
al governo imponevano la denunzia dell'armistizio con l'Austria, la
ripresa delle ostilità, in coordinazione con l'insurrezione di
Brescia (marzo 1849); ed esse si concludevano rapidamente con la
sconfitta di Novara, l'abdicazione di Carlo Alberto, la successione
di Vittorio Emanuele II che, pur accettando pesanti clausole
militari e finanziarie, sapeva resistere alla richiesta di abolire
lo Statuto (Pace di Torino, agosto 1849).
Ne conseguiva la dura repressione di Brescia (Dieci Giornate) e
anche la Repubblica di S. Marco, assediata, doveva, pur difesa da
patrioti d'ogni regione, capitolare per la fame e per il colera (24
agosto 1849).
La seconda Restaurazione procedeva rapida: nel maggio Palermo cedeva
ai Borbone; in Toscana Leopoldo II, richiamato, era rientrato a
Firenze con scorta austriaca; la Repubblica romana rimaneva isolata,
divisa da fazioni, premuta dall'esterno dagli interventi chiesti dal
papa alle potenze cattoliche (Napoli, Spagna, Austria e la Francia
con Luigi Napoleone presidente). E alle forze francesi, la difesa,
diretta da Garibaldi, doveva cedere il 1º luglio 1849. L'Italia
sembrava così ritornata alla situazione del 1846: ma i fermenti e le
esperienze del 1848-49 erano destinati a spezzare definitivamente
anche la seconda Restaurazione di lì a un decennio.
Storia: la politica di Cavour
Nel 1849, dopo una fase di predominanza del radicalismo mazziniano,
i vecchi regimi erano ritornati al potere in virtù delle forze
conservatrici di fuori ma in collaborazione con quelle interne
(fatta eccezione per lo Regno subalpino). La durezza delle
repressioni e la dimostrazione di forza della polizia e degli
eserciti, che Vienna controllava e coordinava, senza tuttavia
riuscire nel progetto di una lega doganale sul modello di quella
tedesca (1852), avevano come risposta un'intensificazione della
propaganda mazziniana coordinata da fuori da un Comitato democratico
europeo e attiva in comitati locali (a Mantova con E. Tazzoli, 1852;
a Milano, con A. Sciesa, febbraio 1851; in Cadore, con P. F. Calvi,
settembre 1853). Meno energica l'azione nei ducati padani, a Modena
e Parma, anche per un certo ritorno di quei principi al riformismo
paternalistico e per un certo distanziamento da Vienna. Vive le
aspirazioni liberali in Toscana di fronte al governo decisamente
reazionario di Leopoldo II, che aveva revocato la Costituzione e
abbandonato il tradizionale giurisdizionalismo nel concordato del
1851 con Pio IX.
Fortemente controllata l'opinione pubblica nello Stato Pontificio
con un motu proprio di riforme, promesse, ma non applicate, e
l'occupazione straniera austriaca e francese di buona parte del
territorio. Il regime ierocratico si rivelava sempre meno
conciliabile con le nuove idee e con le nuove istituzioni
costituzionali e il mito di Pio IX liberale e generoso svaniva non
solo negli animi degli intellettuali e borghesi già fautori del
neoguelfismo, ma pure in gran parte del popolo. Anche l'azione di un
Comitato nazionale romano di moderati in relazione con Torino era
presto bloccata, mentre continuava l'iniziativa rivoluzionaria dei
mazziniani nell'illegalità.
A Napoli Ferdinando II riprendeva a governare dispoticamente,
simpatizzando con il popolino, ma isolandosi dal ceto culturale del
Paese: personalità come L. Settembrini, C. Poerio, S. Spaventa
venivano duramente condannate per la loro attività nella società
segreta Unità italiana (gennaio 1851 e ottobre 1852). All'isolamento
del re nei rapporti con i sudditi si aggiungeva quello del regno sul
piano internazionale, soprattutto nelle relazioni con l'Inghilterra
(Due lettere di Gladstone sulle persecuzioni del governo napoletano)
e con la Francia dal 1856. Anche qui ci fu un moto mazziniano
(quello di C. Pisacane a Sapri, 1857), che venne di nuovo represso,
determinando indirettamente una crisi nei rapporti con il governo di
Torino. Così il Regno delle Due Sicilie, nonostante un forte impegno
in lavori pubblici, si avviava alla crisi, persistendo pure il
contrasto tra Napoli e Palermo, dove l'avversione ai Borbone era
pressoché generale e cresceva la simpatia per il Piemonte.
L'iniziativa indipendentistica e, subordinatamente, unitaria
rimaneva pertanto con prospettive di concreta efficienza nel
Piemonte costituzionale: esso si veniva preparando alla sua funzione
italiana con la trasformazione delle sue strutture interne in senso
liberale, sia in campo ecclesiastico e fiscale (leggi
Siccardi-Rattazzi, 1855), sia in campo economico, sotto la salda
direzione di C. Benso di Cavour e la sua maggioranza parlamentare di
centrosinistra.
Il Regno subalpino si inseriva poi, in vista delle aspirazioni
indipendentistiche italiane, nella politica delle grandi potenze
alleandosi con Francia e Inghilterra nella guerra antirussa di
Crimea (1854-55) e tentando di inserire il problema italiano
nell'ordine del giorno della Conferenza di Parigi (1856) in
posizione nettamente antiasburgica. Miglior esito ebbero al riguardo
gli Accordi di Plombières (1858) per una guerra all'Austria, che
Cavour, eludendo la mediazione di pace inglese, si faceva
dichiarare, rifiutando lo scioglimento dei corpi volontari intimato
dall'Austria. Francesi e piemontesi riuscivano a riunirsi, a battere
gli austriaci, a entrare trionfalmente accolti in Milano; e questo
in coordinazione con i Cacciatori delle Alpi organizzati e comandati
da Garibaldi.
Intanto la Società nazionale d'ispirazione cavouriana, che accettava
la direzione piemontese del movimento nazionale, provocava il crollo
del regime granducale a Firenze e quello dei Borbone e degli Estensi
a Parma e Modena, nonché del governo papale nelle Legazioni, dando
vita ai governi provvisori di Ricasoli in Toscana, di Farini in
Emilia, che subito chiedevano l'appoggio del Piemonte e vi si
dichiaravano annessi, proclamando Vittorio Emanuele “dittatore”.
Nelle Marche e in Umbria invece le insurrezioni venivano represse
dai pontifici.
Ma la guerra di liberazione, dopo le sanguinose battaglie a
Solferino e San Martino (24 giugno 1859), veniva improvvisamente
fermata dall'Armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) concordato a
due tra Francesco Giuseppe e Napoleone III e dalla successiva Pace
di Zurigo (10 novembre 1859) senza consultazione del re subalpino. I
sovrani di Modena, Parma, Firenze potevano ritornare sui loro troni
(ma senza aiuto di fuori, come era avvenuto nel 1849) e l'Austria
era ammessa nella prevista confederazione degli Stati d'Italia.
Cavour dava le dimissioni, ma continuava ad alimentare l'azione
clandestina contro le clausole dell'armistizio: ufficialmente i
commissari sardi nei ducati e in Toscana erano ritirati dal nuovo
governo Lamarmora-Rattazzi; ma questi vi rimanevano di fatto per
voto di assemblee costituenti che rinnovavano l'annessione al
Piemonte. Codesti avvenimenti mantenevano così aperta la questione
italiana.
Era quanto voleva Cavour, il quale, ritornato al potere (gennaio
1860), riusciva a convincere Napoleone III a riconoscere il diritto
di autodecisione delle popolazioni (come già aveva fatto
l'Inghilterra), sia pure cedendo quale contropartita Nizza e Savoia.
E i plebisciti sanzionavano nel marzo 1860 le annessioni di Toscana,
ducati e Legazioni al Regno subalpino.
Storia: da Garibaldi al Regno d’Italia
Gli avvenimenti politico-militari del Nord non tardavano a
ripercuotersi nel Sud. Qui l'agitazione antiborbonica, sia tra
intellettuali e borghesia sia tra i contadini, era esplosa in
turbolenze alimentate dai mazziniani di Sicilia, specialmente a
Palermo. Vi si inseriva la Società nazionale da fuori con F. Crispi
e G. La Farina, organizzando la “spedizione dei Mille”, volontari
sotto il comando di Garibaldi (maggio 1860), non senza l'aiuto
finanziario piemontese e il tacito assenso di Cavour.
La conquista della Sicilia era rapida per l'apporto dei contadini
insorti (picciotti), per i decreti agrari di Garibaldi che
accentuavano il carattere rivoluzionario e sociale dell'impresa, per
lo sfaldamento dell'esercito borbonico. Ancor più facile l'ulteriore
marcia su Napoli per l'entusiasmo delle popolazioni e la
demoralizzazione dell'esercito borbonico. A Napoli il “prodittatore”
veniva raggiunto da Mazzini che premeva per un'assemblea costituente
in vista di uno Stato unitario repubblicano. Garibaldi dichiarava
che il Regno unito d'Italia sotto Vittorio Emanuele l'avrebbe
proclamato solo a Roma.
Di fronte a questo, per riavere in mano l'iniziativa, Cavour,
assicuratosi il consenso di Napoleone III, decideva l'intervento
regio. Con il motivo di disordini in Umbria e nelle Marche papali,
le faceva occupare (settembre 1860) e poco dopo (novembre) le
chiamava con un plebiscito all'annessione. Le truppe piemontesi
stringevano poi d'assedio Gaeta, ultimo fortilizio dei Borbone,
quando già a Napoli e a Palermo era stato tenuto (21 ottobre 1860)
il plebiscito per l'annessione a Torino. Tuttavia la battaglia
diplomatica per ottenere il riconoscimento delle annessioni si
presentava dura: però l'assenso, calcolato, inglese determinava
quello, meno convinto, di Parigi.
Nel febbraio del 1861 si poteva pertanto riunire il primo Parlamento
con deputati di tutta l'Italia libera: esso proclamava (17 marzo
1861) il Regno d'Italia e per esso rivendicava subito Roma come
capitale.
L'unificazione così rapidamente attuata poneva al nuovo Stato un
gran numero di problemi: un bilancio gravato di spese, dell'onere di
debiti con il difficile reperimento di nuove entrate; l'ordine
pubblico minacciato dal malcontento organizzato nel Sud, leggi,
consuetudini, procedure giudiziarie assai differenti nelle diverse
parti dello Stato; un diverso sviluppo economico e un diverso tenore
di vita tra il Nord e il Sud.
L'improvvisa morte di Cavour (giugno 1861) ne rendeva anche più
difficile la soluzione.
Lo Stato unitario si costituiva inoltre centralizzato a scapito di
autonomie attese e senza riguardo alle tradizioni regionali. La
pressione dei radicali per il completamento dell'unità con il Veneto
e Roma, ispiratore Garibaldi, era forte e imponeva prese di
posizione impopolari (Aspromonte, 1862).
La questione romana del 1864 (convenzione di settembre) veniva
accantonata per riguardo a Napoleone III: quella del Veneto era
risolta, invero in modo insoddisfacente, inserendo l'Italia (1866)
nella tensione tedesca tra Prussia e Austria, con l'alleanza
italo-prussiana (anche per prevenire l'azione di forza progettata
dalla sinistra mazziniana con Garibaldi). La sola Venezia Euganea
era così annessa nell'ottobre 1866, sempre con plebiscito.
Anche la questione romana maturava in connessione con la situazione
internazionale, dopo il vano tentativo di ottenere da Pio IX la
cessione pacifica di Roma al nuovo Stato unitario con la controparte
di una politica ecclesiastica ispirata al principio enunciato da
Cavour di “libera Chiesa in libero Stato”. La caduta di Napoleone
III, protettore interessato del residuo di potere temporale dei
papi, permetteva all'esercito regio l'azione di forza di porta Pia
(20 settembre 1870). Questa soluzione militare doveva però attendere
a lungo quella politica del riconoscimento internazionale.
Pio IX infatti sospendeva il Concilio Vaticano I, si dichiarava
prigioniero e non più in grado di esercitare liberamente le sue
funzioni di reggitore della Chiesa universale, comminava nuovamente
la scomunica sugli “usurpatori” dello Stato Pontificio e rifiutava
per il contenuto, oltreché per il suo carattere unilaterale di
disposizione non negoziata, la “legge delle guarentige” (maggio
1871).
Questa, approvata non senza contrasti tra moderati e radicali,
intendeva salvaguardare le prerogative del pontefice romano e della
Santa Sede, mantenendo, per quanto riguardava le relazioni dello
Stato con la Chiesa, il placet e l'exequatur dello Stato alla nomina
di vescovi e parroci, lasciando inoltre sopravvivere le leggi
eversive delle istituzioni e proprietà ecclesiastiche, riservando la
nuova regolamentazione a ulteriore legge, che però non fu mai
impostata fino al 1925.