AVVERTENZA.
Questo volume, che fa seguito all'altro pubblicato or fa un anno
sotto il titolo di Politica Estera, non esaurisce la documentazione
dell'opera compiuta da Crispi nell'ufficio di Ministro degli Affari
esteri.
Su di una parte dell'attività prodigiosa di Lui ho creduto
opportuno sorvolare, su quella che spiegò a vantaggio degli
italiani dimoranti all'estero, sia proteggendoli dalle
sopraffazioni, sia moltiplicandone le scuole, sia sottraendo le
missioni cattoliche nazionali al protettorato di altra potenza. Non
ho potuto raccogliere una messe adeguata di documenti, ed
anzichè esporre incompiutamente questioni così
importanti, ho preferito, per ora, tacerne.
Sono belle pagine di energia fattiva, di alto sentimento di
dignità, di amore alla stirpe che mancano a questo libro.
Dall'elevato concetto che Crispi aveva della solidarietà
patria rampollava gagliarda la coscienza del dovere di tutela per
ogni italiano che si trovasse al di là dei confini d'Italia.
E gl'italiani lontani sentirono durante il governo di Lui di non
essere abbandonati al destino, e più vivo l'attaccamento alla
loro terra.
Le scuole nei paesi esteri, strumenti di cultura e di
nazionalità, ebbero da Crispi le maggiori cure. Le poche
esistenti quand'egli salì al potere erano affidate a
Corporazioni religiose, le quali non impartivano un insegnamento che
potesse soddisfarci e non permettevano ai nostri Consoli alcuna
efficace vigilanza; in qualche luogo, come in Tunisia, specialmente
durante la primazia del cardinale Lavigerie, erano esclusi da
scuole, che si dicevano italiane, anche i maestri italiani. Crispi
le tolse alle Corporazioni religiose che insegnavano a beneficio di
una influenza che non era la nostra, trasformandole in scuole
laiche, con metodi didattici moderni e con mezzi sufficienti
affinchè in Levante riconquistassero alla nostra lingua il
primato che vi ebbe una volta. E molte altre ne istituì ex
novo, vincendo ostilità d'ogni genere.
Nè trascurò nell'Oriente vicino ed estremo un altro
organo di propaganda italiana, i missionari di nostra nazione, i
quali, protetti dalla Francia quando l'Italia era divisa, dovevano
poter contare sulla loro patria unita e grande potenza. Crispi
considerando tutti i connazionali alla stessa stregua,
accordò protezione in Turchia a tutte le missioni italiane
che la richiesero, ed in Cina ottenne che non fossero ammessi i
missionari del nostro paese sprovvisti di passaporto italiano.
Ma sebbene in questo volume manchino così belle pagine, altre
ve ne sono straordinariamente interessanti nelle quali
troverà solido fondamento il giudizio definitivo sulla
concezione che Crispi ebbe della politica estera necessaria al
nostro paese e sugli accorgimenti coi quali applicò le sue
idee.
Allontanato dal potere nel 1891 e nel 1896, due volte alla vigilia
della scadenza della Triplice Alleanza, Francesco Crispi ebbe il
dolore di vedere isterilire il terreno che aveva lavorato con saldo
aratro e con lena infaticata.
Ma se i frutti dell'opera di Lui non furono raccolti, se l'influenza
acquistata all'Italia fu perduta, rimarrà ad onor suo e ad
insegnamento altrui il solco profondo, nè andrà
dispersa pei silenzi della storia la voce di questo Italiano per
eccellenza che agli italiani a venire, fusi nel bronzo
dell'unità e capaci d'intendere, griderà parole di
fede, di ardire, di gloria.
Roma, gennaio 1913.
T. Palamenghi-Crispi.
GERMANIA, ITALIA E FRANCIA.
Capitolo Primo.
Il cancelliere Caprivi e Crispi.
Leone di Caprivi annunzia a Crispi di avere assunto la direzione
degli affari politici della Germania. - Scambio di saluti e proteste
di fedeltà. - Caprivi viene in Italia per conferire con
Crispi. - Colloquii del 7 e dell' 8 novembre 1890.
Il 20 marzo 1890 Guglielmo II di Germania nominava Cancelliere
dell'Impero e Presidente del Ministero prussiano il generale
conte Leone di Caprivi, in sostituzione del principe Ottone
di Bismarck. Assumendo gli altissimi uffici il di Caprivi dirigeva
a Francesco Crispi, il quale dall'agosto 1887 reggeva il Ministero
degli Affari esteri d'Italia, la seguente lettera:
[Confidentielle]
«Berlin, le 3 avril 1890.
Monsieur le Président et cher collègue,
La volonté de mon Souverain m'a imposé la tâche
de prendre la direction des affaires politiques de l'Allemagne
après le plus grand ministre que ce pays ait jamais vu.
Amené depuis longtemps par la logique des choses comme par
mes inclinations à un sentiment de ferme sympathie pour le
groupement actuel des amitiés politiques, je m'étais
familiarisé avec l'idée d'avoir peut-être
à defendre ce principe en soldat, le jour où la
défense en serait devenue nécessaire.
Mais mon Auguste Maître en a décide autrement. Il m'a
appelé à collaborer avec les hommes d'état, qui
ont à coeur de défendre essentiellement par des moyens
pacifiques l'état des choses existant.
Puisqu'il en est ainsi, je Vous prie, Monsieur le Président,
de croire que, tant que je resterai dans ma position actuelle,
l'Empire d'Allemagne continuera sa politique sincère et
pacifique, sans s'écarter jamais du principe de rester en
toute circonstance l'ami de ses amis. C'est là la tâche
qui m'est prescrite par mon Souverain comme par ma conscience. A ce
titre je viens réclamer, pour le travail en commun qui est
devant nous, la confiance de Votre Excellence. La mienne est acquise
de longue date au ministre éminent que ma patrie est heureuse
d'appeler son ami.
Je Vous prie, Monsieur le Président et cher collègue,
d'agréer l'expression franche et cordiale des sentiments de
haute estime de
Votre tout dévoué
von Caprivi.»
A questo saluto rispondeva Crispi:
[Confidentielle]
«Rome, 7 avril 1890.
Monsieur le Chancelier et cher Collègue,
J'ai reçu la lettre, que vous avez bien voulu m'adresser en
date du 3 courant pour m'apprendre dans quel esprit vous avez
accepté l'héritage du grand homme d'Etat, dont la
volonté de l'Empereur, votre auguste maître, vous a
donné la succession.
Je vous remercie de la franchise cordiale avec laquelle vous m'avez
ouvert votre pensée.
Je connaissais en vous le vaillant soldat, le Général
habile, l'administrateur expérimenté; je suis heureux
de connaître l'homme politique, et de constater en lui des
sentiments conformes à ceux qui m'animent moi-même.
Les principes de politique générale qui vous
inspirent, sont tels que vous pouvez compter sur mon concours loyal
pour les faire triompher. De même qu'avec le prince de
Bismarck, je travaillerai consciencieusement avec vous au maintien
de la paix. Mais si, par malheur, le jour devait venir où
l'Italie et l'Allemagne, attaquées, se trouvassent dans la
pénible nécessité de se défendre, vous
me verriez aussi, à l'exemple du Roi, mon souverain, et
d'accord avec la Nation italienne toute entière, prêt
à remplir dignement et jusqu'au bout le devoir qui nous
serait imposé.
C'est dans cet ordre d'idées que je me déclare heureux
d'entrer en collaboration avec vous pour assurer, autant qu'il est
en nous de le faire, le bonheur et la prospérité des
deux Dynasties et des deux peuples que nous servons.
Veuillez agréer, monsieur le Chancelier et cher
Collègue, l'expression sincère et cordiale des
sentiments de haute estime de
Votre tout dévoué
F. Crispi.»
Questa lettera, presentata personalmente al nuovo Cancelliere
dall'ambasciatore d'Italia, conte De Launay, fece la migliore
impressione. «Egli l'ha letta in mia presenza - scriveva il De
Launay - ed ha manifestato vivissima soddisfazione pel suo contenuto
che si accorda perfettamente col suo modo di vedere e con
gl'interessi reciproci degli Stati che formano la Triplice Alleanza,
il cui programma è diretto essenzialmente al mantenimento
della pace. Egli si è compiaciuto di osservare che ad un
novizio come lui in materia di politica estera era prezioso il
concorso di un uomo di Stato così illustre e sperimentato
come il primo Ministro d'Italia.»
Il generale di Caprivi era un uomo grandemente stimato in tutta la
Germania. Nella guerra franco-prussiana aveva dimostrato scienza
militare e doti eccezionali di carattere che erano state
riconosciute e premiate con la Croce di ferro di prima classe e con
l'Ordine Pour le mérite. Nella direzione dell'Ammiragliato,
assunta nel 1883, aveva reso servizi preziosi migliorando con mezzi
esigui il materiale e con tenacia prussiana l'organizzazione della
Marina da guerra.
Però, in politica il nuovo Cancelliere era una incognita.
Egli aveva certamente le sue idee, ma non le aveva mai manifestate
pubblicamente, e nei cinque anni ch'era intervenuto alle sedute del
Reichstag sua cura costante era stata quella di rimanere fuori dalle
lotte dei partiti e di tenersi sul terreno tecnico.
Si può avere alta intelligenza e vasta cultura, possedere
anche facoltà d'iniziativa in taluni campi d'azione, ed
essere inadatto al governo politico. L'Imperatore, scegliendo, tra i
molti candidati alla successione di Ottone di Bismarck, il generale
di Caprivi, giuocò d'azzardo, non avendo alcun dato per
presumere che quest'ultimo sarebbe riuscito nell'ardua missione.
In luglio, il conte di Caprivi fece manifestare a Crispi il
desiderio di fargli visita in Italia. All'ambasciatore a Berlino, De
Launay, Crispi telegrafava l'11 di quel mese:
«Il conte di Solms al suo ritorno da Berlino, portandomi i
saluti di S. E. il conte Caprivi, mi espresse il di lui desiderio di
venire in Italia per abboccarsi con me. Risposi all'ambasciatore
germanico, che io era lietissimo del gentile pensiero del Gran
Cancelliere, ch'egli sarebbe il benvenuto tra noi, e che io sarei
fortunato di averlo ospite in casa mia, o qui od a Napoli, dove a S.
E. sarebbe più comodo od opportuno.»
Si trattava di stabilire l'epoca di cotesta visita. I primi mesi di
cancellierato erano per il generale di Caprivi singolarmente
operosi, e l'allontanarsi da Berlino gli era difficile. In una
lettera del 1.° ottobre il conte De Launay riferiva a Crispi di
aver avuto un colloquio col Cancelliere, nel quale questi gli aveva
confermato
«il suo vivo desiderio e la sua ferma intenzione d'incontrarsi
in Italia con Vostra Eccellenza. Il ritardo è dovuto a
circostanze estranee alla sua volontà. Sinora si è
allontanato da Berlino soltanto per accompagnare l'imperatore a
Narva e alle grandi manovre nella Slesia. Ma è tale la
quantità degli affari che deve esaminare per adempiere nel
miglior modo possibile alle sue nuove funzioni, che per il momento
non può realizzare il suo progetto di un viaggio al di
là delle Alpi. Egli, tra l'altro, non ha ancora potuto
restituire le visite, fattegli quando assunse il potere, dai
ministri della Baviera e del Würtemberg. Il generale di Caprivi
aggiungeva che il ritardo involontario aveva il vantaggio di
lasciargli il tempo per mettersi al corrente delle questioni che
interessano i due Stati e per potere quindi meglio discorrerne con
Vostra Eccellenza.»
Crispi ritornava il 20 ottobre sull'argomento di questa visita dopo
avere ricevuto, da parte dell'Ambasciata germanica a Roma, un'altra
comunicazione analoga alla precedente:
«Sento - scriveva al conte De Launay - che S. E. ha dovuto
ritardare l'esecuzione del suo progetto per ragioni di pubblico
servizio. Se le condizioni politiche dell'Italia e le prossime
elezioni generali non esigessero la mia permanenza nel Regno, mi
sarei avvicinato io stesso alla Germania ed avrei risparmiato a S.
E. un incomodo viaggio. Il governo della cosa pubblica mi inceppa, e
se S. E. potesse nello scorcio di questo mese o nei principii del
novembre recarsi a Milano dove io sarei pronto a raggiungerla,
potremmo nell'interesse delle due monarchie, le quali ambidue con
onore serviamo, avere uno scambio di idee utili e prendere delle
deliberazioni giovevoli alle due nazioni.»
Il Cancelliere germanico avendo risposto che tra il 1.° e il 10
novembre era a disposizione del suo collega italiano, questi
telegrafò il 22 ottobre al De Launay:
«Dica al signor Cancelliere che sarò felice di
riceverlo in Milano il 7 novembre1.»
Il Cancelliere germanico giunse a Milano nel giorno fissato. Fu
ricevuto cordialmente da Crispi, dalle autorità e dalla
popolazione della grande città che visitò con la guida
del Sindaco; l'indomani, 8 novembre, fu invitato a Monza dal Re
Umberto, il quale dette un pranzo in suo onore e gli conferì
l'ordine supremo della Ss. Annunziata. Il Caprivi ispirò
subito in Crispi simpatia e fiducia. Aveva statura e forme
gigantesche, fisionomia severa, ma aperta, sguardo sereno sotto
sopracciglia foltissime che ricordavano quelle di Bismarck. Dei due
colloqui segreti che ebbe con Crispi, questi conservò
memoria, siccome soleva, nelle seguenti note del suo Diario:
«Dopo la colazione (una pom.) Caprivi ed io siamo entrati nel
suo salotto per uno scambio d'idee.
Ricordai che il 30 maggio 1892, cioè da qui a 18 mesi scade
il trattato di alleanza delle tre Monarchie. Soggiunsi,....
Necessario rivedere.... se vi ha altro da aggiungere. Dovrò
credere che il governo tedesco vorrà rinnovare il trattato
per un altro periodo di anni.
La triplice alleanza giova ai governi che la firmarono ed assicura
la pace d'Europa. Ora, noi essendo interessati alla garanzia
territoriale dei tre paesi ed alla pace d'Europa, dobbiamo volere la
continuazione dell'alleanza.
Il conte Caprivi dichiarò che era pienamente d'accordo con
me, e, quasi a conferma, mi strinse la mano. Era lieto poter essere
d'accordo con me, e promise di occuparsi del trattato.
Allora ricordai che al 1887, con uno scambio di note, avevamo
associato la Spagna. Il duca di Vega de Armijo non curò le
prese intelligenze, nè curò di alimentarle. Oggi
essendo ritornato al potere il duca di Tetuan, amico nostro, bisogna
ripigliare le pratiche e rendere più stretti i vincoli con la
Spagna.
Le tre grandi potenze alleate si devono interessare delle altre
minori Monarchie e difenderne le istituzioni. Per lo che sarebbe
pure necessario di trovar modo di comporre la vertenza tra
l'Inghilterra ed il Portogallo.
La Spagna ed il Portogallo sono minati dagli emissarii repubblicani,
e non sono abbastanza forti per resistervi. Bisogna che la Spagna
riordini la sua marina militare, e possa esserci di aiuto nel
Mediterraneo e fare, quando ne fosse il caso, un colpo
sull'Algerìa. Così il Corpo di esercito francese che
siede colà si troverebbe impegnato. Inoltre un esercito
spagnuolo al di là dei Pirenei e pronto a varcarli,
immobilizzerebbe un corpo di truppe francesi.
La propaganda repubblicana in quei paesi è attiva. I francesi
fanno altrettanto in Italia.
- Non l'avrei creduto.
- La fanno anche in Italia, ma il nostro paese vi resiste. La
grandissima maggioranza della nostra popolazione è
conservatrice. Il paese è monarchico. La propaganda
repubblicana pei francesi è una necessità. Pel governo
di Parigi è una quistione di vita. Avvenne lo stesso sotto la
prima repubblica. Ma allora lo stato dell'Europa era diverso. Non vi
erano i due grandi Stati al di qua delle Alpi e al di là del
Reno, l'Italia e la Germania. Bisogna dunque tenerci stretti, e
difendere le istituzioni che ci siamo date.
- Sono pienamente d'accordo con V. E. e lavorerò insieme per
la difesa dei principii monarchici.
- Bismarck fece delle grandi cose, e il vostro paese deve
essergliene grato. Ma commise un gravissimo errore; quello di non
aver favorito la restaurazione della Monarchia in Francia. Egli
credeva che la Repubblica sarebbe stata rôsa dai partiti e non
sarebbe stata forte abbastanza. Avvenne tutto il contrario; giammai
la Francia fu forte come oggi.
- La stessa osservazione me la fece l'imperatore di Russia.
- Bisogna opporre alla propaganda repubblicana tutti i mezzi dei
quali possono disporre le Monarchie. La Francia avrà fra
breve una nuova tariffa doganale. Questa offenderà
grandemente noi, perchè con essa potranno esser chiusi i
mercati francesi ai nostri prodotti agricoli. Ne sarete colpiti
anche voi. Pel trattato di Francoforte voi godete i beneficii della
nazione favorita. Esiste cotesta condizione, quando esistono tariffe
convenzionali; cessa, quando mancano i trattati. Ora la Francia va a
denunziare tutti i trattati, e va ad applicare a tutte le nazioni
una tariffa autonoma. È una minaccia di guerra, guerra
economica, non meno terribile della guerra coi fucili e le
artiglierie. Giova prepararsi a rispondere, ed io credo che lo si
potrà. Non dico di fare una lega doganale fra le tre potenze
alleate: questa non sarebbe di facile attuazione. Puossi però
studiare un sistema di tariffe di favore mercè cui si
rendessero più facili i commerci, più strette le
relazioni. Sarebbe necessario che alla lega militare e politica si
aggiungesse questa lega economica, la quale, senza offendere
l'autonomia dei tre Stati, li rendesse talmente forti da resistere
alla Francia. Io proporrei che i tre governi dessero a studiare la
grave quistione ad uomini tecnici. Compiuti gli studii, ognuno di
noi nominerebbe due delegati ciascuno, i quali, riuniti,
concreterebbero le proposte che converrà tradurre in un
trattato.
- Trovo savie le considerazioni di V. E. e farò studiare il
grave argomento, e avvertirò V. E. dei risultati.
La conversazione continuò su cose di minore importanza, e ci
siamo congedati con espressioni sincere di cordiale amicizia.
8 novembre. - Alle 11 ant. il conte Caprivi viene a restituirmi la
visita. Siamo ritornati sugli argomenti toccati nel colloquio di
ieri.
Biserta. Muta lo stato del Mediterraneo. Pericoli in caso di guerra.
Caprivi ne comprende l'importanza. Obietta che il reclamo potendo
condurre ad una rottura con la Francia, è necessario
attendere. In aprile, compiendosi la trasformazione dei fucili, si
potrà iniziare il reclamo.» #/
Il Cancelliere partì da Milano il 9 novembre, soddisfatto
delle accoglienze ricevute e dei risultati della sua visita.
L'ambasciatore d'Italia a Berlino, tre giorni dopo, il 12
novembre, inviava a Crispi il seguente rapporto:
«Il Cancelliere dell'Impero è venuto a vedermi in
questo momento. Confermandomi ciò che avevo già
appreso ieri al Dipartimento Imp.le degli Affari Esteri, egli era
profondamente commosso e riconoscente per le bontà del Nostro
Augusto Sovrano e per l'alta distinzione che gli fu conferita da Sua
Maestà. Egli era pure assai soddisfatto dei colloquii avuti
con V. E. dichiarandosi completamente d'accordo in massima sopra gli
argomenti circa i quali vi fu scambio d'idee, tanto sotto l'aspetto
politico, quanto sotto l'aspetto commerciale. S. E. si era
affrettata di far rapporto all'Imperatore della missione compiuta.
Sua Maestà Imperiale manifestò viva soddisfazione di
constatare una volta di più che le relazioni fra l'Italia e
la Germania sono e resteranno sul miglior piede a tutto vantaggio
della triplice alleanza e del principio monarchico. Il Cancelliere
mi pregò di rendermi interprete dell'eccellente impressione
riportata da questo suo viaggio e di ringraziare per tutte le
cortesie di cui fu colmato alla nostra Corte e da V. E. Egli ha solo
rammarico che le esigenze di servizio l'abbiano costretto ad
abbreviare il suo soggiorno in Italia. Il Cancelliere si
dimostrò pure assai grato dell'accoglienza che gli fu fatta
dalla popolazione di Milano e dalle Autorità
municipali.»
Naturalmente, della sostanza dei colloqui di Milano fu informato il
Cancelliere austro-ungarico conte Kálnoky, per mezzo
dell'ambasciatore imperiale a Roma barone de Bruck, e
dell'ambasciatore reale a Vienna, conte Nigra. Quest'ultimo
telegrafava in data 1.° dicembre:
«Kálnoky mi ha pregato di ringraziare V. E. per la
comunicazione da lei fatta a Bruck, i cui particolari gli furono
confermati da Reuss e Caprivi. I due argomenti saranno studiati ed
esaminati a suo tempo. Oggi cominciano le conferenze commerciali fra
Austria-Ungheria e Germania. Da esse si vedrà se, e sino a
che punto, i due imperi possano procedere sempre meglio d'accordo
fra loro e preparare via a una intesa fra i tre Stati alleati sul
terreno economico.»
Tra lo stesso Conte Nigra e Crispi seguiva la seguente
corrispondenza:
«4 dicembre 1890.
Mio caro Sig. Conte,
Adempio con ritardo - ed ella ne comprenderà il motivo - alla
promessa fattale con mio telegramma del 18 novembre da Torino.
Nei colloquii, tenuti il 7 e l'8 novembre, Caprivi ed io ci siamo
occupati della Triplice, tanto dal lato politico, quanto dal lato
economico e commerciale. Siamo riusciti d'accordo in tutto; e parmi
che basti, senza ricordare qui i nostri ragionamenti, scrivere per
lei sulle varie tesi il concluso.
Nissun dubbio che l'alleanza delle tre monarchie debba essere
prorogata. Nissuno di noi può credere che nel maggio 1892 le
condizioni politiche dell'Europa possano essere mutate. Le ragioni,
per le quali il trattato fu stipulato al 1882 e rinnovato al 1887,
è a prevedersi che saranno le medesime.
Giova apportarvi qualche modificazione, e qualche aggiunta? È
quello che si deciderà dai tre governi, i quali han tempo
ancora a meditarvi. Una cosa intanto appare evidente..... Il conte
di Caprivi su questo fu meco d'accordo.
Fummo anco d'accordo sulla necessità di migliorare le
condizioni commerciali dei tre Stati, stipulando dei favori speciali
che ne rendano più facili le relazioni, e talmente intimi i
vincoli da resistere alla guerra che potrebbe venirci dalla Francia,
qualora la nuova legge doganale uscisse così aspra da quel
Parlamento da non permetterci di venire a patti. Non una lega
doganale si vorrebbe fra i tre Stati, ma una maggiore mitezza nei
dazii d'importazione.
Ciò posto, siam rimasti intesi che i tre governi metterebbero
allo studio le varie questioni, che il grave argomento comprende.
Quando gli studii saran terminati, affideremo a delegati speciali,
che potrebbero esser due per ciascuno Stato, l'esame del problema e
le proposte per la sua soluzione.
Finchè la Francia è in repubblica - ed ormai questa
forma di governo colà sembra consolidata - essa sarà
sempre una minaccia per le monarchie in Europa. La Russia deve
capirlo, essendo ormai Parigi l'asilo dei nihilisti - e le due
penisole, l'Italiana e l'Iberica, lo sanno per la propaganda morale
e gli aiuti finanziari dati ai partiti sovversivi dal governo del
finitimo territorio.
Noi in Italia siamo abbastanza forti: il sentimento monarchico nelle
nostre popolazioni è profondo, e resiste all'apostolato
rivoluzionario. Ci battiamo e non ci faremo vincere. Non bisogna
però nascondere a noi stessi che il Vaticano accenna a
valersi dei radicali, e si è visto nelle ultime elezioni. Il
cardinale Lavigerie, nella sua nuova fase, lavora d'accordo col
Papa. I cardinali in parte dissentono, ed anche il clero francese
non è compatto; ma ignoriamo quello che ne potrà
avvenire più tardi.
Le monarchie pericolanti sono la portoghese e la spagnuola, e la
prima più della seconda. Ove esse cadessero, e a Lisbona e
Madrid la repubblica fosse proclamata, nissun dubbio che codesto
sarebbe il principio di una trasformazione politica, che la Francia
è interessata ad apportare in Europa. I tre governi alleati
dovrebbero meditare sul possibile avvenimento, comunicarsi le loro
idee, ed agire, ove d'uopo, nelle vie diplomatiche.
Il conte di Caprivi si disse convinto di ciò, e promise di
procedere d'accordo.
Stabiliti gli argomenti che importa meditare e determinati i
criterii secondo i quali i governi delle tre monarchie alleate
dovrebbero condursi, resta a Lei, signor conte, di ragionarne con
codesto ministro degli affari esteri, prendere con lui gli accordi
necessarii, e manifestarmi le sue intenzioni. La lunga esperienza
dell'E. V. supplirà alle lacune che può presentare
questa mia lettera, affinchè si possano raggiungere gli scopi
che io mi son prefisso, e nei quali è consenziente il
Cancelliere germanico.
E dopo ciò accolga i miei più cordiali saluti.
Devotissimo
F. Crispi.»
«Vienna, 10 dicembre 1890.
Le confermo mio precedente telegramma. Esposi a Kálnoky il
contenuto della lettera. Egli d'accordo in massima con V. E. e
Caprivi,
Quanto alle questioni commerciali prevede un intoppo nell'articolo
XI del Trattato di Francoforte2. Chiede tempo per studiare le due
questioni. Intanto si vedrà fra non molto su quali basi si
potranno fare concessioni commerciali fra l'Austria-Ungheria e la
Germania, il che faciliterebbe la soluzione anche per l'Italia.
Nell'esame delle due questioni Kálnoky apporterà vivo
desiderio d'accordo completo. Divide poi l'opinione di V. E. sulla
convenienza di una direzione diplomatica uniforme per la difesa
delle istituzioni monarchiche.
Nigra.»
[Telegramma]
«Roma, 15 dicembre 1890.
Il barone de Bruck mi ha letto una nota del conte Kálnoky con
la quale dichiara che il ministro austriaco è meco d'accordo
in tutte le quistioni le quali furono oggetto del colloquio col
conte Caprivi e che riassunsi a Lei con mia particolare del 4
corrente. Chiede intanto che io concreti le mie idee sulle
modificazioni alla convenzione del 1887, il che sarà fatto.
Discorrendo col Bruck intorno al miglioramento delle relazioni
commerciali ed economiche, si cadde d'accordo sulla necessità
della proroga, di un anno almeno, del diritto alla denunzia del
trattato 7 dicembre 1887, affinchè le due parti avesser agio
a studiare la grave quistione. Bruck scrive oggi stesso a cotesto
scopo a Kálnoky affinchè fosse autorizzato ad uno
scambio di note. Voglia parlargliene e fare le debite
sollecitazioni, stringendo il tempo e dovendo io rispondere ad
interpellanze parlamentari sull'argomento.
Crispi.»
[Telegramma]
«Vienna, 16 dicembre 1890.
Ho vivamente impegnato Kálnoky allo scambio di note per
proroga di un anno del diritto di denunzia del trattato di
commercio. Kálnoky consente pienamente con V. E.; ha subito
telegrafato a Pest ed ha fatto la proposta al Ministero austriaco
d'agricoltura e commercio. Egli crede che non vi sarà
ostacolo, ma forse bisognerà sottomettere scambio di note
alla sanzione del Parlamento, che secondo Kálnoky potrebbe
essere data anche dopo il dicembre.
Kálnoky mi ha promesso che non porrà indugio alla
soluzione ed io lo solleciterò più che posso.
Nigra.»
Capitolo Secondo.
La Tripolitania e la Francia.
La Triplice Alleanza e gl'interessi italiani nel Nord-Africa. - La
Francia sulla frontiera tripolo-tunisina sino al 1890. - Una memoria
del generale Dal Verme sul confine storico tra la Tunisia e la
Tripolitania. - L'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890. -
Rimostranze di Crispi presso il governo inglese. - Nota di Said
pascià su l'hinterland tripolitano. - Come si potevano
impedire le ulteriori usurpazioni della Francia. - Crispi e il
governo francese; questo nega di aver delle mire sulla Tripolitania.
- Una nuova carta francese dell'Africa. - Dichiarazioni del ministro
Ribot alla Camera. - Protesta di Crispi. - Stato della questione al
1894. - La convenzione franco-germanica. - La Francia tenta
avanzarsi nel Sudan egiziano. - Fascioda. - Nuovi accordi
anglo-francesi a danno dell'hinterland tripolitano. - L'Italia
rinunzia senza compensi ai suoi diritti in Tunisia. - L'accordo
franco-italiano del 1902. - L'opera di Crispi nel Marocco. -
L'occupazione italiana della Tripolitania e un cattivo presagio.
Dai documenti che precedono - i quali, per quanto si riferisce alle
precise stipulazioni della alleanza dell'Italia con la Germania e
con l'Austria, sono necessariamente reticenti, un dovere elementare
vietandoci di rivelare segreti di Stato - si deduce tuttavia quali
fossero, alla fine del 1890, gli obiettivi della politica estera di
Crispi. Il trattato d'alleanza non era lontano a scadere;
l'esperienza aveva dimostrato che se esso garentiva la pace,
l'Italia era esposta per questo beneficio comune alle tre potenze, a
sopportare da sola i danni della guerra accanita che la Francia le
faceva nel campo economico e, fuori d'Europa, anche nel campo
politico. La teoria che i rapporti economici e i rapporti politici
non debbano influirsi scambievolmente, non poteva convenirci
perchè era innegabile che a cagione dell'alleanza noi
subivamo danni ingenti dalla ostilità francese, con la
rottura delle relazioni commerciali e coi colpi incessanti al nostro
credito internazionale.
Crispi aveva dimostrato al Cancelliere germanico che le grandi
alleanze politiche non possono essere limitate a categorie
d'interessi e che il trattato della Triplice per arrecare tutti i
suoi benefici doveva comprendere, oltre la garenzia territoriale, la
difesa d'ogni interesse essenziale di ciascuno degli alleati nelle
complesse relazioni della vita internazionale. E il generale Caprivi
aveva aderito a tali vedute e domandato che il ministro italiano
concretasse le sue proposte.
Ma l'argomento sul quale Crispi richiamò più vivamente
l'attenzione del suo collega, come quello che racchiudeva un
pericolo imminente e grave per l'Italia, fu la condotta della
Francia nel Nord-Africa.
Crispi aveva nei mesi precedenti denunciato ai gabinetti di Londra,
Berlino e Vienna il progetto francese di convertire nell'annessione
il protettorato sulla Tunisia, ed era riuscito a promuovere le
rimostranze delle tre Potenze a Parigi contro quel progetto3. Ma
egli non s'illudeva sulla efficacia duratura di una pressione
diplomatica e cercò di giovarsi senza indugio di questa per
ottenere dalla Francia una maggiore considerazione degli interessi
italiani. Posto che prima o poi la Francia si sarebbe resa padrona
della Tunisia, Crispi pensò di trarre vantaggio da un evento
ineluttabile, transigendo sui diritti garentiti dai trattati che
l'Italia vantava nell'antica Reggenza. Il compenso non poteva essere
che il dominio italiano sulla Tripolitania.
Le difficoltà però non erano lievi. I francesi
aspiravano essi a estendersi ad oriente. Come avevano occupato la
Tunisia col pretesto di assicurarsi il pacifico possesso
dell'Algeria, l'occupazione della Tripolitania avrebbe dovuto
assicurare il possesso della Tunisia, e l'impero francese nel
Mediterraneo sarebbe stato un fatto compiuto. Le prove che queste
aspirazioni imperialistiche erano entrate nel programma positivo del
governo, non mancavano.
L'accordo anglo-francese, che porta la data del 5 agosto 1890, per
la delimitazione delle sfere d'influenza della Francia e
dell'Inghilterra in Africa, dimostrò chiaramente il piano
della Francia d'insignorirsi dell'hinterland della Tripolitania.
Quell'accordo rappresentò il corrispettivo che
l'Inghilterra dava alla Francia pel riconoscimento che questa faceva
del protettorato inglese sullo Zanzibar - e fu ventura che lord
Salisbury resistesse alle pretese francesi di concessioni a Tunisi.
Probabilmente il Primo ministro della Regina avrebbe ceduto se
Crispi, appoggiato dalle Cancellerie di Berlino e di Vienna, non
avesse fatto a Londra vive rimostranze. Egli fece dire al Salisbury
«che il governo del Re, nelle varie occasioni presentatesi per
discorrere delle cose di Tunisi fra Roma e Londra, credeva essersi
accorto che nel gabinetto inglese esistesse una tendenza a fare
delle concessioni alla Francia a scapito d'interessi italiani che
l'Italia riteneva comuni coll'Inghilterra e sui quali nè il
governo italiano intendeva transigere, nè l'opinione pubblica
lo avrebbe permesso; che, in conseguenza di ciò, era
nell'interesse del mantenimento e sviluppo delle intime relazioni
fra i due paesi, sul quale riposava principalmente la pace europea,
che l'Italia doveva far conoscere al governo inglese che non sarebbe
disposta a seguirlo in una via che conducesse a modificare
politicamente o materialmente lo statu-quo nella Tunisia a favore
della Francia.»
Allorquando la Francia occupò la Tunisia, nel 1881, la linea
frontiera fra la Tripolitania e la Reggenza di Tunisi passava ad
ovest della baia di El Biban, sul mare. Se ne ha facilmente la prova
consultando le carte francesi più autorizzate, quella dei
Signori Prax e Renou, e quella del «dépôt de la
guerre» con le osservazioni del capitano di vascello Falbe.
L'occupazione francese non era ancora un fatto compiuto che
l'attenzione dell'esercito d'occupazione si volgeva verso la
frontiera tripolitana.
Durante i mesi di agosto e settembre 1881, tre spedizioni militari
si diressero simultaneamente verso il sud-est tunisino. I generali
Logerot, Philibert, Jamais comandavano i tre corpi di spedizione. Il
primo aveva ai suoi ordini circa 13000 uomini. La sua marcia non fu
scevra di difficoltà; fu ostacolata presso Fum-el-Bab dalla
tribù degli Slass, ma dopo un combattimento vittorioso il
generale Logerot arrivò a Gafsa e la occupò. Da Gafsa
cotesto generale si diresse verso Gabes, dove ebbe luogo la riunione
dei tre corpi di spedizione. Egli percorse tutto il sud della
Tunisia, senza tuttavia - cosa importante a rilevarsi - oltrepassare
lo Uadi-Fessi.
In seguito a questa spedizione, le tre grandi tribù tunisine
degli Slass, Hamamma, Beni-Zid con altre dissidenti delle vicinanze
di Sfax, complessivamente circa 260000 persone, passarono sul
territorio tripolitano sotto il comando supremo di Ben Khalifa, il
capo che aveva organizzato la difesa di Sfax. Cotesti ribelli
costituivano, presso la frontiera tunisina, un focolare permanente
di rivolte e di torbidi.
Il governo francese si preoccupò di questo pericolo e tutti i
suoi sforzi furono da allora diretti a favorire la pacificazione dei
ribelli e il loro ritorno in Tunisia. Il Console Generale di Francia
a Tripoli, Féraud, e il generale Allegro, soprannominato
Jusef Negro - che i francesi avevano fatto nominare dal Bey
governatore della provincia di Arad in ricompensa dei servizi resi
nel tempo dell'occupazione - si adoperarono a raggiungere tale
risultato, e a poco a poco vi riuscirono.
Nel mese di aprile 1885, il Féraud era sostituito a Tripoli
dal Destrées, il quale continuò a seguire la linea di
condotta del suo predecessore e facilitò il ritorno in
Tunisia degli ultimi dissidenti.
In grazia di questo felice risultato la Francia poteva oramai
avanzare verso l'Est.
Nel mese di maggio del 1885 il Ministro residente di Francia a
Tunisi, Cambon, visitò il sud della Tunisia. Oltrepassando la
frontiera egli si avanzò sino all'Oglad Djemilia. Più
tardi, nel mese di luglio del 1887, egli dichiarò al nostro
ministro a Madrid, marchese Maffei, che quell'escursione gli aveva
permesso di convincersi che la vera frontiera della Tunisia è
l'Uadi-Mochta. Il nome del largo torrente al quale il Cambon dava il
nome di Uadi-Mochta era stato sino allora quello di Uadi-Sigsao,
mentre in arabo «mochta» significa
«frontiera».
Nel mese di ottobre 1886 tre navi francesi si presentavano sulla
costa tripolina fermandosi presso il capo Macbes, donde cominciarono
a fare i rilievi delle coste vicine. Il governatore generale di
Tripoli, avvertito, inviò sui luoghi una corvetta turca sotto
gli ordini del comandante la stazione marittima di Tripoli. Cotesto
ufficiale superiore chiese al comandante francese con qual diritto e
con quali intenzioni procedesse ai rilievi di una costa appartenente
alla Turchia. Il comandante francese eccepì la propria
ignoranza: egli credeva di rilevare una costa tunisina, della quale
doveva fare la carta idrografica. Il turco avendo insistito
nell'affermazione che la costa era tripolitana, le navi francesi si
ritirarono, lasciando tuttavia eretta, a Ras Tadjer o Adjir, una
colonna in muratura. Il Console Generale di Francia, signor
Destrées, poco dopo si presentò al Governatore
Generale di Tripoli e gli chiese per quali motivi il Comandante
turco avesse imposto al Comandante francese di allontanarsi dal capo
Macbes. Il Governatore Generale dette le spiegazioni richiestegli,
alle quali il Console di Francia oppose che la proprietà del
punto del quale si trattava era dubbia.
Nel mese di dicembre 1887, il Bollettino della Società di
Geografia di Parigi annunciava che un accordo era stato concluso tra
la Turchia e la Francia per la delimitazione della frontiera
tripolo-tunisina, e che la nuova frontiera era portata a Ras Tadjer,
a 32 chilometri al di là dell'antica demarcazione. Il Governo
del Re comunicò immediatamente questa notizia
all'ambasciatore d'Italia a Costantinopoli, Blanc, il quale si
recò tosto dal Gran Visir. Il Gran Visir smentì
perentoriamente l'esistenza della pretesa convenzione e
dichiarò inammissibile che la Turchia, la quale non
riconosceva il protettorato francese sulla Tunisia, potesse entrare
in pourparlers colla Francia circa una delimitazione della frontiera
tunisina. L'indomani il Sultano faceva al barone Blanc una
dichiarazione non meno categorica: Sua Maestà assicurava che
non avrebbe tollerato nè lo spostamento della frontiera, di
cui parlava il Bollettino della Società francese di
Geografia, nè alcun accordo che potesse implicare il
riconoscimento del protettorato francese a Tunisi. Secondo il
Sultano, gl'intrighi e le informazioni francesi non avevano altro
scopo che quello di spingere l'Italia a impegnarsi in una
«questione tripolitana».
Le medesime notizie continuavano a stamparsi sui giornali e
l'ambasciatore italiano a Costantinopoli insistè di nuovo
presso la Sublime Porta e ottenne da Said pascià, allora Gran
Visir, che l'ambasciatore del Sultano a Parigi, Essad pascià,
fosse incaricato di chiedere al governo della repubblica il richiamo
del generale Allegro e la smentita categorica di qualsiasi
modificazione di frontiera.
Verso la stessa epoca il Governo ottomano aveva deciso di cacciare
dalla Tripolitania la frazione degli Uargamma, che erasi stabilita
nella regione situata tra le antiche frontiere della Tunisia,
regione denominata Giufara el Garbia e che è tra le
più fertili e le più ricche di pascoli della
Tripolitania. La presenza di cotesti tunisini nel territorio
tripolitano poteva fornire alla Francia un pretesto per pretendere
che cotesto territorio appartenesse alla Reggenza di Tunisi,
dacchè una tribù tunisina vi si era pacificamente
stabilita e vi faceva atto di proprietà.
Una spedizione partì da Tripoli sotto gli ordini del generale
di brigata Mustafà pascià. Il corpo di spedizione si
componeva di 1400 uomini, dei quali 800 di fanteria, 320 cavalieri,
il resto di artiglieria. Ma si arrestò a Zuara e non
andò oltre. Il generale, a mezzo d'intermediarii, fece
intimare ai capi degli Uargamma l'abbandono del territorio
abusivamente occupato, concedendo loro di stabilirsi, se lo
volessero, nelle grandi Sirti. Gli Uargamma, poco curandosi della
intimazione ricevuta, si stabilirono in parte a Gibel Nalut, in
parte a Djemilia, restando così sul territorio tripolitano.
Il Console di Francia a Tripoli, avvertito ufficialmente della
spedizione dal valì, si affrettò a informarne il
Residente francese a Tunisi. Una commissione composta del segretario
generale della Residenza e del segretario francese per gli affari
indigeni, partì tosto su di una nave da guerra per
raggiungere a Zarzis il generale Allegro che l'aveva preceduta.
Costui, sulla fede di informazioni inesatte, ovvero con lo scopo di
prevenire un fatto possibile, aveva avvertito il Destrées di
una pretesa marcia di Mustafà pascià sopra Djemilia.
Il Console si presentò al valì e non senza emozione,
vera o finta, gli domandò se la notizia fosse esatta.
Aggiunse che Djemilia apparteneva alla Tunisia e dichiarò che
qualsiasi altro tentativo da parte della Turchia sarebbe stato
considerato dalla Francia come un casus belli. Il valì,
intimidito, si affrettò a rassicurare il signor
Destrées circa la falsità della notizia, affermando
tuttavia nuovamente i diritti incontestabili della Turchia su
Djemilia, come appartenente alla tribù tripolitana degli
Huail.
Il 31 dicembre 1887 l'ambasciatore d'Italia a Costantinopoli
interrogò di nuovo il gran visir per conoscere con precisione
le intenzioni della Turchia. In un promemoria mandato a
Photiadès pascià, ambasciatore del Sultano a Roma, la
Sublime Porta spiegò le sue vedute. L'ambasciatore italiano
aveva fatto osservazioni su quattro punti:
1. La Porta, malgrado le macchinazioni francesi, non aveva occupato
l'antica linea di confine della Tripolitania, nè aveva
inviato colà degli ufficiali commissari;
2. La Porta non aveva domandato la sconfessione ufficiale e pubblica
delle carte dello Stato maggiore francese;
3. La Porta non aveva dichiarato pubblicamente che il territorio ad
est di El-Biban era e resterebbe tripolitano;
4. La Porta non aveva domandato l'allontanamento del generale
Allegro, sebbene suggerito dal valì.
Il governo ottomano rispose che non sapeva spiegarsi la prima
osservazione, giacchè le autorità imperiali della
provincia non avevano giammai abbandonato un solo dei punti posti
sotto la loro amministrazione, la qual cosa rendeva inutile l'invio
sui luoghi di commissari speciali.
In secondo luogo il governo ottomano aveva creduto superfluo
domandare la sconfessione ufficiale e pubblica della carta dello
Stato maggiore francese, dopochè il Ministero degli Affari
Esteri di Francia, precedentemente interpellato, aveva dichiarato di
ignorarne l'esistenza (!) e aveva soggiunto che, se anche tale carta
fosse esistita, essa non avrebbe avuto valore che dal momento in cui
i due governi ne avessero approvato il tracciato, dichiarazione
questa della quale la Porta aveva preso atto.
Sul terzo punto la Porta rispose di aver fatto smentire dai giornali
di Costantinopoli l'esistenza della convenzione di delimitazione
menzionata in uno dei bollettini della Società geografica di
Parigi, e che i giornali francesi stessi avevano pubblicato un
comunicato di smentita di tutte le voci lanciate circa negoziazioni
che su quell'argomento avrebbero avuto luogo tra la Francia e la
Sublime Porta. Vi era stata altresì una promessa che il
bollettino successivo della Società avrebbe contenuto una
rettifica.
Finalmente per l'allontanamento del generale Allegro, la Porta
assicurava di averlo domandato, senza tuttavia dare un carattere
ufficiale alle comunicazioni fatte a Parigi, non potendo riconoscere
lo stato di cose creato in Tunisia dall'occupazione francese.
In conclusione, la Turchia rivendicava come tripolitano il
territorio ad est di El Biban, ossia manteneva l'antico confine.
Nel 1888, dopo la spedizione turca, il resto dei rifugiati tunisini
in Tripolitania ritornava in Tunisia.
La Francia si mise allora a fortificare il Sud della Tunisia, ossia
Zarzis, Matamma, Tatauin, Duirat, dopo aver portato l'effettivo di
Gabes a 2650 uomini e inscritto nel bilancio tunisino una somma di
circa 900 000 franchi per le fortificazioni delle prime tre
località suindicate.
Verso la fine del 1887 il giornale officioso della Residenza, La
Tunisie, pubblicava un comunicato ufficiale circa le frontiere della
Tunisia. In esso era detto che l'Italia «aveva sollevata una
questione di rettificazione della frontiera tripolitana e parlato di
negoziati aperti con la Porta, sotto pretesto di non lasciar
distruggere l'equilibrio del Mediterraneo, ma in realtà
perchè l'Italia, precocemente forse, considerava la
Tripolitania come sua propria». Era necessario, dunque,
descrivere esattamente la frontiera tripolitana; la quale, secondo
La Tunisie, partendo dal mare, era nettamente stabilita col Mochta e
lo Chareb Saonanda, sino all'Oglat-ben-Aisar, da una linea che parte
da questo punto, passa per ben-Ali-Marghi e quindi al nord di
Uessan, e in fine dall'Ued Djenain, che si perde nel Sahara.
Il comunicato continuava così:
«È noto quanto i turchi siano gelosi della difesa del
territorio tripolitano; ora, i loro forti sono tutti al sud di
questa linea che i soldati turchi non oltrepassano mai e sulla quale
essi consegnano alle autorità tunisine i dissidenti che
rientrano. Tale frontiera, del resto, conquistata or sono quattro
secoli dagli Uargamma sugli Uled-Debbar, è stata consacrata
verso il 1815 da un trattato intervenuto tra la Reggenza di Tunisi e
la Porta. Salem Ben Odjila, capo degli Uderna, possiede
altresì un atto recante i sigilli dei magistrati tunisini e
tripolitani, nel quale è descritta dettagliatamente la
frontiera da noi indicata. Quest'atto rimonta alla fine del secolo
scorso. Il viaggiatore Barth nel 1849 dà ugualmente il
Mochta come limite della Tunisia e della Tripolitania.
«Ricorderemo il viaggio fatto nel 1886 dal signor Cambon in
compagnia del signor Fernand Faure, deputato, e del comandante
Coyne. L'esercito stesso il quale, ingannato al momento
dell'occupazione, si era arrestato all'Ued-Fessi, non tardò a
sapere dagli stessi indigeni che la vera frontiera doveva essere
riportata ad una trentina di chilometri più al sud.
«La Turchia non avendo giammai contestato cotesta frontiera
alla Reggenza, ha fatto smentire l'accordo franco-turco del quale si
è parlato alla Camera italiana. Non vi era materia a
negoziati, nè ad accordo su di una questione che non è
contestata e che soltanto gl'italiani han cercato di far nascere.
«E affinchè l'opinione pubblica non sia traviata
terminiamo dicendo che si lavora all'organizzazione militare e
amministrativa della suddetta regione-frontiera. Lo stabilimento di
posti militari su cotesto territorio, garentendone la sicurezza,
avrà altresì il vantaggio di porre i possedimenti
francesi al riparo da ogni cupidigia nel caso in cui una potenza
Europea si stabilisse in Tripolitania.»
È facile rilevare gli errori di questo comunicato. In esso
è affermato che la Turchia non aveva mai contestato alla
Reggenza la frontiera del Mochta, e qui sopra abbiamo riferito il
linguaggio tenuto dal Sultano e dal suo Gran Visir all'ambasciatore
d'Italia. Vi si parla di un trattato del 1815, che non è mai
esistito e che non era neppur possibile, poichè la Porta non
occupava allora la Tripolitania, dove regnò la dinastia dei
Karamanli sino al 1835; e l'atto recante i sigilli degli Sceicchi
degli Uderna non esiste, o se esiste non può essere che
falso. Quanto al Mochta, che il viaggiatore Barth vide nel 1849, non
può trattarsi dello chott al quale i francesi hanno
attribuito quel nome, mentre esso è stato sempre
precedentemente chiamato Uadi-Sigsao; era (e il Barth lo dice
chiaramente) un pendìo leggero ch'egli vide a due ore dalle
rovine di El Medeina, e quindi molto avanti l'Uadi-Sigsao. Dal punto
dove arrivò gli sarebbe stato difficile scorgere lo chott ora
chiamato Mochta dai francesi, poichè si tratta di un
bassofondo situato a circa trentacinque chilometri dalle suddette
rovine.
Al principio del 1887, dopo il ritiro di Mustafà
pascià, la Turchia cominciò a ritirare le sue
guarnigioni dalla frontiera ovest. Richiamò da Remada, punto
importante incluso nella nuova demarcazione tunisina, i venticinque
uomini che vi teneva. Fece lo stesso per la guarnigione di
Kasr-Fazua, presso il capo Tadjer, la quale si ritirò nel
forte di Bu-Kammech. Anche la guarnigione di Zuara fu diminuita di
400 uomini. Cosicchè la Turchia non solamente
s'indebolì sulla frontiera minacciata, ma cedette
volontariamente e di fatto i territori che poco prima rivendicava in
diritto.
Il rimanente del 1887 e il 1888 passarono senza fatti notevoli; non
vi furono che delle razzie fra tribù tripolitane e tunisine.
Nulla faceva presagire altri cambiamenti, quando nel mese di
febbraio del 1890 il Console italiano a Tripoli venne a sapere che
alcune tribù del caimacanato di Nalut, dette Oglad Dahieba,
avevano inviato dei commissari al valì per reclamare
protezione contro nuove invasioni dei francesi. Alcuni spahis
francesi erano comparsi sul loro territorio e l'avevano dichiarato
appartenente alla Tunisia; quindi, avevano voluto obbligarli a
pagare le decime al Bey, cessando di pagarle alla Turchia. Secondo
le stesse informazioni il governatore generale aveva dichiarato ai
capi di coteste tribù che si trattava di una questione da
discutere tra Francia e Turchia e che essi non avevano a
preoccuparsene. E aveva finito con l'invitarli a ritornare nel loro
territorio senza comunicare ad alcuno il reclamo che avevano fatto.
Tali prime informazioni furono in parte confermate, in parte
modificate in seguito. Realmente, nel mese di maggio di quell'anno
il valì, alle interrogazioni del console generale d'Italia,
aveva risposto che due o tre mesi prima nella parte del territorio
tripolitano che era in contestazione (il valì ammetteva
l'esistenza di una contestazione) i francesi avevano obbligato un
arabo tripolino il quale aveva seminato un campo, a esibire il suo
titolo di proprietà (hoget). Essi avevano affermato che,
conformemente alle loro carte geografiche, quel territorio
apparteneva alla Tunisia. L'arabo avendo ottemperato alla loro
domanda e presentato il suo hoget, i francesi se n'erano impadroniti
e non avevano voluto renderglielo. Venuto a conoscenza del fatto, il
governatore, per evitare che si rinnovasse, aveva chiamato i capi
della tribù cui apparteneva il coltivatore tripolino, e
li aveva invitati a recargli i documenti attestanti i loro diritti
di proprietà. Venuto in possesso di quei documenti, il
valì ne aveva fatto fare delle copie che aveva rimesse ai
proprietari, e aveva trattenuto gli originali. Il governatore
dichiarò altresì che una tribù tripolitana,
stabilita da circa 60 anni in Tunisia, l'aveva fatto pregare per il
rilascio di una dichiarazione dalla quale apparisse che essa era
originaria di Tripoli e, in conseguenza, non obbligata a pagare le
decime al Bey. Aveva risposto di non poter consentire a tale domanda
e invitato la tribù a ristabilirsi sul territorio
tripolitano.
Contemporaneamente il valì aveva informato il console
generale d'Italia che i francesi avevano anche tentato di guadagnare
alla loro causa i Tuaregs, di averli incitati ad avvicinarsi a
Gadames, e ad annettersi il territorio che, per effetto della nuova
frontiera, si estende dall'Algeria da una parte, e la Tripolitania
dall'altra, sino alla Tunisia. Nei loro intrighi i francesi erano
aiutati dalla tribù algerina degli Sciamba.
Questi furono i fatti riferiti dal valì, dai quali si desume
che la Turchia, o almeno il suo rappresentante a Tripoli, ammetteva
che vi fosse contestazione su di un territorio dalla Sublime Porta e
dal Sultano dichiarato appartenente alla Turchia, e che il
valì riconosceva che potessero esistere dei diritti della
Tunisia su territorii situati all'ovest dell'Uadi-Sigsao, che i
francesi volevano chiamare Mochta.
Un altro fatto non deve passarsi sotto silenzio. Nel mese di
novembre del 1888, la Francia fece in modo che la tribù
tunisina degli Akkara si stabilisse a Djemilia. Circa cento tende di
cotesta tribù rimasero durante un mese in quella
località. Evidentemente si voleva creare uno stato di fatto
per potere, a momento favorevole, rivendicare la proprietà di
quel territorio e occuparlo facilmente. La Turchia non
protestò, nè sollevò obbiezioni.
Mentre la questione della frontiera tripolo-tunisina era allo stato
acuto e l'Italia ne informava le potenze interessate, una
rivoluzione scoppiò nel territorio di Ghat. Essa venne
suscitata da un preteso sceriffo che si disse francese, non avendo
punto il tipo arabo, e che il pascià di Tripoli ritenne per
un emissario del governo della Repubblica. Lo sceriffo predicava la
guerra contro i turchi e contro i francesi. I Tuaregs si ribellarono
contro i turchi, occuparono Ghat, uccisero il caimacan,
imprigionarono il cadì. Quaranta soldati della guarnigione
perirono combattendo; gli altri furono passati per le armi. Il
governo dei Tuaregs a Ghat si sostenne per poco, ossia sino a quando
il governatore di Tripoli inviò in quella città, come
governatore del Fezzan, un arabo di Tripoli che godeva di una grande
influenza e che riuscì a ristabilire l'autorità della
Turchia. È da notarsi che cotesta rivoluzione fu eccitata
dalla fazione del capo Knuken, amico fedele della Francia, quello
stesso che stabilì l'accordo tra i Tuaregs e il maresciallo
Mac-Mahon nel 1870 col trattato che fu detto di Gadames. È
evidente che la Francia, stabilita allora da sessant'anni in Algeria
e da nove anni in Tunisia, possedeva mezzi d'azione i più
diversi ed efficaci per esercitare sulla Tripolitania, sul Fezzan,
sulle popolazioni del deserto l'influenza più funesta.
Nè vanno passati sotto silenzio altri fatti, come le
frequenti incursioni dei francesi in Tripolitania. Nel 1886 il
generale Allegro percorse le vie di Tripoli accompagnato da due
sceicchi tunisini, senza far visita al valì, ma
intrattenendosi lungamente col console di Francia. Fatti analoghi si
ripeterono più volte sotto gli occhi delle autorità
turche. Anche in luglio 1890, il valì informava il Console
Generale d'Italia di nuovi intrighi francesi nella regione di
Gadames. Testimonianze sicure non lasciavano dubbio circa
l'esattezza delle informazioni ricevute. Agenti francesi, partiti
dal sud dell'Algeria, si recarono a Tamassinin, capitale dei Tuaregs
Ajasser, e trattarono coi capi per la cessione di quella
città alla Francia, o quanto meno per la sua occupazione
temporanea. Tamassinin è punto d'importanza capitale per le
carovane che vanno da Gadames al Tuat e di là al Sokoto. I
Tuaregs ricevettero il prezzo della cessione, ma, come accade di
frequente con quella gente, disparvero senza mantenere la loro
parola. Degli spahis furono inviati dal governo francese a Gadames
alla ricerca dei Tuaregs fuggitivi. Essi portavano altresì
lettere per i notabili di Gadames e tra gli altri per uno dei
più ricchi commercianti di quel centro, il quale aveva pure
domicilio a Tripoli, tal Toher Bassiri, antico agente segreto del
console Féraud. Il caimacan di Gadames sorprese cotesta
corrispondenza e la spedì al governatore generale. Bassiri fu
arrestato e condotto a Tripoli, dove però fu rimesso in
libertà. La sera stessa dell'arrivo di Bassiri a Tripoli, il
valì si recava secondo l'abitudine dal console di Francia per
passarvi la serata e vi restò sino a notte tarda. È
noto, del resto, che i rapporti tra il valì e il signor
Destrées erano intimi.
In conclusione alla metà del 1890 la situazione era questa:
la frontiera tunisina si era, di fatto se non di diritto, estesa al
sud-est di qualche migliaio di chilometri quadrati; e i punti
principali del sud-est tunisino erano stati fortificati, mentre la
Turchia aveva diminuito i suoi effettivi sulla frontiera. Tutto era
pronto in Tunisia per una rapida concentrazione di truppe sulla
frontiera tripolitana. Grazie alla ferrovia Bona-Guelma, aperta
all'esercizio il 1.° maggio 1887, forti contingenti di truppe
potevano essere trasportati dall'Algeria sino a Tebessa, e da qui
una strada militare conduceva per Feriana e Gafsa a Gabes. Dinanzi
ad un movimento offensivo in tal modo preparato, il valì di
Tripoli non avrebbe potuto opporre una resistenza seria.
A meglio chiarire lo stato della questione quale si presentava al
governo italiano alla fine del 1890 giova riferire la seguente
memoria che per incarico di Crispi fu redatta dal compianto generale
Luchino Dal Verme:
«I) prescindendo da qualsiasi argomentazione desunta da
documenti diplomatici, il solo esame delle carte della regione
dimostra che il confine storico fra la Tunisia e la Tripolitania non
è quello preteso dalla Francia, ma un altro 30 chilometri
all'incirca più a ponente; e così pure che la
Tripolitania ha un deserto proprio a mezzodì del Suf
algerino;
II) l'usurpazione del territorio interposto fra l'antica e la nuova
frontiera danneggia la situazione strategica della potenza che sta
in Tripolitania, sia pel fatto dell'avvenuta occupazione come per
l'usurpazione ulteriore a cui quella ha additata ed aperta la via;
III) l'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890, pur avendo
l'apparenza del rispetto all'hinterland tripolino, lascia alla
Francia, all'atto pratico, libertà d'azione verso levante,
con grave danno della potenza che è padrona della
Tripolitania.
I.
Della contrada in contestazione si sono prese in esame nove diverse
carte, la più parte francesi, tutte ufficiali meno una, due
inglesi ed una tedesca, nessuna italiana. Di tutte si espongono qui,
per ordine cronologico, le risultanze in ordine alla vertenza.
1.° Chart of the gulf of Kabes, 1838. È questa la carta
idrografica dell'ammiragliato inglese (n. 249) sulla quale appare
distinta la linea di confine di cui è questione, colla
leggenda Boundary between Tunis and Tripoli. Il Mediterranean Pilot
(official) la illustra colle seguenti parole: «Within ras el
Zarzis is a fort of the same name. A short distance west of the fort
is the boundary between the States of Tunis and Tripoli».
2.° Carte de la Régence de Tripoli, dressée par M.
M. Prax et Renou, Paris, 1850 (scala 1 a 2 000 000), la più
antica ed una delle più attendibili, perchè redatta
dietro osservazioni fatte ed informazioni raccolte sul luogo, e
perchè costruita in un'epoca in cui non eravi alcun interesse
a spostare sulle carte le frontiere naturali a scopo politico; reca
il confine sud-orientale della reggenza di Tunisi dal forte El Biban
sul mare direttamente al Gebel Nekerif. Da questo, continuando per
poco nella stessa direzione, volge poi a nord-ovest, quindi a ovest
e poscia a sud-ovest, lasciando a settentrione la contrada algerina
del Suf. Viene così a comprendere nella Tripolitania un
territorio che, per quanto deserto, si estende a nord-ovest verso il
Suf per circa 180 chilometri da Ghadames, e va verso ponente ben
oltre il 3.° meridiano orientale di Parigi.
3.° Carte de la régence de Tunis, dressée au
dépôt de la guerre d'après les observations et
les reconnaissances de M. Falbe, capitaine de vaisseau danois et de
M. Pricot de St. Marie, chef d'escadron d'état major
français, étant directeur le colonel Blondel - Paris,
1857 (scala da 1 a 400 000). Questa, che è la prima carta di
fonte governativa francese della Tunisia, non porta nessun confine
politico nè a sud nè ad est; ma termina a sud-est col
uadi Fissi (altrove scritto Fessi), oltre il quale, a mezzodì
del lago Biban, e precisamente in quella plaga che le carte odierne
dello stesso stabilimento del governo comprendono nella reggenza di
Tunisi, sta scritto a grandi caratteri Ouled Houeil, e fra
parentesi, immediatamente sotto: Tribu de Tripoli.
4.° Côte septentrionale d'Afrique entre Zarzis et Tripoli;
levée en 1871 par le capitaine de vaisseau E. Mouchez, membre
de l'Institut ; publiée au dépôt des cartes et
plans de la marine en 1878; corrigée en novembre 1880. In
questa, che è la carta ufficiale idrografica della marina
francese, pubblicata un ventennio più tardi della precedente,
si scorge l'identica ubicazione degli Ouled Houeil e la loro
qualificazione di Tribu de Tripoli.
5.° Karte des Mittelländischen meeres, Dr. Petermann; edita
da J. Perthes, Gotha nel 1880 e 1884 (scala da 1 a 3 000 000). Il
confine in discorso vi si vede tracciato dalla estremità
occidentale del lago Biban alla catena montana del Duirat, in un
punto che dista da Nalut da 70 a 75 chilometri. Il uadi, che scorre
a una trentina di chilometri più a levante dell'accennata
frontiera, è denominato uadi Segsao in tutto il suo corso.
6.° Wyld's Map of Tunis, senza data, ma anteriore al 1886 (scala
da 1 a 1 107 532). Porta il confine tra la Tunisia e la Tripolitania
ben definito con una retta che dal forte El Biban attraversando il
lago omonimo, va alla catena del Duirat ad un punto presso a poco
alla stessa distanza da Nalut indicata sulla carta precedente. Pure
come in questa (colla sola sostituzione della z alla s), è
nella carta del Wyld detto Zegzao il uadi che scorre più a
levante.
7.° Carte des itinéraires de la Tunisie, dressée
et publiée par le service géographique de
l'armée; due edizioni, 1885-87 (scala da 1 a 800 000).
Sull'edizione del 1885 si ritrova per la prima volta la
denominazione di Mokta data al uadi, che per lo addietro tutte le
carte chiamavano Zegsao, Sigsao, Segzao. Makatà in arabo
significa linea, trincea, fossato, ed implica il concetto della
frontiera. Moktà, riferisce l'illustre Barth, vale
grenzgebiete, ossia «paese di frontiera». Lungo cotesto
uadi, altra volta Segsao, oggi Mokta, è tracciato il confine
politico.
8.° Carte d'Afrique (F.lle n. 6) publiée par le service
géographique de l'armée, 1887 (scala di 1 a 2 000
000). In questa sono naturalmente riportate tutte le novità
introdotte nella precedente, uscita dal medesimo istituto
governativo. Come però si estende maggiormente in ogni
direzione, lascia scorgere tutto l'andamento del nuovo confine; il
quale, passando in prossimità di Oezzan, rimasto alla
Tripolitania, si dirige al deserto che contorna sino all'oasi di
Ghadames, a nord della quale s'arresta, a 24 chilometri dalla
città.
9.° Carte de la Tunisie, par le service géographique de
l'armée; édition provisoire, 1890 (scala di 1 a 200
000). È questa la carta più recente della Tunisia
edita dal Service géographique de l'armée. In essa
è ben particolareggiato il nuovo confine partente dal mare a
Ras Adjir, seguendo il uadi detto Mokta fino al confluente del
Khaoai Smeida e che corre poi verso ponente e quindi verso sud-ovest
in modo da lasciare Oezzan alla Turchia, sulla frontiera. Non si
può vedere come sia definito il confine più al sud,
non essendo ancora pubblicati i due fogli meridionali. In sostanza,
conferma il confine dato dalle precedenti due carte pubblicate dallo
stesso stabilimento governativo. Soltanto è da notarsi che la
distanza lungo il littorale, fra l'antico confine al forte El Biban
e il nuovo a Kas Adijr, appare in questa carta ridotta a 25
chilometri.
Riepilogando, dall'esame di tutte queste carte evidentemente
risulta:
a) Che in nessuna di esse, nè francese (ufficiale o privata)
nè tedesca nè inglese, anteriori al 1885, si trova
segnato l'attuale confine e neppure altro che vi abbia qualche punto
di contatto, dal mare alla catena del Duirat. Così pure in
nessuna si trova il nome di Mokta applicato al uadi Segsao o Zegzao.
B) Che il territorio considerato nelle carte del service
géographique de l'armée 1885-87 siccome appartenente
alla Tunisia e perciò soggetto al protettorato francese,
è l'identico che nel 1857 dallo stesso stabilimento
governativo e nel 1878 dall'analogo istituto della marina, veniva
esplicitamente dichiarato «territorio di Tripoli».
c) Che la denominazione di Mokta data dalla carta del service
géographique de l'armée (1885-87) all'uadi Segsao,
presumibilmente fu intesa a giustificare il tracciamento della
frontiera lungo il medesimo. A tale proposito giova rammentare come
l'esploratore Barth si sia servito del vocabolo arabo mokta per
indicare il paese di frontiera (grenzgebiete) dove egli si trovava,
a ponente del forte El Biban. Con ciò, anzichè
designare la frontiera fra la Tunisia e la Tripolitania lungo
l'attuale El Mokta, come si pretese in Francia, egli l'indicava
là dove tutte le carte anteriori al 1885 la portavano, a El
Biban.
Come se tutto ciò non bastasse, si può ancora
aggiungere l'avviso del più autorevole geografo vivente,
Eliseo Réclus, il quale nel suo volume XI pubblicato alla
fine del 1886, quando cioè da un anno era apparsa la carte
des itinéraires de la Tunisie, anzichè riconoscere la
nuova frontiera del Mokta, scriveva a pag. 174: «L'îlot
du cordon litoral situé entre les deux passages est
occupé par le fortin des Biban ou des portes, ainsi
nommé des ouvertures marines qu'il defend; en outre il est
aussi la porte de la Tunisie, sur la frontière
tripolitaine».
Che più? Lo stesso governo della repubblica, quando si
sollevarono obiezioni in Italia e a Costantinopoli contro il nuovo
confine segnato sulla carta del service géographique de
l'armée ebbe a sconfessare quella carta e quel confine4
affermando che non aveva carattere ufficiale. Una tale sconfessione
era del resto assurda, perchè non si saprebbe davvero
immaginare quale altra carta possa avere quel carattere, se non lo
si riconosce in una «dressée, gravée et
publiée par le service géographique de l'armée,
étant chef du service géographique le
général Perrier»5.
La Turchia, com'è facile immaginare, non ha riconosciuta la
nuova frontiera. Se ne ha una prova nella dichiarazione fatta il 27
novembre 1890 dal governatore generale di Tripoli al reggente il
consolato d'Italia. «La Francia - così egli si espresse
- oggi tratta per conoscere la nostra linea di confine verso la
Tunisia. Ma noi non possiamo aderire a simili trattative,
perchè sarebbe riconoscere il governo del protettorato. Anzi
ho già protestato contro una carta di confine tracciata dal
genio francese e che mi fu presentata per la debita
ratificazione».
II.
Da quanto si è precedentemente esposto, si avrebbero elementi
per provare come il confine storico fra la Tunisia e la Tripolitania
fosse, sul mare, in vicinanza al forte Zarzis, e nell'interno
seguisse, in parte almeno, il corso dell'uadi Fessi. In ogni modo
volendo considerare come antico confine quello dato dalla carta
francese di Prax e Renou e confermato dal Wyld, dal Petermann e dal
Réclus, il confine cioè che dal forte El Biban va alla
catena del Duirat ad un punto distante da 70 a 75 chilometri da
Nalut, la superficie usurpata misurerebbe all'incirca 3000
chilometri quadrati; senza tener conto, si noti bene, di quanto
è avvenuto a libeccio della catena stessa, di cui si
dirà in seguito.
Ma questo non è il peggior male, poichè si potrebbe
dire che una tale distesa di territorio è improduttiva e
pressochè deserta. Il danno che sotto il punto di vista
strategico deriva alla potenza che è padrona della
Tripolitania sta in ciò, che anzitutto il confine tunisino,
s'accosta alla capitale di 30 chilometri circa, cioè una
tappa; inoltre, che il confine attuale si trova dove è
maggiore la distanza dall'altipiano al mare, in modo che la difesa
ne riesce più difficile. Fra le altre difficoltà poi a
cui l'andamento della nuova frontiera dà luogo, vi è
questa principalissima, che la piazza di Oezzan sulla catena di
Nafusa, anzichè difendere la frontiera stessa, siccome
sarebbe suo ufficio, viene col trasporto della medesima a ritrovarsi
in posizione eccentrica rispetto a Tripoli, cosicchè
riuscirebbe agevole a truppe francesi stabilite sin dal tempo di
pace sul Mokta, d'impossessarsi appena rotte le ostilità di
Nalut o d'altre posizioni sul ciglio dell'altipiano, in quella
plaga, tagliando fuori per tal modo Oezzan e tutta la frontiera che
si stende a ponente sino al deserto.
Senonchè, per quanto sotto il rispetto militare gli accennati
inconvenienti sieno gravi, perchè non è cosa di poco
momento l'accostare alla frontiera la capitale di uno Stato di un
milione di chilometri quadrati che si trova già tanto
spostata da quella parte, ed altresì perchè padrone di
Nalut e del ciglio dell'altipiano, il nemico può agevolmente
piombare su Tripoli, pure v'ha un altro inconveniente ancora
più grave.
L'oasi di Ghadames per effetto della nuova frontiera, che
contornando il margine orientale del deserto fu condotta a passare
appena a 24 chilometri dalla città, si trova ora all'estremo
angolo sud-ovest del possedimento turco, mentre altra volta questo
si estendeva, come già s'è veduto, a mezzodì
del Suf algerino fin oltre il 3.° meridiano orientale di Parigi.
Ora, per questa sua posizione e per effetto dell'accordo
anglo-francese (come si vedrà in appresso) l'oasi di Ghadames
è divenuta un'appendice della Tripolitania, unita alla stessa
soltanto a nord-est e ad est.
Il trasporto della frontiera verso levante, che lascia esposte le
posizioni militari di Oezzan e l'altre sul ciglio dell'altipiano,
minaccia pure nella sua esistenza Ghadames. Difatti, quando il
nemico sia padrone di Nalut, le comunicazioni della capitale con
Ghadames sono in mano sua, e riesce pertanto senza colpo ferire in
suo potere Ghadames stesso, accerchiato da ogni altra parte
com'è dal deserto francese. Ora, come il possesso di quella
importantissima oasi, l'antica Cydamus dei Romani che vi dominarono
per 250 anni, punto di partenza necessario delle carovane
provenienti da Gabes e da Tripoli e dirette al lago Tciad, al Bornu
e al Niger, e quindi centro ed emporio commerciale, è da
tempo vivamente ambito dai francesi, si deve scorgere in
quell'avanzata di frontiera verso levante, il fine ultimo,
essenziale, di disgregare l'unità del possedimento,
accostarsi alla capitale, minacciarne le comunicazioni colla sua
più importante oasi e ridurla a tale isolamento che un
dì abbia a finire per cadere nelle loro mani. La sospensione
del tracciato della frontiera6 a 24 chilometri a nord di Ghadames,
quale si vede sulla carta del service géographique de
l'armée (1887), è un evidente indizio che dai Francesi
non si vuol riconoscere il dominio turco appena ad ovest e neppure
appena a sud dell'oasi. Gli è questa, nel concetto francese,
come una sentinella turca perduta nel deserto, che si molesta, si
accerchia, si minaccia, tanto da giungere ad obbligarla a ritirarsi
per lasciare ad altri il suo posto.
È superfluo il dire che la perdita di Ghadames sarebbe per la
potenza che sta a Tripoli un gravissimo colpo, oltrechè sotto
il punto di vista commerciale anche sotto quello strategico;
innanzitutto perchè è nodo di comunicazioni
allaccianti nientemeno che due mari, il Mediterraneo e il golfo di
Guinea, e il bacino interno del Tciad; e poi perchè la sua
perdita trarrebbe seco quella di tutto il territorio fino alle oasi
di Dergi e di Sinaun, alle quali sarebbe in progresso di tempo
riservata la stessa sorte. Al quale proposito giova ricordare come
nelle sterminate regioni dei deserti africani, le oasi ritraggono
dall'acqua che le creò una capitale importanza,
giacchè fuori di esse non vi è vita; di guisa che a
buon dritto possono dirsi i punti strategici del deserto.
III.
Fu accennato or ora come l'accordo anglo-francese del 5 agosto sia
una minaccia per l'oasi di Ghadames. E difatti quell'accordo
riconosce la zona d'influenza francese a sud dei possedimenti
mediterranei fino ad una linea determinata da Say sul Niger a
Borruva sul lago Tciad, senza che vi sia in nessuna guisa indicato
il limite orientale di questa immensa contrada. Soltanto si
può dedurlo col riunire il punto estremo orientale del
confine dei possedimenti mediterranei con Borruva, sul lago Tciad,
avendo cura di lasciare intatti a levante i diritti spettanti alla
Porta in forza della dichiarazione di Waddington in risposta alla
richiesta (5 agosto) di lord Salisbury.
E così la linea verrebbe a riuscire il prolungamento di
quella che rasenta l'oasi di Ghadames e che passando a ponente di
quella di Ghat o Rath, anche appartenente alla Tripolitania,
dovrebbe andare direttamente a Borruva.
Or quando si consideri che siamo in pieno Sahara, con distanze
enormi, rarissime vie di comunicazione, ancor più radi centri
abitati, cioè le oasi; che quindi le notizie dell'interno
impiegano mesi a giungere alla costa, quando giungono; che i
francesi hanno il diritto, in forza dell'accordo, di stabilirsi
sulla sponda occidentale del lago Tciad; che essi hanno proclamato
il confine sud-orientale dei loro possessi mediterranei scorrente a
soli 24 chilometri dalla città di Ghadames; che la Turchia
non ha trovato la vigoria di contestarlo, la Turchia che ne riceve
il danno immediato e che si prepara a sottostare alla perdita di
Ghadames od almeno, quasi preludio alla perdita, alla deviazione dei
commerci tendenti a Tripoli, ai porti francesi; che infine l'oasi di
Rhat così lontana ha una dipendenza non certo diretta dal
valì di Tripoli; quando si sia considerato tutto ciò,
si può chiedere: che v'ha di più facile pei francesi
di divenire di fatto poco a poco gli arbitri, se non i diretti
padroni e di Ghadames e di Rhat e quindi di tutto l'hinterland
tripolitano? Poichè occorre rammentare che in regioni di
deserto come queste di cui è questione, il padrone effettivo
è chi si trova sul luogo in forze e con denari in modo da
disporre dei commerci e delle vie di comunicazione; ed inoltre che
la dichiarazione supplementare all'accordo del 5 agosto, non
garantisce che i diritti del Sultano, e riesce assai dubbio lo
stabilire se siasi voluto comprendere fra questi anche i diritti
sorti dalla recentissima teoria dell'hinterland. V'ha anzi molta
ragione per ritenere che si sia inteso di salvaguardare soltanto i
diritti sui territori riconosciuti parte integrante della
Tripolitania, di guisa che pur volendo ammettere il rispetto di
quelli per parte della Francia, cioè di Ghadames e di Rhat,
nessuna esplicita garanzia si ritrova nè nell'accordo,
nè nella dichiarazione supplementare, che valga ad arrestare
i francesi nella loro lenta, pacifica ma costante marcia verso
levante, dove oggi possono procedere a sud della Tripolitania, senza
incontrare nessuna linea di delimitazione.
Conclusione.
Si è veduto che la Francia ha addirittura abolito l'antica
frontiera fra l'Algeria e la Tripolitania (v. Carta di Prax e Renou)
dichiarando francese tutto il deserto che si stende a ponente di
Ghadames, a mezzodì del Suf algerino, assai prima ancora che
intervenisse l'accordo del 5 agosto 1890. Si è pure veduto
che ha arbitrariamente avanzato la frontiera della reggenza di
Tunisi verso levante ai danni della Tripolitania, col fine di
avvicinarsi alla capitale, girare le difese verso nord-ovest
sull'altipiano e tagliar fuori Ghadames.
Quest'opera di lenta demolizione la Francia l'ha iniziata non appena
posto il piede in Tunisia, e la continua. Oggi è la volta di
Ghadames. Per ora semplicemente attratto nell'orbita del commercio
francese, cadrà necessariamente di poi nelle mani della
Francia, e con esso cadranno le dipendenti oasi di Dergi (Derdj) e
Sinnaun e la lontana di Rhat. E quando la Francia sarà
l'arbitra di tutto l'hinterland tripolino e padrona delle vie
carovaniere dal Tciad a Tripoli, e quindi del commercio di tutto
quel vasto bacino centrale africano, che ne sarà
dell'equilibrio del Mediterraneo?
Il potere ottomano ridotto alla regione costiera, diverrà
poco a poco una larva di potere anche in Tripoli stesso,
finchè, alla prima circostanza propizia, non cadrà
definitivamente in mano alla potenza che, stringendola da ponente e
da sud, ne avrà già l'effettivo dominio. E allora la
Francia estenderà il suo non interrotto dominio
dall'Atlantico e dal Mediterraneo al lago Tciad su di una sterminata
distesa di territorio, quasi un terzo del continente africano.
Padrona del littorale dal Marocco all'Egitto, avrà rotto
l'equilibrio del Mediterraneo; arbitra del vastissimo paese fra i
due mari e il bacino interno del Tciad, giungerà al Uadai, al
Darfur, alla valle del Nilo.
Roma, 2 dicembre 1890
Generale L. Dal Verme.»
Dati i precedenti, è naturale che alla Consulta si desse
importanza ad ogni notizia che veniva dal confine tripolo-tunisino.
Il ricordo del modo col quale la Francia aveva iniziato la
occupazione della Reggenza di Tunisi, faceva pensare che ogni
incidente di frontiera potesse offrire un pretesto ad una invasione
del territorio tripolitano. Il 31 luglio Crispi aveva telegrafato
alle ambasciate di Londra, Berlino e Vienna:
«Il nostro console a Tunisi mi telegrafa la notizia di un
serio combattimento alla frontiera della Tripolitania fra
tribù tunisine e tripoline.
Non vorrei fosse una ripetizione della favola dei Krumiri che diede
pretesto al 1881 alla occupazione della Tunisia. Ora è la
volta della Tripolitania.»
In quei giorni avevano termine tra i gabinetti di Parigi e di Londra
i negoziati per la delimitazione delle zone d'influenza della
Francia e dell'Inghilterra nel Sudan e veniva firmato l'accordo
anglo-francese più volte innanzi citato e che porta la data
del 5 agosto 1890.
Tanto il Ministro francese Ribot, che il ministro inglese lord
Salisbury dichiaravano che in quell'accordo erano stati rispettati i
diritti della Turchia, ma in realtà l'hinterland della
Tripolitania era abbandonato alla invadenza francese, siccome
dimostrava il Dal Verme nella memoria che precede.
Crispi prima della firma del detto accordo, cioè il 2 agosto,
telegrafava a Londra:
«Ho più volte avvertito cotesta ambasciata degli
sconfinamenti che si fanno o si tentano dalla Francia dalla Tunisia
nella Tripolitania.
Or sento il dovere d'informarla, che in un colloquio su cotesto
argomento tenuto il 31 luglio dal generale Menabrea col ministro
Ribot, questi dichiarò che, nello hinterland preteso dalla
Francia, essa intende comprendere la grande strada delle carovane
che unisce il Sudan alla Tripolitania. Ove ciò fosse, la
Francia verrebbe a prendere quasi tutto l'hinterland tripolino,
togliendo qualunque avvenire a quella provincia.
Ne prevenga il Foreign Office.»
E il conte Tornielli rispondeva l'indomani, 3, col seguente
telegramma:
«Ogni volta che codesto Ministero ha avvisato questa
ambasciata di sconfinamenti francesi a danno della Tripolitania o di
atti tendenti a preparare ingrandimento a pregiudizio di quella
provincia ottomana, non ho mancato di parlarne al Foreign Office ed
anche lasciare memoria dei nomi delle località segnalate. Ho
reso conto a V. E. di quelle comunicazioni e dell'accoglienza fatta
alle medesime. Non era forse ancora pervenuto a V. E. il mio
telegramma d'ieri 8 pom. allorchè Ella ha telegrafato
circa pretesa confessata da Ribot a Menabrea in abboccamento del 31
luglio. Dalle cose dettemi da Salisbury circa l'hinterland
tripolitano risulta che accordo stabilito lascia che Francia arrivi
toccare soltanto riva occidentale lago Tciad. Sua Signoria mi ha
detto espressamente che tutti i diritti del Sultano erano stati
salvaguardati. La trattativa non essendo ancora stata chiusa ieri
nel pomeriggio e Salisbury essendosi trasferito in campagna per tre
giorni, gli scrivo oggi stesso un privato biglietto per avvisarlo
che pretese Ribot tendono mettere in mano della Francia strade
carovane del Sudan, che, in circostanze date, possono essere
importantissime e utili allo Stato che possiede l'Algeria e la
Tunisia, anche per operare nascostamente sovra altre parti di
Africa. Sua Signoria comprenderà certo l'allusione all'alto
Egitto e se un impegno positivo non è già stato preso,
sono persuaso che porterà la sua attenzione più
scrupolosa ad evitare che le strade suddette passino alla
Francia.»
Naturalmente, le nuove preoccupazioni del governo italiano erano
partecipate a Costantinopoli, come le precedenti. In ottobre la
Sublime Porta finalmente si decise a intervenire nella questione e
diresse la seguente Nota ai suoi ambasciatori a Parigi e a Londra:
«Octobre 1890.
Sublime Porte à ses réprésentants
à Paris et à Londres.
Votre Excellence sait qu'en signant le 5 Août dernier les
arrangements intervenus entre eux au sujet de l'Afrique, le
Gouvernement Britannique et le Gouvernement Français ont
échangé des notes pour constater leur parfait accord
de respecter scrupuleusement les droits appartenant à S. M.
I. le Sultan au sud des provinces de ses possessions Tripolitaines.
Cependant, afin de prévenir toute équivoque le
Gouvernement Imperial croit devoir déclarer que dans la
partie méridionale de la Tripolitaine du côté du
Grand Sahara en dehors des districts de Gadames, de Gah (Rhah)
d'Argar (Asdser), Touareg, de Mourzouk (chef lieu du Tsezzan), de
Ghatroun, de Tidjerri et de leurs dépendances qui sont tous
administrés par les Autorités Impériales, les
droits de l'Empire doivent d'après les anciens titres et la
doctrine même du Hinterland s'étendre sous les
territoires compris dans la zone determinée ci-après.
La ligne de cette zone partant des environs de la frontière
méridionale de la Tunisie du point connu sous le nom de Bin
Turki au N. E. de Berresok, descend vers Bornou en passant à
l'O. de Gadames et d'Argar, Touareg et en comprenant les oasis de
Djebado et d'Agram. Elle passe ensuite entre les limites de Sokoto
et de Bornou pour aboutir à la frontière
septentrionale de Cameroun, et suit de là vers l'Est la ligne
du partage des eaux entre le bassin du Congo et celui de Tchad de
façon à englober le territoire de Bornou, Baghirmi,
Ouadaï, Kanem, Ouanianga, Borkou et Tibesti, laissant ainsi en
notre possession la grande route des caravanes qui va de Morzouk
à Kouka par les oasis du Yat de Kaouar et d'Agadem.
V. E. verrà par le tracé de la ligne décrite
ci-dessus que la localité de Barrowa sur le lac Tchad reste
dans la sphère d'action du Gouvernement Imperial.
Les raisons qui militent en faveur de notre point de vue consistent
dans le fait que la route des caravanes de Mourzouk à Kouka
devant nécessairement rester à l'Empire, on ne peut
laisser en d'autres mains la susdite localité de Barrowa qui
se trouve précisément sur la même route des
caravanes et non loin de Kouka.
Il est vrai que l'art. 2 de la déclaration franco-anglaise du
5 août semble comprendre Barrowa (sur le lac Tchad) dans la
zone d'influence de la France, mais outre la double
considération que cette localité n'a pas, que nous
sachions, appartenu jusqu'ici à une puissance quelconque et
que géographiquement même, ainsi que d'après la
doctrine du Hinterland, au lieu de faire partie de la zone
française elle revient à celle de l'Empire pour les
raisons plus haut exposées; il y a lieu de ne pas perdre de
vue que le texte même de l'article sus visé porte dans
son second alinéa que la ligne doit être tracée
de façon à comprendre dans la zone d'action de la Cie
du Niger tout ce qui appartient équitablement au royaume de
Sokoto. Or comme le tracé contourne Sokoto sans y toucher et
englobe seulement Bornou, et comme d'autre part Bornou est bien en
deçà de Sokoto, nous sommes en droit de croire que le
tracé ne pourra pas donner lieu à une objection
fondée.
Je prie V. E. de vouloir bien notifier par écrit ce qui
précède au gouvernement près duquel Elle est
accréditée afin que lors de la délimitation de
la ligne à determiner suivant l'art. 2 susmentionné,
il ne soit point empiété sur notre zone d'influence et
tenir mon département au courant des phases futures de cette
question et du résultat de ses démarches.
Said.»
Lo zelo dell'Italia nella difesa dell'integrità della
Tripolitania era appreso a Costantinopoli con diffidenza, e a tener
viva questa diffidenza contribuivano gli agenti e i giornali
francesi, i quali per stornare l'attenzione del governo turco
dall'azione costante della Francia, parlavano continuamente delle
mire italiane. Il 14 agosto il Sultano faceva telegrafare a Zia bey,
ambasciatore turco a Roma:
«Un dispaccio privato annunzia che l'Italia preparerebbe una
spedizione militare. Benchè questa notizia ci sembri
inverosimile prego informarci.»
Zia bey rispondeva subito non esservi in Italia indizio alcuno di
una spedizione militare in preparazione.
In novembre, i giornali francesi stamparono che nei colloqui tenuti
a Milano tra Crispi e Caprivi, si erano presi accordi in vista di
un'occupazione italiana di Tripoli. Ma l'ambasciatore turco a
Berlino, invitato ad assumere informazioni in proposito,
telegrafava:
«J'ai eu une entrevue avec le baron Marschall. S. E. m'a dit
que le Chancelier avait rapporté la meilleure impression de
son entrevue avec Monsieur Crispi. Il a ajouté à ce
propos que la Sublime Porte était eclairée pour
n'attacher aucune importance aux versions mensongères
relatives à la Tripolitaine. Le nom même de cette
province de l'empire ottoman n'ayant pas été
prononcé dans l'entrevue.»
Ma il sospetto era sempre vigilante. Il 15 dicembre Zia bey
telegrafava al proprio governo:
«Osman bey addetto militare ha saputo da fonte sicura che il
colonnello Ponza di San Martino è partito per la Tunisia e
per Tripoli allo scopo di constatare segretamente il preteso
incontro delle truppe imperiali colle truppe francesi e di indagare
quali siano i mezzi di difesa di cui la Turchia dispone nella
Tripolitania. Avendo io smentito la voce sparsa su quest'incontro
tanto nella stampa, quanto nelle mie conversazioni con S. E. Crispi,
credo piuttosto che si tratti di constatare se abbia fondamento la
notizia delle usurpazioni della Francia avanzate da S. E. Crispi in
base al rapporto del Console di Italia che avrebbe particolarmente
studiato l'hinterland della Tunisia.»
Constatato il pericolo della usurpazione francese dell'hinterland
tripolitano per la situazione creata dall'accordo 5 agosto 1890, si
pensò dal governo italiano al modo di portarvi rimedio. E il
modo si era trovato, come appare dalla memoria che trascriviamo e
che porta la data del 19 gennaio 1891. Ma pochi giorni dopo, il 31
gennaio, avveniva la crisi ministeriale che allontanava Crispi dal
potere, e i suoi successori abbandonarono la questione:
«A ricercare il modo col quale portare rimedio alla
situazione, occorre prendere in esame l'accordo anglo-francese del 5
agosto 1890, che solo ha dato origine alla stessa, sia con quanto ha
stabilito, sia, e più ancora, con ciò che ha ommesso
di stabilire.
Infatti, con quell'accordo fu concesso alla Francia di arrivare sino
a Borruva sul lago Tciad, e quindi assai più a levante di
quanto un'imparziale applicazione della teoria dello hinterland le
avrebbe assegnato. D'altra parte, nel medesimo accordo venne ommesso
di determinare il limite orientale della zona d'influenza francese,
lasciando così aperto il campo ad arbitrarie interpretazioni
ed alle conseguenti usurpazioni nell'avvenire.
Che l'estensione della zona d'influenza francese sino al Tciad
oltrepassi la misura che l'equa applicazione della novella teoria
indicherebbe, riesce evidente a chiunque esamini una carta del
continente africano colle recenti frontiere politiche. Salvo il caso
della presenza di fiumi, il cui corso possa venire di preferenza
seguito, per regola la delimitazione dello hinterland fra due
potenze vicine si fa per mezzo di una linea normale all'andamento
generale della costa.
Se pertanto si prolunghi l'attuale confine fra la Tunisia e la
Tripolitania (sia pure quello voluto dalla Francia) e che è
appunto nel suo generale andamento normale alla costa, si
vedrà come la nuova linea dovrebbe correre in direzione di
sud-ovest o quanto meno di sud-sud-ovest, in guisa da lasciare allo
hinterland della Tripolitania un'immensa distesa di Sahara oggi
assegnata alla Francia.
Senonchè, una tale spartizione, quantunque fatta in base alla
regola generale rispettivamente alla costa da Tripoli a Gabes, non
sarebbe equa per riguardo al littorale algerino; e neppure lo
sarebbe sotto un punto di vista più complesso,
imperocchè trattandosi d'una sterminata regione nella quale
pochissimi sono gli obbiettivi, questi più che la superficie
del territorio debbono essere equamente divisi fra i contendenti.
Giustizia pertanto avrebbe richiesto che la linea di divisione si
fosse fatta scendere direttamente a sud, per meridiano, in guisa da
consentire alla Francia di raggiungere la frontiera del Sokoto dal
Niger insino all'incontro del Bornu, e alla Tripolitania quella del
Bornu e il lago Tciad.
Invece, l'accordo del 5 agosto ha fatto avanzare la Francia assai di
più verso levante, per modo da confinare essa sola col Bornu,
escludendone la Tripolitania che vi aveva diritto e per ragioni
geografiche in base alla nuova giurisprudenza dello hinterland,
siccome fu testè dimostrato, e per ragioni di dominio
commerciale, dappoichè è da Ghadames e da Tripoli che
si esercita da secoli il traffico col Bornu, così da poter
dire che la Tripolitania ne ha di fatto il monopolio. Inoltre,
l'accordo del 5 agosto ha portato la Francia a quel lago Tciad che
si trovava intero nello hinterland del possedimento turco. Nè
è da passare sotto silenzio che l'avere acconsentito alla
Francia di giungere al lago, significò l'aggiudicazione alla
stessa di un triangolo della superficie di 200 000 miglia
geografiche quadrate a levante del meridiano che avrebbe dovuto
segnare il limite; tutto territorio che non è quindi situato
au sud des possessions méditerranéennes, come dice la
lettera dell'accordo, ma bensì au sud-est.
Oggi poi, come se la porzione toccata alla Francia nel modo
così poco equo ora veduto, non bastasse, si va per mezzo di
carte, di articoli, di conferenze, infiltrando nel pubblico la
convinzione che la zona d'influenza francese s'estende a
mezzodì della Tripolitania, tanto da comprendere gran parte
della carovaniera che da Tripoli per Murzuk va al Tciad, l'oasi di
Bilma e gran parte della sponda settentrionale del lago. Le carte
del Temps e del Petit Journal del dicembre scorso lo dicono chiaro,
alla breve distanza di cinque mesi dalla data dell'accordo. E lo
possono dire, e il pubblico può crederlo, dacchè
nell'accordo non venne determinato il limite orientale della zona
d'influenza francese se non nei due punti estremi, uno dei quali non
esplicitamente indicato, lasciando, come s'è detto sin dal
principio, aperto il campo vastissimo a svariate interpretazioni,
che non possono non condurre ad ulteriori arbitrarie occupazioni.
Nè vale il dire che la dichiarazione del signor Waddington a
lord Salisbury in data 6 agosto precisi l'incerto confine col
garantire i diritti del Sultano, dappoichè il ministro degli
affari esteri semplicemente dichiara salvaguardati «les droits
qui peuvent appartenir à S. M. I. le Sultan dans les
régions situées sur la frontière sud de ses
provinces tripolitaines»; il che non implica affatto che sieno
guarentiti quei diritti sulle regioni che costituiscono l'hinterland
del possedimento turco, le quali avrebbero dovuto in tal caso venire
indicate con frase ben diversa nella sostanza, quantunque poco
dissimile nella forma, e cioè «les régions
situées au sud de la frontière méridionale de
ses provinces tripolitaines».
Con una siffatta dizione si sarebbe esclusa la Francia da qualsiasi
usurpazione al sud della Tripolitania, incominciando da Ghadames,
mentre colla dizione contenuta nel documento diplomatico citato,
nulla si garantisce, salvo ciò che sta sulla frontiera
tripolina; il che può anche limitarsi a significare quanto
sta entro il territorio turco lungo la frontiera.
Non sarà egli possibile trovare oggi un rimedio alla
situazione creata dall'incompleto accordo del 5 agosto, situazione
esiziale (siccome venne dimostrato nella precedente Memoria I)
all'Italia, all'Inghilterra ed alle potenze centrali cui
interessa il mantenimento dell'equilibrio nel Mediterraneo?
Il rimedio si presenta facile, poichè non si tratta di
rinvenire sul già fatto, ma soltanto di chiarirlo e
delinearlo; d'altra parte non si chiede alla Francia se non la
sanzione precisata di ciò che essa per bocca del suo ministro
degli affari esteri reiteratamente dichiarò d'intendere quale
lo s'intende da noi. Null'altro pertanto si vuole all'infuori di una
dichiarazione supplementare del ministro francese, nella quale venga
specificata quella del 6 agosto, col designare nettamente quel
limite orientale della zona d'influenza francese che fu ommesso
nell'accordo del 5.
Basterebbe a tale effetto che si dichiarasse come il limite
orientale di quella zona, indicato soltanto ed anche imperfettamente
nei suoi punti estremi, sia determinato secondo una linea che
partendo dal confine tripolo-tunisino a ponente dell'oasi di
Ghadames, corra direttamente a rasentare, pure a ponente, l'oasi di
Ghat, donde con altra linea retta raggiunga Borruva sul lago Tciad.
Non si saprebbe invero come impugnare l'equità di una tale
delimitazione, dacchè nell'accordo 5 agosto sta scritto:
«la zone d'influence de la France au sud de ses possessions
méditerranéennes». Ora, come il punto estremo
orientale di tali possessi entro terra si ritrova (pure ammettendo
il confine delle carte del «service géographique de
l'armée») sul lembo occidentale dell'oasi di Ghadames,
così gli è da quel punto che devesi condurre la linea
a Borruva, designato esplicitamente nell'accordo; la quale linea
dovrà essere retta se nel suo andamento non risultasse
intaccare l'oasi di Ghat, possedimento turco; sarà invece
spezzata, se al giungere a quest'oasi la posizione geografica della
medesima lo richiedesse.
Con una tale precisa delimitazione s'impedirebbe qualsiasi
arbitraria interpretazione sin d'oggi; si garantirebbero
effettivamente i diritti del Sultano a sud dei suoi possedimenti;
s'arresterebbe qualunque velleità d'avanzata a levante per
parte della Francia, la quale del resto non avrebbe a lagnarsi di
questo assetto definitivo che è in massima quello
acconsentito coll'accordo del 5 agosto, col quale, è d'uopo
ripeterlo, il governo della repubblica ha ottenuto ai danni
della Tripolitania assai di più di quanto l'equa applicazione
della novella teoria dell'hinterland le avrebbe assegnato.»
In quali termini la questione fosse trattata a Parigi, risulta da
due telegrammi del generale Menabrea:
«Parigi, 3 gennaio 1891,
Signor Ministro,
Il colloquio che io ebbi col Sig. Ribot in occasione del suo ultimo
ricevimento ebdomadario del 30 dicembre prossimo passato, fu
alquanto animato per non dire vivissimo. Al primo momento egli con
parole concitate mi accennò la polemica aperta sulla
questione Tripolitana ed in cui si attribuisce alla Francia
l'intenzione d'occupare quella Reggenza, accusa questa sostenuta dai
nostri giornali qualificati di ufficiali e supposti ispirati da
codesto Ministero. Secondo il suo dire l'Eccellenza Vostra avrebbe
denunziato quelle intenzioni della Francia ad altre potenze e fra
queste all'Inghilterra, come risulterebbe da rapporti che gli
pervengono. Il signor Ribot chiudeva la sua arringa col pregare
Vostra Eccellenza di smettere la continuazione di una tale accusa
che potrebbe suscitare interpellanze in Parlamento e dare luogo a
spiacevoli incidenti.
Ascoltai con molta calma il discorso appassionato del signor Ribot,
il quale protestava contro le mire che si supponevano alla Francia
di assorbire anche la Tripolitania, mentre essa non pensava che a
valersi delle vie aperte colla recente convenzione Anglo-francese
relativa all'Hinterland nel Soudan per volgere una parte del
commercio di quella regione verso la Tunisia dove le si stanno
creando nuove facilitazioni.
Prendendo a mia volta la parola, dissi al signor Ribot che potremmo
con ben maggiore ragione rivolgere a lui o per meglio dire al suo
Ministero i rimproveri che egli mi esprimeva sul nostro contegno
verso la Francia riguardo alla questione Tripolitana, poichè
non v'è giorno in cui l'Italia ed il suo primo Ministro non
siano svillaneggiati dai giornali francesi che hanno note aderenze
col Ministero degli Affari Esteri e ci attribuiscono in modo
persistente l'intenzione di occupare Tripoli, benchè si debba
sapere che ciò non è vero: eppure siamo informati che
un ammiraglio francese, il Duperré, recatosi non ha guari a
Costantinopoli, ebbe dal Sultano una udienza in cui cercò di
mettere quel Sovrano in grave sospetto contro di noi, a proposito di
Tripoli. Soggiunsi che io ignoravo quali comunicazioni Vostra
Eccellenza potesse aver fatte ad altre Potenze riguardo a quella
Reggenza, ma che se ciò per avventura ebbe luogo eravamo nel
nostro diritto di portare la loro attenzione sopra una tale
questione che non ci può essere indifferente, come non lo
deve essere a qualsiasi Potenza che abbia interessi nel Mediterraneo
ed alla quale importi che l'equilibrio in quel mare non sia turbato
a benefizio di qualche potenza invadente. All'Italia poi più
che ad ogni altro importa quella questione, e la Francia deve
assuefarsi a riconoscere che l'Italia costituisce oramai una nazione
di trentadue milioni di abitanti, con duecentomila veri marinai
inscritti, con uno sviluppo di seimila e più chilometri di
litorale Mediterraneo. Percui, benchè non aspiri alla
Tripolitania, è però naturale che essa possa
inquietarsi di una Potenza vicina solita a chiamare il Mediterraneo
lago francese, e che sotto un futile pretesto s'impossessò se
non di nome, almeno di fatto della Tunisia, la quale ogni giorno
è maggiormente assorbita dalla Francia, al punto che, sotto
pretesto di protettorato, il Bey ha perduto ogni libertà
d'azione sino a quella di scrivere e spedire una lettera senza
l'autorizzazione del Residente Francese.
Bisogna adunque aspettarsi a che se alcuno tentasse di attribuirsi
la Tripolitania, incontrerebbe un serio ostacolo nella resistenza
delle alte Potenze interessate. Io dichiaravo che con ciò non
intendevo giustificare il linguaggio dei giornali, ma nello stesso
modo che non abbiamo mai pensato a fare il signor Ribot mallevadore
di tutte le sciocchezze e di tutte le falsità di cui sono
ripieni i giornali francesi che si pretendono organi ufficiosi del
suo Ministero, fra i quali primeggia il Siècle diretto da un
antico funzionario di questo Ministero degli Affari Esteri, che
figura tuttora nell'annuario diplomatico di Francia, riteniamo che
sia cosa ingiusta lo attribuire alle ispirazioni di Vostra
Eccellenza le elucubrazioni dei nostri giornali sulla Francia.
Soggiunsi poi che in Francia si ha una falsa idea della posizione
politica di Vostra Eccellenza. La si considera come il
rappresentante di una fazione, mentre il risultato delle elezioni
dimostra che Ella è l'espressione del pensiero dell'opinione
generale del Paese. Infatti Ella, nata in Sicilia, nell'estrema
Italia del mezzodì, trovò il suo più serio
trionfo nell'estremo nord, in Torino, capitale di quel Piemonte che
rinunziava volontariamente alla sua preponderanza in favore della
unità d'Italia. Vostra Eccellenza dopo di aver combattuto con
Garibaldi e sofferto l'esiglio, si associava al gran Condottiero nel
salutare la Monarchia di Casa Savoia come quella che doveva sancire
e mantenere l'indipendenza e l'unità d'Italia. Il coraggio
politico e civile dimostrato da Vostra Eccellenza provano ch'Ella
ebbe sempre quel doppio scopo di mira tanto col mantenere le nostre
alleanze, che col ricondurre ad un sistema uniforme le varie
amministrazioni, avanzo di quelle degli antichi Stati in cui la
Nazione era divisa, e col fare sparire i molti abusi che deturpavano
alcune di esse.
Conchiusi questa digressione col dire che conveniva lasciare ai
giornalisti la responsabilità del loro dire senza farlo
risalire ai capi del Governo, che talvolta sono vittime delle
indiscrezioni dei proprii dipendenti.
Sul finire della conversazione il signor Ribot mi parlò della
delimitazione dei nostri territori rispettivi presso Assab e Obock;
io risposi che dipendeva da lui di riprendere i negoziati accettando
le basi stabilite dall'Eccellenza Vostra e dalle quali Ella non
poteva recedere. Soggiunsi che questo suo Ministero coll'opporre a
quelle condizioni trattati antiquati e colpiti da prescrizione e
contratti più recenti passati con Sultanetti vassalli del
Negus, sembrava volere ripetere le gherminelle ideate per Massaua.
Ciò bastava per una volta specialmente ora che in quelle
regioni un Sovrano effettivo costituito aveva accettato la nostra
alleanza protettrice; e conchiusi che con un poco di arrendevolezza
per parte della Francia quella quistione sarebbe stata sciolta.
In questa lunga discussione parlai con molta fermezza e precisione,
senza però mai uscire dai limiti di una somma cortesia.
Percui il colloquio ebbe fine con pacatezza e con una reciproca
stretta di mano.
Il R. Ambasciatore
Menabrea.»
«Parigi, 13 Gennaio 1891.
Signor Ministro,
In seguito al mio colloquio col signor Ribot del quale resi conto a
codesto Ministero col mio rapporto del 3 corrente N. 24-7 portai
particolarmente la mia attenzione sulla carta d'Africa testè
pubblicata dal giornale il Temps la quale fa oggetto del pregiato
dispaccio di V. E, in margine citato. Osservai come la delimitazione
dell'Interland tra l'influenza rispettiva di Francia e d'Inghilterra
sulle regioni costituenti il Sudan al nord dell'Algeria e della
Tunisia da una parte e della Tripolitania dall'altra, non
corrisponde esattamente a quella fissata dall'accordo anglo-francese
del 5 agosto u. s. Infatti la linea di delimitazione toccava un
punto solo del littorale occidentale del lago Tchad a Borruva dove
la sponda tende a volgere a settentrione, mentre la carta estende a
tutto il littorale settentrionale del lago la tinta rossiccia
alquanto allargata, che sembra volere indicare l'estensione della
influenza francese. Quella medesima tinta rossiccia si estende anche
sulle oasi Rath e Chadames le quali posizioni appartengono alla
regione Tripolitana. Questa incertezza di delimitazione è
fatta per eccitare o per lo meno per segnare una direzione agli
appetiti di protettorato che invadono facilmente l'opinione francese
la quale, non contenta dei varii territorii sui quali la Francia
estende la sua autorità più o meno solida e
incontestata, ambisce ad ampliare il dominio nel nord dell'Africa e
si prepara ad allestire imprese per volgere il commercio assai
importante del Sudan verso la Tunisia. Così alcuni portano
già le loro mire sul lago Tchad che considerano come il gran
porto interno di quella regione. Queste tendenze mi spiegano il
linguaggio tenutomi dal signor Ribot in occasione del suo
ricevimento ebdomadario del 30 Dicembre u. s. (vedi mio rapporto
suaccennato). Respingendo l'accusa fatta dalla stampa alla Francia
di voler invadere la Tripolitania, egli confessava però che
mentre negava tale proponimento, la Francia tuttavia intendeva
trarre il miglior partito possibile dalla regione lasciata nel Sudan
all'influenza francese per condurre il commercio Sudanese verso
l'Algeria e la Tunisia.
Ciò essendo, le due oasi precitate di Rath e Chadames sono i
punti principali di sosta delle carovane: Chadames sopratutto si
può considerare come il punto strategico commerciale che
domina le due vie principali dirette l'una verso Tunisi e l'altra
verso Tripoli. Se si vuole evitare che questa ultima Reggenza non
cada tosto sotto il protettorato francese e che, in seguito, Tunisi
non sia definitivamente annesso all'Algeria, è necessario che
le due anzidette oasi e specialmente Chadames non vengano in mano
dei Francesi. I pretesti per occupare Chadames non mancherebbero
certamente: tutti i Krumiri non sono ancora spariti; per evitare che
risorgano e porgano un'occasione alla Francia di impossessarsi delle
sovradette oasi occorrerebbe che fossero custodite con truppe
mandatevi dal Sultano; una piccola guarnigione sarebbe sufficiente;
la vista della bandiera ottomana basterebbe a frenare le
velleità che si suppongono nei francesi. La forza turca
però dovrebbe essere sufficiente per resistere a qualche
attacco dei mahdisti.
L'Inghilterra più d'ogni altra, poscia l'Italia, hanno
interesse grandissimo a che il commercio sudanese non diventi il
monopolio di una Potenza che già possiede una parte
estesissima del littorale africano del Mediterraneo; epperciò
mi pare che l'Inghilterra specialmente ed anche l'Italia dovrebbero
concorrere in qualche modo alla occupazione sovraccennata delle
truppe turche, sussidiando, ove d'uopo, il Governo ottomano per il
loro mantenimento. Il concorso così prestato dall'Italia
avrebbe per risultato di dissipare i sospetti che si cercò di
suscitare presso il Sultano circa le nostre aspirazioni Tripolitane,
e di acquistare maggior influenza nell'Asia minore per contrastare
la guerra che vi è fatta alla nostra lingua, ai nostri
stabilimenti, al nostro commercio dalla ostile concorrenza francese.
Se al contrario si lascia che le oasi di Rath e principalmente di
Chadames rimangano esposte in balia della Francia, dovremmo fin
d'ora pensare a non lasciarci cogliere all'improvviso come avvenne
per la Tunisia e prepararci ad opporci con tutti i mezzi a che la
Francia estenda il suo dominio anche sulla Tripolitania, il che
sarebbe forse Finis Italiae, almeno come Potenza marittima di primo
ordine.
Dò fine a questo rapporto col conchiudere che mi pare esser
necessario che il R. Governo si concerti coll'Inghilterra circa le
eventualità sovraccennate e nel caso che questa vi si voglia
disinteressare, l'Italia potrebbe passare oltre ed intrattenersi
direttamente della quistione col Governo turco.
Il R. Ambasciatore
L. F. Menabrea.
P.S. La soluzione precedentemente indicata rispetto alla oasi di
Chadames si può dire soluzione pacifica; però si
potrebbe pensare ad un'altra più radicale come sarebbe quella
dell'occupazione della Tripolitania per parte dell'Italia che, a
difetto della Turchia, è la potenza più indicata per
prendere quella Reggenza sotto il suo protettorato. Ma una tale
soluzione potrebbe dare luogo a conflitti armati,
sull'opportunità e le conseguenze dei quali io non sono
chiamato a pronunciarmi.
L. F. M.»
Il gabinetto di Berlino, tenuto al corrente delle mene francesi,
appoggiava a Parigi e a Londra l'azione italiana. Il seguente
telegramma è del 21 gennaio:
«Berlino, 21 gennaio 1891.
In questi ultimi giorni, al suo passaggio per Berlino, vennero
confermate al Conte di Münster istruzioni d'intrattenersi col
Ministro degli affari esteri francese sopra la Tripolitania e sue
frontiere verso la Tunisia. Ambasciatore di Germania
telegrafò iersera che il Ribot avevagli categoricamente
dichiarato che le apprensioni italiane su Tripoli sono affatto senza
fondamento e che le notizie sparse in proposito sono false. Francia
non mosse neppure un soldato in quella direzione e non pensa
tagliare strada delle carovane traverso Sahara. Ministro aggiunse
esser vero che le frontiere tra Tunisia e la Tripolitania sono mal
tracciate; ma a scopo di evitare ogni contestazione non volere che
le frontiere fossero meglio fissate. Egli non intende in nessun modo
creare difficoltà all'Italia; se lo volesse, ben lungi
sceglierebbe come oggetto di litigio, nè Tripoli, nè
attinente deserto, ma troverebbe terreno più propizio in
Abissinia. Egli stesso, allo scopo di calmare certe preoccupazioni
in Italia, aveva provocato alla Camera una interpellanza alla quale
risponderà domani. Quantunque Conte di Münster avesse
ordine di parlare anche di Biserta, suo telegramma non ne fa cenno:
forse egli avrà stimato migliore partito tacere in presenza
delle dichiarazioni ricevute, qualunque possa esserne il valore, o
di rinviare ad altro colloquio questione di Biserta. Intanto
Segretario di Stato stima che ha importanza il fatto solo che il
governo della repubblica deve dedurre dalle spiegazioni chieste
dalla diplomazia tedesca come Germania invigila politica francese
verso il Mediterraneo; d'altronde schiarimenti che Ribot darà
domani alla Camera dei Deputati nel senso qui sopra indicato,
costituiranno sino ad un certo punto impegno della Francia. Al Conte
Hatzfeld furono pur confermate istruzioni di conversare
sull'argomento con Lord Salisbury che segue con vivo interesse mosse
della Francia in quelle regioni, ma non crede giunto il momento di
accentuare il suo contegno.
Per ciò occorrerebbe appoggio opinione pubblica, che si
commuoverebbe soltanto se si producessero fatti più palesi
sulle intenzioni francesi.
Launay.»
Il 22 gennaio alla Camera francese si parlò della
Tripolitania. Interrogante era il signor Pichon - divenuto dipoi
ministro degli affari esteri - «Sulle voci sparse da giornali
italiani, anche ufficiosi, relative a mire della Francia sulla
Tripolitania». Il Pichon - avvertiva in un primo telegramma il
Menabrea - «esprimendosi in termini assai simpatici verso
l'Italia, sorriso della civiltà latina7, disse desiderare che
i sentimenti della Francia verso l'Italia siano palesi, dissipandosi
le insinuazioni ostili il cui solo movente era, a suo avviso, di
rendere popolare in Italia la triplice alleanza». Rispose il
Ribot «brevemente riferendosi alle precedenti sue
dichiarazioni sulla cordialità dei rapporti tra la Francia e
la Turchia, ed aggiunse che il governo non doveva preoccuparsi della
campagna mossa dalla stampa italiana, tantoppiù dopo le
esplicite assicurazioni fatte dall'E. V. nel suo discorso di
Firenze. L'atteggiamento della Camera durante la discussione fu
piuttosto favorevole».
Ma il generale Menabrea, che forse non aveva assistito alla seduta,
leggendo il testo ufficiale delle parole pronunziate dai due
oratori, le giudicò diversamente in successivi telegrammi:
«Parigi, 23 gennaio 1891.
Si vede chiaramente che la scena parlamentare di ieri tra Ribot e
Pichon venne concertata, perchè quest'ultimo non fece che
ripetere i discorsi più volte fattimi da Ribot.
Il Journal des Débats di questa mattina consacra a quella
discussione un lungo articolo la cui origine ministeriale è
manifesta.
Siccome queste aspirazioni della Francia su Tripoli hanno incontrato
una marcata opposizione presso le grandi potenze, si cerca, mediante
una risposta ironica, di dare il cambio all'opinione pubblica sulle
intenzioni di questo Governo per ora paralizzate. Ma la gente di
buon senso non si lascierà cogliere da tali discorsi. Basti
rammentare il modo di procedere della Francia colla Tunisia. Finora
non ha ancora trovato i Krumiri per la Tripolitania e così
questo Governo vuole dissimulare la sua delusione scherzando contro
l'Italia.
Non conosco ancora telegramma Stefani cui allude V. E.»
«Parigi, 23 gennaio 1891.
(Riservato). Ecco secondo il testo ufficiale il solo periodo mordace
del brevissimo discorso di Ribot: «Quant à cette
campagne, dont vous a parlé tout à l'heure monsieur
Pichon, quant à tous ces articles de journaux dont la
fréquence et la similitude peuvent en effet attirer
l'attention, c'est peut-être leur faire beaucoup d'honneur que
de s'en occuper ici. Ce n'est pas le Gouvernement français
qui doit se plaindre de ces articles; c'est, il me semble, le
Gouvernement italien, car, dans un discours, que vous n'avez pas
oublié, l'honorable monsieur Crispi a déclaré
qu'il tenait à l'amitié de la France».
L'ironia era più spiegata nel discorso Pichon che perfino in
una frase di calde proteste di amicizia, chiamando l'Italia il
più simpatico sorriso della civiltà latina,
sembrò rinviare a V. E. il complimento di Firenze.»
L'on. Crispi il 22 stesso, ricevendo dall'Agenzia Stefani il
resoconto telegrafico della interpellanza Pichon e della risposta
del ministro Ribot, aveva notato l'ironia che contenevano e se ne
era lagnato come di una sconvenienza col Menabrea. Il 26 telegrafava
a quest'ultimo:
«(Personale). Ieri al ricevimento ebdomadario venne da me il
Signor Billot. Dopo parlato di vari argomenti, egli cominciò
insistere nel voler conoscere la mia opinione sulla interrogazione
del signor Pichon. Avendolo io più volte pregato di non
toccare quello increscevole tema ed egli seguitando a parlarne gli
dissi: «Vous français vous aimez faire de l'esprit et
monsieur Pichon en a fait parlant de l'Italie, comme monsieur Ribot
en parlant de moi». Allora l'ambasciatore tentò scusare
il suo Ministro osservando che forse non conoscevo testualmente le
parole da lui pronunciate. Risposi e gli mostrai che ne avevo il
testo ufficiale sotto gli occhi e lo pregai nuovamente di cambiar
discorso. Non aderendo egli a questo mio desiderio dissi: «Eh
bien, comme homme je me sens supérieur à votre
monsieur Ribot, parce que j'ai fait pour la cause de la
liberté, ce qu'il n'a fait jamais; comme ministre je suis son
égal et par conséquent j'ai droit à son
respect». E avendo il signor Billot esclamato: «c'est de
la susceptibilité italienne» replicai: «non,
c'est l'effet de l'attitude de vous français, d'autant plus
que l'interpellation avait été combinée entre
monsieur Pichon et monsieur Ribot. Or je comprends que dans une
improvisation un ministre puisse sortir de la juste mesure. Je ne
comprends pas que cela arrive lorsque le discours a
été preparé d'avance».
Il signor Billot non seppe che rispondere ed io allora per mutare
argomento gli chiesi del signor Desmarest, e di altro; così
la conversazione procedette e finì amichevolmente come al
solito.
Di quanto precede ho voluto informare Vostra Eccellenza per sua
norma personale, non già perchè Ella prenda occasione
d'intrattenerne il signor Ribot.
Crispi.»
Gl'incidenti di frontiera, come le esplorazioni militari
nell'hinterland tripolitano, continuarono negli anni seguenti. Le
autorità turche o lasciavano indisturbati i francesi o
fiaccamente mostravano di ostacolarli. Al principio del 1894, quando
Crispi riassunse il governo, la Francia aveva allargato il suo
già vastissimo dominio africano a danno della Tripolitania, e
continuava a sopraffare le timide resistenze della Turchia, con
silenziosa pertinacia, impedendo ai viaggiatori di altre nazioni
europee d'inoltrarsi verso il sud8 affinchè mancasse ogni
accertamento delle voci, che pur correvano a Tripoli, di nuove
usurpazioni, in aprile di Kuka, in giugno delle oasi di Gadames e di
Ghat, più tardi di Zuara e della baia di El Biban, oltre la
quale avevano portato il confine sul litorale.
Rinnovando proteste ed esortazioni ad agire diplomaticamente per
impedire che l'equilibrio del Mediterraneo fosse ulteriormente
turbato, Crispi trovò indifferente l'Inghilterra e tepide la
Germania e l'Austria. Il 4 aprile, l'ambasciatore Tornielli
telegrafava:
«Lord Kimberley non ha ancora ricevuto avviso della
occupazione di Kuka, ma non mette dubbio che i francesi sieno in
cammino per raggiungere il Bar-el-Ghazal. Gli domandai se a suo
avviso la Turchia non avesse nulla a dire in proposito, e rimase
silenzioso. Credo che malgrado che qui si continui a credere che
Francia non potrà tenere un paese così vasto, tuttavia
la marcia verso il Sudan egiziano inquieta Governo.»
E da Costantinopoli avvertiva l'ambasciatore Collobiano:
«La Sublime Porta sembra non dimostri interesse per la
questione dell'hinterland tripolino dopo insuccessi delle pratiche
fatte nel 1890.»
L'attività e la fermezza della Francia nell'estendere i
confini del suo impero africano erano davvero sorprendenti. Grande
era lo slancio dei suoi ufficiali e funzionari coloniali, i quali
avrebbero voluto inalberare il vessillo francese su tutta l'Africa;
ma anche il governo di Parigi nel suo spirito d'intraprendenza non
vedeva ostacoli. Il 4 febbraio 1894 fu stipulato un accordo tra la
Francia e la Germania per la delimitazione dei rispettivi territorii
del Camerun e del Congo, la quale partiva dalla intersezione del
parallelo della foce del fiume Campo col 15° meridiano Est
Greenwich e seguiva una linea spezzata i cui lati principali erano
il 13° longit. E. Greenwich, il 10° lat. N. e il thalweg
dello Sciarì, sino al lago Tciad.
La Francia riuscì con quell'accordo a congiungere i suoi
possedimenti del Congo coll'hinterland riconosciutole
dall'Inghilterra nel 1890 e che s'estendeva dall'Algeria e dalla
Tunisia al lago Tciad. Praticamente le sponde di quel lago, dalla
foce dello Sciarì girando a destra fino a Barruva (limite
anglo-francese), divennero francesi; e verso oriente la Francia non
aveva altri impedimenti alla sua espansione che quelli che potessero
esserle suscitati dall'Inghilterra il giorno in cui volesse
penetrare nel bacino del Nilo9. Parve allora che tutto l'hinterland
tripolino cadesse in balìa della Francia, e sebbene
nell'accordo del 1890 l'Inghilterra riservasse i diritti della
Porta, si prevedeva che la Turchia non avrebbe sollevato resistenze,
e neppure l'Inghilterra, allorquando la Francia, impadronitasi del
Wadai e del Baghirmi, si fosse avanzata verso la frontiera tripolina
meridionale.
Per dare un'idea dell'attività usurpatrice della Francia
riferiamo due memorie che in giugno 1894 e in giugno 1895
l'Ufficio Coloniale del Ministero degli Affari Esteri faceva a
Crispi:
«Con rapporto 2 corrente il regio console generale a Tripoli
riferisce intorno ad una corrispondenza comparsa sul giornale
francese La Dépêche Tunisienne del 26 maggio, nella
quale, sulle traccie di un articolo del Journal des Débats,
si raccomanda la prossima occupazione delle oasi di Ghadames e di
Ghat da parte della Francia. Con altro rapporto del 3 corrente il
cav. Grande dice d'averne parlato al governatore di Tripoli, il
quale non dubita punto che i francesi mirino ad impadronirsi di quei
due villaggi e che presto o tardi vi riescano.
Le oasi di Ghadames e di Ghat si trovano sulla carovaniera che parte
da Tripoli, e biforcandosi a Ghat, conduce per Agades al Sokoto,
oppure per Bilma al lago Tciad. La ricchezza della Tripolitania
è esclusivamente commerciale, e privata delle carovaniere che
mettono al Sokoto, al Bornù, ai Baghirmi e al Wadai, la
Tripolitania potrebbe paragonarsi ad «uno scrigno
vuoto». Ora, lo stabilimento della Francia a Barruva sul lago
Tciad, permesso dalla delimitazione anglo-francese del 5 agosto
1890, taglierà le comunicazioni fra Tripoli ed il Sokoto, e
renderà difficili quelle col Bornù; la occupazione
francese di Ghadames e di Ghat lascierebbe alla Tripolitania la sola
strada Bengasi-Kufra, la quale però perderebbe ogni sbocco
colla conquista, pur troppo non impossibile, del Wadai da parte
della Francia.
A Ghadames i turchi hanno una guarnigione d'oltre 500 soldati, e
dominio effettivo; gli stranieri non possono risiedervi ed un
algerino che intrigava apertamente a favore della Francia venne
ultimamente espulso.
L'incidente relativo provocò la destituzione del kaimacan di
Ghadames, che la Turchia promise, pro bono pacis, all'ambasciatore
Cambon.
Adesso la Francia vuol ottenere a favore degli algerini la
facoltà di risiedere a Ghadames, e ottenutala, ne
approfitterà per mandarvi emissari i quali facciano deviare
su Tunisi il commercio della regione del Tciad.
A questo si aggiunga che una esplorazione francese semi-ufficiale,
condotta dal giovane de Maistre, è partita in questi giorni
dall'Algeria nella direzione di Ghat.
Venne chiamata sulla questione l'attenzione dei governi di Berlino e
di Londra, come interessati, al pari del nostro, a conservare
l'equilibrio del Mediterraneo. Ma quelle pratiche, non formali,
trovarono poco ascolto. La Germania non vuole contrastare alla
Francia i suoi progressi africani, e l'Inghilterra, minacciata nel
bacino del Nilo, cerca adesso un aggiustamento a Parigi, e tutto
lascia credere che per ottenerlo sacrificherebbe di buon grado
l'hinterland tripolino.»
«La Carte générale des possessions
françaises en Afrique au 1er janvier 1895 edita in Parigi da
Augustin Challamel (Librairie coloniale, 5 rue Jacob) a cura di quel
Ministero delle Colonie, e destinata ai membri del Parlamento
francese, è tale da richiamare la generale attenzione.
Affinchè l'occhio di coloro ai quali è destinata non
sia distratto dallo scopo cui si è mirato, sulla distesa in
bianco del continente africano sono colorati con due diverse tinte
rosee solo i paesi ed i territori considerati in Francia come
possessi francesi, i quali (come si apprende dalla leggenda della
carta stessa) vengono distinti in due categorie; cioè:
1.a Possessions et pays de protectorat proprement dits;
2.a Zone d'influence politique;
quelli, segnati con fitte righe orizzontali continue; questi, con
punteggiatura; segni che danno all'occhio l'impressione di un colore
vivo per i primi, più attenuato per i secondi.
La carta è stata costruita prendendo per meridiano di base
quello di Parigi.
Or, ciò che nell'esaminarla colpisce, a prima vista,
l'osservatore, è oltre all'aver fatto della Tunisia una
semplice continuazione, una cosa sola col diretto possesso
dell'Algeria, la franchezza con la quale vi si accenna a costituire
in un grande insieme, senza soluzione di continuità, tutta la
sterminata distesa di territorii che va dal capo Bon a Brazzaville
sul Congo, dal Capo Verde al Bahr-el-Ghazal, con tentativo di
limitare alla costa, senza alcun hinterland, il Marocco ed i
possessi europei di qualunque nazionalità scaglionati
sull'Atlantico fin verso le foci del Congo.
La gran macchia rosea s'avanza così con una larga curva, che
va dal golfo di Gabes al 5° di latitudine nord, donde s'insinua
nel territorio del Bar-el-Ghazal.
Nè basta: altra macchia parte dalla baja di Tagiura con
sfumatura che accenna all'intendimento di congiungersi alla
precedente, in modo da avvolgere a sud la valle del Nilo,
tagliandole tutte le comunicazioni con l'Africa australe.
Quando si rifletta alla tenacia dei propositi con cui la Francia
continua a rodere gli hinterlands ancora rimasti al Marocco ed alla
Tripolitania; al diritto di prelazione che si arroga sul territorio
dello Stato indipendente del Congo, col quale, in questi ultimi
tempi, ha stretto una convenzione in antitesi con la precedente
stipulata dal Congo coll'Inghilterra circa la zona fiancheggiante
l'Alberto-Nianza, disponendo così in favore del Congo di un
territorio posto nella valle del Nilo; e si pensa, inoltre,
all'opposizione non dissimulata contro l'azione inglese in Egitto,
nonchè ai tentativi fatti in Etiopia a danno dell'influenza
italiana sancita dai trattati; dinanzi a questa carta così
recente ed ufficiale, risulta evidente che la Francia prosegue il
disegno grandioso di ridurre al suo dominio ed alla sua influenza il
continente nero, a partire da oltre il 10° parallelo di
latitudine sud, per giungere fino alle rive del Mediterraneo.
Quando poi da una osservazione sommaria si passa ad un esame minuto
della carta, ciò è eloquentemente confermato da
significanti particolari.
Infatti, mentre per i paesi dell'Africa australe fin verso
l'Equatore gli scompartimenti territoriali sono indicati, segnando e
i rispettivi confini e la potenza che ne ha il possesso diretto od
il protettorato, per quelli a settentrione non avviene altrettanto.
In tutta l'Africa orientale non si trova nessun segno di confine e
nessuna indicazione di possesso, tranne sulla costa dell'Oceano
indiano, che va dal confine N. e N.-E. dei possedimenti tedeschi
nell'Africa orientale, al capo Guardafui; costa divisa dalla foce
del Giuba in due parti. Su di essa e ben prossime al mare si trovano
le due leggende: «Possessions anglaises de l'Est
africain» ad ovest del Giuba, e «Possessions
italiennes» ad est di detto fiume.
Ma più a nord non si trova nessuna traccia dei confini
fissati dal protocollo anglo-italiano del maggio 1894 per le
rispettive zone d'influenza nella penisola dei Somali. E peggio
ancora avviene risalendo al golfo d'Aden ed al mar Rosso; che,
mentre il confine di sud-est del possedimento francese di Obock
viene spinto sin presso alla città di Harar, nessunissimo
cenno reca la carta sui possedimenti italiani del mar Rosso,
sull'Eritrea, sul nostro protettorato in Etiopia e sui protocolli
anglo-italiani del marzo ed aprile 1891, che fissano i confini
occidentali della nostra sfera di influenza.
Solo confine segnato nella vasta zona d'influenza italiana ed
inglese nell'Africa orientale è quello suaccennato, che fu
stabilito con la nota convenzione anglo-francese del febbraio 1888;
ma, senza far altri nomi o dare altre indicazioni, che potevano
riuscire incomode, il confine stesso viene - come s'è
già rilevato - spinto vicino alla città di Harar, la
quale è lambita a nord dal colore roseo sfumato indicante i
paesi d'influenza francese, invece di fermarsi a nord-est di
Gildezza, come è fissato nel detto protocollo.
Ma non la sola Italia è trattata, in questa carta ufficiale,
in modo fantastico.
Sulle coste del mar Rosso, come lungo tutta la valle del Nilo,
è vano ricercare qualsiasi punto che accenni ad un qualche
interesse od influenza inglese o d'altra potenza; così pure
lungo le spiaggie africane del Mediterraneo fino al golfo di Gabes,
fin dove, cioè, incomincia il roseo vivace del dominio
francese.
Nel Mediterraneo è degno di nota il fatto che, mentre alla
indicazione «I. de Malte» fa seguito fra parentesi
quella di (A) «anglaise», e così avviene pure per
«Gibraltar», non avviene altrettanto per l'«Ile de
Chypre».
Mentre poi il compilatore della carta ha sentito vivo scrupolo di
far conoscere che l'Ile de Malte e Gibraltar sono inglesi, dimentica
invece di segnare che sullo stretto di Gibilterra, e precisamente
sulla sponda africana, la Spagna ha da secoli dei possedimenti; e
del pari dimentica d'indicare essere la costa dell'Atlantico che
corre da capo Bojador al capo Bianco pure possesso spagnuolo,
conosciuto col nome di governo del Rio dell'Oro, e riunito alla
capitaneria delle isole Canarie.
Nè minori sono le sorprese che riserva allo studioso
l'ispezione degli altri paesi segnati in colore di rosa, e che a
parere dell'autore della carta, formano le «Possessions
françaises en Afrique».
Con lo stesso metodo con cui si è fatta giungere l'influenza
francese sino alla città di Harar, si fanno lambire dalle
varie tonalità del delicato colore, Figuig, finora
marocchino, Ghadames e Ghat (sulla carta Rhât) appartenenti
senza contestazione all'hinterland tripolino; e così Jat,
donde la linea sfumata della influenza francese volge arditamente a
sud-est, per terminare, come si disse, sul Bahr-el-Ghazal al 5°
grado di latitudine nord. Ivi si congiunge al colore più
denso, segnale di possesso effettivo, che dall'Ubangi e dal M'Bomu a
sud, va a nord ed a nord-ovest, abbracciando tutto il bacino dello
Sciarì superiore fino al 10° di latitudine nord e da
questo punto la destra soltanto, recingendo il lago Tciad dalla foce
dello Sciarì ad est, nord ed ovest fino a Cuca, rasentata, al
solito, dal colore di rosa.
Dalla parte occidentale, una linea retta che parte dai possessi
algerini, segnati come effettivi fino a sud di Figuig, taglia lo
incrocio del 5° di longitudine occidentale da Parigi col 30°
di latitudine boreale, e va a terminare al 21°20' pure di
latitudine nord, sul prolungamento della linea di divisione fra il
Senegal ed il governatorato di Rio dell'Oro, togliendo al medesimo
ogni hinterland.
Con queste due linee sono congiunti i possessi francesi del
Mediterraneo a quelli del Senegal, della Guinea francese, della
Costa dell'Avorio e del Congo francese; e la congiunzione si
termina, dal Niger al lago Tciad, con altra linea, che, nonostante
la convenzione anglo-francese dell'agosto 1890, va direttamente
secondo il 12°30' di latitudine nord, lasciando Barruva e Sokoto
alla Francia.
Dal vasto aggregato rimarrebbe tagliato fuori il territorio del
Dahomey poichè gli hinterlands rispettivi della costa d'Oro
inglese, del Togo tedesco, del Dahomey francese e del territorio del
Niger anche inglese, non furono mai oggetto di convenzione fra le
potenze interessate, i cui interessi potrebbero essere in
antagonismo; ma l'ingegnoso autore della carta non si scoraggia per
ciò. Prolunga alquanto verso nord i confini che separano il
Dahomey ad ovest del Togo germanico, ad est del territorio del Niger
britannico; quindi li fa volgere arditamente, il primo a nord-ovest
fino poco sopra il 10° di latitudine nord, il secondo a
nord-ovest fino alla riva destra del Niger, il quale fiume è
preso da lui per confine effettivo a nord-est, poi con una larga
fascia del solito color di rosa attenuato, limita l'hinterland del
Togo tedesco e della Costa d'Oro inglese, mentre collega il Dahomey
all'impero africano francese.
Il quale impero viene così ad avere, per ora, tre basi
d'espansione, senza pregiudizio dell'altra a cui si mira d'altro
lato: la baia di Tadjura. Esse sono Tunisi ed Algeri a nord, quello
che l'autore della carta chiama Sudan francese ad ovest, ed il Congo
francese, aspettando che vi si aggiunga il Congo indipendente, a
sud.
Così senza parlare dell'oasi di Tuat, che verrebbe ad essere
considerata come completamente avvolta dalla zona d'influenza
francese ed in essa compresa, senza parlare del modo equivoco col
quale figurano Figuig, Ghadames e Ghat, modo che può
offendere gli interessati all'integrità marocchina e
tripolina, l'hinterland tripolino viene a subire un altro ben grave
attentato.
Le due grandi strade carovaniere, le quali da Ghadames e da Tripoli
per l'oasi di Bilma conducono al Tciad, sarebbero, accettando questa
nuovissima geografia politica dell'Africa, a discrezione della
Francia, venendo ad essere in suo potere l'oasi di Bilma stessa, ove
debbono necessariamente far capo. Nè basta: venendo con tale
sistema anche il Vadai ed il Baghirmi ad essere inclusi nella sfera
d'influenza francese, questa non troverebbe ormai più altri
limiti alla sua espansione verso est che nel suo beneplacito stesso.
Quando nella convenzione anglo-germanica del 20 novembre 1893 sul
lago Tciad, l'Inghilterra proponeva e la Germania accettava che
quest'ultima non avrebbe estesa la sua influenza ad est dello
Sciarì, e quando nell'accordo del 4 febbraio 1894 fra la
Germania e la Francia si ripeteva ancora che lo Sciarì era il
limite dell'espansione tedesca ad est, non poteva essere certo
nell'intenzione di tutte le parti Contraenti che quello che non
veniva consentito alla Germania dovesse senz'altro essere
considerato come concesso alla Francia.
Tutt'al più la questione potrà essere oggetto di
ulteriori accordi fra le potenze interessate, anche per il fatto
evidente che, in rapporto alla Francia, detti paesi sfuggono alla
sua influenza secondo la teoria degli hinterlands, e che,
rinunziandovi per parte loro e la Germania e l'Inghilterra per i
possessi rispettivi sull'Atlantico (compagnia Niger e Cameron), la
teoria stessa starebbe in favore della Tripolitania, anche senza
tener conto dei diritti della Turchia.
Nè va omesso che, a norma di quanto venne stabilito dall'Atto
Generale della Conferenza di Berlino, le affermazioni di
protettorato debbono essere notificate alle potenze firmatarie, alle
quali fu riconosciuto il diritto di fare le proprie eccezioni.
Ora nulla di simile è avvenuto per il Vadai e per il
Baghirmi, e per tante altre delle regioni summenzionate.
Riassumendo, la carta che abbiamo esaminato, mentre segna vere
usurpazioni di territori per parte della Francia, sia perchè
la presa di possesso non ne fu mai notificata alle potenze
firmatarie dell'Atto Generale di Berlino, sia perchè essi
formano parte integrante di legittimo dominio di altre potenze, non
tiene alcun conto dei diritti acquistati dall'Italia in Africa in
virtù di regolari trattati, non accenna neppure a quelli
dell'Inghilterra lungo il corso del Nilo, e porta un fiero colpo
all'equilibrio del Mediterraneo, con una arbitraria determinazione
degli hinterlands tripolino, tunisino, algerino e marocchino.
Così anche i possedimenti spagnuoli del Mediterraneo, i
possedimenti tedeschi e portoghesi dell'Atlantico e quelli dello
stesso Stato libero del Congo sono, come si è visto,
arbitrariamente delimitati.»
La marcia della Francia attraverso le vie carovaniere che
congiungono Tripoli al centro dell'Africa non si arrestò
più. Una nuova convenzione franco-britannica (14 giugno
1898), completata con una dichiarazione addizionale del 21 marzo
1899 dopo l'urto di Fascioda, estendeva ancora la zona d'influenza
francese. La difesa che l'Italia tentò dei diritti della
Turchia fu fiacca e senza effetto. A Costantinopoli si dava
più importanza al sospetto che l'Italia meditasse
l'occupazione di Tripoli, anzichè alla realtà delle
usurpazioni della Francia.
Questa non aveva più preoccupazioni per la sua conquista
tunisina. Finchè il governo italiano tenne fermo ai diritti e
ai privilegi che godeva in Tunisia in virtù di trattati che
la Francia aveva nel 1881 dichiarato di volere rispettare, l'Italia
era in grado di proteggere gl'interessi italiani nell'antica
Reggenza, e teneva una posizione che imponeva alla Francia, e
l'avrebbe costretta, desiderosa com'era di consolidare la sua
conquista, a scendere a patti. Ma il ministero
Rudinì-Visconti Venosta, al desiderio di disarmare i malumori
francesi sacrificò quella posizione senza compenso.
Già il 15 agosto 1895 il governo francese aveva denunciato il
trattato di amicizia, commercio e navigazione concluso l'8 settembre
1868 tra l'Italia e la Tunisia, dichiarando di agire in nome del Bey
e in virtù del trattato di Kassar-Said (detto anche del
Bardo) del 12 maggio 1881. Il Ministero Crispi aveva risposto, per
mezzo del conte Tornielli ambasciatore a Parigi,
«essere bensì vero che, con nota del 9 giugno 1881, il
signor Rustan portava a notizia della R. Agenzia e Consolato
Generale d'Italia in Tunisi il trattato di Kassar-Said; ma che di
tale comunicazione non fu da noi preso atto e nemmeno segnata
ricevuta. Epperò mentre fo le più ampie riserve in
merito all'argomento cui si riferisce la nota del signor di Lavaur,
prego Vostra Eccellenza di voler significare, verbalmente per ora, a
codesto Governo, le eccezioni del Governo del Re al procedimento
seguito.»
Il governo della Repubblica rispondeva come risulta dal seguente
telegramma del Tornielli:
«Ministro degli Affari Esteri mi disse che la clausola di
riconduzione tacita per 28 anni non gli lasciava per così
dire libera scelta di condotta, e gli imponeva di denunziare il
trattato italo-tunisino perchè nessuno presentemente
acconsente a lasciare impegno per così lungo periodo.
Fortunatamente, egli soggiunse, previdenza dei negoziatori di quel
trattato ci lascia un anno di tempo, durante il quale avremo tempo
scambiare insieme molte idee, e di vedere insieme il miglior assetto
da dare alle cose. Il Ministro non suppone che in Italia il Governo
abbia potuto attribuire alla denunzia del trattato un effetto
diverso da quello che è nell'intenzione del Governo francese
di darvi, cioè, di un atto reso necessario eventualità
clausola di riconduzione anzidetta; ma egli tiene ad escludere che
altri concetti abbiano guidato il Governo francese in questa
occasione. Dissi che io non avevo ricevuto istruzioni a tale
riguardo, e che avrei trasmesso a Vostra Eccellenza questa
dichiarazione.»
Crispi non era disposto a rinunziare senza compenso ai benefici che
le capitolazioni e le convenzioni anteriori - richiamate nel
trattato del 1868, non annullate - assicuravano all'Italia, e la
Francia avrebbe dovuto tenere conto degli interessi italiani. Vi era
un anno di tempo per discutere e negoziare; ma ai primi di marzo
1896 il ministero Crispi si dimise, e il negoziato fu condotto dal
Ministero Rudinì-Caetani, il quale volle trattare
contemporaneamente la questione tunisina e il ristabilimento delle
relazioni commerciali franco-italiane. In realtà le due cose
erano estranee l'una all'altra; in Tunisia avevamo una posizione
giuridica eccellente e diritti da far valere, mentre non era
sperabile che, cedendo su quelli, la Francia ci avrebbe accordato
tariffe di favore.
Infatti in Francia, dove la considerazione dei nostri diritti non
entrava in mente a nessuno, anche l'idea di tornare al regime
convenzionale nei commerci con l'Italia sembrò una
concessione eccessiva, cioè senza corrispettivo. Il governo
francese sapeva l'opinione pubblica così prevenuta contro di
noi che scongiurò il ministro italiano di non insistere.
Passarono alcuni mesi; il ministero Rudinì si ricompose, alla
Consulta il duca Caetani fu sostituito dal Visconti-Venosta.
Quest'ultimo trovò la situazione peggiorata, poichè
mancata la vigilanza del governo italiano, l'Inghilterra - la quale
in agosto 1895 aveva assicurato che avrebbe proceduto d'accordo con
l'Italia - aveva consentito a negoziare con la Francia, rinunziando
al trattato perpetuo che aveva col Bey; e anche l'Austria-Ungheria,
in luglio 1896, aveva ceduto alle istanze francesi, riservandosi in
Tunisia il trattamento della nazione più favorita. Insistere
nella via tracciata da Crispi era, ormai, impossibile, poichè
l'Italia non avrebbe trovato nelle potenze amiche e alleate
l'appoggio sul quale Crispi aveva fatto assegnamento. L'on.
Visconti-Venosta non insistette neppure per un accordo commerciale;
e il 28 settembre 1896 furono firmate le convenzioni con le quali
l'Italia riconosceva senza compensi, dopo quindici anni, la
conquista francese della Tunisia con tutte le sue conseguenze.
«Nous y gagnions - ha scritto recentemente10 l'ambasciatore
che la Francia aveva allora in Italia, il signor Billot - de
libérer notre protectorat des entraves qui en paralysaient
l'exercice.... l'Italie renonçait à y demeurer avec
nous sur un pied de complète égalité et
reconnaissait implicitement les consequences des
événements qui nous y avaient conféré
une situation privilegiée.»
Nel 1902 avvenne il noto accordo franco-italiano pel quale l'Italia
si disinteressò del Marocco a favore della Francia, e la
Francia ci lasciò mano libera in Tripolitania e in Cirenaica.
Il governo della Repubblica fece con cotesta combinazione un buon
affare, poichè mentre il valore commerciale di quei due
vilayets era di molto ridotto per le erosioni fatte dagli stessi
francesi nei loro hinterlands, il ministro Delcassé - che
concluse l'accordo col ministro italiano Prinetti - abbandonava
all'influenza italiana un territorio dove la Francia non aveva
interessi e che mai avrebbe potuto far suo; l'Italia non avrebbe
subìto quest'altro colpo, e non sarebbe rimasta sola a
pararlo.
L'abbandono del Marocco all'esclusiva influenza francese fu un
notevole sacrificio degli interessi italiani e pregiudicò
irrimediabilmente l'avvenire della nostra politica mediterranea. Una
Francia troppo forte nel mare che ci circonda è un
pericolo permanente per noi. Crispi intendeva che la
Tripolitania divenisse italiana come compenso all'ingrandimento
già avvenuto della Francia con la occupazione della Tunisia;
il Marocco allora indipendente, non poteva formare oggetto di
accordi che avessero relazione col passato. Per questo egli
lavorò a creare interessi italiani e influenza italiana
nell'impero sceriffiano e prese intelligenze con la Spagna che,
purtroppo, i suoi successori non seppero mantenere.
Durante il suo primo ministero, Crispi colorì il suo disegno
con importanti successi. Il Sultano Mulei Hassan dette a italiani
consenso e denaro per l'impianto di una fabbrica d'armi a Fez e di
una zecca, e giunse nella sua deferenza ai consigli del nostro
governo sino a risolversi alla creazione di una marina da guerra e
ad ordinare ad un cantiere italiano, quello degli Orlando di
Livorno, la costruzione della sua prima nave11.
La Spagna aveva nel Marocco una tradizione da continuare e ingenti
interessi, sia per i possessi effettivi tenuti in quell'impero, sia
per i diritti che vantava per il trattato di Wad Ras e per la stessa
sua posizione geografica. Era quindi sana politica quella seguita da
alcuni suoi statisti, come il duca di Tetuan, di procedere di
conserva con l'Italia per resistere alla invadenza francese. Crispi
sinchè fu al governo dette alla Spagna l'appoggio della sua
autorità presso le grandi potenze e dei suoi consigli, e le
sorti dell'influenza spagnuola nel Marocco sarebbero state
più propizie se Spagna e Italia avessero continuato
quell'indirizzo.
L'accordo franco-italiano del 1902, sebbene oneroso per l'Italia,
ebbe contraria una gran parte dell'opinione pubblica francese. Non
v'è scrittore francese di questioni internazionali che non
l'abbia deplorato, considerandolo da un angolo visuale esclusivo
come se la Francia sola esistesse e gli altri popoli non avessero il
diritto di provvedere al loro avvenire. «Lo statu-quo nella
Tripolitania - hanno scritto sino a ieri - non è la migliore
garenzia della durata delle buone relazioni tra la Francia e
l'Italia nel Mediterraneo? Quando l'Italia si sarà stabilita
a Tripoli, le buone relazioni non potranno durare!»12
E pochi mesi or sono, in febbraio 1912, quando l'Italia già
guerreggiava contro la Turchia, Gabriele Hanotaux, ex-ministro degli
affari esteri, ha scritto che l'occupazione italiana della
Tripolitania «apre un grande conflitto tra l'Italia e la
Francia!»13
Se il senso dell'equità non riuscirà a penetrare nelle
menti dei nostri vicini d'occidente, se il governo della Repubblica
non saprà rendersi superiore alla latente ostilità del
popolo francese per ogni interesse italiano, se la Francia non
dimenticherà la storia del suo predominio e della sua
influenza al di qua delle Alpi, le parole di Gabriele Hanotaux
saranno un vaticinio. E sarà un triste giorno per i due
popoli, i quali anche nell'opera d'incivilimento dell'Africa
potrebbero giovarsi di una solidarietà che sarebbe gloriosa
per entrambi.
Ma se l'avvenire ci riserba il «grande conflitto», siamo
sicuri che non sarà l'Italia ad accenderlo.
La Porta accettò soltanto nel 1910 di trattare una
delimitazione di frontiera, ma chiese ed ottenne, affinchè
non fosse implicito, per tale suo atto, il riconoscimento del
trattato del Bardo, che i commissarii tunisini fossero nominati dal
Bey e non dal Residente francese.
La Commissione si riunì a Tripoli in aprile 1910. Dapprima i
commissarii ottomani sostenevano una linea che da El-Biban, sul
mare, va all'oasi di Remada, rivendicando alla Tripolitania le
usurpazioni compiute dai francesi. Poi, chissà per quali
influenze, ripiegarono, e il 10 maggio venne firmato un atto che
indicava sulla carta il tracciato della frontiera. Cotesto tracciato
si sviluppa dal Mediterraneo a Gadames su di una lunghezza di 480
chilometri; parte da Ras Adjedir (o Adijr), tocca Dehibat, passa tra
Dehibat e Uezzen, volge verso i due pozzi di Zar, dei quali uno
rimane alla Tripolitania e l'altro alla Tunisia, quindi si dirige
verso il pozzo di Mechiguig (o Imchiguig) che rimase in
Tripolitania. A partire da questo pozzo, la frontiera resta
equidistante tra le carovaniere Djeneien-Gadames e Nalut
Capitolo Terzo.
Le fortificazioni di Biserta.
Biserta, la «maggiore posizione strategica del
Mediterraneo». - Crispi impedisce alla Francia di
fortificarla. - Gl'impegni del 1881, confermati da vari ministri
francesi, sono da Ribot dichiarati senza valore. - Sorpresa della
Germania per la teoria di Ribot. - Lord Salisbury presta fede alle
dichiarazioni della Francia che non fortificherebbe Biserta. -
Pro-memoria di Crispi a Salisbury. - Il cancelliere Caprivi e il
reclamo italiano. - Possibilità di guerra. - Il ritiro di
Crispi dal Governo lascia libera la Francia. - Lo Stato Maggiore
germanico e Biserta. - Una lettera angosciosa di Crispi al Re
Umberto. - Biserta fortificata è l'orgoglio della Francia e
una minaccia per l'Italia.
La questione di Biserta, accesa, si può dire, fin dal 1881,
si fece viva e ardente più che mai, sotto il primo ministero
Crispi (1887-91).
L'on. Crispi, nella qualità di ministro per gli affari
esteri, tenne costantemente rivolta la propria attenzione a siffatta
vertenza, e non si stancò mai:
a) di far tener dietro, con vigilante cura, sul posto, al progresso
e alla natura de' lavori che si venivano compiendo a Biserta:
B) di denunziare alle potenze amiche, alleate, o interessate,
siffatti progressi ed ogni lieve fatto che meritasse di essere
rilevato;
c) di chiedere schiarimenti e ottenere assicurazioni dal governo
francese;
d) e sopratutto, di interessare l'Inghilterra a prendere
l'iniziativa e ad associarsi a noi e ai nostri alleati in una azione
diretta ad impedire il proseguimento di que' lavori, che si
rivelavano contrari agl'impegni presi dalla Francia all'epoca
dell'imposizione del suo protettorato in Tunisia, e che minacciavano
di turbare l'equilibrio e lo statu quo nel Mediterraneo.
Il gabinetto britannico, dietro nostre replicate sollecitazioni, con
memorandum 10 gennaio 1889 ammise e dichiarò al nostro
governo di riconoscere che Biserta era la maggiore posizione
strategica nel Mediterraneo, e fermamente ammonì, in
conseguenza, il governo della Repubblica francese rammentando
gl'impegni da esso presi nel 1881. La Germania fece altrettanto a
Parigi per mezzo del proprio ambasciatore. E risulta così che
la Francia non dette esecuzione ai suoi progetti perchè
l'Europa teneva gli occhi rivolti a Biserta. La Repubblica francese,
infatti, - (essendo ministro degli esteri il Goblet) - si
affrettò a rassicurare Londra e Roma che non aveva intenzione
nè di ampliare nè di fortificare il porto di Biserta,
e che trattavasi soltanto di scavi necessarii e periodici.
A nuove insistenze del ministro Crispi in data 29 gennaio 1889,
Salisbury risponde confermando che la questione di Biserta interessa
non meno la Gran Brettagna che l'Italia, e avvertendo che fa
esercitare sul luogo continua vigilanza e manda ogni tanto una nave
della flotta a constatare il vero stato delle cose.
Incessante dopo d'allora fu lo scambio di comunicazioni in proposito
con Londra, con Parigi, Vienna e Berlino. Ancora il 5 novembre 1889
lord Salisbury trova giustificate le apprensioni nostre rispetto al
porto e ai lavori che cautamente si eseguono a Biserta.
Il 25 giugno 1890 l'ambasciatore Tornielli telegrafa a Roma:
«Salisbury mi ha detto che il signor Waddington [ambasciatore
francese a Londra] nega che i lavori di Biserta abbiano carattere
militare.»
Ma in ottobre il ministro degli affari esteri della Francia, Ribot,
mentre assicura che non sono in corso studi per l'erezione a Biserta
di opere militari, afferma che la Francia ha facoltà di
erigervene, e alla obiezione mossagli dall'ambasciatore italiano che
per bocca dei ministri suoi predecessori la Francia ha assunto
impegno di non fortificare quel porto, risponde che qualunque
dichiarazione precedente non lega il governo francese, e che il Bey,
in ogni caso, ha piena libertà di premunirsi.
Questa arditissima teoria del ministro Ribot, comunicata alle
Cancellerie amiche col rapporto del generale Menabrea che la
riferiva, parve ed era una sfida. La Cancelleria germanica l'accolse
severamente, secondo si legge nella lettera che segue
dell'ambasciatore di Launay:
«Berlino, 5 Novembre 1890.
Signor Ministro,
Nel ricevimento ebdomadario di ieri ho dato lettura al Segretario di
Stato del dispaccio di V. E. del 30 ottobre scorso num.... Mi sono
giovato dell'allegato per redigere un promemoria confidenziale che
rimetterò in copia, omettendo le due ultime frasi che
concernono l'attuale attitudine dell'Inghilterra. Ma nel senso di
esse mi sono espresso verbalmente.
Il barone de Marschall criticò vivamente la dottrina
enunziata dal signor Ribot sul non valore delle dichiarazioni
scritte e verbali fatte dai suoi due predecessori circa il porto di
Biserta. Una dottrina simile sarebbe contraria a tutte le regole
adottate nelle relazioni internazionali ed in opposizione con la
buona fede, dalla quale nessuno saprebbe fare astrazione. Sarebbe
altresì un atto cinico ed una vera mistificazione il porsi
dietro la sovranità del Bey di Tunisi, ridotto a
rappresentare una parte da marionetta, per mascherare i progetti
della Francia. È questa una nuova goffaggine da aggiungere
alle altre commesse dal ministro degli affari Esteri della
Repubblica. Egli avrebbe fatto meglio dal suo punto di vista
limitandosi a sostenere che la natura dei lavori progettati o in
corso di esecuzione a Biserta, e il loro scopo, non hanno e non
avranno che un carattere commerciale.
Il Segretario di Stato m'ha promesso di scrivere all'ambasciatore di
Germania a Londra affinchè parli al Foreign Office nel senso
del promemoria predetto e ne richiami l'attenzione sul contenuto del
medesimo. Se lord Salisbury - forse perchè l'opinione
pubblica del suo paese non si appassiona ancora a tale questione -
non crede che sia venuto il momento per ricordare al gabinetto
francese i suoi impegni formali, questo ministro è
però animato da buone intenzioni verso di noi e sorveglia da
vicino le mene francesi. Nondimeno è utile dare al marchese
di Salisbury una spinta.
Il Cancelliere dell'Impero, che ho accompagnato ieri alla stazione
per prendere congedo da lui nel momento che partiva per l'Italia, mi
ha confermato in termini generali quello che mi ha detto il
Segretario di Stato.
Launay.»
Lord Salisbury, in verità, si dimostrava proclive a prestar
fede alle assicurazioni francesi, e all'Incaricato d'affari della
Germania esprimeva il parere
«non essere opportuno risolvere la questione a Parigi
finchè non si produca qualche fatto palese sulle intenzioni
del governo francese, mentre il Waddington l'aveva assicurato in
modo positivo che il suo governo non mirava a fare di Biserta un
porto fortificato.»
Dovette Crispi dimostrare a Londra l'irrefutabile carattere militare
dei lavori, la gravità della questione e le irreparabili
conseguenze che sarebbero per derivarne.
Il pro-memoria che fece presentare a lord Salisbury è questo:
«Bizerte ou Benzert, l'ancienne Hippo-Zarytos des
Phéniciens, située sur la côte de la Tunisie,
là où le continent africain s'allonge vers la Sicile,
est à cheval sur le bras de mer qui mène au lac du
même nom. Ce lac a une étendue et une profondeur
suffisantes pour offrir aux plus gros navires, à
l'achèvement des travaux, cinquante milles carrées de
mouillage. Ainsi placée sur la Mediterranée,
favorisée par la nature qui lui a donné un port
très vaste et parfaitement à l'abri des colères
de la mer et des attaques des flottes ennemies, et se trouvant
aujourd'hui aux mains d'une puissance maritime de premier ordre,
Bizerte est un élément de grande valeur dans le calcul
des ressources défensives et offensives actuellement à
la position des différentes puissances européennes.
Cette nouvelle situation, créée par les
événements de 1881, attira immédiatement
l'attention des cabinets intéressés au maintien de
l'équilibre dans la Mediterranée, et il en vint cet
échange de notes, de remontrances d'un côté et
de vagues assurances de l'autre, qui, commencé dès la
descente des Français en Tunisie, n'a pas encore pris fin.
Il appert de cet échange de notes qu'au commencement de 1889
le premier ministre de S. M. Britannique paraissait avoir pris un
grand intérêt à cette affaire, à cause de
laquelle de pressantes démarches avaient été
faites auprès de lui, même de Berlin; mais que, plus
tard, des explications fournies à Paris l'avaient
persuadé que «les travaux projetés n'avaient
point de grande importance». Une année après, le
3 juin dernier, toujours convaincu que ce qu'on était en
train de faire ou de projeter pour Bizerte n'offrait qu'une mediocre
importance, il disait à l'ambassadeur du Roi que «si,
comme il le désirait et l'espérait, l'Angleterre et
l'Italie restaient unies, leurs forces navales suffisaient à
leur donner la supériorité sur toute autre puissance,
et n'avaient rien à redouter des fortins de Bizerte».
Plus tard, en septembre, le sous-secrétaire d'Etat aux
affaires étrangères déclarait que «les
travaux en voie d'execution ne paraissaient pas encore avoir un but
militaire».
Les considérations suivantes pourront démontrer que
l'avis exprimé par le Foreign Office n'est guère
conforme à l'état réel des choses.
En creusant de quelques mètres le port actuel de Bizerte et
en élargissant le canal d'entrée moyennant la
démolition de la Kasba, on répondrait suffisamment aux
exigences du commerce qui est à peu près nul, comme il
est démontré à l'evidence par les
récettes de la douane qui n'atteignent jamais 50 000 fr. par
an. Or, comme il n'est guère admissible qu'on songe à
faire de Bizerte le port commercial de la Tunisie, de grands travaux
étant en même temps en cours d'exécution dans le
port de Tunis14, à 32 milles de Bizerte, il est facile d'en
conclure que tout ouvrage visant non pas à améliorer
le port actuel, mais à en créer un nouveau de grands
proportions, a un but essentiellement militaire. Et les travaux
qu'on est en train d'executer à Bizerte ont
précisément en vue un port immense, l'un des plus
grands du monde, pour lequel on creuse un canal d'entrée de
200 mètres de largeur et de 12 de profondeur.
Il est à remarquer que quand même le mouillage serait
de beaucoup plus limité, la profondeur que l'on veut donner
à ce canal suffit à prouver qu'il est destiné
aux grands navires de guerre. En effet, il n'y a pas aujourd'hui de
navire marchand ayant un tirant d'eau de 8 ou 9 mètres,
qu'atteignent seulement les navires de combat de 1re classe,
jaugeant de 12 à 14 000 tonnes. Le canal de Suez qui
interesse tous les pays, qui a été creusé
exclusivement pour le commerce et donne passage aux plus grands
steamers de toutes les marines marchandes du monde, n'a qu'une
profondeur de 8 mètres.
Il existe d'ailleurs des preuves directes que dans ce que l'on fait
ou qu'on compte faire a Bizerte, on s'est proposé pour but
non le commerce mais la guerre. On trouve ces preuves dans la
construction d'une grande caserne pour laquelle on a publié
dès le mois de mai dernier le décret d'expropriation
du terrain nécessaire; dans la construction
déjà achevée de baraques pour le génie
militaire; dans l'augmentation de l'effectif de la garnison qui a eu
lieu ces derniers jours; dans la construction imminente d'ouvrages
de fortification en vue desquelles le gouvernement tunisien vient de
publier (le 3 de ce mois) un décret du Bey portant
constitution de servitudes militaires15. En dernier lieu la
fondation d'une grande compagnie appelée du Port de Bizerte16
avec un capital de neuf millions, prouve qu'il ne s'agit point de
travaux de petite importance, mais bien de travaux grandioses dans
lesquels, d'après ce qu'on vient d'exposer et malgré
le caractère privé qu'on leur a artificiellement
donné, on peut, selon toute raison, reconnaître
l'intention de faire de Bizerte un port militaire.
Il est inutile d'objecter qu'il faudra de plus grandes sommes et
beaucoup d'années pour que cette transformation
s'accomplisse; on ne sait que trop que lorsqu'il s'agit de pareils
travaux, qui intéressent la défense nationale, les
crédits sont toujours accordés aussitôt qu'ils
deviennent nécessaires. Il faut au contraire remarquer, ce
qui n'est pas aussi universellement connu, qu'il ne faut point de
travaux de grandes proportions pour faire de Bizerte un port de
guerre, mais qu'il suffit relativement de peu de chose, de
façon que le temps et les dépenses nécessaires
ne seraient rien moins que proportionnés aux résultats
que l'on obtiendrait17. Il ne faut d'ailleurs pas oublier que quand
même la place ne serait point fournie de tout le
nécessaire dès le commencement des hostilités,
elle n'en serait pas moins une grande ressource pour la France et
une menace sérieuse pour ses ennemis, si seulement le canal
en était rendu praticable aux grands navires sous la
protection de quelques puissantes batteries côtières,
et si la place contenait les approvisionnements indispensables de
charbon, vivres et munitions de guerre et les moyens
nécessaires pour radouber des navires.
Il n'y a par conséquent rien que de vraisemblable dans la
supposition que la France si elle veut (et tout nous prouve qu'elle
le veut) possédera à Bizerte, dans un peu plus de cinq
ans, un port militaire vaste et sûr qui lui servira de base
pour des expéditions maritimes dans la Mediterranée
meridionale, et de port de refuge en cas d'insuccès. Et quand
même cela n'arriverait que dans dix ans, y a-t-il moyen de ne
pas voir que sa puissance sur mer en serait énormément
augmentée?
La France ne possède actuellement sur la
Méditerranée qu'un seul port militaire, celui de
Toulon, qui occupe par rapport à l'Italie méridionale
et à la mer Jonienne, une position tellement excentrique
qu'un gros convoi de troupes de débarquement ne pourrait
mettre à la voile de ce port pour le sud de la
péninsule ni pour la Sicile, sans courir de graves dangers,
soit à cause de la distance à franchir, soit à
cause de la flotte italienne qui, de la Madeleine, surveillerait ce
mouvement. Mais lorsque Bizerte sera devenue accessible aux grands
navires et ceux-ci pourront y trouver du charbon, des vivres, des
munitions de guerre et des moyens pour réparer leurs avaries;
lorsque cette place sera munie de fortifications maritimes et
terrestres, les Français seront alors en mesure de menacer,
de la côte tunisienne, les escadres ennemies manoeuvrant dans
le bassin méridional de la Méditerranée, et
pourront se porter en 20 heures sur Naples, en évitant les
eaux surveillées de la Madeleine par la flotte italienne, et
se jeter en 8 heures sur Cagliari et sur la Sicile.
Il n'y a rien d'exagéré dans l'importance que nous
attribuons plus haut aux difficultés provenant de la distance
à la quelle Toulon se trouve des côtes de l'Italie
méridionale. Il ne s'agit, en effet, ni d'une escadre ni
d'une flotte qui peuvent naturellement parcourir la
Méditerranée quel que soit l'état de la mer; il
s'agit d'un convoi de navires de transport (plus de cent) qui
doivent naviguer de conserve sous la protection d'une escadre et par
conséquent marcher lentement.
Ce convoi, au surplus, ne serait pas en mesure d'opérer le
débarquement par un mauvais temps et devrait, dans ce cas,
chercher un abri, ou rebrousser chemin, jusqu'à Toulon, en
s'exposant, dans le deux hypothèses, au danger d'une attaque
de la part de la flotte italienne s'appuyant sur la Madeleine. Ces
difficultés ne proviennent donc pas de la distance, mais des
dangers que le convoi doit courir pendant cette longue
traversée, et qui peuvent venir de deux differents
côtés, - de la mer, l'état de laquelle peut
rendre impossible d'atteindre à temps le point
d'atterrissage, ou empêcher l'opération même du
débarquement, - et de la flotte ennemie, à laquelle on
offre de cette manière une occasion favorable pour attaquer
en route le convoi.
Bizerte, étant donnée comme point de départ,
tous ces dangers disparaissent. On y concentre le corps de
débarquement (la France n'est pas obligée de faire
venir, à cet effet, des troupes d'Europe attendu qu'elle a en
Algérie un corps d'armée permanent et pourvu de tout
ce qu'il faut), on y rassemble et on y tient prêts les
transports, on attend ensuite que les conditions
générales de la guerre soient favorables à
l'opération, et par un soir de calme le convoi met à
la voile, se présente le lendemain au point du jour, sans
avoir été signalé, sur la côte de Sicile,
et opère le débarquement bien avant que le forces
destinées à la défense de l'île aient eu
le temps d'accourir.
Il est inutile d'ajouter que la descente en Sicile d'un gros corps
d'armée (35 à 40 000 hommes) aurait une grave
influence sur le sort de la guerre. Un pareil
évènement serait un désastre matériel et
moral et pourrait même entraîner une défaite
définitive. Il faut plutôt faire remarquer que si la
France voulait renforcer, dès le début des
hostilités, ses garnisons d'Algérie, ses ressources
maritimes et le nouveau port de Bizerte lui permettraient, la
traversée étant très courte et la Madeleine
bien éloignée, de porter en Sicile jusqu'à deux
corps d'armée, c'est-à-dire 60 000 hommes, en
s'assurant par là la supériorité
numérique sur les troupes chargées de la
défense de l'île18.
Cependant l'accroissement énorme de force que la France
tirerait, le cas échéant, de la possession d'une
nouvelle base d'opérations maritimes dans la
Méditerranée, n'est pas fait pour préoccuper
seulement l'Italie et ses alliées, les puissances centrales;
cela regarderait aussi de très près l'Angleterre,
quand même l'alliance de cette puissance avec l'Italie serait
un fait accompli. Ce ne sont pas en effet, les «fortins de
Bizerte» qu'on aurait à craindre, mais la nouvelle
situation qui serait créée par l'existence, sur la
côte d'Afrique, d'un port militaire français,
d'où la France pourrait aisément attaquer l'Italie du
sud et la Sicile sans avoir à redouter les mouvements de la
flotte italienne opérant de la Madeleine. Ce nouveau port
militaire paralyserait l'action de la Madeleine dans la
Méditerranée méridionale, rendrait
nécessaire le maintien d'un gros corps d'observation en
Sicile et d'autres forces considérables dans les villes
maritimes de l'Italie du sud. Il deviendrait par conséquent
nécessaire de diminuer d'autant les troupes à porter
au delà des Alpes, et cela même si l'Angleterre et
l'Italie étaient alliées.
Telles sont les conséquences de la création, à
Bizerte, d'un nouveau Toulon; tels sont les dangers que l'Italie
doit redouter bien plus que les attaques directs sur ses navires
pouvant partir des fortifications du nouveau port. Ces
fortifications ne seraient que le complément
nécessaire de toute place maritime, et doivent être
considérées comme telles, et non comme des ouvrages
placées sur un bras de mer par où il serait
indispensable de passer.
Mais ceci n'est pas tout. Si la création du nouveau port
militaire nuit directement à l'Italie et indirectement
à ses alliées à cause de la diminution de la
puissance offensive du royaume et du danger que courrait la Sicile,
l'Angleterre aussi, bien qu'elle soit, ou plutôt parce qu'elle
est la première puissance maritime du monde, en ressentirait
un préjudice sérieux, même si elle était
l'alliée de l'Italie et indépendamment du dommage
indirect auquel elle serait exposée en cette dernière
qualité.
Il suffit, en effet, de se rappeler quelle est la situation
respective de Gibraltar, Bizerte, Malte e Port-Saïd pour voir
que le jour où Bizerte sera un port militaire, elle occupera
une formidable position offensive sur le flanc de tous les navires
se rendant de l'orient à l'occident et viceversa. Elle sera
parfaitement en mesure de harceler et même d'arrêter
complètement le commerce de Gibraltar à Malte et
à la mer Rouge, c'est-à-dire le commerce de
l'Angleterre avec les Indes, et d'empêcher la jonction des
flottes anglaises ou anglo-italiennes dans la
Méditerranée méridionale. Ce qui forcerait
l'Angleterre, si elle était l'alliée de l'Italie aussi
bien que si elle demeurait neutre, a augmenter ses forces navales
dans la Méditerranée, en restant néammoins
menacée dans son commerce, qui est pour elle la vie, et en
dégarnissant nécessairement la Manche où, en
cas de conflagration européenne, il lui faut absolument
être maîtresse de la mer.»
Nel colloquio di Milano dell'8 novembre 1890 Crispi aveva detto al
Conte di Caprivi non poter permettere che Biserta divenisse un porto
militare, e al Cancelliere germanico non era sfuggita tutta
l'importanza che la questione aveva per l'Italia. In gennaio 1891,
essendo evidente che la Francia non si curava delle proteste
italiane e tirava diritto nell'attuazione di un piano prestabilito,
Crispi reclamò l'appoggio delle potenze alleate e
dell'Inghilterra per una comune azione a Parigi la quale imponesse
l'abbandono dei lavori iniziati a Biserta e li vietasse per
l'avvenire. L'ultima ratio di questo passo poteva essere la guerra,
e Caprivi ne ammise l'eventualità. Egli infatti diceva al
nostro ambasciatore che, pur sperando si raggiungesse lo scopo senza
conflitti,
«nondimeno bisogna tenersi preparati ad ogni peggiore
eventualità e, questa presentandosi, avere in mano tutti i
possibili elementi politici e militari di successo. Ora, l'armamento
della fanteria germanica col fucile a piccolo calibro sarà
compiuto soltanto nella primavera ventura e la formazione dei due
nuovi corpi d'esercito soltanto nel prossimo inverno. Tutto, dunque,
consiglia di camminare adesso con prudenza e sicuramente.»
Pochi giorni dopo il ministero Crispi cadeva, e l'energica sua
azione veniva abbandonata. L'Inghilterra e la Germania avvertirono
subito ch'era mutata la mano al timone della politica italiana, e ne
profittarono. Lord Salisbury sentiva in tutta la questione tunisina
la prevalenza degl'interessi italiani su quelli inglesi, e aveva
opposto alle premure di Crispi un contegno di cortese
passività, senza tuttavia osare di opporsi alla logica
stringente del ministro italiano e sconfessare le sue proprie
precedenti dichiarazioni. Alla Cancelleria germanica la scomparsa
della pressione esercitata da Crispi in base ad argomenti
validissimi, sembrò una liberazione.
D'altronde, il successore di Crispi, on. Di Rudinì, recando
al governo scarsa coscienza degl'interessi d'Italia, prevenzioni mal
fondate e minore autorità personale, si adattò alle
risposte evasive del Foreign Office, il quale facendo propria la
teoria dell'Ammiragliato Britannico finì con l'affermare che
dalle fortificazioni di Biserta l'Italia e l'Inghilterra nulla
avevano a temere, e altresì che Biserta, operando una
diversione delle forze navali francesi, sarebbe stata una debolezza
e un danno per la Francia19.
Cosicchè la Francia preso coraggio dalla remissività
del nuovo ministero italiano che si preoccupava di fare una politica
estera diversa da quella di Crispi - caduto dal potere con grande e
non dissimulata gioia della Francia - dopo avere raccolto a poco a
poco i materiali necessarii, iniziò nel 1892 le
fortificazioni sull'estremo punto nord dell'Africa, dissimulandone
con la lentezza dei lavori il valore bellico per poter negare
l'opera che andava compiendo in dispregio degl'impegni presi dinanzi
alle potenze, quando nel 1881 impose il suo protettorato al Bey di
Tunisi.
L'on. Crispi, ritornato privato cittadino aveva continuato a seguire
la questione con cuore di patriotta. Qualche amico lo informava di
quanto avveniva nella Reggenza in fatto di armamenti.
Ecco un saggio delle notizie che gli pervenivano:
«29 maggio. - Arrivarono col postale francese Ville de Naples
80 casse polveri.
31 maggio. - Arrivarono col postale francese via Algeri casse 50
cartucce.
3 luglio. - Arrivarono col postale francese Ville de Bône 750
barili polveri.
6 luglio. - Arrivarono col postale francese Ville de Rome 27 casse
cartucce.
10 luglio. - Arrivarono col postale francese 350 barili polvere;
peso di ogni barile cg. 5».
In settembre 1891, in seguito a informazioni allarmanti pubblicate
da qualche giornale intorno a una intensa preparazione militare dei
francesi in Tunisia, il ministro Rudinì ordinò al
Console generale Macchiavelli di recarsi a Biserta per verificare
quali lavori si facessero in quel forte. Il Macchiavelli fu respinto
dal Comando militare perchè non aveva un permesso da Parigi!
Parecchi giornali osservarono che quella mortificazione poteva
esserci risparmiata, giacchè non occorreva mandare a Biserta
il rappresentante ufficiale d'Italia per apprendere ciò che
in Tunisia era noto a tutti. Un giornale ispirato da Crispi, la
Riforma, scriveva il 1.° dicembre:
«Non sa il Governo italiano che le fortificazioni di Biserta
sono in opposizione con gl'impegni assunti formalmente dalla
Francia?
E non pensa a richiamare quegli impegni alla memoria del Governo di
Parigi?
Non potendo far altro, il 14 febbrajo 1892 Crispi espresse al Re la
sua angoscia con la seguente lettera:
«Sire!
Qual'è la miglior politica, lasciar fortificare Biserta o
impedire che sia fortificata? Delle due vie l'Italia, sotto il mio
ministero, scelse la seconda.
La questione fu trattata a Londra e a Berlino.
Lord Salisbury in conseguenza dei nostri reclami interpellò
due volte Waddington su cotesto argomento: e l'ambasciatore francese
assicurò Sua Signoria in modo positivo che il suo governo non
mirava a fare di Biserta un porto militare. Ciò risulta da un
telegramma giuntoci da Berlino il 28 gennaio 1891.
Da due dispacci del 5 e del 13 agosto 1890 fummo informati che circa
la questione tunisina Caprivi aveva detto al nostro Incaricato
d'affari che «la Germania non trascurerebbe gl'interessi
italiani e saprebbe all'occasione fare onore agli impegni contratti
verso di noi».
Alla sua volta il conte di Kálnoky il 5 agosto 1890 faceva al
conte Nigra, sullo stesso argomento, la seguente dichiarazione:
«Il governo Austro-Ungarico è disposto associarsi a
qualunque azione diplomatica, insieme alle altre potenze amiche, in
favore dell'Italia».
Io devo credere che nulla fu fatto negli ultimi dodici mesi che il
mio successore ha tenuto il Ministero degli affari esteri.
Dovrò anche supporre che sia rimasto senza risposta un
dispaccio giunto da Londra alla Consulta dopo il 31 gennaio 1891.
Intanto è constatato che a Biserta son cominciate le opere di
fortificazione!
Con Biserta e Tolone i Francesi diverrebbero gli assoluti padroni
del Mediterraneo20. A lord Salisbury io scrissi un giorno che,
ciò avverandosi, l'Inghilterra non sarebbe più sicura
in Malta e che potrebbe essere cacciata dall'Egitto.
Sarebbero maggiori i pericoli per noi, e ci si renderebbe necessario
munire potentemente la Sicilia e la Sardegna, le quali, in caso di
guerra, sarebbero le prime ad essere minacciate. Nè basta:
dovremmo tenere forti eserciti nelle due grandi isole del Regno, ed
occupata la nostra flotta nelle acque africane.
Per munire potentemente la Sardegna e la Sicilia vuolsi una enorme
spesa, per la quale al Tesoro italiano mancano i mezzi. Comunque, in
un momento in cui il governo di V. M. è obbligato a fare
dolorose economie, è strano che per una falsa politica il
governo medesimo debba esser causa di una nuova spesa.
Quello che importerebbe Biserta fortificata fu fatto palese a
Berlino, e fu aggiunto che qualora scoppiasse la guerra, e la
Germania fosse attaccata, noi non potremmo disporre di tutte le
nostre forze, imperocchè saremmo costretti a localizzare la
maggior parte delle truppe per prevenire gli attacchi che
sicuramente verrebbero dal mare, ed in conseguenza per difenderci.
Quando la Francia occupò Tunisi promise che non ne avrebbe
fatto una piazza di guerra. Oggi, fortificando Biserta, il governo
della Repubblica non solamente manca alla promessa, ma muta lo
statu-quo nel Mediterraneo. Con gli accordi del 12 febbraio e del 24
marzo 1887, la Gran Brettagna, l'Italia e l'Austria-Ungheria
s'impegnarono a non permettere che questo mutamento avvenisse e, in
ogni caso, si obbligarono a procedere d'accordo.
Io non porto la questione alla Camera perchè una pubblica
discussione su così grave argomento nuocerebbe agl'interessi
nazionali. Io poi personalmente ne raccoglierei nuovi odii dai
Francesi senz'alcun beneficio pel nostro paese: e mi taccio.
Il silenzio del Parlamento e l'inerzia dei Ministri, mi permetta,
Sire, di dirlo schiettamente e lealmente, non salvano il Re dalla
sua responsabilità verso la Patria comune.
Costituzionalmente V. M. non è responsabile di quello che
avviene, ma lo è moralmente dinanzi alla Nazione della quale
è il Capo e il tutore. Or l'avvenire della Nazione può
essere compromesso dalla politica attuale.
Questa lettera da parte mia non sarà comunicata ad anima
viva; rimarrà segreta. È scritta per V. M. e per V. M.
soltanto.
Ho creduto un dovere di coscienza di scriverla. Ho voluto anche
questa volta testimoniare la mia piena fede nel Re, nel quale
è personificata l'unità nazionale.
Al Re dunque doveva rivolgere la franca parola.
Ho l'onore di ripetermi di V. M.
L'umil. Dev. Servit. e Cugino
Francesco Crispi.»
Non risulta che il governo italiano facesse opera diplomatica
efficace. I lavori furono incessantemente proseguiti, e quando
Crispi ritornò al potere, nel dicembre 1893, essi erano
giunti a tal progresso che ogni contrasto sarebbe giunto tardivo. Il
7 marzo 1894 l'ambasciatore Ressman, in seguito ad una pubblicazione
che annunziava l'inizio dei lavori ch'erano, invece, molto innanzi,
interpellò il Presidente del Consiglio,
Casimir-Périer; il quale, abbandonato il sistema di
denegazioni seguito in passato dai ministri francesi,
dichiarò la realtà, giustificando però la
decisione di fortificare Biserta col concentramento di truppe
italiane in Sicilia, come se questo, invece che determinato dalle
condizioni allora allarmanti dell'ordine pubblico in quell'isola,
nascondesse il proposito di un colpo di mano sulla Tunisia!
Ma ecco la lettera del Ressman:
«Signor Ministro,
Sotto il titolo «Bizerte et la Spezia» il Figaro
pubblica stamane in prima pagina un articolo che principia colle
parole:
«Ci si assicura che sono stati testè dati ordini per
cominciare i lavori militari di Biserta: felicito il Governo di
questa patriottica risoluzione».
Riferendomi a quest'asserzione del Figaro, ho nell'odierna udienza
domandato al signor Casimir-Périer se vi fosse alcun che di
vero, non senza premettere che più volte i suoi predecessori,
interpellati sui lavori che il Governo francese faceva eseguire nel
porto di Biserta, avevano dichiarato che quei lavori avevano per
solo scopo di facilitare alle navi mercantili l'accesso del lago
interno e che erano intrapresi esclusivamente per ragioni e scopi di
commercio.
Il Ministro degli Affari Esteri mi rispose che egli diede difatti
gli ordini di proteggere l'entrata del canale di Biserta, dietro
ripetuta richiesta del Bey di Tunisi e del signor Rouvier, circa sei
settimane addietro. Egli ebbe la franchezza d'aggiungere che a tale
risoluzione lo avevano determinato le apprensioni che allora qui si
manifestarono per il sì considerevole accentramento di truppe
italiane in Sicilia. Mi disse poi che i lavori militari a Biserta si
limitavano all'armamento di due batterie, una sulla destra e l'altra
sulla sinistra della entrata del canale, per le quali già da
tempo erano state costruite le spianate e tracciati gli accessi, e
che l'ammontare della spesa incontrata, che fu di soli 600 000
franchi, prova non essersi fatto nulla di eccessivo. Gli pareva
d'altronde che non vi fosse ragione di giudicare questi lavori
diversamente dai lavori di fortificazione di Tunisi pei quali si
erano spesi 300 000 franchi.»
A poco a poco la verità non fu più negata; anzi il
lavorìo dissimulato divenne aperto e le opere di
fortificazione e di armamento furono accelerate.
La Dépêche Tunisienne dell'11 giugno 1895 pubblicava:
«Paroles significatives:
En réponse aux souhaits de bienvenue que lui adressaient
à Bizerte le vice-consul de France et les députations
du conseil municipal, du syndicat de Bizerte et de la compagnie du
port, M. le vice-amiral de la Jaille, commandant l'escadre active de
la Méditerranée, a exprimé, nous apprend le
Courrier de Bizerte, toute sa satisfaction de voir arriver à
bonne fin, et en un si court laps de temps, ces travaux qui font de
Bizert un port si précieux pour la France.
Jusqu'ici, a-t-il ajouté, retenue par de vains
prétextes, la flotte française avait
évité d'y jeter l'ancre. Mais le charme est maintenant
rompu, car dédaignant certaines susceptibilités
ménagées jusqu'ici, la marine française vient
de prendre définitivement possession de Bizerte. Comme le
croiseur Suchet, dit-il, les cuirassés de mon escadre
auraient pu entrer dans le canal et le lac, n'eût
été ce banc de rocher qui reste à enlever sur
une cinquantaine de mètres et qui rétrécit
à 37 mètres le chenal navigable; mais ce n'est que
partie remise, puisque ce travail n'est plus qu'une affaire de
semaines. A sa prochaine tournée l'escadre de la
Méditerranée commandée alors par l'amiral
Gervais, ne manquera certainement pas de venir y jeter l'ancre et de
séjourner dans le lac.»
Quanto fossero fondate le ansie di Crispi e colpevole l'indifferenza
dei suoi successori dinanzi al pericolo che sorgeva con la creazione
del porto militare di Biserta, lo desumiamo dall'orgoglio col quale
autorevoli uomini politici e scrittori francesi hanno esaltato dipoi
l'accrescimento di potenza che n'è derivato alla Francia.
Un ministro della marina francese, il signor Pelletan, con poca
diplomazia, ma con grande sincerità, affermò nel 1902
che Biserta assicurava al suo paese il dominio del Mediterraneo.
E Gabriele Hanotaux, ex-ministro degli Affari Esteri, in un libro
intitolato La Paix latine si compiacque nell'enumerare le
difficoltà superate e magnificare la conquista compiuta.
Giova riprodurre e meditare alcune pagine di quel libro:
«.... Du côté de l'Italie, enfin, sous le
ministère de M. Crispi les relations étaient telles
que l'on pouvait tout craindre.
Cette situation générale, qui résultait d'une
accumulation de circonstances, pour la plus part
indépendantes de la volonté des hommes, était
franchement mauvaise. Je n'avais qu'à suivre les exemples qui
m'étaient laissés par mes prédécesseurs,
pour m'efforcer d'y porter remède. J'eus le bonheur d'y
réussir. L'incident franco-congolais fut promptement
réglé.......... Enfin, entre la France et l'Italie,
après une période difficile qui eût son point de
tension extrême au moment du rappel de l'ambassadeur Ressman,
les dispositions se modifièrent. Une grave difficulté
était en perspective: l'échéance des
conventions qui engageaient la Tunisie à l'égard des
puissances européennes. Le sort de la Régence et celui
de la Méditerranée étaient en suspens. Mais,
par une volonté réciproque, l'orage menaçant se
dissipa. Un esprit de conciliation et de concessions dû
surtout à l'influence de M. le marquis de Rudinì et de
M. le marquis Visconti-Venosta, inspira les pourparlers qui eurent
finalement pour résultat les divers arrangements qui
confirmèrent le protectorat de la France sur la Tunisie, qui
laissèrent à celle-ci la disposition pleine et
entière de la puissante position maritime de Bizerte....21
Le vaste établissement militaire qui s'achève à
Bizerte intéresse à la fois l'Europe et l'Afrique. Il
commande un des grands chemins du monde. Il est place dans une
région où l'antiquité a toujours connu de
grands ports, Utique, Hippone, et surtout Carthage. Plus d'une fois,
les destinées du monde ont basculé sur cette pointe de
terre où la nature a creusé - comme un abri et comme
une menace - ce double lac dont les dimensions et la profondeur sont
faites pour l'armada des léviathans modernes.
La mer Méditerranée est divisée en deux parties
nettement définies: l'une forme la tête du lion,
l'autre le corps; l'une, à l'Occident, baigne l'Espagne et le
Maroc, la Provence et l'Algérie; l'autre, dans la partie
orientale, réunit les trois continents: Europe, Asie,
Afrique; elle caresse, de son flot bleu, la Grèce et ses
îles, l'Asie-Mineure et l'Égypte: elle se prolonge par
les détroits, jusque dans la mer Noire; elle débouche
sur le reste du monde par le canal de Suez.
Or, ces deux parties, se rejoignent en un point qui forme comme le
col de la bête; c'est à l'étranglement qui se
produit entre la Sicile et la terre d'Afrique. L'île de Malte,
un peu en arrière de ce détroit, en surveille la
sortie; mais Bizerte est mieux située encore, car elle le
domine. Bizerte prend la Méditerranée à la
gorge.
En ce point décisif, une volonté de la nature a
creusé ce lac offrant une surface de 15.000 hectares sur
lesquels 1.300 sont assez profonds pour recevoir les plus grands
bâtiments. Un des plus beaux ports du monde se trouve donc
dans un des points les plus importants du monde. Il fallait avoir le
point et il fallait avoir le port.
Telle est l'entreprise à laquelle la France s'est
consacrée depuis vingt ans et qu'elle a
réalisée avec une ténacité et un esprit
de suite qui peut-être, un jour, seront comptés
à notre pays, si méconnu par les autres et si souvent
calomnié par lui-même.
Pour avoir Bizerte, il fallait avoir la Tunisie: ce fut la
première partie de l'entreprise. Au début, il ne fut
guère question de Bizerte: on était tout aux
Khroumirs. Seules, les puissances européennes, connaissant
à merveille l'importance de la partie qui se jouait,
prétendirent mettre un veto sur l'entreprise
éventuelle d'un grand port à Bizerte, et M.
Barthélemy Saint-Hilaire, alors ministre des affaires
étrangères, agit sagement, en remettant à
l'avenir le dessein d'un établissement militaire au sujet
duquel on l'interrogeait.
Contre vents et marée Jules Ferry en vint à ses fins;
l'occupation française imposa notre protectorat à la
Régence. La question de la défense militaire fut
posée du même jour. Elle se combinait naturellement
avec celle de l'Algérie. La Tunisie, faisant l'effet d'un
bastion avancé vers la mer et vers l'Orient, attira donc
toute l'attention.
En quel point établirait-on la citadelle et l'arx de la
nouvelle conquête? Quelques-uns, songeant à l'esprit
turbulent des populations indigènes et aux difficultés
que rencontrerait éventuellement une expédition venue
du dehors, si elle était obligée de
pénétrer dans les terres, désignaient comme
nœud de la défense, cette antique ville de Tébessa qui
avait été longtemps le refuge de la domination romaine
en péril. D'autres, prévoyant le développement
africain de l'Empire colonial français vers les
régions centrales et vers le lac Tchad, insistaient pour
qu'on utilisât l'angle et le port naturel que fait, au coude
de la Syrte, derrière l'île de Djerba, la baie de
Bougrara.
Mais Bizerte s'imposa: Bizerte, point propice, à la fois,
à la défensive et à l'offensive,
également bien situé si on envisage la terre et si on
envisage la mer, dominant la capitale, Tunis, sans être
entravé par elle, aboutissant presque immédiat du plus
grand fleuve de la Tunisie, la Medjerda, et de la plus importante
voie ferrée du Nord de l'Afrique, celle qui réunit
Alger à Tunis.
Quant aux avantages militaires de ce port, véritablement
unique, ils sont exposés, avec la plus grande
précision, dans une étude du lieutenant-colonel
Espitalier: «Le rayon tactique d'action, d'un cuirassé
filant 18 nœuds, autour d'un point d'appui, est de 180 milles
environ, si l'on veut qu'il puisse revenir à son port
d'attache. Dans ces conditions, le cercle tactique de Bizerte coupe
le rivage de la Sicile et couvre tout le passage entre ce rivage et
la côte africaine. Il coupe aussi le cercle d'action des
navires anglais de Malte. Si l'on combine le cercle d'action de
Bizerte avec ceux de Mers-el-Kébir, d'Alger, d'Ajaccio et des
ports métropolitains, il est facile de voir que tout le
bassin occidental de la Méditerranée est sous notre
dépendance tactique et que Bizerte est la clef de notre
action du côté de l'Est».
Ces raisons confirmèrent les impressions favorables que la
situation géographique et la convenance du site avaient fait
naître dans les esprits. Mais comment rompre les engagements,
comment déjouer la surveillance étroite des
diplomaties rivales qui tenaient en suspens l'avenir de Bizerte?
L'histoire éclairera un jour, ces points. [?]
On n'eut, d'abord, d'autre dessein patent que de transformer la
vieille station à demi abandonnée de
«Benzert» et qui remontait à la conquête
espagnole, en un port de pêche et un port commercial à
tout le moins abordable. Ce fut ainsi que, le plus simplement du
monde, on mit, pour la première fois, la pioche en terre et
qu'on commença à élargir et à
régulariser le chenal.
Même, pour ces premiers travaux, si insignifiants qu'ils
parussent, il fallait de l'argent; une combinaison ingénieuse
le procura. C'est Bizerte lui-même qui subventionna l'avenir
de Bizerte.
Dans ces lacs ouverts sur la Méditerranée comme des
viviers immenses, le poisson, à des époques et
à des heures régulières, monte et descend.
L'armée innombrable des dorades, des loups, des rougets, des
bars, entre et sort par un mouvement régulier et se
précipite comme un torrent alternatif et vivant par
l'étroit passage du goulet.
Le monopole de la pêche maritime à Bizerte fut un des
avantages principaux de la concession qui fut consentie à la
maison Hersent et Couvreux, à charge de commencer les
premiers travaux du port commercial.
Ainsi, l'inépuisable richesse que le flot emporte et
ramène a redressé le chenal, aligné les
premiers quais, poussés au loin, dans la mer, les rocs des
premières jetées. La chair s'est faite pierre, et
c'est sur cette fondation animée que Bizerte
s'élève maintenant.
La conception initiale se transformait progressivement, ou
plutôt, poursuivie longuement dans le silence, elle put, sans
inconvénient, se manifester au grand jour.
En 1897, l'Europe était, comme elle l'est aujourd'hui,
attentive au problème oriental qui paraissait sur le point de
se poser. Parmi les difficultés et les lenteurs du concert
européen, l'affaire crétoise évoluait
péniblement vers une solution pacifique. Cette heure parut
opportune pour régler définitivement la question
tunisienne et pour délivrer Bizerte.
Ainsi, de ce conflit redoutable de sentiments et
d'intérêts, la France tirait du moins un avantage
positif. Son autorité navale dans le
Méditerranée se multipliait, en quelque sorte, par ce
«doublet» de Toulon. Selon le mot de l'amiral Gervais,
«près de Tunis la Blanche on aurait désormais
Bizerte la Forte».
Depuis lors, une immense activité règne sur les lacs.
Le chenal se trouve porté de 100 mètres de large
à la surface, à 200 mètres. Les jetées
sont prolongées en mer, couvertes par un môle construit
par 17 à 20 mètres de profondeur; elles font un
immense avant-port et permettront, en tout temps, l'entrée et
la sortie aux bâtiments français, interdisant, par
contre, à une flotte étrangère de forcer le
passage comme à Santiago et «de mettre en
bouteille» la flotte française, abritée sans
être enfermée.
Dans le port, de vastes bassins de radoub sont achevés; plus
loin encore, l'arsenal maritime s'élève, plus loin
encore les fortifications construites partout sur la ceinture des
collines, défendent la terre, menacent la mer. Il faudrait un
siège en règle, soutenu par une flotte et une
armée formidables pour venir à bout de la
résistance qu'offrirait, dès maintenant, Bizerte. Je
ne connais pas de spectacle plus imposant et, si j'ose dire, plus
merveilleux, que celui que présente à la tombée
du jour, sous les lueurs du soleil couchant, cette immense nappe
plane et glauque que dominent, au loin, les défenses
formidables du Djebel-Kébir, et du Djebel-Rouma.22»
ITALIA E AUSTRIA.
Capitolo Quarto.
Le relazioni italo-austriache e l'irredentismo.
Come nacque l'irredentismo anti-austriaco. - La campagna del 1866. -
Il punto di vista di Andrássy e il compito della diplomazia.
- Il movimento irredentista nel 1889. - Dichiarazioni parlamentari e
parallela azione diplomatica di Crispi. - Scioglimento del
«Comitato per Trento e Trieste». - Un giudizio di
Francesco Giuseppe su Crispi. - L'imperatore deplora di non poter
venire a Roma. - Il processo Ulmann; come fu abbandonato dal governo
austriaco. - Lo scioglimento della Società Pro Patria e la
Dante Alighieri. - Protesta di Crispi. - Corrispondenza
Crispi-Nigra. - Agitazioni irredentiste. - Scioglimento dei Circoli
Oberdank e Barsanti. - La Società Pro Patria può
ricostituirsi sotto il nome di Lega Nazionale. - Le dimissioni di
Crispi nel 1891 e l'Austria. - L'agitazione dell'Istria nel 1894. -
Crispi domanda l'intervento dell'imperatore Guglielmo e l'ottiene. -
L'ambasciatore Lanza. - Il ritiro di Kálnoky.
L'irredentismo anti-austriaco nacque all'indomani della disgraziata
campagna del 1866. Ognuno sa che il 25 luglio di quell'anno
Garibaldi fu fermato sulle balze del Trentino e obbligato a
ripassare la frontiera da un telegramma del Capo dello Stato
Maggiore, e ministro presso il Re, generale Lamarmora, nel quale era
detto che «considerazioni politiche esigevano imperiosamente
la conclusione dell'armistizio» e il ritiro dal Tirolo delle
schiere garibaldine. Garibaldi obbedì a malincuore e nel
paese rimase l'impressione che si sarebbero allora ottenuti i
confini naturali d'Italia alle Alpi Giulie se la guerra non fosse
stata condotta con incoerenza inesplicabile e se la pace non fosse
stata conclusa affrettatamente.
«Una sera - ha lasciato scritto Crispi - il discorso cadde
sulla guerra del 1866. Io gli chiesi [al principe di Bismarck]
perchè non levò la sua voce per fare avere all'Italia
il Trentino. Egli mi rispose: la questione della cessione dei
territorii fu trattata e definita tra i due imperatori, Napoleone e
Francesco Giuseppe, prima della conchiusione della pace, senza il
nostro intervento.
Appare chiarissimo - soggiunge Crispi - che l'intervento di
Napoleone nelle cose nostre fu anche nel 1866 funesto all'opera
della unificazione italiana. Nè noi, nè la Prussia
potemmo spiegare la nostra volontà. Fu dato il Veneto entro i
limiti delle frontiere amministrative impedendoci di ottenere le
Alpi orientali.»
Altrove abbiamo narrato le vicende del movimento irredentista, che
ebbe dapprima (1868) a suo centro il comune di Palmanova presso la
frontiera austriaca, e un giornale, Il Confine orientale d'Italia,
che cominciò le sue pubblicazioni a Udine in gennaio 1870;
abbiamo altresì accennato incidentalmente all'azione
esercitata da Crispi in favore dei sudditi austriaci di
nazionalità italiana. Qui vogliamo documentare con dati
precisi l'accorgimento col quale l'on. Crispi regolò durante
il suo governo le relazioni italo-austriache, difficili e delicate
tra le agitazioni irredentiste e le esorbitanze della polizia
politica dell'Austria.
Non si deve tacere che Crispi non pensò mai che gl'italiani
potessero rinunziare ad ottenere la loro frontiera naturale
coll'impero austriaco. Egli pensava che è debole uno Stato le
cui frontiere sieno aperte e deplorò più volte che i
ministeri italiani non avessero saputo cogliere le occasioni
favorevoli per definire la questione rimasta insoluta nel 1866. Una
lettera privata del 1.° luglio 1891 ci rivela che Crispi contava
di affrontare quella questione in occasione del rinnovamento del
trattato della Triplice Alleanza. Dopo avere risollevato il
prestigio dell'Italia e acquistato personalmente autorità e
fiducia presso il governo austriaco, Crispi sperava di riuscire. Ma,
come è noto, egli lasciò il governo (31 gennaio 1891)
circa un anno e mezzo prima che il trattato scadesse (30 maggio
1892). Nella citata lettera Crispi scriveva:
«Al 1882 non ci volevano nella lega perchè non avevamo
un esercito importante; perchè si diffidava di noi, e per gli
elementi irredentisti nel gabinetto e pei ricordi del 1866.
Oggi ci vogliono, e l'alleanza con l'Italia è festeggiata a
Berlino e Vienna. Perchè? Pel milione dugentomila soldati che
possiamo mettere in campo, e per la sicurezza che faremo il nostro
dovere.
Nel rinnovamento del trattato potevamo far sentire il peso delle
nostre forze. Lo si poteva e si doveva, chiedendo per compenso
almeno una rettificazione delle frontiere. E l'avremmo potuto
ottenere, sapendo agire. A Vienna se l'aspettavano; e Berlino
avrebbe pesato sopra Vienna.»
È certo che l'Austria non rinunzierà al Tirolo
italiano se non sotto la pressione di circostanze eccezionali. Ma al
1891 quando Crispi cedette all'on. di Rudinì la direzione
della politica estera si era già lontani nelle sfere
ufficiali austriache da quello stato d'animo che ispirava al
Cancelliere dell'Impero, conte Andrássy, la lettera del 24
marzo 1874 all'ambasciatore imperiale a Roma, conte Wimpffen.
In essa l'Andrássy scriveva:
«Rapporti provenienti da fonti diverse ci hanno segnalato il
partito preso col quale certi giornali italiani incoraggiano le
speranze di alcuni malcontenti a Trieste e nel paese di Trento. Il
colloquio che recentemente avete avuto col signor Visconti-Venosta
sull'argomento e del quale m'informate nella vostra lettera
particolare del 18 aprile offrendomene l'occasione, ne profitto per
indicarvi le mie vedute.
Io sono convintissimo della riprovazione che incontra e
incontrerà in avvenire, tanto presso il Re che presso i
ministri, ogni velleità d'annessione, e noi non possiamo che
essere riconoscenti al Governo italiano della premura messa nello
sconfessare qualsiasi agitazione in tal senso. Non mi sembrerebbe
meno conforme al nostro comune interesse d'intenderci per impedire
un movimento sostenuto da una parte della stampa italiana, del quale
uno dei più grandi inconvenienti è di fornire le armi
al partito che non vede di buon occhio il consolidamento dei
rapporti d'amicizia tra l'Austria-Ungheria e l'Italia.
Trattando di tale argomento con gli uomini di Stato italiani, mi
sembra opportuno che noi ci poniamo non al nostro punto di vista, ma
a quello dell'Italia. È questo lato della questione che tengo
a chiarire con le osservazioni che seguono.
Il partito esaltato in Italia, sperando di ottenere un
rimaneggiamento territoriale a spese nostre, sembra che confonda la
situazione esistente quando fu compiuta l'unificazione dell'Italia,
con quella oggi esistente.
Dal tempo in cui l'imperatore Napoleone era sul trono e dava la mano
alle aspirazioni nazionali, allorchè l'Austria, trovandosi
isolata, senza alleanze, di fronte ad una Prussia mal disposta e ad
una Russia ancora irritata per la nostra attitudine durante la
guerra di Crimea, era obbligata a difendere contro il sentimento
nazionale le Provincie che possedeva in Italia, non era difficile
provocare una crociata contro l'occupazione straniera, la quale, si
diceva, calpestava il suolo della patria, e la parola d'ordine
dell'Italia libera sino al mare poteva infiammare gli spiriti anche
oltre i confini della Penisola.
Di tutti i motori che alimentavano allora tale movimento, non ne
esiste più alcuno. Non occorre entrare in spiegazioni minute
per mostrare che la situazione è cambiata da cima a fondo.
L'Austria-Ungheria, da parte sua, non pensa a rivendicare i suoi
antichi possessi italiani.
Oggi le relazioni fra i due paesi riposano sul mutuo riconoscimento
delle circoscrizioni territoriali quali sono state stabilite dai
trattati. Bene o male che siano stati tracciati, i confini esistenti
sono la base invariabile della conservazione dei buoni rapporti fra
i due paesi. Se un partito qualsiasi, col pretesto della comunanza
di lingua, volesse domandare la cessione del Tirolo meridionale o
d'una parte del nostro litorale, non sarebbe l'Austria anch'essa in
diritto di reclamare il quadrilatero come indispensabile alla buona
difesa del suo territorio? Ritornare su tale questione
significherebbe dare a priori ragione al diritto del più
forte.
Dinanzi ad una situazione così pienamente mutata, la
persistenza d'una agitazione simile a quella che il Governo
imperiale e reale dovette combattere in altri tempi, non è
più motivata nè dai bisogni, nè dagli interessi
dell'Italia.
Ciononostante, non è ancora raro veder sorgere delle opinioni
che denotano una tendenza a disconoscere l'inviolabilità del
nuovo stato territoriale. Taluni giornali, specialmente, sembra che
si propongano lo scopo d'incoraggiare le velleità di coloro
che guardano con occhio di cupidigia una contrada situata al di qua
delle nostre frontiere.
Taluno di questi giornali, è vero, fa appello non già
ad una soluzione con la forza, ma ad un accomodamento amichevole. Ma
anche per questa via, è necessario ch'io dica che non
potremmo consentire a modificare l'ordine di cose consacrato dai
trattati? Ce lo impedirebbe, innanzi tutto, il principio stesso che
sarebbe messo in questione. Il giorno che ammettessimo un mutamento
siffatto sulla base di una delimitazione etnografica, analoghe
pretese sorgerebbero e sarebbe quasi impossibile respingerle. Non
potremmo infatti cedere all'Italia popolazioni affini per lingua
senza provocare artificialmente, presso le nazionalità poste
sulle frontiere dell'Impero, un movimento centrifugo verso le
nazionalità sorelle prossime ai nostri Stati. Cotesto
movimento ci porrebbe nell'alternativa di rassegnarci alla perdita
di quelle provincie, ovvero, sempre conformemente al sistema delle
nazionalità, d'incorporare nella monarchia le contrade
limitrofe. Consentire ad un principio siffatto sarebbe lo stesso che
sacrificare l'integrità della monarchia o essere trascinati a
deviare dalla politica di conservazione della pace e dello statu-quo
che seguiamo nell'interesse nostro e dell'Europa in generale.
Si consideri, d'altronde, dove condurrebbe l'idea delle frontiere
etnografiche se potesse generalizzarsi. Se una questione di tale
natura si volesse sollevarla tra l'Austria-Ungheria e la Germania,
dove si troverebbe il punto d'arresto, e non sarebbe una sorgente
dei più gravi conflitti? Che cosa avverrebbe se delle
rivendicazioni analoghe nascessero tra la Germania e la Russia, tra
le razze slave incuneate nello stesso territorio tedesco, tra le
popolazioni di diversa origine che abitano nell'Impero ottomano, le
quali, frazionate e commiste come sono, formano le configurazioni
territoriali più bizzarre e più ribelli a qualsiasi
tracciato di una razionale frontiera? Evidentemente la guerra di
tutti contro tutti sarebbe la conseguenza di simili discussioni.
Un lavoro di decomposizione e di ricostituzione, quale lo sognano
taluni utopisti non farebbe altro adunque che dar campo a
innumerevoli competizioni e comprometterebbe, così, il riposo
e la sicurezza generale.
Certamente, la corrente da cui sono derivate le grandi
agglomerazioni nazionali, ha avuto la sua ragion d'essere; ma se
oggi ch'esse sono costituite si pretendesse riprendere questo lavoro
en sous œuvre e proseguire, sino nei minimi dettagli, l'applicazione
dell'etnologia alla politica, si metterebbe imprudentemente in
questione l'ordine europeo formatosi attraverso tanti dolori e si
evocherebbe il caos.
Gli uomini di Stato che trovansi ora al potere in Italia sono troppo
illuminati perchè occorra entrare con essi in ampie
spiegazioni su tale argomento.
Oggi che non esiste in Austria-Ungheria nessun partito importante
che aspiri a rivendicare le antiche possessioni italiane
dell'Impero; oggi che tutti nel nostro paese, obliando i dissensi
del passato, riconoscono l'Italia unita quale esiste attualmente,
come una garanzia essenziale della pace e dell'equilibrio europeo;
oggi quello di cui l'Italia potesse voler appropriarsi a nostre
spese, non potrebbe avere per essa un valore comparabile ai vantaggi
assicuratile dalle buone intelligenze con la Monarchia
austro-ungarica. Io ho la convinzione che S. M. il Re, al pari de'
suoi consiglieri, si trovino in quest'ordine d'idee. E quindi non
v'è ombra di rimprovero al loro indirizzo nelle osservazioni
che precedono. Vi ho insistito unicamente per impegnarli a unirsi a
noi nello scopo di combattere d'accordo i pericoli derivanti dalle
agitazioni annessioniste per il mantenimento dei buoni rapporti tra
i due paesi.
Noi siamo lontani dal chiedere garanzie contro siffatte agitazioni
al Governo italiano: la nostra Monarchia trova nelle sue proprie
forze il rimedio contro il male ch'esse potrebbero cagionare. E
neppure pensiamo a imputare al Governo del Re il linguaggio della
stampa indipendente: sappiamo per esperienza che sarebbe
irragionevole prendersela con le autorità di un paese per
tutte le aberrazioni dei giornali che vi si pubblicano.
Tutto quello che noi desideriamo è, che i ministri italiani,
nella misura dell'influenza che sono in grado di esercitare su
taluni organi, vogliano adoperarsi a far cessare le agitazioni di
cui si tratta. Io penso che basterà di richiamare la
loro attenzione sulle considerazioni che ho segnalate, perchè
provvedano ai mezzi d'imprimere allo spirito pubblico una direzione
conforme alla nuova situazione.»
L'argomentazione del conte Andrássy non era senza valore
dinanzi alle rivendicazioni più larghe dell'irredentismo, a
quelle cioè che si estendono a tutti i paesi di lingua
italiana dell'Impero; era, invece, poco efficace dinanzi al reclamo
del confine che la natura stessa ha segnato all'Italia23. E Crispi
riteneva che su questa base più limitata l'intransigenza di
un tempo non esistesse più, e che fosse possibile alla
diplomazia italiana di condurre l'Austria a una considerazione
più equa del problema, gli eventi aiutando.
Ma se egli assegnava alla diplomazia cotesto compito, era ben
convinto che le agitazioni popolari allontanavano la soluzione
desiderata, compromettendo interessi superiori. E combattè
l'irredentismo irresponsabile, non soltanto nelle sue rumorose
manifestazioni e nei suoi disegni segreti, ma anche negli
eccitamenti che spesso, per reazione, venivano dall'Austria stessa,
da una polizia politica irritante e poco accorta. Ispirando fiducia
nella fermezza e nella lealtà del governo italiano, Crispi
lavorava a realizzare l'obbiettivo di un illuminato patriottismo.
Nel 1889 il movimento irredentista, traendo pretesto da ogni
incidente e impulso dagli atti di rigore o di arbitrio delle
autorità austriache, dilagò in buona parte d'Italia.
Centri dell'attiva propaganda erano Roma e Milano, e ad essa
partecipavano i più noti del partito radicale; ma, taluni per
amore all'idea di nazionalità, altri, francofili a tutti i
costi, per la speranza di creare tra l'Italia e l'Austria tali
antipatie e dissensi che imponessero lo scioglimento della Triplice
Alleanza.
In maggio e in giugno i deputati Imbriani e Cavallotti trovarono
modo di fare per alcuni giorni dell'irredentismo dalla tribuna
parlamentare a proposito della condotta tenuta dal Console generale
a Trieste, Durando, verso un notaio italiano. Avendo l'on. Crispi
ordinata un'inchiesta, sulla relazione di essa si discusse
lungamente alla Camera nella tornata del 10 giugno, e poichè
gli oratori d'opposizione avevano toccato abilmente la corda
patriottica e l'assemblea ne era impressionata, Crispi credette
opportuno che la discussione terminasse con un voto chiaro ed
esplicito, il quale ebbe luogo su di una mozione di fiducia nella
politica del governo, presentata dal venerando deputato Cavalletto.
La prudenza dell'uomo di Stato e l'intimo sentimento di Crispi
risaltano nei brani seguenti del discorso ch'egli pronunziò
in quella occasione:24
«... Gli onorevoli autori della mozione comprenderanno dalla
lettura di questa risposta del Piccoli, come cada interamente
l'accusa che si faceva al Durando.
Essi sono dolenti dei risultati negativi. Avrebbero voluto, e non so
con qual beneficio, che il Durando fosse apparso delatore, e che il
Piccoli fosse appunto un irredentista.
La questione tra il Durando e il Piccoli non è
questione di fiscalità; e benissimo disse il Piccoli
che neppure il Durando, in quel dissidio, era animato da
venalità.
La questione, o signori, è questione giurisdizionale.
Trattavasi di vedere se, rispetto ai nostri cittadini morti
all'estero, debba reggere la legge italiana o la legge del luogo.
Questa è la tesi e la vera tesi. (Commenti.)
Con la Convenzione del 15 maggio 1874, che i predecessori del
Durando fecero male a non applicare, era stabilito ed è
stabilito (del resto, uguali convenzioni consolari abbiamo con tutte
le potenze del mondo) che quando un cittadino muore nell'Impero
austro-ungarico, agli atti di apertura della successione e agli atti
consecutivi debba essere presente il console, o chi lo sostituisca,
e gli atti debbano farsi in concorrenza con lui, il quale ha la
suprema tutela dei nostri concittadini.
Che cosa si voleva dalla parte opposta? Che la legge austriaca (e
questo per fine di uguaglianza) debba imperare anche sui cittadini
italiani. Bel sistema d'irredentismo, o signori, e proprio mi
congratulo con coloro che difendono questa tesi! Ma per i principii
generali di diritto, per il principio della dignità
nazionale, in tutte le questioni in cui è impegnato lo stato
personale, è la legge del paese di origine quella che impera.
Civis romanus sum in qualunque parte del mondo che io sia, è
la legge nazionale che deve essere rispettata, e il console Durando,
in questo caso, difendeva l'Italia e le leggi sue. (Bene!)
.... Il corpo consolare ha, in parte, abitudini che non posso tutte
lodare. Vi sono in esso dei valorosi, degli intelligenti, degli
uomini i quali sentono la dignità nazionale e s'interessano,
come ogni altro italiano, alle cose nostre. Ve ne sono di quelli che
hanno abitudini antiche e antichi pregiudizi.
Il nostro corpo consolare, signori, nelle sue varie persone,
discende in parte dagli antichi corpi consolari delle distrutte
amministrazioni italiane, nelle quali ebbe un'educazione che non
è la nostra. Quindi non v'è nulla di strano che vi sia
in esso chi possa commettere, credendo di essere zelante, e di fare
opera utile nei paesi dove sia accreditato, atti che offrano il
fianco a qualche censura. (Commenti.)
Quante di queste false abitudini non ho trovato, che io ho fatto di
tutto per distruggere!
Al Ministero degli Esteri non si parlava che francese prima che io
vi arrivassi. Era francese il cifrario, francesi le corrispondenze.
Cominciai per distruggere tutto ciò: il cifrario è ora
italiano, le corrispondenze sono italiane: ed in questo io non
faccio che seguire quello che fanno le altre potenze: gl'inglesi, i
tedeschi, gli spagnuoli, tutti scrivono nella loro lingua; è
giusto che noi scriviamo nella nostra.
I cifrari della Germania e delle altre potenze, sono nelle loro
lingue rispettive, è regolare che anche il nostro sia nella
lingua che possediamo.
Questo riguarda la forma, ma è una forma la quale tiene alla
sostanza. La lingua nazionale è il gran fattore della
nazionalità. L'obbligo di scriverla ricorda anche ai nostri
rappresentanti la loro patria nella sua forma più nobile e
più grande, che è quella della lingua. (Benissimo!)
Vado un poco più in là, o signori.
In alcuni luoghi i nostri consoli, i nostri rappresentanti, danno
educazione non italiana ai loro figli, li mandano in collegi
stranieri, e capirete benissimo come, dopo ciò, difficilmente
possano avere sentimenti italiani.
.... La pace dell'Europa ha base nei trattati. Noi, da uomini
onesti, rispetteremo questi trattati, e, se avvenga che qualcuno li
violi, sapremo fare il nostro dovere.
L'illustre Marco Minghetti, sedendo su questi banchi, in una
discussione politica alla quale ei fu chiamato e nella quale seppe
rispondere con fulgore di parola e con quella chiarezza d'idee che
gli erano particolari, disse che per la questione della
nazionalità bisogna scegliere tempi ed anche momenti
opportuni, ma che, se mai questa questione risorgesse, se mai le
guerre portassero a modificare la carta geografica di Europa, non
sarebbe l'Italia quella che dovrebbe temere, perchè noi nulla
abbiamo a dare, molto potremmo avere a raccogliere. (Bene! Bravo!)
Ma, se questi sono i principii che devono animare ogni patriota,
segga a quei banchi [accenna ai banchi dei deputati] od a questi
[accenna a quelli dei ministri], la virtù principale, e degli
Stati, e degli uomini politici, è la prudenza. (Bene! Bravo!
a Destra e al Centro.)
Marselli: - E la fede.
Crispi, presidente del Consiglio: - La virtù della prudenza
è quella che ci condusse a Roma; (Bene! Bravo! a Destra e al
Centro) la virtù della prudenza è quella che valse a
costituire questa grande unità che tutti invidiano, e non
tutti oggi ancora rispettano. Noi abbiamo molti nemici che insidiano
la nostra posizione; e ne abbiamo uno più operoso di tutti,
che è nel seno stesso della patria nostra, e che sarebbe
lieto se, con le arti sue, potesse giungere a rompere quel fascio
delle tre potenze che mantiene la pace del mondo. È un lavoro
continuo, è una insidia implacabile che ci viene da quel
lato; e, sventuratamente, talora, ha le lusinghe, e talora gli aiuti
di qualche potenza. (Commenti, interruzioni).
Aspettiamo dunque gli eventi, e, aspettandoli, rispettiamo i
trattati, che sono la base della pace del mondo. Questo è il
nostro primo dovere: lo abbiamo adempiuto e lo adempiremo. (Bravo!
Bene! Vive approvazioni.)»25
Altra discussione fu fatta alla Camera nella tornata dell'8 luglio,
su interpellanza del Cavallotti. Questi si occupò
specialmente di due fatti: del divieto posto dalle autorità
austriache di Riva di Trento allo sbarco di una comitiva di gitanti
italiani, e dell'arresto prolungato di un giornalista, certo Ulmann.
Al discorso violento del Cavallotti il presidente del Consiglio
rispose calmo, conciso. Non aveva notizie esatte sull'Ulmann, che
affermò essere suddito austriaco, mentre aveva ottenuto la
cittadinanza italiana; giustificò il divieto opposto allo
sbarco dei gitanti perchè, secondo un telegramma
dell'ambasciatore Nigra, una comitiva di essi, sbarcata a Riva il 23
giugno, non aveva rispettato le leggi del luogo gridando per le vie
della città «Viva la repubblica. Viva Trento e Trieste
irredente». Ma mentre pubblicamente scagionava la condotta del
governo austriaco dalle accuse, comunque esagerate, che gli si
muovevano, e affermava il dovere della dignità e della
prudenza ricordando che l'on. Cavallotti aveva «cantato in
versi e in prosa, prima e dopo il 1875 l'alleanza con la Germania, e
nel 9 aprile 1878 aveva consigliato al conte Corti un'alleanza con
l'Austria», l'on. Crispi non rinunziava a compiere il suo
dovere patriottico presso il governo austriaco:
«2 luglio 1889.»
Ambasciata Italiana
Vienna.
(Riservato). I giornali pubblicano essere stato proibito lo sbarco a
Riva di Trento ad una comitiva di regnicoli, organizzata a scopo di
gita di piacere. Questo fatto essendo contemporaneo a quello della
sospensione delle corse dei vapori tra Venezia e Trieste preoccupa
sfavorevolmente la pubblica opinione in Italia e non è certo
l'Austria che ci guadagna; mette inoltre il Governo del Re in una
difficile posizione, tanto più se verrà portato
innanzi alla Camera. Voglia dunque chiedere schiarimenti intorno al
medesimo, e qualora i relativi ordini sieno stati dati da Vienna,
voglia fare i passi opportuni perchè la proibizione sia
revocata. Sono atti di polizia che ricordano tempi che io credeva
per sempre tramontati. Il Governo del Re ha lasciato correre atti
ben altrimenti importanti, come le manifestazioni a favore del
papa-re.
Gradirò una pronta risposta.
Crispi.»
«Vienna, 13 luglio 1889.»
(Personale). Ho chiesto a Kálnoky di procurare informazioni
sull'andamento del processo Ulmann. Egli mi ha promesso domandarle
al Ministero di Grazia e Giustizia e di comunicarmele, ma mi ha
fatto osservare che i consoli, all'infuori del levante, non hanno
diritto di chiedere alle autorità giudiziarie comunicazioni
di processi criminali pendenti. Quanto alle ragioni svolte nel
telegramma di V. E., io le esposi amichevolmente al conte
Kálnoky, il quale si rende perfettamente conto della
situazione e apprezza gli sforzi da Lei fatti per fare cessare
agitazioni irredentistiche, ma d'altra parte egli mi disse che
sarebbe ingiusto e di pessimo esempio risparmiare i rei unicamente
perchè protetti dal partito ostile all'alleanza.
Nigra».
Il 17 luglio il Comitato irredentista radicale per Trento e Trieste
diramò il seguente manifesto firmato da Giovanni Bovio,
Matteo Imbriani, Antonio Fratti e da altri:
«Italiani!
Quando governi e parlamenti - obbliano i diritti ed i doveri della
Nazione - dalla grande anima del popolo sorge una voce, che i
diritti ed i doveri tutti del presente raccoglie e compendia in un
motto: Trieste e Trento.
È l'istinto dell'ente collettivo, è la coscienza
nazionale, che proclama alto questi nomi, nel momento storico
necessario.
E il pericolo è grave, immediato.
Patti che non conosciamo ci vincolano. Sappiamo solamente che una
odiosa alleanza ci lega ai nemici nostri.
L'Italia è minacciata da una guerra che dovrebbe sostenere
per interessi di altri - contro i proprî - e dalla quale,
vinta o vincitrice, uscirebbe mancipio dello straniero.
E frattanto mancipii viviamo, quasi fossimo condannati a servire
sempre.
Ma dei fatti nostri noi soli siamo arbitri.
Avvaliamoci di tutti i mezzi che ci vengono consentiti; l'opinione
pubblica può impedire grandi sciagure - la volontà
determinata del popolo s'imporrà a tutti.
Scongiuriamo i pericoli sovrastanti; stringiamoci in un patto nei
sacri nomi di Trieste e Trento. - Questo motto e grido che scuote -
è squillo che unisce - è monito che avverte.
Roma, 17 luglio 1889.
Avvertenze.
Le associazioni operaie, patriottiche e politiche, le Società
dei Veterani e reduci dalle patrie battaglie, Circoli popolari e
quanti fra i patrioti curanti la causa nazionale aderiscono al
presente appello, sono vivamente pregati d'inviare sollecita
dichiarazione e di costituire immediatamente nelle rispettive
località Comitati e nuclei con identico programma, mettendosi
tutti in diretta comunicazione con questo Comitato di Roma, per le
opportuna intelligenze sul lavoro da compiersi in comune.
Tutte le comunicazioni dovranno essere inviate al seguente esclusivo
indirizzo:
Comitato per Trieste e Trento
Roma.»
L'on. Crispi ordinò che s'impedisse l'affissione di questo
manifesto e sciolse il Comitato, con grande sdegno del partito
democratico che moltiplicò le proteste e votò anche
una querela contro l'autorità di pubblica sicurezza, la cui
redazione fu affidata ai 24 avvocati del Circolo radicale, tra i
quali erano Barzilai, Gallini, Vendemini, Pellegrini.
Con circolare del 19 luglio Crispi proibì i Comizii che la
Commissione esecutiva segreta del Comitato irredentista aveva
predisposti dovunque. L'agitazione, tuttavia, promossa dai Comitati
«pro Trento e Trieste» sorti dai fianchi delle
Associazioni radicali, era vivace, e i tentativi di dimostrazioni
contro l'Austria continui. Crispi era risoluto a prevenirle e a
reprimerle. Al prefetto di Ravenna telegrafava il 22 luglio
dolendosi che a Conselice non fossero state deferite
all'autorità giudiziaria grida sediziose emesse in una
dimostrazione irredentista, perchè «questo nuoceva al
prestigio del governo e accresceva l'audacia dei perturbatori
dell'ordine pubblico».
Dopo quest'atto di rigore, l'on. Crispi telegrafava a Berlino:
«Roma, 29-7-89.
Ambasciata Italiana
Berlino.
(Riservato). Nel suo telegramma del 25 luglio V. E. accenna che
costì fece buona impressione il decreto di scioglimento del
Comitato per Trento e Trieste. Ho fatto quello che era mio dovere.
Ma non posso celare il mio pensiero, che nel regolarsi cogli
italiani dell'Impero le autorità austriache non sono
nè sapienti nè prudenti. Sevizie e processi a nulla
giovano, ed inaspriscono gli animi. Desidero quindi che V. E. preghi
il Principe Cancelliere a nome mio di far giungere a Vienna consigli
di prudenza e di temperanza. Il Governo austriaco comportandosi
paternamente verso gli italiani della Monarchia renderebbe
più facile il mio compito verso gli irredentisti.
Crispi.»
Il principe di Bismarck non ricusò il suo intervento:
«Berlino, 7 agosto 1889.
S. E. Crispi
Roma.
(Riservato). Cancelliere, cui venne riferito sul messaggio
contenuto nel telegramma di V. E. 29 luglio, volendo per quanto
è possibile tener conto del desiderio da Lei espresso fece
trasmettere al Principe Reuss istruzioni confidenziali di parlare in
tempo opportuno ed in via privata al conte Kálnoky
sull'argomento delicato riguardo contegno prudente e moderato da
osservare dalle Autorità austriache verso Italiani
dell'Impero. Quell'Ambasciatore dovrà dunque nei suoi
colloquii evitare perfino apparenza d'intervento ufficiale come dal
dare appiglio a sospetto qualunque che il Gabinetto di Berlino miri
ad esercitare anche indirettamente una pressione sul Governo
Austro-Ungarico, e ciò appunto per non correre rischio di
ottenere risultati contrarii al compito di V. E. verso gli
irredentisti.
Launay.»
Frattanto la causa dell'irredentismo, sostenuta dal partito
radicale, continuava ad agitare il paese. Quale rapporto vi fosse
tra cotesto movimento e l'ingerenza che segretamente il governo
francese non ha mai cessato di esercitare in Italia, è
difficile stabilire. Le autorità politiche delle maggiori
città ritenevano che gl'irredentisti avessero accordi in
Francia e probabilmente anche pecunia.
Il 9 e 12 agosto il prefetto di Napoli, senatore Codronchi,
telegrafava al ministro dell'interno:
«Imbriani - d'accordo con Cavallotti - lavora per arruolare un
numero di giovani, e tentare un'invasione nel territorio austriaco
al solo scopo di turbare le relazioni fra lo Stato e l'Impero
Austro-Ungarico. Si raccolgono armi.»
«In aggiunta miei precedenti telegrammi comunico che deputato
Imbriani fu recentemente in Francia per prendere accordi sugli
arruolamenti clandestini che dovrebbero servire a gettare alcune
bande sulla Dalmazia.... Tra Parigi e Milano è vivissimo lo
scambio di corrispondenze e di visite.»
L'on. Crispi fece quanto era possibile per mandare a monte gli
insensati progetti, dispose buona guardia al confine e convinse i
capi del movimento della vanità dei loro sforzi.
Il 13 settembre un certo Enrico Caporali attentò alla vita di
Crispi, colpendolo al viso con un grosso selce. Si disse che
dall'istruttoria penale fosse risultato che il Caporali aveva
frequentato le riunioni segrete tenute dall'Imbriani. Comunque,
simili atti di violenza sono ordinariamente il frutto delle intense
agitazioni politiche, e la campagna che da mesi si faceva contro
Crispi a cagione del suo fermo governo verso gl'irredentisti, non fu
di certo estranea all'attentato.
L'8 di ottobre in un banchetto offertogli a Firenze, Crispi fece
dichiarazioni recise sull'irredentismo:
«Da qualche tempo, con parole seduttrici, una pericolosa
tendenza cerca adescare l'animo delle popolazioni: quella che grida
la rivendicazione delle terre italiane non unite al Regno. I nostri
avversari vi cercan materia di agitazioni, ed è materia che
può appassionare le menti, sia pur generose, ma deboli ed
irriflessive.
Circondato, però, in apparenza, dalla calda poesia della
Patria, l'Irredentismo non è meno oggi il più dannoso
degli errori in Italia.»
E svolse questo tema dimostrando che il principio di
nazionalità non poteva essere la norma esclusiva della
politica italiana, - che disarmo e guerra, cui miravano
gl'irredentisti, erano termini antitetici che avrebbero condotta
l'Italia a perdere unità e libertà, - che l'alleanza
con l'Austria, togliendoci dall'isolamento, ci garentì nel
1882 dall'Austria stessa e ci garentiva la pace; e invocando,
infine, la fede ai trattati, accennò altresì alla
«virtù del silenzio» imposta dalla politica che
ci conveniva.
In Austria, mentre si apprezzava la politica ferma e leale di
Crispi, non s'ignorava ch'egli, venuto dalla rivoluzione, era uomo
d'idee tenaci, e che non avrebbe subordinato gl'interessi del suo
paese al tornaconto austriaco. E lo stimavano e l'onoravano per la
sua abilità, come pel suo patriottismo. In un telegramma del
14 agosto, l'ambasciatore de Launay facendo una relazione del
soggiorno dell'imperatore Francesco Giuseppe a Berlino, riferiva di
un colloquio col Segretario di Stato:
«Imperatore d'Austria dichiarò quanto sia soddisfatto
che il nostro augusto Sovrano abbia un primo ministro di tanta
vaglia. S. M. imperiale è convinta di tutta l'importanza dei
vincoli con l'Italia pure pel mantenimento della pace. Il conte
Kálnoky farà tutto il possibile riguardo al contegno
da osservarsi verso gl'Italiani dell'Impero.»
Il Fremdenblatt, giornale officioso della Cancelleria austriaca,
scriveva il 18 settembre in occasione dell'attentato Caporali:
«Il criminoso attentato alla persona del ministro presidente
italiano, del quale per fortuna le conseguenze non sono gravi, diede
occasione ad un numero straordinariamente grande di dimostrazioni di
simpatia per l'illustre uomo di Stato. Sovrani e ministri
attestarono al mondo colle parole di loro condoglianza quanta stima
egli possegga all'estero. Nell'Italia stessa le principali
rappresentanze civiche, le società, e persone private diedero
a conoscere con telegrammi e con indirizzi di saper apprezzare
condegnamente l'alto valore d'un Crispi, seguendo in ciò
l'esempio dello stesso Re, le cui affettuose e ripetute domande
sulla salute del ministro, onorano in egual misura il monarca ed il
ministro stesso. Il giovane che lanciò il sasso contro del
Crispi per ucciderlo, siccome egli medesimo confessa, ha con
ciò provocato una corrente di simpatia, tale da mettere
appunto in piena luce l'importanza del personaggio, ch'egli erasi
prescelto a vittima. L'importanza di Crispi non è già
riposta nelle sue eminenti doti politiche, o nella sua intelligenza,
o nella presenza di spirito, o nella sua risolutezza ed infaticabile
attività; no: essa è riposta in ciò, che egli
tutte queste qualità le mise al servizio di una grande causa,
che egli (e ciò appartiene senz'altro in prima linea al
talento politico) è l'ardita guida su quella via, che egli
stesso, uno fra i primi, riconobbe per la retta....
È questa l'epoca d'un'Italia veramente indipendente,
vincolata a nessun patronato, che da vera grande potenza entra
libera di se in una lega di grandi potenze. Il nome di Crispi
è strettamente congiunto a questa evoluzione; più
strettamente che quello d'alcun altro. Egli è il
rappresentante dell'Italia novissima, e la sua posizione fra i
personaggi politici d'Europa segna qual posto tenga l'Italia in
Europa.»
Dal Diario di Crispi:
«1890 - 13 ottobre.
Verso le 11 ant. è venuto il barone de Bruck di ritorno in
Roma dopo la villeggiatura.
Dichiarò aver visto due volte l'Imperatore Francesco
Giuseppe, in luglio ed in questo mese prima della sua partenza per
l'Italia.
L'Imperatore gli manifestò il desiderio di poter vedere
spesso il nostro Re. Se il nostro Re lo invitasse alle manovre
militari, l'Imperatore vi andrebbe volentieri. Queste visite
potrebbero essere annuali, e ricambiarsi anche, andando il nostro Re
alle manovre militari in Austria.
I Sovrani dovendo essere accompagnati dai rispettivi ministri, ne
verrebbe che tra questi si renderebbero facili le comunicazioni e lo
scambio delle idee. Grande sarebbe il beneficio che si otterrebbe da
ciò e per le relazioni che diverrebbero cordiali fra i due
monarchi e per la intimità che si costituirebbe fra i due
ministri.
Venendo l'Imperatore alle manovre non intenderebbe aver soddisfatto
all'obbligo della restituzione della visita al Re, dovuta dopo il
viaggio di S. M. a Vienna nel 1881.
La restituzione della visita, lo comprende l'Imperatore, dovrebbe
farsi a Roma. Egli non può farla nella posizione in cui si
trova col Vaticano. S. M. I. e Reale se venisse in Roma non sarebbe
ricevuto dal Papa; e il Monarca austriaco non potrebbe subire questo
affronto: dovrebbe rompere col capo della Chiesa ed egli deve
evitare un avvenimento di tanta importanza.
Francesco Giuseppe parlò di me al de Bruck con parole
lusinghiere. Disse che il mio contegno, tenendo saldi i vincoli di
alleanza fra i due Stati, assicura la pace e garantisce il benessere
dei due popoli. L'Imperatore incaricò il de Bruck di portarmi
i suoi saluti e le sue speciali felicitazioni.
Alle 7 di sera il de Bruck ritornò da me per darmi lettura di
un dispaccio di Kálnoky, ricevuto nel pomeriggio. Il ministro
si felicita del mio discorso di Firenze, dandone il più
lusinghiero giudizio.»
Il testo del telegramma del conte Kálnoky è questo:
«Io prego Vostra Eccellenza di esprimere al signor Crispi le
mie più fervide congratulazioni per il suo discorso di
Firenze e di dirgli che egli, colla sua geniale e logicamente
inconfutabile esposizione degli interessi politici d'Italia, ha
dimostrato al suo Paese non solo, ma a tutta Europa la rettitudine
[die Richtigkeit] della sua politica. La qual cosa giova all'Italia
e alla sua situazione internazionale.
Il suo linguaggio coraggioso e da vero uomo di Stato può,
dagli alleati d'Italia che hanno iscritto sulle loro bandiere il
rispetto ai trattati ed ai principii monarchici, essere considerato
come una nuova prova che la Triplice alleanza così necessaria
alla pace d'Europa, poggia sopra una solida base e possiede nella
prudente ed energica personalità del Crispi un custode fedele
preparato ad ogni eventualità.»
La corrispondenza che segue dimostra l'interessamento che Crispi
metteva nell'eliminare le cause di dissenso tra l'Italia e
l'Austria, e il buon volere del conte Kàlnoky, e anche della
Cancelleria germanica, nel secondarlo:
«Roma 3-9-1889.
Ambasciata Italiana
(Riservato). Prego Vostra Eccellenza far pratiche, adoperando tutta
sua influenza personale, perchè il Governo Imperiale
solleciti per quanto sta in lui l'azione della giustizia nell'affare
Ulmann. Comunque debba essere la sentenza, è interesse
politico dei due paesi che si termini presto un processo che rimane
causa permanente di disagio, e che ad un dato momento potrebbe
provocare nuovi serii imbarazzi. Vorrei Ella ottenesse prima di
partire un impegno formale. Pregola telegrafarmi.
Crispi.»
«Vienna, 3-9-1889.
S. E. Crispi
Roma.
(Riservato). Appena ricevuto il telegramma di V. E. mi recai da
Kálnoky e gli rinnovai l'istanza anche a nome di V. E.
perchè facesse tutto ciò che dipendeva da lui per
sollecitare esito del processo Ulmann. Feci notare a S. E. esser di
grande interesse politico per i due Stati il tôr di mezzo
questa causa permanente d'imbarazzo per ambedue. Kálnoky mi
promise di fare passi solleciti presso il Ministero della Giustizia
nel senso desiderato e di farmi conoscere l'esito che non
mancherò di telegrafare.
Nigra.»
«Vienna, 10-9-1859.
S. E. Crispi
Roma.
(Riservato). Kálnoky mi ha detto che la istruzione relativa
ad Ulmann è finita, e che il giudizio è ora deferito
alla Magistratura ed al Giurì d'Innsbruck. Egli crede che il
processo sarà terminato prima della riunione del nostro
Parlamento e mi ha promesso che farà tutto ciò che
dipende da lui per accelerarlo attivamente. Ho preso atto della sua
promessa.
Nigra.»
«Vienna, 2-10-89,
S. E. Crispi
Roma.
(Segreto). Attenendomi istruzioni impartitemi dall'E. V. col
telegramma di ieri, ho toccato oggi al conte Kálnoky colla
dovuta prudenza e nel modo che ho creduto più confacente allo
scopo, la questione dei recenti provvedimenti presi contro sudditi
italiani a Trieste. Ricordando poscia a S. E. le promesse da esso
fatte all'ambasciatore di S. M. l'ho pregato caldamente di volersi
adoperare perchè il processo Ulmann fosse terminato al
più presto possibile.
Il conte Kálnoky mi ha risposto che ignorava i particolari
dei fatti a cui io avevo fatto allusione, e che avrebbe assunto
presso il conte Taaffe le necessarie informazioni, ma mi ha
soggiunto che da quanto aveva potuto apprendere dai giornali, quei
provvedimenti riguardavano sudditi italiani che avrebbero preso
parte al getto di petardi di cui si avrebbero le prove, e che tali
provvedimenti non avevano certamente nulla di rigoroso. Osservai al
conte Kálnoky che nell'interesse di tutti e due i paesi
sarebbe però necessario di evitare ogni misura che potesse
servire di pretesto a qualsiasi agitazione, ma S. E. mi
replicò che detti provvedimenti non avevano un carattere
vessatorio e che non costituivano altro che una semplice misura di
sicurezza pubblica che incombe ad ogni Stato di prendere. In quanto
al processo Ulmann il conte Kálnoky mi ripetè quanto
aveva già fatto conoscere all'ambasciatore di S. M. e disse
che esso aveva fatto tutto il possibile per accelerarne la soluzione
e che era a tale proposito in trattative con il conte Taaffe. Avendo
io accennato alla urgenza che tale processo fosse terminato prima di
novembre, cioè prima della riunione del Parlamento italiano,
S. E. mi rispose che non dubitava che esso sarebbe già
terminato per quella data e che il ritardo attuale proveniva dalla
solita procedura giudiziaria indispensabile.
Avarna.»
«Berlino, 3-10-89.
S. E. Crispi
Roma.
(Riservato). Il Sottosegretario di Stato scrisse ieri al principe
Reuss di parlare al conte Kálnoky nel senso del telegramma di
V. E. del 1° ottobre riguardo al contegno delle autorità
austro-ungariche a Trieste. Non occorre notare che condizione
essenziale di riuscita di tale entratura sia di osservare segreto il
più assoluto sull'istruzione trasmessa dal Governo imperiale
al suo rappresentante a Vienna.
Launay.»
«Vienna, 22-10-1889.
S. E. Crispi
Roma.
Nel ricevimento ebdomadario di oggi ho fatto presso S. E. il conte
Kálnoky nuove insistenze nel senso delle istruzioni
impartitemi dall'E. V. con telegramma del 12 relativamente processo
Ulmann. Egli ha detto che s'era anche recentemente occupato di
questo affare, che ne aveva parlato col Ministro della Giustizia,
perchè si adoperasse per sollecitare al più presto la
soluzione del medesimo, e che sperava sempre che avrebbe potuto
essere terminato prima della fine del mese. Nel caso contrario, egli
ha aggiunto che si sarebbe provveduto perchè si riunisse per
questo processo una sessione straordinaria.
Avarna.»
«Vienna, 27-10-1889.
S. E. Crispi
Roma.
Kálnoky mi ha pregato oggi di recarmi da lui per parlarmi del
telegramma di V. E. da me comunicato ieri a Szögyeny relativo
al processo Ulmann. Egli ha detto che, malgrado desiderio che qui si
ha di corrispondere ai desideri di Lei, non era possibile accordare
al R. Console la facoltà di assistere, nella sua
qualità ufficiale, a quel processo, giacchè la
concessione di tale facoltà, che non venne mai data ad alcun
console estero, era contraria alla legislazione austriaca. Se questa
fosse ora accordata al R. Console, il Governo sarebbe costretto
concederla pure ai consoli degli altri Stati, ciò che non
potrebbe ammettere. Feci nuovamente osservare a Kálnoky, che
simile facoltà era però accordata ai consoli esteri in
Italia e che sarebbe stato opportuno per i legami d'amicizia
esistenti fra i due governi, essa fosse concessa ai RR. Consoli in
Austria-Ungheria; ma il Ministro rispose che ignorava essa fosse
stata accordata ai consoli austro-ungarici in Italia e da quanto a
lui risultava essi non ne avevano almeno fatto mai uso. Del resto,
egli aggiunse che il Ministro di Grazia e Giustizia austriaco erasi
già pronunziato contrariamente a questa concessione nel
progetto di dichiarazione (di cui mi diede lettura e che
verrà in seguito comunicato alla R. Ambasciata) da esso
preparato in contrapposto a quello del R. Governo relativamente
all'interpretazione dell'articolo 16 della Convenzione consolare del
1874. Kálnoky mi pregò infine d'esprimere a V. E. suo
rammarico che la legislazione austriaca impedisse al Governo
Imperiale di soddisfare in questa occasione la di Lei domanda.
Avarna.»
«Berlino, 7-11-1889.
S. E. Crispi
Roma.
(Riservato). Prima di ricevere telegramma di V. E. del 5 corr. avevo
domandato per ben due volte a questa Cancelleria imperiale quale
fosse il risultato delle istruzioni trasmesse al principe di Reuss
in conseguenza del desiderio espresso nel telegramma di V. E. del
1.° ottobre. Mi fu risposto che era in corso a Trieste una
inchiesta la quale avrebbe già messo in rilievo seri gravami
contro Ulmann ed altri imputati politici di quella città: mi
fu d'altronde assicurato che verso l'epoca della gita
dell'Imperatore Guglielmo a Monza, furono da noi esposti gli
inconvenienti che il giudizio non avesse luogo prima della riunione
del nostro Parlamento. Supponeva che di ciò fosse stata fatta
menzione nei colloqui di V. E. col conte di Bismarck. Mi feci
premura di parlare colla voluta prudenza al sotto-segretario di
Stato e d'insistere nel senso del telegramma giuntomi ieri sera;
egli ne riferirà a Friedrichsruhe, il Principe Cancelliere
non essendo aspettato a Berlino che verso metà di questo
mese. Intanto il S. S. di Stato non taceva quanto riuscirebbe
malagevole di tornare con Kálnoky sopra argomento così
delicato e che sta fuori della sua competenza. Il Gabinetto di
Berlino per quanto gli spetta evita di sporgere querela sia in
Austria-Ungheria che in Russia per certe amministrazioni che
sicuramente non procedono coi dovuti riguardi per gli interessi dei
tedeschi nei due Imperi.
Launay.»
«Vienna, 7-11-1889.
S. E. Crispi
Roma.
Kálnoky non dovendo tornare a Vienna che domani, ho
comunicato stamane a Szögyeny telegramma di V. E. in data di
ieri, relativo processo Ulmann. Ho insistito presso lui sugli
inconvenienti risultanti dal ritardo frapposto nel terminare quel
processo, specialmente in vista della prossima riunione del
Parlamento italiano. Egli mi ha risposto che avrebbe riferito a
Kálnoky, appena fosse tornato, la mia comunicazione, e che
oggi stesso avrebbe parlato a Taaffe perchè si adoperasse
altrimenti per fare dare un pronto compimento al giudizio, che egli
disse non essere infatti ancora cominciato, malgrado le promesse
state fatte al Ministero Imperiale e Reale. Szögyeny ha
aggiunto che si rendeva perfettamente conto degli inconvenienti da
me accennati, e che per ciò qui si metteva ogni impegno per
accelerare la soluzione del processo, che sperava avrebbe potuto
essere terminato prima della riunione del nostro Parlamento.
Appena avrò potuto vedere Kálnoky, non mancherò
di far nuove insistenze nel senso delle istruzioni di Lei.
Avarna.»
«Vienna, 10-11-1889.
S. E. Crispi
Roma.
Ho profittato dell'udienza datami oggi da Kálnoky per
insistere nuovamente presso di lui perchè il processo Ulmann
fosse terminato prima della riunione del Parlamento italiano. Egli
mi ha risposto che, subito dopo il suo ritorno da Friedrichsruhe,
aveva in questo senso adoperato tutta la sua influenza personale
presso il Ministro di Giustizia, il quale però avevagli
rappresentato le difficoltà che tuttora si opponevano a che
il processo potesse essere terminato nel termine desiderato,
giacchè era necessario procedere alla traduzione
dall'italiano al tedesco di tutti gli atti voluminosi del processo.
In tale stato di cose Kálnoky mi ha pregato di annunziare
all'E. V. che egli per far cosa gradita e per togliere di mezzo
questa causa d'imbarazzi tra i due Governi aveva proposto che non si
desse più seguito al processo Ulmann e che questi fosse
rinviato in Italia. Egli sperava che l'Imperatore avrebbe
acconsentito a tale sua proposta.
Avarna.»
«Vienna, 16-11-1889.
S. E. Crispi
Roma.
(Personale). Kálnoky mi annunziò oggi che fedele alla
promessa fattami e tenendo conto speciale delle istanze di V. E. di
abbandonare il processo contro Ulmann e di espellerlo in Italia, S.
M. diede il suo consenso e l'ordine relativo è stato
impartito. Ho ringraziato in di Lei nome il Conte Kálnoky di
questo provvedimento che fa testimonianza di moderazione governo
imperiale e di deferenza verso il governo del Re.
Nigra.»
«Come fulmine a ciel sereno - annunziava il 19 luglio 1890 il
giornale slavo Narodni List di Zara - è scoppiata la notizia
che il governo ha sciolto la Società Pro Patria la quale
aveva la sua sede a Trento e diramazioni in tutte le terre
«irredente» della nazione italiana in Austria.... Si
racconta che nell'ultimo Congresso tenuto a Trento, inter-pocula se
ne intesero tante e tante che obbligarono il governo allo
scioglimento della Società. Benedetto vino che compromise
Noè....»
La notizia che con gioia non dissimulata dava l'organo dei croati,
era vera. I motivi del decreto di scioglimento erano questi che
trascriviamo testualmente:
«La Società non politica Pro Patria la quale, a mezzo
di gruppi locali, estende la sua attività al Tirolo, al
Litorale ed alla Dalmazia, nel Congresso generale tenutosi il 29
giugno 1890 in Trento, dietro proposta del socio Carlo Dr. Dordi e
fra vivi applausi ha deliberato a voti unanimi di comunicare in via
telegrafica alla Società Dante Alighieri in Roma,
nonchè al presidente della stessa, Bonghi, la piena adesione
e le più sincere felicitazioni;
Essendo notorio che la Società Dante Alighieri in Roma
osserva un contegno ostile alla monarchia austro-ungarica ed
emergendo da ripetute comunicazioni pubbliche, portate a generale
conoscenza mediante la stampa periodica italiana, che le aspirazioni
di quella Società sono rivolte direttamente contro
l'interesse dello Stato austriaco, la Società Pro Patria, col
summenzionato deliberato ha dato a conoscere che essa, oltre agli
scopi scolastici, messi dallo statuto sociale in prima linea, mira
anche ad altri scopi e precisamente a scopi politici, i quali
secondo le circostanze potrebbero cozzare con le disposizioni del
codice penale;
Questa tendenza sleale ed anti-patriottica della Società Pro
Patria si è palesata anche in modo indiretto col fatto, che
il comitato, costituito per l'organizzazione di festività in
occasione del Congresso generale della Società Pro Patria in
Trento, a capo del quale era il presidente del gruppo locale di
Trento, l'avvocato Carlo Dr. Dordi, tralasciò di imbandierare
la città, come era progettato ed anche notificato
all'Autorità, in seguito al decreto di quell'i. r.
Commissario di polizia, a tenore del quale l'imbandieramento non
venne concesso che a condizione che contemporaneamente venisse pure
inalberata in posizione distinta una bandiera dai colori dell'impero
austriaco....»
Lo scioglimento della Pro Patria di una associazione cioè che
si proponeva fini non politici, ma di cultura, era stato da parecchi
mesi deciso, da quando, in aprile, l'idea di un monumento a Dante in
Trento veniva accolta e suffragata in Italia da numerose
sottoscrizioni come affermazione d'italianità. La pubblica
sottoscrizione per l'erezione della statua era stata permessa in
Austria dall'Imperatore; in Italia, quando ad essa vollero
partecipare Consigli Comunali e provinciali con esplicite
deliberazioni politiche, fu vietata da Crispi. Ma ciò non
bastò al governo austriaco, il quale credette opportuno di
colpire il sentimento italiano, come se questo potesse mortificarsi
o distruggersi con una misura di polizia. Il pretesto non era
neppure ben scelto, poichè non era vero che nell'incriminato
e non trasmesso telegramma alla società Dante Alighieri,
allora costituitasi, il congresso della Pro Patria avesse fatto
«piena adesione», mentre invece aveva soltanto espresso
«la propria soddisfazione per la costituzione» di quella
Società. Ed era anche infondato che la Dante Alighieri
«osservasse un contegno ostile alla monarchia
austro-ungarica» e che le aspirazioni di essa fossero
«rivolte direttamente contro lo Stato austriaco». Il
secondo motivo del decreto era anch'esso insussistente,
perchè a Trento, in occasione del congresso, non era stata
esclusa la bandiera dell'impero essendosi dal Comitato locale - che
nulla poi aveva da fare con la presidenza della Società Pro
Patria - rinunziato all'imbandieramento della città.
La Dante Alighieri, chiamata in causa nel decreto dell'i. r.
Ministero dell'interno, protestò con la seguente lettera
diretta a Crispi, quale Presidente del Consiglio e ministro degli
affari esteri:
«Eccellenza,
Nel decreto di scioglimento della Società Pro Patria, dal
Governo austriaco è dato a prova della condotta sleale e
antipatriottica di essa - così dice - il seguente principale
motivo:
«La Società non politica Pro Patria, la quale, a mezzo
di gruppi locali, estende la sua attività al Tirolo, al
litorale ed alla Dalmazia, nel Congresso generale tenutosi il 29
giugno 1890 in Trento, dietro proposta del socio Carlo Dott. Dordi e
fra vivi applausi, ha deliberato a voti unanimi di comunicare in via
telegrafica alla Società Dante Alighieri in Roma,
nonchè al presidente della stessa. Bonghi, la piena adesione
e le più sincere felicitazioni;
«Essendo notorio che la Società Dante Alighieri in Roma
osserva un contegno ostile alla monarchia austroungarica, ed
emergendo da ripetute comunicazioni pubbliche portate a generale
conoscenza mediante la stampa periodica italiana, che le aspirazioni
di quella Società sono rivolte direttamente contro
l'interesse dello Stato austriaco, la Società Pro Patria col
summenzionato deliberato ha dato a conoscere che essa, oltre agli
scopi scolastici, messi dallo statuto sociale in prima linea, mira
anche ad altri scopi, e precisamente a scopi politici, i quali,
secondo le circostanze, potrebbero cozzare con le disposizioni del
codice penale».
Il Consiglio centrale della Società Dante Alighieri non
può scegliere migliore testimone della erroneità
patente di tali asserzioni che il Presidente dei ministri del Regno
d'Italia.
La Società Dante Alighieri non si è tenuta segreta; ha
operato e discorso alla luce del giorno; ha comunicati i suoi
intendimenti al Governo e dal Governo ha ricevuto conforto e aiuto.
Ciò basta a provare che nessuno dei fini che le attribuisce
il decreto austriaco le si può legittimamente attribuire; ed
è obbligo, non diciamo soltanto nostro, ma del nostro stesso
Governo, di protestare contro asserzioni che impugnano la
lealtà nostra e la sua.
La Società Dante Alighieri non si è proposta di
esercitare altre influenze in ogni paese dove vivano italiani, se
non quelle che Società della stessa natura esercitano
dappertutto, senza nessun sospetto di adoperarsi ad altro che a
mantenere vivaci e fecondi alcuni vincoli intellettuali, morali e
storici.
In Austria stessa i Tedeschi e gli Slavi fuori dei suoi confini le
esercitano rispetto a' Tedeschi e agli Slavi dentro i suoi confini.
Perchè solo agli Italiani, che non sono retti dal Governo
austriaco, dovrebbe esser vietato di esercitarle rispetto a quelli
che sono retti da esso? Gioverebbe al Governo austriaco stesso
mostrare al mondo che solo gli Italiani considera come nemici, e
dove per gli altri popoli il Governo austro-ungarico è
monarchia, solo per essi non schiva di parere tirannide?
Noi non entriamo a giudicare l'atto altamente rincrescevole per il
quale è stata sciolta la Società Pro Patria, che aveva
comuni i fini con noi, fini supremamente civili, razionali e degni
di osservanza e rispetto. Noi sappiamo che non potremmo dirigerci al
nostro Governo se intendessimo chiedergli che esso comunicasse
all'austriaco un nostro giudizio e suo. La libertà e
l'autonomia dei governi, o bene o male usate, sono un principio
supremo di condotta per tutti.
Questo soltanto ci preme di accertare: che cotesto atto di
scioglimento di una Società tanto benemerita, fin dove
presume di avere avuto motivo dalle sue relazioni colla nostra, da
telegrammi supposti che non abbiamo mai ricevuti, da giornali
italiani dei quali nessuno è organo nostro, e da simili altre
accuse in tutto fantastiche, non ha in realtà motivo di sorta
o almeno nessun motivo che si confessi apertamente.
Sicuri che Ella vorrà tener conto di questa nostra protesta e
usarne nei modi che Ella creda meglio opportuni, le attestiamo il
nostro ossequio.
Dell'Eccellenza Vostra
Dev.mi
I Membri presenti in Roma del Consiglio Centrale della
Società Dante Alighieri: Ruggero Bonghi, deputato al
Parlamento, presidente - G. Solimbergo, deputato al Parlamento,
vicepresidente - Giulio Bianchi, deputato al Parlamento - Ferdinando
Martini, deputato al Parlamento - Avvocato Pietro Pietri - Dottor
Gaetano Vitali, segretario.»
L'azione diplomatica che in quella circostanza spiegò
l'onorevole Crispi risulta dai seguenti documenti:
«[Telegramma]
Conte Nigra ambasciatore d'Italia
Vienna.
Roma, 22 luglio 1890.
(Riservato-personale). Che il conte Taaffe abbia sciolto il Pro
Patria, nulla ho da obbiettare, perchè trattasi di un atto
interno di governo. Quello che dovrò osservare a V. E.
è che il ministro austriaco ha commesso due gravissimi errori
nella sua ordinanza: il primo nell'aver asserito esser stato spedito
dal presidente del Congresso un telegramma alla Società Dante
Alighieri, il che non fu; il secondo, nell'aver detto che questa
abbia scopi politici ed irredentisti.
La Dante Alighieri è un'associazione meramente letteraria, e
basta conoscere i nomi del suo Presidente e dei suoi socii per
convincersi come essi sian di opinioni temperate e come nulla
farebbero che potesse suscitare al Governo italiano imbarazzi
internazionali.
Non posso intanto nasconderle che l'ordinanza austriaca ha prodotto
una dolorosa impressione negli elementi più moderati del
nostro paese, i quali si domandano se questo sia il modo col quale
si possa mantenere tra l'Italia e l'impero vicino quell'alleanza che
tanto ci è necessaria.
Qui tutti sospettano che il Taaffe, devoto al partito cattolico, sia
contrario alla triplice alleanza e che vedrebbe di buon occhio lo
scioglimento della medesima.
Voglia tener per sè queste informazioni e se ne serva col
conte Kálnoky qualora lo crederà opportuno.
Crispi.»
«S. E. Conte Nigra
Vienna.
Roma, 24 luglio 1890.
Signor Ambasciatore,
La Luogotenenza di Trento ha sciolto la Società Pro Patria.
Il Governo del Re nulla ha da dire circa un atto di amministrazione
interna che in sè stesso sfugge al suo giudizio, ciascuno
Stato essendo padrone di governarsi con i criteri che gli sembrano
più opportuni.
Debbo però affermare nell'interesse dei rapporti
internazionali, che la notizia del fatto ha prodotto nel Regno la
più penosa impressione, sovratutto per i motivi che dicesi
abbiano ispirato il decreto di scioglimento.
In questo, difatti, si dichiara che due sarebbero le ragioni
dell'atto luogotenenziale. La prima è che il Presidente del
Congresso tenutosi a Trento il 29 giugno avrebbe inviato alla
Società italiana Dante Alighieri, per mezzo del telegrafo, la
sua piena adesione e le più sincere felicitazioni per l'opera
della Società medesima. La seconda sarebbe, che la
Società Dante Alighieri osserverebbe un contegno ostile alla
Monarchia Austro-Ungarica e che le aspirazioni di detta
società sarebbero rivolte direttamente contro gli interessi
dell'Impero.
Or mi permetto di osservare, Signor Ambasciatore. che codeste
considerazioni sono prive di fondamento. Anzitutto la Società
Dante Alighieri presieduta dall'Onorevole Ruggero Bonghi, non
ricevette alcun telegramma dal Congresso Trentino e per conseguenza
la Luogotenenza imperiale e reale è stata male informata.
È deplorevole che per un atto di tanta importanza s'invochino
a motivo due notizie false.
Passo a ciò che più giova conoscere e che interessa
un'associazione nazionale, quale è la Società Dante
Alighieri.
La Società Dante Alighieri non ha scopi politici. I soci che
la compongono appartengono al partito moderato e non vanno confusi -
sarebbero i primi a sdegnarsene - con coloro i quali fanno
professione d'irredentismo. La Società Dante Alighieri si
propone il culto della lingua italiana in tutte le regioni in cui
questa è parlata e non oserebbe far cosa che potesse influire
sulla politica internazionale del Governo o pregiudicare l'azione di
questo all'estero. Le relazioni della Società Dante Alighieri
col Governo sono tali e così notorie che ritengo come
un'offesa fatta a noi ogni imputazione che le si possa fare di
tendenze faziose, o di atti che in qualunque modo o misura potessero
ledere le buone relazioni che l'Italia mantiene coll'Impero vicino.
Voglio sperare che il Conte Taaffe, presa notizia delle cose come
realmente sono avvenute, saprà correggere l'opera della
imperiale e reale Luogotenenza di Trento. Non intendiamo con
ciò influire sugli atti amministrativi del governo austriaco,
ma solamente osservare che a nessuno è dato, ancorchè
pubblico funzionario, offendere gratuitamente con ingiustificate
imputazioni un governo amico. Il contegno del Luogotenente non
è certamente di tal natura da mantenere quell'accordo che noi
cerchiamo e ci sforziamo di tener saldo, a costo anche della nostra
popolarità.
Allorchè io seppi che a Trento volevasi innalzare una statua
a Dante e che il Governo austriaco aveva permesso non solo questo
omaggio all'altissimo poeta, ma anche l'istituzione di una
Società che tende a favorire il culto della lingua italiana,
me ne compiacqui e rallegrai, vedendo in quell'atto di buona
politica un fatto reale che alla nazionalità italiana
guarentiva nel poliglotta Impero gli stessi diritti che sono
guarentiti ai Tedeschi, agli Slavi, agli Ungheresi, ai Boemi, ai
Rumeni ed a tutti gli altri popoli che fanno parte dell'Impero.
Ora sono dolentissimo di dover constatare le condizioni difficili
che vengono fatte al Ministero Italiano in questa occasione.
Finchè la fiaccola dell'Irredentismo si trovava accesa dai
radicali, io non li temevo. Ma l'atto ultimo, il quale ravviva la
memoria di altri atti non pochi che ogni tanto rivelano
l'intolleranza di codesto governo, basterà, temo assai, a
turbare o per lo meno a raffreddare la gente moderata e tranquilla,
sul cui appoggio il governo sapeva di potere sino ad ora contare.
Non so se Ella riuscirà a far comprendere tutto ciò al
Governo austro-ungarico e se il Conte Kálnoky dispone di
sufficiente autorità per richiamare il suo Collega
dell'Interno a migliori consigli. Dirò soltanto a Vostra
Eccellenza come l'alleanza con l'Austria, che solo io potevo
difendere, avrebbe contro di sè un maggior numero di nemici,
e che non so se al 1892 o il mio successore od io avremmo la forza
necessaria a rinnovarla.
Comprendo che il Conte Taaffe, che è cattolico convinto,
potrebbe venire dalle ispirazioni del Vaticano indotto ad atti che
lo obbligassero a combattere l'alleanza delle potenze centrali.
Però al di sopra di lui sta S. M. l'Imperatore e Re, che si
distingue per tanto buon senso e per tanta esperienza di governo, ed
all'Augusto Sovrano non può sfuggire la considerazione che
l'opera nostra, la quale è utile alla Monarchia, è
resa oltremodo difficile se il suo Ministro non agisce d'accordo con
noi per raggiungere lo scopo cui tutti miriamo.
Con ciò fo seguito al mio telegramma dei 22 sera. Le accludo
copia della protesta direttami il 21 luglio dalla Società
Dante Alighieri, e desidero che Ella si ispiri alle considerazioni
che sono contenute in questa lettera per discorrere del delicato
argomento con quelle riserve ed in quei modi che crederà
più opportuni, avvertendo sempre che è mio
intendimento evitare ogni causa di dissapori col Governo Imperiale e
Reale.
Gradisca, signor Conte, gli atti della mia alta considerazione.
Crispi.»
S. E. Crispi
Roma.
Vienna, 27 luglio 1890,
Signor Presidente,
Mi pregio di segnar ricevimento della lettera che V. E. mi fece
l'onore di dirigermi il 24 corr. relativamente allo scioglimento
della Società Pro Patria la quale fa seguito al telegramma
ch'Ella mi diresse il 22 corrente, ricevuto il 23, e redatto nel
medesimo senso; nonchè della copia di lettera annessa,
diretta a V. E. dal Consiglio Centrale della Società Dante
Alighieri.
Al suo telegramma ebbi l'onore di rispondere col mio telegramma del
25 corrente che mi pregio di confermare e di qui trascrivere:
(Riservato). «Ringrazio V. E. della informazione che mi
dà rispetto alla Soc. Dante Alighieri. Essa sa che il Governo
Austro-Ungarico non ammette alcuna ingerenza estera per ciò
che riguarda i sudditi italiani dell'Austria. Io non posso
perciò parlare della soluzione della Società Pro
Patria a Kálnoky, tanto meno dopo che un telegramma da Roma
inserito nella Neue Freie Presse annunzia che io fui incaricato di
far passi in proposito. Ora mi permetta di rilevare un'espressione
del suo telegramma. Ella sembra credere che la dissoluzione sia
stata fatta per sentimenti clericali del Ministero. La quistione non
è clericale, giacchè nella società disciolta vi
erano parecchi preti e d'altra parte fra quelli che applaudirono
alla dissoluzione vi è la stampa liberale tedesca
dell'Austria. Il fatto è che la dissoluzione è dovuta
a certe imprudenze della detta società, a proposito delle
quali il Governo Austro-Ungarico non ammette che noi siamo meglio
informati di lui, trattandosi di società esistente in
Austria».
V. E. mi rispondeva col telegramma seguente:
«Roma, 26 luglio 1890.
(Riservato). Non ebbi mai in mente ch'Ella reclamasse presso codesto
Governo contro il Decreto Pro Patria ed i giornali che lo scrissero
fantasticarono. Nella mia lettera del 24 che non tarderà a
ricevere, le ho dichiarato che ogni Governo entro i confini dello
Stato ha pienissimo diritto e nessuno può ingerirsi negli
atti della sua interna amministrazione. Lo scopo per il quale a V.
E. mi diressi col telegramma e con la lettera fu d'informarla delle
impressioni sentite in Italia dal decreto per lo scioglimento del
Pro Patria e del contegno e degli scopi dell'associazione italiana
Dante Alighieri, che non mira alle provincie italiane dell'Austria,
ma estende la sua azione in tutti i paesi nei quali sono italiani,
questa istituzione completa l'opera iniziata dal Governo
coll'istituzione delle scuole italiane all'Estero».
Confermandole che io non posso fare dello scioglimento della
Società Pro Patria e delle circostanze in cui si produsse,
l'oggetto di una conversazione col conte Kálnoky, mi riservo
però la prima volta che avrò occasione di vedere il
conte Taaffe, senza entrare nel merito della questione, di fargli
notare l'errore di fatto in cui cadde nelle considerazioni che
precedono il decreto relativamente alle comunicazioni della
Società Pro Patria con quella della Dante Alighieri di Roma,
e intorno agli scopi di quest'ultima. Ma quest'errore è
già stato rilevato da una parte della stampa, ed il miglior
modo di metterlo in rilievo è quello di dare la maggior
pubblicità possibile alla lettera che in proposito fu diretta
all'E. V. dal Consiglio Centrale della Società Dante
Alighieri in Roma.
Per quanto mi risulta da ogni fonte il Vaticano ha potuto
bensì compiacersi dell'accaduto come di cosa che possa
nuocere alle buone relazioni tra i due paesi, ma non ebbe nessuna
parte nella determinazione di cui si tratta. La questione, ripeto,
non è clericale, ma essenzialmente politica ed irredentista.
L'E. V. tocca, nella sua lettera, una questione assai grave, quella
della continuazione dell'alleanza dell'Italia all'Austria-Ungheria,
che sarebbe, a di lei giudizio, resa più difficile dalla
cattiva impressione che l'atto di cui si tratta fece in Italia e si
può aggiungere dall'impressione non meno cattiva che
produssero in Austria-Ungheria alcuni atti della Società Pro
Patria. Non è certo intenzione di V. E. come non è la
mia, di trattare una simile questione per incidenza. Mi limito
soltanto a ricordare qui ciò che a Lei è ben noto,
cioè, che tale alleanza, la quale del resto non fu fatta da
Lei nè da me, fu consigliata all'Italia da circostanze
imperiose che ignoro se siano modificate, che fu chiesta
dall'Italia, non dall'Austria-Ungheria; che fu mantenuta con
lealtà da ambe le parti, e suppongo con reciproco vantaggio.
Spetterà alla saviezza dei Governi che presiederanno
più tardi alla direzione politica dei due Stati lo esaminare
se convenga rinnovarla nel 1892.
Gradisca, signor presidente, i sensi della mia alta considerazione.
Nigra.»
«S. E. Conte Nigra
Vienna.
Roma, 31 luglio 1890.
Signor Conte,
(Personale). Ho la sua del 27.
Nulla ho da aggiungere alla mia lettera del 24 ed ai telegrammi del
22 e del 26. Sento quanto ella mi scrive nella sua del 27, e sul
decreto per lo scioglimento del Pro Patria ritengo inutile per ora
ogni ulteriore discussione.
Mi permetta, però, che io spenda poche parole sovra un
argomento che scivolò quasi per incidente nella nostra
corrispondenza e che è della massima importanza.
Io non voglio riandare le origini del trattato d'alleanza. Ammetto
che se ne deve all'Italia l'iniziativa. Posso però giudicare
la situazione quale essa è, ed in questo giova alle due parti
parlarne senza preconcetti e con vero disinteresse.
Io sono di parere che l'alleanza sia utile all'Italia ed
all'Austria.
L'Italia deve aver sicure le sue frontiere. Non potendo pel momento
aver amica la Francia, ed è una sventura, deve ad ogni costo
tenersi stretta all'Austria, e non comprometterne l'amicizia.
Se l'Austria ci sfuggisse, si alleerebbe subito alla Francia in
difesa del Papa. Le conseguenze sarebbero incalcolabili.
L'Austria alla sua volta ha bisogno dell'Italia, la quale, in certe
occasioni, potrebbe renderle segnalati servizii. L'Austria, sicura
alle Alpi e nell'Adriatico, avrebbe piena libertà d'azione
verso l'Oriente, dove sono i suoi veri interessi e donde può
essere assalita dai suoi veri nemici.
L'Austria è quella che è, e se volesse modificarsi
correrebbe il rischio di andare in rovina. Per vivere però
è obbligata a rispettare tutte le nazionalità
racchiuse entro i confini dell'Impero.
Dalla parte nostra dirò che l'Italia è interessata
perchè l'Austria non si sfasci. Per noi essa è una
grande barricata di fronte ad eventuali e più pericolosi
avversarli, che giova tener lontani dalle nostre frontiere.
Posto ciò, tra l'Italia e l'Austria non ci dovrebbero essere
quistioni. Quella dei confini sarà, un giorno o l'altro,
risoluta amichevolmente.
Vuolsi intanto osservare che in Italia l'alleanza coll'Austria non
è simpatica, essendo pur troppo recenti i ricordi delle lotte
nazionali e del mal governo imperiale.
Necessario, quindi, che l'Austria faccia dimenticare il suo passato,
e che negli atti di governo eviti di ferire il sentimento di
nazionalità, che è ancora vivo negli italiani.
Queste considerazioni, signor Conte, le proveranno che le mie
opinioni sono abbastanza concilianti, e che quando io chiedo qualche
cosa da cotesto Governo, lo fo sempre nell'interesse dei due paesi.
Dev.mo suo
F. Crispi.»
S. E. Crispi
Roma.
Vienna, 7 agosto 1890.
Signor Presidente,
(Personale). Ho il suo autografo del 31 luglio e ne La ringrazio. Il
suo linguaggio è da uomo di Stato, e la sua lettera dalla
prima all'ultima sillaba è oro di coppella. Ella stima
l'alleanza utile all'Italia e all'Austria. Posso assicurarla che
tale è pure l'opinione di Kálnoky e di tutto il
Ministero austriaco. Questi Ministri si rendono perfettamente
ragione della cattiva impressione che produce in Italia la
dissoluzione della Società Pro Patria. Ma fra i due mali essi
preferiscono quello che credono il minore per loro. Preferiscono,
cioè, che la cattiva impressione si produca in Italia,
anzichè in Austria. Vogliono l'alleanza e sono pronti a
eseguirne fedelmente gli obblighi, ma a condizione che non si voglia
imporre l'irredentismo in casa loro. La situazione è tale; e
nessun Ambasciatore o Ministro può cambiarla.
Certo, sarebbe desiderabile che ai sudditi Italiani dell'Austria
fosse concessa una posizione eguale nel fatto a quella accordata
alle altre nazionalità dell'Impero. Ma per ottener ciò
converrebbe che gl'Italiani sudditi dell'Austria si mettessero dal
loro canto nella situazione delle altre nazionalità,
ciò che non fanno. Bisognerebbe, cioè, che
rinunciassero all'irredentismo.
Invece non lasciano passare occasione senza affermarlo; e la
Società Pro Patria spinse il suo zelo fino ad una
dimostrazione contro la bandiera austriaca. Io non mi arbitro di
giudicarli. Accenno il fatto. E constato, una volta di più,
che ogni indizio d'un'immistione da parte del Governo italiano in
questi affari, peggiora, invece di migliorarla, la situazione
degl'Italiani sudditi dell'Austria. E viceversa, ogni atto di questi
che miri all'Italia, rende più difficile la situazione del
Governo italiano verso l'Austria-Ungheria.
E qui potrei terminare la mia lettera, attesochè in sostanza
Ella comprende perfettamente la situazione, e sa che non c'è
da insisterci.
Ma non posso dispensarmi dal ripeterle qualche altra considerazione,
già toccata in precedente corrispondenza. Ella sembra credere
che le disposizioni contro il Pro Patria si debbano in parte al
clericalismo del Conte Taaffe. Ora mi preme il levarla da questo
errore. Anzitutto in questo paese sono tutti, più o meno,
clericali. Ma nel caso presente il clericalismo non ha nulla che
fare. Se invece del Conte Taaffe, il Ministro dell'Interno fosse il
più liberale degli Ebrei di Vienna, la situazione non
cambierebbe d'un punto solo intorno a questo affare. Ella ha visto
gli applausi con cui la dissoluzione fu accolta dalla stampa
liberale viennese. Non è dunque questione di clericalismo. Ma
bensì questione politica irredentista. Per carità. La
supplico di non vedere i Gesuiti là dove proprio non ci sono.
Mi preme inoltre di ben constatare un altro punto. Io non vorrei
ch'Ella credesse che io rifugga dal fare a Kálnoky o agli
altri Ministri imperiali comunicazioni sgradevoli. Abbia la
bontà di persuadersi che io da questi signori non ho nulla,
ma proprio nulla, da sperare, nè da chiedere, nè da
temere; e che non tengo punto a restar qui. Nella posizione mia
posso dire molto liberamente a loro, come a Lei, come ad ognuno,
quello che penso, anche quando ciò che penso possa tornar
sgradevole. Ma non amo dar colpi di spada nell'acqua e far passi non
solo inutili, ma dannosi, tali, cioè, da raffreddare senza
profitto le relazioni fra i due Stati.
Ancora una parola sull'alleanza coll'Austria, ch'Ella mi scrive non
esser popolare in Italia. Anzitutto io penso ch'Ella renderà
a Kálnoky la debita giustizia. In ogni questione che finora
si presentò, il concorso dell'Austria-Ungheria non ci fece
mai difetto, e fu talora più pronto e più largo di
quello della Germania.
Deploro che quest'alleanza non sia popolare presso di noi, e che non
se ne comprenda la necessità. Le mie simpatie per la Francia
datano da un pezzo e non le ho mai celate; e, certo, se avessi visto
la possibilità di un'alleanza tra la Francia e l'Italia, io
non sarei ora qui. Ma anche quando la direzione delle relazioni fra
l'Italia e la Francia era in mano d'uomini notoriamente amici alla
Francia, come Cairoli e Cialdini, non solo non fu possibile
un'intesa fra i due Governi, ma ci fu lo schiaffo di Tunisi.
Se, ciò non ostante, non vi è simpatia fra noi per
l'alleanza Austro-Italica, questo prova che il nostro povero paese
non è ancora stato abbastanza miserabile, e che ha bisogno di
altre lezioni più disastrose e più umilianti. Si
scosti dall'alleanza attuale, e le avrà. All'Italia nella
situazione presente dell'Europa si presentano tre alternative:
O l'alleanza attuale, con tutti i suoi pesi, ma con la
sicurtà; o in ginocchio dinanzi alla Francia; o diventare un
grande Belgio, senza l'industria. E ancora, non è ben certo
che il grande Belgio, mercè le divisioni e le amputazioni,
non diventasse piccolo.
Mi creda, signor Presidente
Suo devotissimo
Nigra.»
«Il R. Console Generale d'Italia a Trieste a Crispi
Roma.
Trieste, 3 agosto 1890.
Signor Ministro,
Anzichè riferire e necessariamente ripetere le notizie
già pubblicate e diffuse dalla stampa, mi sembra di dover
piuttosto riassumere e considerare i fatti di maggior rilievo e
d'interesse per il R. Governo.
L'ordinanza ministeriale che pronunciò la dissoluzione del
Pro Patria è stata dappertutto e con estremo rigore applicata
ed eseguita.
Chiuse le scuole e gli asili d'infanzia dipendenti dalla
Società, il Governo con una lunga serie di provvedimenti che
i più giudicano errori, se ne appropriò i documenti ed
i fondi: vietò le collette, proibì ogni pubblica
adunanza e manifestazione e tutti quasi sequestrò i giornali
del Regno.
Ma queste severe misure non fecero che accrescere i malumori
nazionali ed inasprire una situazione già per se stessa
difficile, nè scevra di pericoli: offesero ma non sgominarono
gli italiani; dispiacquero ai tedeschi, inquieti della parte
d'influenza che lo Stato concede agli Slavi; nè i Croati e
Sloveni contentarono, perchè parvero miti troppo e
insufficienti.
Impensierisce per vero il loro contegno e l'aggressivo linguaggio
della stampa slava la quale fin d'ora proclama il proprio trionfo e
la rovina di nostra nazionalità.
Rassicura invece il calmo e dignitoso atteggiamento degli italiani
regnicoli e non regnicoli.
I cittadini del Regno, infatti, provano tuttodì d'intendere
non solo le esigenze della politica internazionale, ma di sentire
quanto importi, nell'interesse dei connazionali soggetti
all'Austria, di starsene assolutamente da parte; i non regnicoli
hanno saputo resistere al partito che tentò trascinarli
più in là del dovere, e non colle dimostrazioni
nè con clamorose proteste, ma servendosi dei mezzi legali
forniti dalla costituzione, seriamente rivendicano l'uso dei
diritti, che la stessa costituzione loro consente.
A Trieste frattanto di giorno in giorno si aspettano le decisioni
del supremo Tribunale dell'Impero, e tali si sperano da permettere
che il soppresso sodalizio su altre basi risorga.
Nell'Istria, dove sono più numerose che altrove le scuole
italiane, l'agitazione è maggiore: e le fiere parole
pronunciate dal Podestà di Rovigno nell'ultimo recente
Congresso della Società Politica Istriana (V. E. potrà
leggerne il testo nell'accluso foglio) tutta ne rilevano la
gravità e l'importanza.
In Dalmazia, e secondo risulta dal pur qui compiegato rapporto, gli
Slavi danno quasi per finita la lotta, e dettano a dirittura patti e
condizioni.
Malmusi.»
L'atto del governo del conte Taaffe suscitò in Italia un vivo
malumore, del quale naturalmente profittarono i radicali.
L'agitazione irredentista divampò, e l'on. Crispi dovette
adoperare tutta la sua autorità ed energia per frenarla.
Ecco un saggio delle istruzioni ch'egli dava ai prefetti:
«Commendator Basile Prefetto
Milano.
26-7.
(Riservato). Ripeto a lei quel che telegrafai al suo collega di
Bari:
Il decreto per lo scioglimento del Pro Patria è un atto di
politica interna di un governo straniero, contro il quale non
abbiamo il diritto di agire.
Rispettiamo l'indipendenza degli altri Stati, se vogliamo rispettata
la nostra.
La dimostrazione popolare che si minaccia di fare costà
sarebbe un reato ai termini dell'articolo 113 del codice penale, il
quale punisce con la detenzione da tre a trenta mesi ogni atto che
possa turbare le relazioni amichevoli del Governo italiano con un
Governo straniero.
Faccia modo di persuadere i promotori della dimostrazione a starsi
tranquilli. Qualora i consigli non giovino, esegua la legge.
Crispi.»
«Commendatore Basile Prefetto
Milano.
31 luglio 1890.
(Personale). I comizi e le dimostrazioni contro il decreto di
scioglimento del Pro Patria sarebbero atti antipatriotici che
darebbero ragione al Governo austriaco del preso provvedimento.
I soci del Pro Patria affermavano che il loro era un sodalizio che
aveva solo per iscopo la cultura nazionale e la diffusione della
lingua patria nelle provincie nelle quali si parla l'italiano.
Le dimostrazioni ed i comizi indicherebbero che il Pro Patria era
realmente un'associazione irredentista, siccome la disse la
luogotenenza di Trento. Ne verrebbe danno ai soci, ai quali sarebbe
tolta anche la possibilità di ricostituirsi sotto altro nome.
Veda Missori, Antongini ed altri patrioti e tenti di valersi
dell'opera loro per dare sani consigli a coloro che con un preteso
patriottismo turberebbero l'ordine in Italia e nuocerebbero a quelle
popolazioni che dicono di voler redimere.
Invoco da tutti che sentano i doveri di patria e li adoperino.
Crispi.»
Nella seconda metà di agosto Crispi fu costretto ad adottare
un provvedimento che diremo dimostrativo della sua ferma
volontà di troncare l'agitazione irredentista: sciolse
(decreto 22 agosto) le Associazioni, i Comitati, i Circoli e i
Nuclei (denominazioni diverse di enti che si proponevano scopi
identici) intitolati a Guglielmo Oberdank e a Pietro Barsanti.
Non vi furono contumelie che i radicali non lanciassero a Crispi,
pel suo «servilismo austriaco». Ma egli, in
verità, compiva un dovere penoso, e dei suoi sentimenti fanno
testimonianza i telegrammi scambiati col Re Umberto, il quale era in
grado di apprezzare il patriottismo del suo primo ministro:
«A S. M. il Re
Montechiari.
25 agosto 1890.
Oggi contemporaneamente in tutte le città nelle quali
esistevano, furono sciolti i sodalizii intitolati Barsanti ed
Oberdank.
I funzionari della pubblica sicurezza fecero il loro dovere e
però le operazioni riuscirono.
In Roma furon trovate delle bombe.
Gli atti furono mandati all'autorità giudiziaria.
Sempre agli ordini di V. M.
Il devotissimo servo
F. Crispi.»
«S. E. Cav. Crispi Pres. Cons. Ministri
Montechiari, 28 agosto 1890.
Ho ricevuto il suo telegramma di avant'ieri sera.
I provvedimenti presi per lo scioglimento dei Circoli Oberdank e
Barsanti sono ottimi, essendo tali da far cessare una equivoca
tolleranza indegna di paese reputato civile e liberale. La schietta
energia di lei varrà a persuadere i facinorosi che hanno da
fare con un Governo deciso a farsi rispettare e lo rispetteranno.
Spero che d'altra parte un Governo alleato non renderà
più difficile il patriottico compito di lei con atti
eccessivi ed inutili.
Ad ogni modo di tutto la ringrazio di cuore.
Qui procede ogni cosa bene. Sono molto soddisfatto dello spirito
delle truppe, come pure dell'accoglienza che dovunque ricevo dalle
popolazioni.
Con sentimenti di viva amicizia
aff.mo
Umberto.»
«A S. M. il Re
Montechiari.
28 agosto 1890.
L'Austria faccia la sua via. La deploro, ma non devo inquietarmene.
Facendo il nostro dovere e governando fortemente l'Italia, potremo a
suo tempo aver ragione di dichiarare che non fu nostra la colpa se
le sorti dell'impero vicino precipiteranno.
Sempre agli ordini di V. M.
Il devotissimo servo
F. Crispi.»
Nel settembre un incidente del quale un suo collega del Ministero fu
piuttosto vittima che responsabile, contrariò vivamente
Crispi e rese inevitabile un provvedimento che lo addolorò
molto.
In un banchetto offerto in Udine all'on. Seismit-Doda, ministro
delle Finanze, uno dei commensali, l'avv. Feder, brindando al Doda e
ricordando che nel 1848
«udita la rivoluzione di Vienna che fece scappare S. M.
Cattolica Apostolica Romana» da Trieste si recò a
Venezia per «partecipare a quell'Assemblea gloriosa che
votò la resistenza ad ogni costo», augurò che
«Sua Eccellenza chiudesse la sua laboriosa carriera.... con il
viaggio inverso, su nave italiana, col tricolore italico spiegato
vittoriosamente al vento.»
L'on. Seismit-Doda sentì l'augurio e tacque; ma la stampa
s'impossessò dell'avvenimento e gli attribuì il valore
che aveva, quello cioè di una manifestazione irredentista,
presente e presunto consenziente un ministro del Re.
Crispi telegrafò subito al Doda meravigliandosi del suo
contegno, e rimproverandolo perchè lui e il prefetto non
avevano abbandonato la sala del banchetto.
«Rimanendo indifferenti - soggiungeva - avete implicitamente
aderito agli oratori e agli applausi. Capo del Governo, non devo
permettere che si dubiti della lealtà con la quale vengono
eseguiti i patti internazionali, nè far sospettare che uno
solo dei miei colleghi sia contrario alla mia politica.»
L'on. Seismit-Doda non poteva più rimanere ministro. Ma
invece di persuadersene s'irritò, fece comunicazioni ai
giornali d'opposizione e non si arrese all'invito amichevole di dar
le dimissioni; cosicchè Crispi fu costretto a proporre al Re
un decreto di esonerazione dall'ufficio.
La questione fu portata alla Camera e discussa nella tornata del 19
dicembre. Crispi reclamò un voto e la Camera, su di una
mozione presentata dall'on. Angelo Muratori, approvò la
condotta di Crispi con 271 sì, contro 10 no e 16 astenuti.
La sentenza della Corte suprema dell'Impero sullo scioglimento del
Pro Patria fu pronunziata il 28 ottobre. Essa dette un colpo al
cerchio e l'altro alla botte: approvò l'ordinanza
governativa, ma permise che la Società disciolta si
ricostituisse sotto la denominazione di Lega Nazionale. In
conclusione al decreto del 16 luglio si volle dare il valore di un
monito: che la Società italiana non si occupasse di politica.
L'ultima fase dell'azione diplomatica di Crispi è
rappresentata dai seguenti telegrammi:
«Ambasciata Italiana,
Vienna.
Roma, 26 ottobre 1890.
(Riservato). Le parole dell'avvocato del governo imperiale regio
riferentisi società Dante Alighieri innanzi al supremo
tribunale dell'Impero ed il giudizio dato sul signor Bonghi non
avrebbero grande importanza se fossero stati pronunciati da chi non
avesse avuto l'obbligo di conoscere le cose italiane. Dette a Vienna
producono fra noi impressione così strana da costringerci a
chiedere che almeno non ne resti traccia nella sentenza che
emanerà il 28 corrente il Tribunale contro il Pro Patria. Il
nostro onesto desiderio dovrebbe essere assecondato poichè,
altrimenti, il falso concetto ove si ripetesse in un atto officiale,
farebbe pessimo senso in Italia, specialmente in questo momento. Del
resto, lo stesso conte Kálnoky, parlando al conte Nigra,
avrebbe già riconosciuto l'errore di avere nella questione
del Pro Patria citato la Dante Alighieri. Nell'intrattenere
d'urgenza su quanto precede il signor Szögyeny, Ella
vorrà inoltre adoperarsi perchè il Fremdenblatt non
continui co' suoi comunicati intorno la corrispondenza vaticana col
Nunzio Galimberti, poichè diversamente ci troveremmo
obbligati a pubblicare i documenti pontifici nella loro
integrità, il che nuocerebbe a tutti, salvochè a noi.
Crispi.»
«S. E. Crispi,
Roma.
Vienna, 26 ottobre 1890.
(Riservato). Ho comunicato a Szögyeny telegramma di V. E. di
iersera relativo nota Fremdenblatt. Szögyeny mi ha detto che
detta Nota era stata pubblicata soltanto per rispondere alle domande
che da varie parti erano state dirette al Ministero a tale riguardo,
e che essa non aveva altro scopo che di constatare che qui non si
aveva notizia alcuna della corrispondenza scambiata tra il Vaticano
e Monsignore Galimberti. Szögyeny aggiunse che sarebbe stato
dolentissimo se si attribuisse un'intenzione qualsiasi sfavorevole
verso l'Italia al governo austro-ungarico, il quale non desiderava
punto ingerirsi in questione siffatta. Szögyeny mi pregò
di assicurare l'E. V. che, per quanto era in suo potere, avrebbe
provveduto a che pubblicazioni ufficiose in tal senso non avessero
luogo in avvenire.
Avarna.»
«S. E. Crispi.
Vienna, 27 ottobre 1890.
(Confidenziale). Szögyeny è partito stamane di buon
mattino per la caccia e non sarà di ritorno che sul tardi
nella sera.
La comunicazione, di cui Ella m'incarica, non potrà quindi
essergli fatta che domani.
Profitto occasione per sottometterle alcune considerazioni.
Il principale capo di accusa contro il Pro Patria è.....(?)
di essa con la Dante Alighieri.
Questa accusa fu ribattuta dall'avvocato Lovisoni che difese
vittoriosamente la Dante Alighieri e l'on. Bonghi, dimostrando i
loro scopi leali. Contro ciò il rappresentante del Governo
mantenne l'accusa con parole ch'Ella desidera non ne resti traccia
nella sentenza.
I passi di cui Ella m'incarica, ove fossero bene accolti,
metterebbero questo Governo in contradizione e giustificherebbero la
domanda sporta dal Pro Patria di essere riabilitato, ciò che
il Governo austro-ungarico non sembra disposto a fare.
Qualora l'E. V. giudicasse che, malgrado ciò, io faccia a
Szögyeny la comunicazione in discorso, io non mancherò
di eseguire col maggior impegno e premura le di Lei istruzioni. In
tal caso io la pregherei di telegrafarmi di urgenza i suoi ordini.
Avarna.»
«Ambasciata Italiana,
Vienna.
Roma, 27 ottobre 1890.
(Urgente). Il fatto d'avere noi lasciato sussistere la Dante
Alighieri, dovrebbe bastare di prova a codesto Governo che quella
società non ha scopi politici, ma solamente letterari.
Altrimenti sarebbe stata sciolta come sciogliemmo altri sodalizi.
Voglia quindi dar corso alle mie istruzioni facendo conoscere anche
quanto precede al signor Szögyeny.
Crispi.»
«S. E. Crispi,
Roma.
Vienna, 28 ottobre 1890.
Ho comunicato a Szögyeny i due telegrammi di V. E. relativi
alla Dante Alighieri, esponendogli le varie considerazioni in essi
svolte. Szögyeny mi ha detto che Kálnoky non aveva
mancato di far conoscere a Taaffe il colloquio da esso avuto col R.
Ambasciatore relativamente ai falsi apprezzamenti qui portati sopra
la Dante Alighieri e sopra l'onorevole Bonghi. Szögyeny ha
aggiunto che, siccome il Ministero degli Affari Esteri non aveva
alcuna azione diretta sul Presidente della Corte Suprema, egli si
sarebbe oggi stesso recato d'urgenza dal Conte Taaffe per parlargli
nel senso dei due telegrammi di V. E. da me comunicatigli,
manifestandogli il desiderio di lei. Szögyeny mi ha detto che,
a parer suo, la sentenza non conterrebbe alcuna cosa che potesse
essere spiacevole al governo del Re e alla E. V.
Avarna.»
Le elezioni generali del dicembre 1890 venendo dopo un lungo periodo
di agitazioni promosse dal partito radicale, furono per questo una
grande sconfitta. Tra le felicitazioni giunte d'ogni parte a Crispi
non mancarono quelle austriache. Il conte Nigra in un telegramma
dell'11 gennaio 1891, interessante anche perchè toccava altro
argomento spinoso, si faceva eco delle felicitazioni di Francesco
Giuseppe:
«Ieri essendo a pranzo dall'Imperatore, S. M. si
congratulò con me delle ultime elezioni in Italia e rese in
termini calorosi testimonianza della fermezza e abilità con
cui è condotta la politica interna ed esterna dell'Italia. Le
ripeto le stesse frasi perchè l'Imperatore è in
generale molto sobrio di apprezzamenti. Aggiunse che la Triplice
alleanza costava sacrifici, ma che era riuscita ad ottenere il fine
di preservare la pace in Europa. Passato il discorso alla questione
economica spiegai a S. M. la vera ragione della prorogata
facoltà di denunciare il Trattato vigente, che è di
dare ai due Governi la possibilità di esaminare la nuova
situazione quale uscirà dai negoziati in corso fra
l'Austria-Ungheria e la Germania allo scopo di migliorare
possibilmente il Trattato per ambo le parti.
L'Imperatore s'informò poi con interesse del Re e della
Regina. L'Imperatrice mi disse che era dolente di non avere avuto
occasione nel suo viaggio in Italia di far visita alla Regina, della
quale parlò nei termini i più lusinghieri e mi
domandò se le sarebbe possibile visitarla altrove che a Roma.
Io risposi che credevo che la Regina sarebbe stata per parte sua
sempre felice d'incontrarsi coll'Imperatrice in qualunque luogo, ma
che vi era qualche cosa più potente che la
volontà dei Re e delle Regine, e questa era la pubblica
opinione del paese, la quale non avrebbe approvato la visita altrove
che a Roma.»
E quando pel voto di dispetto del 31 gennaio 1891 Crispi fu lasciato
andar via da chi avrebbe avuto dovere e interesse di mantenerlo al
governo, il Cancelliere d'Austria-Ungheria telegrafava al suo
ambasciatore a Roma, barone de Bruck, come segue:
«5 febbraio 1891.
Je prie V. E. de chercher sans tarder une occasion pour exprimer
à Mr. de Crispi mes plus vifs regrets sur sa decision de se
retirer et de lui dire que pendant tout le temps qu'il était
au pouvoir, la manière loyale et caracteristique d'un homme
d'état superieur avec laquelle il a su conduire d'une main
énergique les affaires politiques, était d'un avantage
inappreciable pour la cause de la paix européenne et pour les
rapports entre nous et l'Italie.
Je doute que l'Italie possède un autre homme d'état
qui sache juger et mener les affaires intérieures et
extérieures de son pays d'une façon aussi
éminente que Mr. de Crispi, ce qui me porte à admettre
qu'il ne se retirera pas de la scène politique sur laquelle
il occupe un rôle aussi prépondérant.
Kálnoky.»
E l'organo della Cancelleria, il Fremdenblatt, dedicava
all'avvenimento un articolo di fondo (4 febbraio) di cui riferiamo
solamente le prime righe:
«Con Francesco Crispi è caduto un grande ministro.
Crispi è uno dei più eminenti fra i personaggi che
nell'odierna Europa rappresentano una parte politica; è una
figura sorprendente, caratteristica, superiore. Egli portò
seco nella vita pubblica il temperamento del siciliano; uno spirito
vivace e bollente, ma insieme avveduto, calcolatore, che in lui si
accoppia a sommi talenti e ad una indomabile energia. È in
questi ultimi anni che il mondo imparò a conoscere in
quest'uomo, che fin'allora aveva sostenuta una parte soltanto nel
ristretto cerchio della politica interna italiana, un personaggio
singolare ed importante.»
In dicembre 1893 Crispi riassunse il governo del paese nelle note
gravi condizioni, e il barone de Bruck, tuttavia ambasciatore a
Roma, fu tra i primi a recargli, coi suoi, i saluti del Cancelliere
Kálnoky e i migliori augurii «pour la grande
tâche» che si era addossata. E il conte Nigra, ancora da
Vienna con le «sincere congratulazioni per il suo ritorno al
potere» gli telegrafava:
«Vostra Eccellenza avrà visto che la di Lei presenza al
Governo è salutata con fiducia dall'opinione pubblica di
questo paese, conforme a quello del Governo imperiale.»
L'opera di Crispi per ristabilire l'ordine pubblico, turbato
specialmente in Sicilia e in Lunigiana, era seguìta con
simpatia anche in Austria; e quando in giugno 1894 l'energico
ministro fu oggetto di un secondo attentato, quello di Paolo Lega
che gli sparò contro a bruciapelo, fortunatamente senza
colpirlo, il conte Nigra scrivendo al Ministro degli affari esteri
attestava che il fatto aveva suscitato «l'indignazione contro
l'assassino e la calorosa simpatia verso l'illustre patriotta
italiano».
Ma in ottobre di quell'anno, Crispi ebbe motivo di forte lagnanza
contro il governo imperiale per un'ordinanza che imponeva
agl'italiani dell'Istria l'uso delle iscrizioni e diciture anche in
lingua croata, facendo nascere una grande agitazione in tutti i
paesi austriaci di lingua italiana, la quale si ripercuoteva in
Italia. Le difficoltà contro le quali Crispi lottava allora
strenuamente erano così gravi, che la nuova vessazione
austriaca l'irritò. Al conte Nigra egli scriveva in lettera
privata:
«Procediamo con difficoltà nel governo del paese, ma
procediamo.... Giunge intanto inopportuno il movimento dell'Istria.
Esso è argomento di agitazione per gli avversari del
Governo.... L'Austria intanto avrebbe potuto essere più
prudente. Impero poliglotta, la sua potenza verrebbe dal rispetto di
tutte le nazionalità, delle quali si compone lo Stato. E poi
parmi che mal cotesto Governo si fidi degli Slavi, i quali tengon
fissi gli sguardi a Pietroburgo. Aggiungasi, che l'opera di
annullare la lingua italiana nelle opposte sponde adriatiche
è difficile, e con la violenza diviene impossibile. È
più facile italianizzare gli Slavi, che slavizzare
gl'Italiani.
Cotesta politica, praticata prima del 1848, aveva la sua ragione
d'essere. Oggi manca di scopo, perchè il Governo italiano
mantiene lealmente l'amicizia col vicino Impero.
Io non oso far proposte, ma se Ella potesse dire una buona parola a
Kálnoky, farebbe opera saggia. Accordino agl'Italiani gli
stessi diritti accordati alle altre nazionalità e
conserveranno la pace all'Impero, e l'eco dei disordini non si
ripercuoterà nella penisola nostra.»
Come in passato, dopo aver fatto direttamente al governo austriaco
le sue rimostranze, sul successo delle quali non poteva avere una
fiducia assoluta per lo spirito tenacemente sospettoso di
quell'ambiente governativo, Crispi chiese l'intervento a Vienna
della potenza ch'era interessata alle buone relazioni
italo-austriache, e si rivolse all'imperatore Guglielmo:
«Conte Lanza Ambasciatore d'Italia,
Berlino.
Roma, 5 novembre 1894.
La condotta del Governo austriaco nella Istria manca di ogni buon
senso.
L'Impero essendo poliglotta, è necessità di vita per
esso rispettare tutte le nazionalità e specialmente
l'italiana e la tedesca che sono le sole civili.
La preferenza per gli slavi è a danno suo e a danno di tutti.
Non devo nascondere che quella agitazione mette il Governo italiano
in una difficile situazione e rende nel popolo sempre più
antipatica la nostra alleanza con l'Austria, che non è punto
amata nel paese.
Io farò il mio dovere, ma non mi si ponga in condizione da
essere obbligato a dimettermi.
Vegga subito l'Imperatore e lo scongiuri ad interporsi perchè
cessi cotesta questione delle lingue e si rispetti l'italiana come
la slava.
Crispi.»
L'ambasciatore forse non indovinò l'animo di Crispi e gli
parve che l'incarico che gli veniva dato non potesse eseguirsi con
la rapidità richiestagli; certo, rispose in maniera che a
Crispi parve accusasse tepidezza:
«Non posso, naturalmente, vedere Imperatore quando voglio, ma
devo aspettare propizia occasione, oppure chiedere udienza, cosa
troppo insolita e lunga non essendo S. M. mai ferma.
In tutti i modi, se non direttamente almeno per mezzo Cancelliere
farò oggi pervenire orecchio S. M. Imperiale condizioni in
cui politica Austria-Ungheria in Istria mette Italia.
Non dubito S. M. Imperiale farà, come meglio potrà,
pervenire consigli a Vienna.»
Crispi replicò:
«Dopo ventisette mesi che ella, generale del nostro esercito e
ambasciatore, è di residenza a Berlino, mi stupisce che non
abbia ottenuto il benefizio di vedere l'Imperatore tutte le volte
che l'esigenza della politica internazionale possa richiederlo.
Non posso nasconderle che il di lei telegramma è molto
sconsolante.»
A questo brusco rimprovero l'ambasciatore inviò
telegraficamente le sue dimissioni. Crispi non le accettò:
«Faccia il dover suo innanzi tutto e poscia vedrò come
convenga provvedere». Ma nel mentre si svolgeva questa
concitata corrispondenza, l'imperatore, informato, ordinava al conte
Eulenburg, ambasciatore germanico a Vienna che si trovava in quei
giorni a Berlino, di raggiungere subito la propria residenza e di
dar consigli nel senso desiderato da Crispi e nell'interesse della
saldezza dell'alleanza.
Il 7 novembre l'ambasciatore di Germania a Roma, de Bülow, si
recava a visitare Crispi per assicurarlo che l'imperatore aveva
esaudito il di lui desiderio. Lo pregava altresì a nome del
suo Sovrano di non accettare le dimissioni del Lanza. Il generale
Lanza era molto stimato a Berlino e l'imperatore ne apprezzava il
tatto e le qualità di perfetto gentiluomo. L'incidente fu
risoluto come risulta dai seguenti telegrammi:
«S. E. Lanza,
Berlino.
Stassera è venuto il signor De Bülow e mi ha pregato di
non accettare le di lei dimissioni. Ha soggiunto che lasciando lei a
Berlino avrei fatto un favore all'Imperatore. Ho risposto che
giammai ebbi in mente di fare cosa sgradita all'augusto sovrano
della Germania ed or dichiaro a lei che ciò mi è tanto
più grato inquantochè il fatto mi assicura ch'ella
potrà essere utile al nostro paese presso S. M. I. R.
Crispi.»
«S. E. Crispi,
Roma.
Berlino, 8 novembre 1894.
Ringrazio l'E. V. telegramma di questa notte, in seguito al quale
metto naturalmente ogni decisione nelle sue mani.
Segue lettera particolare.
Lanza.»
«Generale Lanza Ambasciatore Italiano,
Berlino.
Roma, 8 novembre 1894.
Quello che a me preme è soltanto questo, ch'ella mi faccia
conoscere i risultati delle sue pratiche di cui la incaricai col mio
telegramma del giorno 5.
Crispi.»
«S. E. Crispi,
Roma.
Berlino, 11 novembre 1894.
(Riservato). Avendo fatto esprimere a S. M. l'Imperatore mio
desiderio di parlargli, Egli, che oggi era a Potsdam, mi
mandò invito recarmi colà, e, cosa insolita, in
giornata di festa. Mi trattenne varie ore nel circolo di famiglia.
Gli ripetei le cose fattegli esporre dal Cancelliere. S. M. mi ha
tenuto presso a poco seguente discorso:
«Dite a Crispi che ammiro energia che spiega in servizio del
Re e della Patria rispetto patti internazionali. Deploro vivamente
difficoltà che gli suscita condotta Governo austro-ungarico
in Istria, come ne suscitò a me nelle provincie polacche. Vi
ho fatto già comunicare ordine che ho personalmente dato mio
ambasciatore a Vienna. Insisterò in quel senso, dolente non
potere, come vorrei, agire direttamente verso l'Imperatore Austria,
dal quale non soffrirei menomo accenno a mie cose interne e al
quale, quindi, non posso toccare argomento sua politica interna.
Continuerò, però, a fare quanto sta in me per mettere
Governo austro-ungarico in guardia contro pericoli che la sua
condotta verso nazionali italiani può fare correre saldezza
alleanza.
Lanza»
«Conte Lanza Ambasciata Italiana,
Berlino.
Roma, 12 novembre 1894.
La ringrazio del telegramma di stanotte, il quale mi prova che io
non avevo torto quando la spinsi a vedere l'Imperatore. Ella,
soldato e patriotta, mi comprende e spero che sempre andremo di
accordo.
Faccia arrivare allo Imperatore l'espressione dei miei sentimenti di
gratitudine e vedendolo o scrivendogli manifesti a S. M. I. R. che
la tranquillità delle provincie italiane dello Impero
austriaco è necessaria alla sicurezza dell'alleanza.
Crispi.»
È fuori di dubbio che facendo una politica interna severa e
leale, Crispi potè ottenere dall'Austria tutto quello che era
possibile, costringendo la stessa Cancelleria dell'Impero a
temperare prevenzioni e sistemi di polizia inveterati del governo
austriaco. Quando il conte Kálnoky giunse alla fine della sua
carriera, abbandonando l'eminente posizione tenuta durante i due
periodi del governo di Crispi, espresse al conte Nigra il giudizio
ch'è riferito qui appresso:
«S. E. Crispi,
Roma.
Vienna, 18 maggio 1895.
Caro signor Presidente,
Il conte Kálnoky, nel prendere oggi congedo da me, mi
incaricò espressamente di farle sapere come esso porti il
migliore ricordo delle relazioni ufficiali e personali che ebbe con
Lei. Egli rese in termini commossi testimonianza della lealtà
di procedere del Governo da Lei diretto verso Austria-Ungheria, e
degli eminenti servizii che Ella rese e rende alla causa della
Triplice Alleanza, e a quella, che ne dipende, della pacificazione
europea, mediante la sua autorevole e ferma azione all'interno e
all'estero. «L'Imperatore, mi disse egli, divide con me questo
modo di vedere e posso assicurarvi che il mio successore, interprete
della volontà del suo sovrano, seguirà verso l'Italia
le tradizioni di amicizia sincera e di fiducia reciproca, che
formano uno dei principali legati della mia successione».
Compio l'incarico affidatomi scrivendole queste proprie parole del
conte Kálnoky, e aggiungendo soltanto che esse hanno tanto
maggior valore, quanto più grande è, per indole, la
riserva in chi le pronunziò nell'abbondare in dimostrazioni
di tal natura.
Voglia credermi, come le sono di cuore,
Dev.mo amico
Nigra.»
ITALIA E FRANCIA.
Capitolo Quinto.
Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896.
L'ambiente e gli statisti in Francia. - Gli ambasciatori De
Moüy e Mariani e il ministro Spuller. - Come fu ricevuto il
signor Billot. - La sua azione conciliante. - Il varo della Sardegna
e la mancata visita della squadra francese alla Spezia. - Illusioni
francesi su l'on. di Rudinì. - La Triplice alleanza
rinnovata. - Secondo Ministero Crispi. - Strascico dei fatti di
Aigues-Mortes. - Politica di conciliazione. - Una missione segreta
di Maurizio Rouvier. - Corrispondenza dell'ambasciatore Ressman. -
Il richiamo di Ressman e le sue vere ragioni.
Sino al 1890 le relazioni franco-italiane erano state difficili.
L'ostilità della Francia per la nostra alleanza con la
Germania si era manifestata in tutti i modi e in tutti i campi,
cagionando incidenti che avevano sempre più rafforzato la
posizione dell'Italia in Europa e stretto i vincoli che la legavano
ai due imperi centrali pel trattato rinnovato il 20 maggio 1887.
Deve però riconoscersi che nella lotta accanita che il
governo francese aveva fatto ad ogni interesse italiano, gli uomini
erano stati talvolta sospinti agli eccessi dall'ambiente, esagitato
da una stampa che non ignorava alcuna intemperanza. L'ambasciatore
conte de Moüy, ponendo fine alla sua missione a Roma, scriveva
privatamente a Crispi, da Parigi, il 6 aprile 1889:
«J'avais à Rome la conviction d'avoir obtenu votre
sympathie et votre estime: vous avez toujours compris, au cours des
affaires que j'ai été chargé de suivre, combien
souvent ma tâche m'était pénible, et combien
aussi je m'efforçais d'y apporter de conciliation et
cordialité.... Je n'oublierai jamais nos derniers entretiens
qui m'ont si vivement ému; mon eloignement de Rome a
été la grande douleur de ma vie diplomatique.»
Il de Moüy era stato il rappresentante di una politica
irritante che nel 1888 s'impersonò nel ministro Goblet, del
quale lo stesso de Moüy scrisse in un suo libro26 ch'era "mal
preparé, par son caractère raide et irascible, au
maniement des choses diplomatiques qu'il traitait pour la
première fois; on lui reprochait ses opinions anguleuses et
son style peu engageant".
E. Spuller, che succedette al Goblet come ministro degli affari
esteri (febbraio 1889) e il Mariani che venne a Roma dopo il
richiamo del de Moüy, non riuscirono ad agire contro la
corrente ostile che in Francia travolgeva tutti27, ma non si
astennero da dichiarazioni ch'erano la condanna di
quell'ostilità senza misura. Nel diario dei ricevimenti
diplomatici di Crispi, sotto la data del 5 gennaio 1890 è
scritto:
«Il signor Mariani mi legge una lettera dello Spuller. Il
ministro scrive all'ambasciatore di dirmi ch'egli è rimasto
sensibile alle parole da me pronunziate in Parlamento in occasione
della legge che aboliva le tariffe differenziali. Incaricò
quindi il Mariani di volermi ringraziare.
Lo Spuller desidera che le relazioni fra i due paesi divengano
cordiali, ed egli farà tutto il possibile perchè le
cose migliorino nel campo economico.
Il Mariani mi lesse una lettera fatta da lui a Spuller contro il
corrispondente dell'Havas in Roma. Egli ne rileva il contegno
strano, e fa considerare al suo ministro come cotesto sia un metodo
che non può riuscire a vantaggio dei due paesi.
Il signor Lavallette, oltre essere qui per l'Havas, è qui pel
Matin, di cui tutti riconoscono il contegno ostile all'Italia. Il
Mariani vorrebbe che il detto individuo servendo un'agenzia
semi-ufficiale, lasciasse di collaborare in un giornale a noi
nemico.»
Lo stesso Spuller, ricevendo il 10 ottobre precedente l'ambasciatore
italiano a Parigi, aveva inveito «in termini
violentissimi» contro il giornalismo francese,28 e il 4
dicembre seguente non aveva taciuto al generale Menabrea i suoi
sentimenti:
«Parigi, 5-12-1889, ore 2.10 s.
Il telegramma del 1.° corr. che mi riferisce la conversazione di
V. E. col Mariani, venne da questi confermato allo Spuller, il quale
me ne espresse ieri la di lui viva soddisfazione. Egli mi disse
essere vivamente contrastato da un partito che lo vorrebbe
rovesciare coll'accusarlo di mostrare troppa condiscendenza verso
l'Italia a detrimento della Francia stessa. Cionondimeno egli non
tralascerà di lavorare attivamente per migliorare i rapporti
fra i due paesi e stabilire fra loro un modus vivendi, proprio
a soddisfare i rispettivi interessi. Un violento articolo del Figaro
di oggi si fa interprete dei sentimenti ostili che sono tuttora
attizzati contro l'Italia; tuttavia, contro il gruppo
opposizionista, che ci è il più contrario, sorge un
nuovo gruppo assai più mite, capitanato da Léon Say,
che propugna una politica economica più liberale!
Menabrea.»
Il signor A. Billot, nominato dallo Spuller ambasciatore a Roma alla
morte del Mariani, aveva ricevuto istruzioni di adoperarsi ad
«appianare ogni screzio». Egli ha narrato in un libro29
non scevro di prevenzioni, di errori e di reticenze, le vicende
della vita politica italiana dal 1881 al 1899. Appena giunto fu
informato che il giorno precedente erano stati espulsi dall'Italia i
corrispondenti dell'Agenzia Havas e del Figaro (uno, il Lavallette,
era appunto quello la cui condotta era stata biasimata dal Mariani)
e cotesto atto di rigore gli fece cattiva impressione, sebbene
contemporaneamente fosse stato espulso anche un giornalista
tedesco30. Il Billot manifesta ingenuamente con quale animo mettesse
il piede in Roma raccogliendo la malignità che non fosse
estraneo alla decisione di Crispi il fatto che quei giornalisti
avevano annunziato il fallimento «d'une banque
particulière, à la prospérité de
laquelle Crispi, disait-on, avait des motifs de s'intéresser.
C'en était assez pour motiver leur expulsion!31»
Il nuovo ambasciatore chiese udienza e fu ricevuto il giorno stesso
del suo arrivo. L'on. Crispi informava di cotesta visita
l'ambasciata a Parigi col seguente telegramma:
«Ambasciata Italiana,
Parigi.
Roma, 13 aprile 1890.
Il signor Billot è giunto questa mattina; mi ha subito
domandato udienza e l'ho ricevuto alle cinque.
Mi narrò le vicende della sua nomina, spiegando il ritardo
della sua venuta a Roma. Disse aver esposto a Ribot ciò che
si proponeva di dire a Spuller quanto alla sua linea di condotta
verso l'Italia: circa la politica coloniale italiana, non
intralciare la nostra espansione; circa la questione tunisina far
sì che gli Italiani dovessero trovarsi nella Reggenza ed
esservi trattati come a casa loro. Su tutte le altre questioni disse
proporsi di procedere amichevolmente per appianare ogni screzio, nel
quale compito la via gli era stata facilitata da Mariani, alla cui
memoria era grato. Gli dissi, a mia volta, che ero animato da
intenzioni identiche alle sue; che la stampa francese non ci era
amica, il che non mi impedisce di amar la Francia, di amarla anzi
come un francese, senza cessare di essere conscio dei doveri che mi
impone la mia qualità di Ministro, ossia di difensore degli
interessi italiani. Gli ricordai che ho trovata la Triplice Alleanza
fatta e che da uomo onesto devo esservi fedele. Gli dissi che mi si
imputavano colpe che non sono mie, come gli incidenti di Firenze e
di Massaua, nei quali la ragione era nostra, come tutta Europa
riconobbe. Gli narrai come nel 1877, essendo non ministro, ma
presidente della Camera, fossi andato a Berlino ed a Gastein per
vedervi il Principe di Bismarck, con cui avevo già rapporti;
come, per andarvi, fossi passato per Parigi e là avessi
veduto Gambetta; come Gambetta mi avesse pregato di far aperture a
Bismarck in vista di un disarmo; come, tornando dalla Germania,
fossi nuovamente passato da Parigi ed avessi riferito a Gambetta, a
Emilio di Girardin e ad altri quanto avevo detto ed udito, e che,
circa al disarmo, Bismarck lo avrebbe desiderato, ma non lo riteneva
possibile. Soggiunsi che, venuto al potere, il mio desiderio e
la mia speranza erano stati di poter servire di tratto d'unione tra
la Francia e la Germania e di curare che la Triplice Alleanza non
riuscisse alla Francia di pregiudizio; che queste erano tuttora le
mie intenzioni e che egli mi troverebbe sempre disposto a far tutto
il possibile per riavvicinare maggiormente l'Italia alla Francia, a
cui sarebbe follìa voler muovere guerra e che, come ogni
italiano, considero necessaria all'Europa ed al nostro paese, per la
sua posizione geografica, per le sue tradizioni, per la sua
affinità con noi, ecc. Ho trovato nel signor Billot una
persona ammodo e simpatica, e credo non errare dicendo che ci
lasciammo egualmente soddisfatti l'uno dell'altro.
Crispi.»
In realtà la politica francese verso l'Italia non
accennò a mutare sebbene Crispi non tralasciasse occasione di
manifestare le sue intenzioni amichevoli, e l'ambasciatore Billot
non fece nulla per eliminare gli screzi, non solo, ma s'impose il
compito ch'egli stesso confessa nel suo libro:
«Le discours de Florence32 laissait l'impression
générale que Crispi était plus que jamais
convaincu de la nécessité de la Triple-Alliance et
décidé dès lors à en renouveler les
engagements à l'échéance ou même
auparavant.... Tant que Crispi resterait aux affaires, notre
diplomatie n'aurait qu'à s'appliquer patiemment, par une
action conciliante, à faciliter l'évolution que les
intérêts réussiraient sans doute à
déterminer avec le temps33.»
L'azione conciliante fu dimostrata dalla diplomazia francese in
tutte le questioni che si presentarono, a cominciare dalla
conferenza anti-schiavista di Bruxelles, dove non si prese la pena
di dissimulare il suo astio per la posizione che l'Italia aveva
acquistato in Etiopia; e quanto a facilitare l'evoluzione, il Billot
non esitò a ricorrere a mezzi poco corretti, dei quali Crispi
si lagnava nel seguente telegramma del 12 novembre 1890:
«General Menabrea Ambasciata Italiana,
Parigi.
Il Governo francese, continuando le tradizioni della prima
Repubblica, fa propaganda repubblicana in Italia, spendendo danari
per la stampa ostile a noi. Al palazzo Farnese vanno continuamente a
confabulare giornalisti nemici della Monarchia e da parecchi mesi
vengono da Parigi emissarii a scopo di favorire coloro che
combattono le istituzioni. Ultimamente è venuto anche il
signor M.... della P.... il cui contegno fu assai biasimevole.
La mia condotta corretta, irreprensibile verso i Bonaparte congiunti
della nostra famiglia reale, quando le discordie politiche in
Francia erano ardenti, prova che io non uso di armi insidiose contro
il Governo della Repubblica.»
Il Billot, naturalmente, afferma che il governo italiano non
secondasse il desiderio del governo francese di rannodare relazioni
di benevolenza e di affari, e cita, a prova della sua asserzione,
l'incidente del varo della Sardegna.
Il varo di questa corazzata - egli racconta - doveva farsi a Spezia
nella seconda metà del settembre; i giornali italiani avevano
annunziato che probabilmente vi avrebbe assistito il Re. Il
ministero francese volendo ricambiare la visita a Tolone di una
squadra italiana, fatta in occasione della presenza colà del
Presidente della Repubblica, «decise prontamente» di
mandare a Spezia, per ossequiare il Re Umberto, una squadra
francese; e il 28 agosto l'ambasciatore di Francia fece analoga
comunicazione alla Consulta, domandando quale fosse la data fissata
pel varo. Ma Crispi si affrettò a rispondere «qu'il ne
croyait pas que sa Majesté eût l'intention» di
recarsi alla Spezia e tre giorni dopo faceva pubblicare dall'Agenzia
Stefani il seguente comunicato:
«Spezia, 31 agosto.
Il varo della Sardegna avrà luogo il 21 settembre.
S. M. il Re, dovendosi trovare in quel tempo a Firenze per
assistervi, come fu già annunziato, all'inaugurazione del
monumento di Re Vittorio Emanuele, ha delegato a rappresentarlo al
varo della Sardegna S. A. R. il Duca di Genova.»
Il Billot nel trascrivere questo comunicato salta le parole
«come fu già annunziato». E registra tutte le
ipotesi che furono fatte in Francia e in Italia per spiegare
«la decisione improvvisa di Crispi», mostrandosi incerto
se credere a quella che accennava al proposito di evitare un
avvenimento favorevole al ravvicinamento franco-italiano per non
fare dispiacere alla Germania, o all'altra che si riferiva a
considerazioni di politica interna. Comunque, egli conclude,
«personne n'hésitait à en rejeter sur Crispi la
responsabilité exclusive».
La verità non è quella narrata dal Billot. Il governo
italiano sarebbe stato lieto dell'atto di cortesia della Francia, ed
era assurdo credere altrimenti, dopochè l'Italia aveva
spontaneamente per la prima mandato una squadra a Tolone. Quello che
dispiacque al Re fu la discussione fatta dalla stampa francese circa
l'opportunità di quell'atto, discussione nella quale l'idea
della visita era stata aspramente criticata, e, come allora soleva,
le ingiurie all'Italia e al suo Re erano state dispensate a piene
mani.
Quando il governo francese annunziò la sua decisione, questa
era passata attraverso tali dissensi che aveva perduto il profumo
della spontaneità; non era la prima volta che i giornali
rendevano un cattivo servizio alla politica della Francia. E fu
proprio il Re, senza alcun suggerimento di Crispi, che decise di non
recarsi al varo della Sardegna. Infatti è del 27 agosto - e
non del 28, come narra il Billot - la domanda che questi fece alla
Consulta, e porta la data del 27 il seguente telegramma:
«S. E. generale Pallavicini, primo aiutante di campo di S. M.
Montechiari.
Ambasciatore di Francia mi ha fatto chiedere epoca nella quale S. M.
il Re si troverebbe alla Spezia, accennando intenzione suo Governo
di mandarvi parte squadra francese per ossequiare la Maestà
Sua. Attendo gli ordini di S. M, per la risposta da dare al signor
Billot.
Crispi.»
Questo telegramma era appena partito quando giunse a Crispi una
lettera del Rattazzi, ministro della real Casa, datata da
Montechiari, 26 agosto, nella quale riferiva in questa guisa la
volontà del Re:
«I giornali francesi continuano a discorrere della visita
della squadra francese alla Spezia in occasione del varo della
Sardegna. Per norma di V. E., è intenzione di S. M. di
astenersi dall'assistere al varo della Sardegna.»
Crispi approvò la decisione del Re di non recarsi alla
Spezia, ne fece avvertito il Billot e telegrafò a Parigi il
28:
«Ambasciata Italiana,
Parigi.
Ringraziando il signor Ribot della cortese intenzione, Ella
può prevenirlo - quando le occorra vederlo - che S. M. il Re
non è per recarsi alla Spezia per il varo della Sardegna,
nè che a tale gita potrebbero offrire occasione le manovre
della nostra flotta, essendo queste terminate.
Crispi.»
Il ritiro dell'on. Crispi dal governo pel voto parlamentare del 21
gennaio 1891, se fu salutato unanimemente dalla stampa francese come
un fausto avvenimento, non migliorò punto la condotta della
Francia verso l'Italia. Non era da attendersi il ritorno immediato
ai rapporti commerciali convenzionali tra i due paesi, poichè
sussisteva nel protezionismo dominante in Francia l'ostacolo che
aveva reso impossibile, al principio del 1888, la stipulazione di un
nuovo trattato di commercio; ma una prova di migliori disposizioni e
un incoraggiamento alla presunta francofilia del Ministero
Rudinì poteva esser data con la rinunzia alle tariffe
differenziali che Crispi aveva abolito, per parte nostra, sin dal
1.° gennaio 1890. La Francia, in fondo, attraverso Crispi, aveva
combattuta l'Italia perchè alleata con la Germania, e non era
disposta a contentarsi delle dichiarazioni amichevoli del nuovo
gabinetto italiano, come non si era arresa alle ripetute
dichiarazioni amichevoli di Crispi; essa esigeva che l'Italia si
ritirasse dalla Triplice alleanza. E il suo ambasciatore a Roma
aspettava fidente la scadenza del trattato, cioè il 20 maggio
1892:
«Si M. Rudinì s'abstenait, par une réserve bien
explicable, de manifester ses intentions relativement à la
prolongation de la Triplice, divers motifs permettaient de supposer
qu'il était, au fond, d'accord avec ceux qui
désiraient, à l'échéance, rendre
à l'Italie sa complète liberté
d'action34.»
Ma l'illusione non fu di lunga durata; l'on Rudinì, che aveva
chiamato alla Consulta come suo collaboratore il conte d'Arco,
anti-triplicista dichiarato, dopo qualche mese di ambiguità
rinnovò (giugno 1891) il trattato che aveva ancora quasi un
anno di vita.
Rinnovato il trattato del 1887 senza portarvi alcuna modificazione,
l'on. Rudinì iniziò quella politica «in partita
doppia» il cui primo effetto fu di alienarci l'appoggio
incondizionato degli alleati, senza disarmare l'inimicizia della
Francia. L'unico vantaggio raggiunto da questa politica fu di
mitigare il linguaggio della stampa francese; ma lo spirito pubblico
in Francia non mutò a nostro riguardo, e i deplorevoli
eccessi di Aigues-Mortes lo dimostrarono. Perchè i nostri
vicini d'oltre Alpi ci guardassero con occhio meno arcigno, l'Italia
dovette abbandonare senza compensi la difesa dei suoi diritti in
Tunisia, e fu l'on. Rudinì che si assunse questa
responsabilità tra il primo e il secondo suo ministero, con
la rinunzia al nostro veto per le fortificazioni di Biserta e con le
convenzioni italo-tunisine del 28 settembre 1896.
Sembra che facesse dippiù. Il 13 ottobre 1891 il signor
Giers, Cancelliere russo, trovandosi di passaggio in Italia fu
invitato dal Re Umberto a recarsi a Monza. Presente al colloquio era
il marchese di Rudinì. Si discorse della situazione politica
europea e della necessità di adoperarsi al mantenimento della
pace. Il Re avrebbe detto al barone Blanc che si sarebbe convenuto
in quell'incontro l'intervento della Russia in nostro favore, ove
mai avvenisse un casus foederis. Non si comprende bene la
possibilità di un tale intervento se non supponendo che
l'Italia, offesa dalla Francia, rinunziasse al casus foederis in
vantaggio dei suoi alleati, o che questi facessero altrettanto nel
caso che il casus foederis si verificasse nel loro interesse.
Nell'un caso o nell'altro la Russia interverrebbe come mediatrice e
sarebbe l'arbitra della pace in Europa. Ma è da osservarsi
che si sarebbe fatta astrazione dall'importanza del litigio, e la
pacificazione sarebbe sempre a danno del più debole.
Crispi compose il suo secondo ministero in dicembre 1893,
all'indomani dei tristi fatti di Aigues-Mortes, dove molti operai
italiani erano stati uccisi o feriti determinando in Italia un vivo
risentimento, accresciutosi dipoi pel verdetto della Corte di
Angoulême che assolse gli uccisori. Si presentò subito
una questione delicata per l'indennità dovuta alle vittime o
alle loro famiglie. Il governo francese si dichiarò pronto a
presentare alle Camere un progetto di legge pel pagamento della
somma di 420 000 franchi, ma esigeva che anche da parte del governo
italiano si riconoscesse dovuta una indennità di 30 000
franchi ai cittadini francesi residenti in Italia, i quali erano
stati danneggiati durante le dimostrazioni popolari provocate da
quei fatti. Cotesta esigenza era ingiustificata, e senza precedenti;
tuttavia, per troncare l'increscioso incidente, Crispi ordinò
che i 30 000 franchi fossero pagati, senza indagare circa
l'esistenza degli asseriti danni.
L'emozione prodotta in Italia per le manifestazioni di odio che
avevano determinato e accompagnato le uccisioni di Aigues-Mortes,
dette occasione al governo francese ad apprestamenti militari alla
frontiera italiana. E quando Crispi fu obbligato, appena ripreso il
potere, a richiamare una classe sotto le armi e a rimandare in
Sicilia navi della R. Marina, che aveva dapprima richiamate, per
ristabilire l'ordine pubblico gravemente compromesso, la stampa
francese volle vedere in quelle misure nientemeno che i prodromi di
una prossima dichiarazione di guerra! L'ambasciata d'Italia a Parigi
riferiva che la nuova campagna giornalistica suscitava inquietudini
anche nei circoli parlamentari francesi, e Crispi dovette far dire
direttamente e per mezzo delle Cancellerie delle potenze amiche che
quelle inquietudini erano davvero assurde e quasi puerili.
Il 19 marzo 1894 il duca di Cambridge, il venerando capo
dell'esercito britannico, trovandosi di passaggio a Madrid,
esprimeva all'ambasciatore Maffei la profonda impressione che aveva
ricevuto osservando sulla frontiera franco-italiana alle Alpi
marittime «uno straordinario aumento di truppe in pieno
assetto di guerra» come se quel paese, da Cannes a
Ventimiglia, «fosse attualmente oggetto di una occupazione
militare».
Il portafoglio degli affari esteri era stato affidato al barone
Blanc, già ambasciatore a Costantinopoli e bene al corrente
della situazione internazionale. La Francia, come si è detto,
stava tuttavia in armi, mentre le relazioni con la Germania,
l'Austria-Ungheria e l'Inghilterra, da ottime che erano state sino
al 1891, si erano fatte tepide durante i tre anni seguenti. Pur
cercando, per quanto era possibile, di rinnovare la intimità
che aveva dato eccellenti risultati governando in Germania il
principe di Bismarck, l'on. Blanc volle fare il tentativo di
troncare la politica di dispetti della Francia, mostrandole il
sincero desiderio nostro di amicizia.
Occorreva per ciò un ambasciatore di grande autorità a
Parigi, e l'on. Blanc ebbe l'idea che cotesto rappresentante potesse
essere il conte Nigra, il quale si trovava a Vienna, ed era stato
ambasciatore in Francia per lunghi anni, sotto l'Impero e anche con
la Repubblica, sino al 1876. La corrispondenza che segue fa
testimonianza del proposito del Blanc, cui non mancò
l'appoggio di Crispi:
«Conte Nigra Ambasciata Italiana,
Vienna.
Roma, 18-3-1894.
(Personale). D'accordo col Presidente del Consiglio, La prego
rendere un grande servizio al Re e al Paese accettando di ritornare
a Parigi. Conoscendo il Suo alto patriottismo sono convinto che
nessuna considerazione secondaria la farà esitare, potendo
Ella meglio di chicchessia assecondarci in una opera di
pacificazione che richiede speciale autorevolezza. Pensi alle gravi
circostanze del Paese che più che mai domandano
l'incondizionata abnegazione già da Lei tante volte
dimostrata per il bene pubblico.
Blanc.»
«S. E. Blanc,
Roma.
Vienna, 18-3-1894.
(Personale). Se fossi persuaso che la mia presenza a Parigi potesse
giovare all'opera di pacificazione che è nelle intenzioni del
R. Governo, non esiterei, malgrado ogni convenienza personale, ad
accettare la proposta fattami in termini così lusinghieri; ma
io sono convinto che i miei precedenti ben noti devono precludermi
per sempre l'ambasciata a Parigi. Le ricorderò che questi
stessi precedenti impegnarono il Ministero Depretis nel 1876 a
richiamarmi da quel posto. In tale convinzione, debbo ricusare un
incarico che io so positivamente di non potere disimpegnare. Ho poi
qualche ragione di credere che il mio trasloco farebbe cattiva
impressione qui dove la mia azione sembra essere apprezzata. Non
insisto su quest'ultimo motivo non avendo io la presunzione di
credere che altri non possa fare in questo posto quanto io fo.
Insisto invece sulla mia incompatibilità a Parigi, circa la
quale la mia convinzione è inconcussa.
Nigra.»
«Conte Nigra Ambasciata Italiana,
Vienna.
19-3-94.
(Personale). Sua accettazione avrebbe alto valore di confermare
programma suo e del Conte Kálnoky che alleanze pacifiche sono
conciliabili con buone relazioni con Francia come con Russia. Suo
rifiuto porrebbe in gran dubbio possibilità di tale
programma.
Il Governo, giudice delle necessità attuali, deve insistere
nel fare appello al suo patriottismo ed alla sua deferenza ai
desideri di Sua Maestà.
Crispi.»
«A S. E. Crispi,
Roma.
Vienna, 19-3-1894.
(Personale). Il programma cui Ella accenna può e dev'essere
tentato, ma appunto perchè l'esito è difficile e
dubbio conviene scegliere per un tale tentativo la persona adatta.
Io non sono questa persona e i miei precedenti mi rendono
incompatibile col posto di Parigi. Voglia farmi l'onore di credermi
perchè so positivamente ciò che le affermo. Sarei
lieto se potessi impiegare le forze che mi restano nel modo
desiderato dal Re e da Lei, ma il mio ritorno a Parigi è da
me considerato come una impossibilità storica e morale e
nuocerebbe anzichè giovare all'attuazione del programma che
si ha in vista. Scrivo questo all'amico più che al ministro.
La prego di non insistere e di non rendermi più dolorosa la
necessità in cui Ella mi mette di negarle qualche cosa. Io la
servo qui con fedeltà e devozione e amo credere con
soddisfazione dei due Governi.
Nigra.»
Il proposito del ministero Crispi di migliorare le relazioni
franco-italiane era ben accetto a taluni uomini politici influenti
della Francia, quali Léon Say e Maurizio Rouvier,
ex-ministri.
In aprile il Rouvier venne segretamente a Roma, ed ebbe due colloqui
con Crispi, il 14 e il 16 di quel mese, nei quali fu convenuta
un'azione simultanea a Parigi per indurre il governo francese e la
stampa parigina a cooperarsi per un riavvicinamento tra le due
nazioni, il quale avrebbe avuto per base la riattivazione dei
rapporti commerciali mediante la concessione reciproca della
condizione della nazione più favorita, e la cessione della
ferrovia Tunisi-Goletta alla Francia. Naturalmente, il primo
ostacolo da superarsi era l'ostilità dell'opinione pubblica
francese, della quale era schiavo il governo, presieduto allora dal
signor Casimir-Perier. Questi, informato dal Rouvier dei colloqui
avuti con Crispi, si dichiarò favorevole in massima; disse
anzi al suo interlocutore: «la politica che noi seguiamo non
ha altro risultato che di éterniser et aggraver la Triplice,
la quale non è causa, ma conseguenza dei malintesi. «E
aggiunse che se a stipulare un accordo poteva rattenerlo prima la
considerazione ch'esso avrebbe rafforzato la posizione di un uomo
considerato in Francia come gallofobo, doveva ora convenire che tale
prevenzione era vinta dal procedere leale di Crispi e riconoscere
che questi poteva fare in Italia ciò che altri non avrebbe
potuto, nè osato. Circa l'accordo commerciale il
Casimir-Perier disse che la corrente protezionista in Francia aveva
ecceduto i limiti, e che v'era qualcosa da fare per modificare un
indirizzo anche politicamente nocivo; ma che temeva l'opposizione
dei meridionali per i vini. Concluse che era necessario assicurarsi
della Camera.
Il gabinetto Casimir-Perier rimase in minoranza alla Camera il 30
maggio; lo sostituì un gabinetto Dupuy, nel quale il signor
Hanotaux ebbe la direzione degli affari esteri. Il 24 giugno un
anarchico italiano, Caserio, uccise a Lione il presidente della
Repubblica, Sadi Carnot. Il governo e il popolo d'Italia,
sinceramente commossi per quel delitto, manifestarono il loro
cordoglio con tale solennità che a molti in Francia parve
rivelare sentimenti non sospettati. Disgraziatamente, il buon
effetto di quella manifestazione fu in gran parte perduto per i
maltrattamenti usati in Francia a italiani colà residenti e
per la ripercussione che essi ebbero in Italia.
In luglio il Rouvier riprese l'opera sua presso il ministro
Hanotaux, dal quale ebbe la promessa che durante le prossime vacanze
parlamentari gli si sarebbe affidata la missione di venire in Italia
per discutere con Crispi le basi di un accordo. Ma quando venne a
concretare i suoi desiderata, l'Hanotaux chiese che l'Italia
riconoscesse senza restrizioni il protettorato francese in Tunisia e
accettasse una convenzione per la neutralizzazione dell'Harrar. Come
corrispettivo offriva di non sollevare questioni per l'occupazione
italiana di Kassala, che non interessava la Francia, e di non
prendere partito in Etiopia nè pro, nè contro
l'Italia. Nulla circa le relazioni commerciali; nulla circa la
Tripolitania.
Il signor Rouvier pensò bene che non si voleva un accordo con
l'Italia e rinunziò alla propria iniziativa.
Sulla politica francese verso l'Italia gettano luce le lettere
private che a Crispi scriveva il Ressman, succeduto al generale
Menabrea come ambasciatore a Parigi. Ne riferiamo alcuni brani,
avvertendo che il Ressman, per la sua lunga permanenza in Francia e
pel suo carattere conciliante, era un ottimista:
«Qui la situazione è molto chiara. La Francia non vuole
per ora la guerra. In tutti i casi, non avendo un Trattato formale
colla Russia, avendo soltanto o la fede, o la promessa d'essere
assistita dalla Russia se fosse attaccata, non vuole attaccare ed
evita possibilmente ogni provocazione. Profondamente turbata da un
continuo lavorio sotterraneo, essa guarda da ogni parte, è
facile ai sospetti e sospetta noi più di tutti. Su Lei in
ispecie ha fermi gli occhi, diffidando ma non sapendo ancora se
debba sperare o temere. Epperò le più strane
interpretazioni di ogni suo atto sono ammesse, discusse e
influiscono talvolta sullo stesso atteggiamento degli uomini del
Governo» (24 gennaio 1894).
«Illustre Presidente ed amico carissimo,
Non volli dopo il mio ritorno a Parigi attediarla con lettere vuote
e non Le scrissi, ma agii indefessamente con anima, per secondare
nel limite delle mie attribuzioni l'opera di pacificazione ch'Ella
sì magistralmente va compiendo all'interno e che deve anche
nei rapporti con questo paese produrre i risultati ai quali mira la
Sua politica. Non v'è dubbio che l'orizzonte qui, verso il
confine italiano, si rischiara a poco a poco, che v'è
intransigenza molto minore e che si comincia a renderle giustizia,
l'ingiustizia in fondo non essendo mai consistita che nei timori che
in diverse circostanze il suo patriottismo ed il suo valore
ispiravano. Fu un buon sintomo anche il modo con cui le due Camere
votarono l'accordo monetario. In altri tempi sarebbe bastata l'idea
che ciò potesse giovare all'Italia per suscitare proteste.
Già un paio di volte, in conversazioni puramente
confidenziali col signor Casimir-Perier, esprimendogli il voto che
si potesse qui darci qualche prova di buon volere lo condussi a
parlarmi per il primo dei rapporti commerciali. La sua personale
influenza sulla Camera è grande, e le sue intenzioni sono
buone. Ne ho la prova anche dal fatto che in un recente convegno coi
Ministri delle Finanze, del Commercio e dell'Agricoltura, egli
accampò la questione se fosse possibile di trovare una
maggioranza in caso d'accordi con noi, almeno parziali, sulla base
della tariffa minima. Senza parlarmi di questo convegno, egli ieri
mi disse che non si fiderebbe di presentare alla Camera un accordo
con noi, se non fosse preceduto un accordo più facilmente
accettabile con altra Potenza (la Svizzera), e che rispetto a noi
una insormontabile difficoltà verrebbe sempre dai vini,
giacchè coll'eccesso della presente produzione nel
mezzogiorno della Francia tutti i viticoltori si alzerebbero come un
solo uomo contro il Ministro che proponesse di riaprire più
larghe le porte della concorrenza italiana.
Gli risposi che forse a questo punto, abbassando pure alquanto la
tariffa massima, potrebbe esservi modo d'intendersi mediante altri
compensi. A questo proposito Vostra Eccellenza stimerà senza
dubbio utile, come lo chiesi costì al conte Antonelli, di far
studiare in confronto della tariffa minima francese le concessioni
da noi offribili nell'eventualità di una futura trattativa. A
me, ora per allora, gioverebbe d'essere informato delle intenzioni
del E. Governo e del limite delle possibili sue concessioni.
Il signor Casimir-Perier, che ha agito in un senso conciliante verso
di noi sopra una buona parte della stampa, mi disse d'avere visti
personalmente otto Direttori a tal fine e m'espresse il suo
compiacimento per il linguaggio che ora tien verso la Francia la
stampa italiana. A ciò il Quai d'Orsay bada molto» (22
marzo).
«Malgrado l'atteggiamento preso da questa miserabile stampa
nella questione economica dopo il viaggio del Re a Venezia e dopo la
delusa speranza di vederci ridurre l'esercito, malgrado le
dichiarazioni mezze negative e mezze dilatorie fattemi da
Casimir-Perier, io non rinuncio alla speranza di approdare ad un
accordo commerciale quando le nostre più gravi questioni
interne saranno regolate. Abbiamo nel Consiglio qualche ministro
favorevolissimo, e più di tutti Burdeau. Egli già da
tempo incaricò il Direttore generale della dogana di
preparargli uno studio comparativo della nostra tariffa
convenzionale colla tariffa minimum francese. Il Direttore signor
Pallain che lo fece e me ne informò confidenzialmente, mi
disse che secondo i suoi calcoli la tariffa minima francese sarebbe
notevolmente più vantaggiosa per noi, che la nostra
convenzionale per la Francia.
E mi espresse l'avviso che in previsione della possibilità di
future trattative gioverebbe che un lavoro simile fosse preparato
anche da noi. Ella vedrà se non convenga seguire il consiglio
per essere pronti se mai.... matureranno le nespole. Ad ogni modo,
si perde il tempo anche peggio negli uffici. Intanto spinge
attivamente ad un'intesa anche Rouvier, che de' suoi convegni con
Lei riportò qui la migliore e la più utile
impressione. Oltre ai protezionisti arrabbiati ed agli chauvins,
abbiamo da lottare anche contro ogni specie d'intrighi stranieri,
d'ordine politico e d'ordine economico. Gli Svizzeri e gli Spagnuoli
tengono l'orecchio alle porte. Bisognerà dunque, venuta
l'ora, fare presto e segretamente e fino a tanto che venga mi
augurerei che la nostra stampa, la quale già abbastanza
accentuò il voto del nostro paese e le buone disposizioni del
nostro Governo, serbasse un prudente e dignitoso silenzio. M'illudo
forse persistendo a credere alla possibilità d'una non
lontanissima intesa; ma so quanto facilmente qui si passa dal bianco
al nero e l'ardente mio desiderio di mettere questa vittoria al Suo
attivo mi mostra gli ostacoli meno insormontabili che taluno non
creda.
E quantunque in questo Gabinetto vi sia un paio di giannizzeri di
Méline (i ministri del commercio e dell'agricoltura, questo
secondo ferocissimo), a noi conviene desiderare che si mantenga il
Presidente del Consiglio, essendo uomo di pronta risoluzione e in
tali disposizioni che la parte a noi più favorevole
potrà trascinarlo. Pur troppo, già battuto in breccia
dai socialisti e dai radicali, egli ora deludendo nei clericali le
speranze che la proclamazione dello «spirito nuovo» di
Spuller aveva fatte risorgere, si espone anche alle congiure
pretine.
I nostri nemici vollero sfruttare contro di noi anche gli atti
addebitati al Generale Goggia, l'arresto e l'espulsione del quale
fecero qui non poca impressione. Ma fra otto giorni nessuno ne
parlerà più ed il savio e giustissimo linguaggio di
Lei nella nostra Camera fu un'opportuna prova che non cerchiamo
discussioni irritanti....
L'altr'ieri ho messo in vettura il nostro Verdi che si
diportò qui come un uomo di quaranta anni e fu instancabile
dalla prima ora all'ultima. Ogni pomeriggio, durante cinque ore,
egli dirigeva le ripetizioni del suo Falstaff, e quando lo ebbe
condotto in buon porto e ottenuto un vero trionfo, volle darsi anche
un po' di divertimento e salì fino alla lanterna della Torre
Eiffel! È vero che nella lanterna il celebre ingegnere aveva
fatto mettere fino dal 1889 un pianoforte in previsione di visite
simili. Nell'aprile del prossimo 1895 il grande maestro farà
dare qui il suo Otello e spera di ritornare a metterlo in scena. Non
si potè dargli, come pure si sarebbe voluto, il Gran Cordone
della Legion d'Onore perchè non lo ebbe mai nessun maestro
nazionale. E Rossini morì semplice «commendatore
dell'ordine rosso» (26 aprile).
«Ho ringraziato Iddio con tutta l'anima di averla anche questa
volta preservata dal colpo d'un miserabile assassino e di non aver
lasciato distruggere da una palla la rinascente speranza del nostro
paese. Se potè esservi nell'istante dello scoppio un baleno
di amarezza nel suo cuore, se Ella sentì, una volta di
più, a quanta ingratitudine le imbecilli passioni possono far
scendere la bestia umana, ho per certo che grande deve essere la Sua
consolazione, immenso il Suo conforto vedendo come dall'insano
attentato scaturisca un vero plebiscito europeo che proclama e
consacra la sua altissima missione e trova rispetto anche nelle file
degli avversari.
Ho immediatamente ringraziato, nei termini stessi del Suo
telegramma, il Presidente del Consiglio ed il Ministro degli affari
esteri della Repubblica.
Il primo mi aveva espressamente detto che nel felicitarla lo faceva
in nome di tutto il Governo francese. Vari altri Ministri che
incontrai ieri alle corse di Longchamp, ov'era invitato da Carnot al
pari degli altri membri del Corpo diplomatico, mi manifestarono
anche individualmente sentimenti di simpatia per Vostra Eccellenza.
Non contento di averle telegrafato, il Conte d'Aquila venne pure a
pregarmi di felicitarla scrivendole. E così fece Lord
Dufferin che serba il migliore ricordo dei rapporti avuti con
Lei» (18 giugno).
«Jersera il Presidente della Repubblica35 invitò a
pranzo tutti i Rappresentanti esteri qui accreditati e gl'inviati
speciali ch'erano stati incaricati dai loro Sovrani d'intervenire in
nome loro ai funerali Carnot. Sedendo alla sinistra del Presidente,
che continua a trattarmi da amico, parlai a lungo con lui cercando
con ogni parola ad agire sull'animo suo nel senso dei voti da Lei
espressi nel telegramma direttomi in data del 29 giugno. Il signor
Casimir-Perier è uomo di mente molto aperta, uomo di
iniziativa e di risoluzione, e lo ha già provato. È
sincero nel desiderio che i nostri due paesi si ravvicinino.
È sensibile al favore col quale la sua nomina fu accolta in
Italia. (E credo sarà buona politica quella d'inspirare alla
nostra stampa note simpatiche per lui e gli elogi che merita il suo
atteggiamento). Mi parlò con apprezzamenti giusti ed in
termini eccellenti dell'opera già da Lei compita e ch'Ella
andava continuando. Confessò che nello scorso dicembre non
avrebbe osato credere ad una sì felice riuscita. Le rese
ampia giustizia» (4 luglio).
«L'occasione di discorrere delle cose nostre col Presidente
della Repubblica s'è offerta naturalmente e l'ho afferrata a
volo. Invitato da lui, andai ieri a Pont-sur-Seine (due ore e mezza
di ferrovia da Parigi), ove passa le sue vacanze in una vasta e
splendida proprietà di sua madre, per presentargli la
risposta del Re alla lettera notificante la sua elezione e per
riverirlo prima della mia partenza in congedo. Fu meco quant'era
possibile gentile e cordiale, mi tenne a colazione e dall'ora del
mio arrivo fino a quella della mia partenza, dalle 11-1/2 fino alle
4-1/2 non mi lasciò un momento, compiacendosi a farmi
visitare da un'estremità all'altra l'esteso dominio (seicento
ettari) di casa Perier.
Le do in poche parole il sunto della parte politica de' nostri
lunghi colloqui. Il Presidente non vede nessun punto nero pericoloso
all'orizzonte e confida nel mantenimento della pace. Egli constata
con soddisfazione il procedere corretto e cortese della Germania
verso la Francia e ne attribuisce il merito, oltrechè alla
saviezza dell'Imperatore, alle concilianti disposizioni del mio
vecchio collega ed amico Münster, sempre disposto ad evitare
attriti. Non è ancora ufficialmente informato di chi
succederà all'ambasciatore d'Austria-Ungheria, conte Hoyos,
che per ragioni di famiglia decise di ritirarsi nella vita privata,
ma crede anch'egli probabile la nomina di Wolkestein, ora
ambasciatore austriaco a Pietroburgo.
Di Vostra Eccellenza mi parlò rendendo omaggio all'opera da
Lei compita, riconoscendo quali fossero le difficoltà di
questa e notando come anche la stampa ostile, soggiogata dai fatti,
poco a poco disarmava di fronte a Lei. Caddero pure tra noi alcune
parole sulla visita fattagli da Bonghi, il quale non gli
lasciò una.... grande impressione. Fece un'allusione, ma
senza rancore, alla frase allora attribuitagli circa la triplice
alleanza, mostrandosi contento che Bonghi stesso la avesse poi
smentita.
I due capitoli principali su cui mi premeva di conoscere il
sentimento presente del signor Casimir-Perier erano, s'intende, la
questione commerciale e quella della delimitazione africana. Come in
conversazioni confidenziali recenti già me l'avevano detto il
Ministro degli affari esteri e il Direttore generale delle Dogane,
così anche il Presidente crede che sarà possibile,
prima che finisca l'anno, di rifare un accordo commerciale colla
Svizzera, una buona parte degli stessi meno arrabbiati protezionisti
desiderandolo. Il Direttore delle Dogane, come altre volte lo
scrissi all'Eccellenza Vostra, era stato personalmente d'avviso che
intavolando prima trattative coll'Italia si avrebbe più
facilmente ragione delle esigenze della Svizzera; ma il Governo
segue la corrente dell'opinione parlamentare e non si fida di
poterla dirigere o non osa tentarlo. «Quantunque sia
più facile un accordo colla Svizzera, mi disse il Presidente,
le condizioni politiche esistenti fra le due repubbliche
consigliandolo anch'essa, non dovete credere che per motivo politico
si indugi a trattare coll'Italia: le difficoltà sono
veramente e puramente d'ordine economico e dipendenti da ragioni di
concorrenza». E menzionò ad esempio il vino. Gli
risposi che considerando da un lato quanto sia protezionista la
stessa tariffa minima francese e osservando d'altra parte che
la Francia l'applica ormai a quasi tutti gli Stati, sarebbe tanto
più difficile di vedere sole ragioni economiche
nell'esclusione dell'Italia inquantochè il danno economico
era reciproco. E gli citai, in quanto al vino, le continue
rimostranze della Camera di commercio francese di Milano la quale in
più articoli del suo bollettino diede la prova del vantaggio
che vi sarebbe per la Francia di prendere in Italia, anzichè
in Ispagna, quel vino di cui pur sempre abbisognava l'industria di
Bordeaux.
Quand'egli era Ministro degli affari esteri, io già tante
volte aveva espresso di mia iniziativa al signor Casimir-Perier il
desiderio che mediante una concordata delimitazione intorno ad Obock
fosse eliminata la possibilità d'attriti fra noi in Africa,
che un nuovo mio suggerimento a tal fine non poteva nè
sorprenderlo, nè parergli inopportuno. Gli raccontai
ciò che da ultimo era accaduto tra il signor Hanotaux e me e
come la questione fosse rimasta in sospeso, non senza mostrargli i
pericoli d'una situazione abbandonata al caso o alle conseguenze di
fatti compiuti. Gli dissi che per il Ministro degli affari esteri di
Francia le vacanze parlamentari mi sembravano specialmente
favorevoli per iniziare una trattativa senza la pressione quotidiana
della Commissione coloniale ed aggiunsi d'essere certo che le
entrature non sarebbero respinte da Vostra Eccellenza. Il Presidente
non si addentrò in una discussione, nè
recriminò contro il protocollo anglo-italiano; mostrò
invece buona volontà e prese l'impegno di parlarne con
Hanotaux. Non dubito che lo farà e che lo farà con
buona intenzione; ma Hanotaux già in precedenza m'aveva
dichiarato che prima di trattare egli avrebbe voluto assicurarsi
della possibilità di un'intesa. Allora egli non era preparato
a formolare un programma e disse che avrebbe ripresa la questione in
serio esame: ma se il risultato di quest'esame lo condusse a
scoprire un diritto della Francia sulla città di Harrar, come
recentemente affermò a Lord Dufferin, prevedo che la buona
volontà del Presidente della Repubblica lascierà il
tempo che trova. Non è però meno vero che la
persistente migliore intuonazione della stampa francese a nostro
riguardo rende poco a poco il terreno più arabile, e se con
ciò le tendenze generali si modificheranno, crescerà
pure l'influenza più benefica degli amici nostri e degli
uomini savii sui politicanti chauvins e intransigenti.
Per ora la grande preoccupazione del Governo francese sono gli
anarchici. Si avvedono un po' tardi d'aver lasciato fare al male
progressi enormi. Le minacce piovono su tutti i membri del Governo e
ciò che rivelano arresti, perquisizioni ed interrogatorii non
diminuisce le apprensioni. La sua naturale arditezza e noncuranza
del pericolo espone l'attuale Presidente molto più che non
fosse esposto l'infelice suo predecessore» (24 agosto).
«Profittai dell'occasione per invocare il suo intervento
presso il Ministro degli affari esteri cui la dimane (come difatti
ieri feci) io doveva parlare degli intrighi sempre continuati dei
signori Chefneux e consorti in Etiopia. Gliene potei discorrere
tanto meglio inquantochè già sovente, quand'era
Ministro degli affari esteri, io mi era con lui querelato di quegli
intrighi. Protestò, come sempre fece, che il Governo non
c'entrava per nulla e non incoraggiava punto i maneggi di alcuni
speculatori o negozianti, e mi promise di raccomandare al signor
Hanotaux ogni possibile vigilanza.
La gioia del vecchio amico di Verdi, del signor Ambroise Thomas, nel
ricevere dalle mie mani il Gran Cordone Mauriziano che Vostra
Eccellenza m'inviò per lui, non ebbe limiti. Egli mi
creò perfino barone nella lettera di ringraziamento che mi
pregò e che ho l'onore di trasmetterle qui unita. Peccato che
non sia più vegeto, e con ciò più capace di
propaganda attiva, il caldo amico francese che Ella ha nell'illustre
decano di questi compositori.
Sapendo di fare cosa grata a Verdi, io suggerii a questo Ministro
dell'Estero di dare la croce anche a Ricordi ed a Boito. La mia
proposta fu immediatamente accolta, talchè sono in fatto
compensate anche le decorazioni da Lei accordate ai Direttori ed al
Capo d'orchestra dell'Opera» (1 novembre).
Molti francesi vennero in quell'anno 1894 a Roma e furono ricevuti
da Crispi: i deputati Deloncle, Mermeix, Pichon, Léon
Bourgeois, Ferdinando Brunetière, il senatore R. Waddington,
Emilio Zola e altri. Tutti promisero di adoperarsi presso i loro
amici per una pacificazione tra la Francia e l'Italia, ma tornati in
patria o non tennero parola o constatarono la loro impotenza.
«Il Billot - scrisse Crispi nel suo diario - invece di aiutare
l'opera mia, ha cospirato e continua a cospirare coi miei nemici.
Egli fa al suo governo dei rapporti velenosi.»
In gennaio 1895 sollevò grande scalpore il richiamo da Parigi
dell'ambasciatore italiano. Il Ressman era da lunghi anni devoto
personalmente a Crispi; maggiore fu quindi il rammarico di questi
quando dovette constatare che dinanzi alla condotta malevola e
insidiosa dell'Hanotaux, l'azione del Ressman era inefficace. Nel
diario di Crispi, sotto la data di giovedì, 6 gennaio 1895,
si legge:
«Del resto, sono otto mesi da che Ressman doveva essere
allontanato da Parigi. Io l'ho impedito difendendolo presso il
barone Blanc. Ora ho dovuto convincermi che Ressman non poteva
rendere utili servigi all'Italia.... Egli non ha influenza presso il
Governo francese.»
Il Billot, nel libro più volte citato36, ha scritto a
proposito del richiamo del Ressman molte inesattezze. Lo ha
attribuito a Crispi - «car nul ne songeait à imputer au
baron Blanc la responsabilité de la décision
prise» - e per motivi personali, cioè perchè il
Ressman non seppe ottenere dal governo francese soddisfazione per
alcuni articoli del Temps ingiuriosi contro il presidente del
ministero italiano. È certo che Crispi fu irritato
dell'ingerenza di quel giornale ufficioso del governo francese nella
campagna personale condotta allora contro di lui dal Cavallotti e
compagni, ingerenza la quale gli confermava che quella campagna di
denigrazione aveva ispiratori e collaboratori francesi. Egli aveva
rilevato in uno degli articoli del Temps talune dichiarazioni fatte
imprudentemente in Roma, con parole quasi identiche, dal Billot, il
13 dicembre precedente, a un collega del corpo diplomatico che glie
le aveva riferite. A conferma di cotesto legittimo risentimento
valga il seguente telegramma:
«Ressman ambasciatore Italia
Parigi.
Roma, 1.° gennaio 1895.
Il Temps del 30 dicembre conferma la mala volontà ed il
contegno in questi ultimi tempi dell'ambasciatore di Francia in
Roma. Il signor Billot è stato una eccezione nella diplomazia
straniera presso il Quirinale, cospirando coi nostri avversarii e
riferendo cose strane al suo Governo. Il suo linguaggio con alcuni
suoi colleghi è stato sconveniente, e prova che nulla
è possibile tra la Francia e l'Italia quando coloro che
dovrebbero cooperarsi ad un accordo fra i due paesi lavorano a
sempre più inimicarli.
Vi scrivo ciò per vostra norma, convinto come io sono che
anche voi sarete impotente nella missione conciliatrice che vi avevo
affidata.
Sbagliano però Billot ed il suo Governo nei loro giudizii e
nelle opere loro; il Governo italiano resisterà alle congiure
comunque favorite dallo straniero.
Crispi.»
Ma se in quella circostanza la debolezza del Ressman potè
dispiacere a Crispi, le ragioni del richiamo erano più
lontane e furono sostanzialmente quelle indicate nel brano di diario
qui avanti riferito.
È poi insussistente, anzi è contrario al vero,
ciò che il Billot ha affermato circa la cattiva impressione
che il provvedimento del governo italiano avrebbe prodotto presso
gli alleati e circa i consigli di prudenza che da essi sarebbero
stati dati.
Nel Diario di Crispi troviamo:
«6 gennaio ore 16-1/2 - Visita del barone de Bülow.
Felicitazioni per richiamo di Ressman. Non godeva la fiducia
nè dell'ambasciatore inglese, nè del germanico.»
Al posto del Ressman fu inviato a Parigi il conte Tornielli,
ambasciatore a Londra, il quale il 18 febbraio 1895 presentò
le lettere credenziali al Presidente della Repubblica, Félix
Faure, succeduto a Casimir-Perier, dimissionario il 15 gennaio di
quello stesso anno. Il Tornielli, ricevuto con freddezza,
potè grazie al suo tatto vincere dappoi le diffidenze e
tenere degnamente la rappresentanza del suo paese. Le relazioni
italo-francesi non mutarono, sebbene si evitassero nuovi incidenti.
L'alleanza franco-russa, proclamata per la prima volta il 10 giugno
alla tribuna parlamentare dai ministri Hanotaux e Ribot, non
giovò davvero a ispirare idee pacifiche alla politica della
Francia, la quale divenne più che mai altezzosa e attivamente
malefica in Etiopia agl'interessi italiani.
Di quest'azione parleremo altrove.
Capitolo Sesto.
La Francia contro il credito italiano.
Tutto il mondo finanziario francese ostile. - La guerra ai titoli
italiani. - Crispi chiede l'intervento della finanza germanica. -
Bismarck e gli accordi del 1888. - La campagna al ribasso del 1889.
- La stampa francese unanime consiglia l'espulsione dalla Francia
dei titoli italiani. - Nuove difese dei banchieri tedeschi che si
uniscono in Sindacato nel 1890. - Fondazione dell'Istituto Italiano
di Credito Fondiario. - Fondazione della Banca Commerciale Italiana
sotto gli auspicii di Crispi.
Una delle armi, la maggiore forse, che l'ostilità francese
adoperasse per punire l'Italia di essersi alleata alla Germania, fu
il discredito col quale colpì il Consolidato e gli altri
valori italiani quotati alla Borsa di Parigi.
La cospirazione ai nostri danni si estendeva a tutto il mondo
finanziario francese, ed era popolarizzata da una letteratura
impressionista che descriveva sui giornali la miseria delle
popolazioni italiane, costrette ad emigrare in massa quando erano
stanche di nutrirsi d'erba, e contristate dal brigantaggio;
denunziava la precarietà delle condizioni del Tesoro
italiano, che affermava prossimo al fallimento; e attribuiva tale
stato spaventevole alle spese militari, imposte da una politica
estera anti-francese.
La speranza di «prenderci per fame», come dicevano, di
costringerci ad abbandonare la Triplice Alleanza col ritiro dei
capitali investiti in valori italiani e di determinare la sfiducia
internazionale verso l'Italia, era sicuramente mal fondata. Ma il
danno di questa guerra senza quartiere raggiungeva proporzioni
considerevoli, poichè, dagli inizii del Regno, la finanza
nostra era orientata verso Parigi, e in mani francesi si trovavano
miliardi di rendita italiana. Gli avversari interni dell'alleanza
italo-germanica si giovavano, naturalmente, del malumore che ne
derivava e che si aggiungeva all'altro provocato dalla rottura del
trattato di commercio e dall'applicazione di tariffe differenziali
quasi proibitive. Il Governo italiano aveva il dovere di
preoccuparsene e di esigere che il Governo germanico si adoperasse a
neutralizzare, nella misura del possibile, questo effetto doloroso
per l'Italia di una politica che alla Germania non arrecava che
beneficii.
Il principe di Bismarck interessato dall'on. Crispi nei primi mesi
del 1888, influì premurosamente a decidere l'alta banca
germanica a intervenire in favore dei valori italiani. In una
lettera del 18 febbraio di quell'anno il ministro Magliani scriveva
a Crispi:
«Non ho risposto subito perchè desidero vedere la
comunicazione fatta dai banchieri berlinesi alla nostra Banca
Nazionale. Questa non è ancora giunta. Frattanto mi pare che
possa rispondersi mostrando la soddisfazione del nostro Governo, e
dichiarando che saranno prontamente spediti articoli, documenti e
notizie perchè la stampa tedesca faccia una campagna a favore
del credito italiano, e che si farà anche nota la forma che a
noi sembra più conveniente per un'operazione finanziaria a
Berlino.
Indicheremo con precisione l'opinione nostra, dal punto di vista
tecnico, su quello che meglio corrisponde allo scopo nelle
condizioni attuali. Fin d'ora si può dire che mezzi efficaci
sono:
1.° Ricomprare sul mercato di Parigi quanto più sia
possibile di rendita italiana;
2.° Indurre le Banche tedesche a scontare gli effetti cambiarii
del commercio italiano, mostrando di avere in noi la fiducia che la
Francia ci nega nel momento attuale.
Col più affettuoso ossequio etc.»
Il sindacato costituito da Bleichroeder, Disconto Gesellschafft e
Deutsche Bank, cui si associarono i banchieri inglesi Baring e
Hambro e le maggiori banche italiane, raggiunse lo scopo di
arrestare la discesa del nostro Consolidato alla Borsa di Parigi. Il
Tesoro italiano compensò tale servizio coll'impegnarsi ad
affidare al Sindacato l'emissione di obbligazioni ferroviarie.
Nel 1889 la campagna al ribasso riprese a Parigi nuovo vigore. Il 28
luglio l'on. Crispi telegrafava all'Ambasciatore d'Italia a Berlino:
«Da venti giorni a Parigi con manovre organizzate dal Governo
della Repubblica si lavora a far ribassare il prezzo della nostra
rendita tanto che da 96 siamo giunti a 92 e 90.
Voglia pregare il Principe affinchè impegni il solito
banchiere amico a comprare siccome fece al 1888, onde arrestare una
discesa la quale moralmente influisce sul nostro paese e della quale
nessuno sa darsi conto.»
Il 2 agosto giungeva la seguente risposta:
«Iersera solamente il sottosegretario di Stato, dopo avere
riferito a Varzin, mi comunicò che il Cancelliere accolse di
buon grado la domanda di V. E. ed impartì istruzioni per
reagire contro il ribasso del prezzo della nostra rendita
verificatosi nel luglio. Alcuni giornali impegneranno l'azione, anzi
uno di loro l'ha già iniziata sino dal 24 dello stesso mese,
ma ciò avrà luogo nella misura richiesta dal fatto che
da qualche giorno si manifesta un rialzo della rendita. Un'azione
più determinata ed un eventuale concorso dei finanzieri di
Berlino sarebbero meglio indicati allorchè non si mantenesse
l'attuale rialzo.»
Queste assicurazioni erano confermate a Roma dall'Ambasciatore
germanico, come si rileva dal seguente telegramma diretto da Crispi
al conte de Launay a Berlino in data 6 agosto:
«Il 4 corrente il conte di Solms è venuto ad
assicurarmi che S. E. il Principe di Bismarck aveva fatto pratiche
affinchè si arrestasse il movimento di ribasso provocato
contro la rendita italiana alla Borsa di Parigi. Soggiunse che i
banchieri ai quali S. E. si era diretta vorrebbero che ci valessimo
di loro per le operazioni di credito alle quali l'Italia potrebbe
ricorrere. Risposi che per il momento non abbiamo bisogno di
prestiti, i servizi della Tesoreria essendo pienamente assicurati;
ma che all'occorrenza ed in ogni occasione ci varremmo dei banchieri
tedeschi. Voglia confermare questa mia assicurazione al Principe
prevenendolo che il lavoro al ribasso ha ripreso nuovamente alla
Borsa di Parigi e dicendo essere ormai necessario che da Berlino si
provveda ad arrestare la manovra dei nostri avversari, come
già fu fatto con successo lo scorso anno.»
Ma l'intervento dei banchieri berlinesi ritardava. Il 10 settembre
l'Ambasciata italiana a Parigi telegrafava ripetutamente:
«Un malevolo articolo del Matin dice imminente in Italia il
decreto che ristabilisce il corso forzoso come fatale conseguenza
dell'autorizzazione data al ministro del Tesoro d'emettere per 90
milioni di biglietti consorziali da 10 e da 5 lire. I bollettini
finanziari dello stesso e di altri giornali spingono con crescente
accanimento alla vendita ed espulsione dei titoli italiani.
Il fatto che la rendita italiana ribassò qui oggi fino a 91
produce molta impressione nella nostra Colonia, taluni membri della
quale vorrebbero che dal R. Governo in qualche modo si provvedesse
per impedire un panico che potrebbe diventare dannosissimo al nostro
credito.»
E Crispi incalzava a Berlino lo stesso giorno:
«Dal Gabinetto germanico fummo assicurati che l'azione
dell'alta Banca tedesca a favore della nostra rendita si
spiegherebbe allorchè fosse discesa al disotto del corso di
93. Essa è attualmente a Parigi scesa a 91 ed a Berlino a 92
e frazioni. Il momento è dunque giunto. Desidero che V. E.
riprenda immediatamente le pratiche presso cotesta Cancelleria
acciocchè i signori Bleichroeder ed altri siano interessati
ad entrare in campagna per il rialzo dei nostri fondi.
In seguito mio telegramma odierno la prego far notare a codesta
Cancelleria come la cospirazione alla Borsa di Parigi contro il
nostro 5% sia evidente. I bollettini finanziari dei giornali
francesi lo dimostrano tale, ed ormai bisogna esser ciechi per non
vedere che la guerra che per il momento non ci si fa militarmente,
ci vien fatta deprezzando il nostro credito. La rendita in pochi
mesi è ribassata di sei punti e continua a ribassare per le
false notizie diffuse dalla stampa.»
Contemporaneamente Crispi telegrafava all'on. Giolitti, succeduto al
Magliani nel Ministero del Tesoro:
«La rendita continua a discendere a Parigi, e siccome il
movimento di ribasso in quella Borsa colpisce solamente il nostro 5%
e non gli altri titoli stranieri, bisogna provvedere senza ulteriore
indugio. Al 1888 Magliani ed io abbiamo resistito alla guerra che ci
si voleva fare.
Parmi che si potrebbe oggi fare lo stesso. Ho telegrafato a Berlino.
Chiamate Grillo ed Allievi, e ricostituite altra volta il Sindacato.
Allora c'eravamo anche rivolti a Londra con buon successo, siccome
potrete sapere dal Cantoni.»
L'on. Giolitti si affrettava a rispondere:
«Dopo conferenza avuta con V. E. quindici giorni fa incaricai
comm. Grillo scrivere Berlino al banchiere Bleichroeder. Questi gli
rispose parergli cause ribasso attuale diverse da quelle del 1888,
perchè più generali. Mostrossi preoccupato disavanzo
bilancio italiano che credeva maggiore di quanto è; inoltre
temeva vendita rendita Cassa Pensioni; tuttavia dichiaravasi pronto
intendersi con Banca Nazionale. Giorno stesso in cui si conchiuse
accordo circa crisi, diedi al comm. Grillo elementi necessari per
dimostrare a Berlino condizioni bilancio, e lo incaricai trattare
con Bleichroeder 126 milioni obbligazioni ferroviarie d'accordo col
gruppo che fece precedente emissione, con dichiarazione che trovando
concludere a buoni patti tali operazioni, non venderei più
rendita Cassa Pensioni, ma proporrei creare titolo netto da imposta,
da collocare a Berlino e Londra. Così sarebbe tolta
difficoltà principale creazione Sindacato, e assicurata
azione efficace di questo.
Aspetto risposta. Appena la riceva agirò subito e
informerò Vostra Eccellenza.»
Il giorno 11 settembre l'on. Crispi ricevette a Napoli l'Incaricato
d'affari germanico, conte de Goltz, che gli fece la seguente
comunicazione:
«Impegno del Governo Germanico di far intervenire le Banche
tedesche quando il corso della rendita italiana fosse discesa al
disotto di 93.
Negli ultimi giorni tale corso essendo disceso a 92 e 91 e frazioni,
il gruppo finanziario berlinese, composto della Berliner
Handelsgesellschaft e dalla Deutsche Bank, si è dichiarato
pronto a formarsi un nuovo portafoglio di cinquanta milioni di lire
di rendita italiana, nonchè a facilitare i
«reports» e la «Lombardirung» (imprestiti su
depositi).
Considerando però che quelle operazioni non lasciano sperare
profitto, mentre potrebbero esporre a qualche rischio, il gruppo
suddetto desidera che, in compenso, il Governo Italiano nelle sue
future eventuali operazioni all'estero s'indirizzi ad esso prima di
far capo ad altri. Il gruppo in parola si appoggia su buone case
inglesi e sul Crédit Mobilier di Francia.
Qualora S. E. il cav. Crispi si dichiari pronto ad accettare la
condizione suespressa, il gruppo bancario tedesco si farà
premura di negoziare i particolari dell'operazione direttamente con
Roma.
Quando occorra al Governo Italiano di fare, in avvenire, qualche
emissione nuova, il gruppo accennato interesserebbe in essa,
d'accordo col Governo Imperiale, le principali case bancarie
tedesche.»
L'indomani, 12 settembre, l'onor. Crispi telegrafava all'onorevole
Giolitti:
«Ieri sera è venuto espressamente da Roma l'Incaricato
d'affari di Germania per dirmi che il gruppo dei banchieri tedeschi
è pronto ad entrare in campagna contro i ribassisti francesi
a condizione che il Governo Italiano in caso di un prestito si
rivolga a preferenza ad esso gruppo. Ho accettato, e mi fu risposto
che il Bleichroeder si sarebbe subito posto in relazione con la
nostra Banca Nazionale per operare a siffatto scopo.
Bisogna lavorare in guisa da emanciparci dalla tirannide del mercato
francese, pericoloso tanto più per la mobilità di
quella popolazione.
Crispi.»
Con l'intervento del Bleichroeder il nostro Consolidato ebbe qualche
sostegno a Berlino, sebbene non tutti i milioni promessi fossero
stati investiti in rendita italiana e alcuni membri del Sindacato
non trascurassero il giuoco di borsa per conto proprio, rivendendo,
cioè, la rendita comperata appena vi era un piccolo margine
di utile. A Parigi la campagna contro di essa era diretta da un
Comitato di ribassisti, che la chiamava nei suoi manifesti «la
rente de M. Crispi». Si trattava senza dubbio di una campagna
politica, e Crispi non si stancò di metter ciò in
evidenza presso il Governo Germanico per reclamarne
l'interessamento.
Nel 1890 le principali banche tedesche si associarono per la difesa
del credito italiano.
In Francia persistevano le ostilità.
«La campagna - scriveva il Menabrea - aperta in questa piazza
contro il credito dell'Italia, che sembrava alquanto smessa, si
è di nuovo ravvivata sotto diverse influenze. Anzitutto vi ha
il nuovo prestito di 700 milioni che sta per aprirsi dal Governo
Francese, per il quale si richiede che il danaro, anzichè
portarsi sui valori esteri e specialmente sui nostri che avevano
ripreso un poco di favore, si riservi al contrario per il sovradetto
prestito. Indipendentemente da questa circostanza, vi ha sempre la
dominante passione d'inceppare il Governo Italiano in tutti i modi,
specialmente nelle cose economiche, colla speranza di ridurlo ad
arrendersi in balìa della Francia.»
L'ambasciatore germanico, conte Solms, scriveva a Crispi il 3
aprile:
«Mon cher Président,
Comme je vous l'avais promis hier, j'ai
télégraphié au Ministère des Affaires
Étrangères à Berlin en lui communiquant votre
désir au sujet de M. de Bleichroeder, à qui j'ai en
même temps adressé une lettre particulière.
J'ai aujourd'hui la satisfaction de vous informer qu'on m'a
télégraphié de Berlin que dès qu'on a
pris connaissance de l'intérêt que vous
témoignez à cette affaire financière, on a
exercé, avec le consentement de M. le Chancelier, une vive
pression sur M. Bleichroeder pour créer avec son concours et
celui de la «Disconto Gesellschaft» un puissant
consortium allemand en faveur de l'entreprise financière
italienne; que le succès, quoique pas encore assuré,
était néanmoins vraisemblable.
Je suis chargé de communiquer cette nouvelle très
confidentiellement à Votre Excellence et je suis heureux que
ma démarche promet un bon résultat.»
Lo stesso giorno il banchiere S. Bleichroeder, amico personale del
Principe di Bismarck, telegrafava a Crispi:
«Je suis heureux de pouvoir annoncer à Votre Excellence
entente établie entre moi et groupe des banques.»
Ancora nel 1890 l'on. Crispi appoggiò diplomaticamente la
creazione dell'Istituto Italiano di Credito Fondiario col concorso
di un Sindacato finanziario germanico. Esso fu un fatto compiuto il
25 agosto di quell'anno. Il comm. Giacomo Grillo, direttore generale
della Banca Nazionale, inviava in quel giorno da Lucerna il seguente
telegramma a Crispi:
«Protocollo per creazione nuovo Credito fondiario italiano
sottoscritto oggi Lucerna fra Sindacato Italo-tedesco, Banca
Nazionale e Società Immobiliare. Nuovo Istituto che
avrà cento milioni di capitale comincierà con trenta
milioni versati, assunti metà Banca Nazionale e metà
Sindacato e Immobiliare.
Grillo.»
Tornato alla fine del 1893 al Governo, l'on. Crispi trovò a
Parigi le stesse cattive disposizioni nel mondo finanziario e
bancario. La visita del Principe ereditario d'Italia a Metz,
avvenuta sotto il Ministero precedente, era stata considerata in
Francia come un oltraggio, e la Borsa di Parigi ne aveva profittato.
Il programma dei ribassisti francesi era in quei giorni di portare
la rendita italiana a 75, cioè al corso di quella spagnuola,
e l'aggio al 20%, per mettere il Governo della Repubblica in grado
d'infliggere all'Italia un grosso scacco con la denunzia della
Convenzione monetaria. Il Sindacato Italo-Germanico fu ricostituito,
ma alla testa del governo di Germania non vi era più il
principe di Bismarck, e la sua efficacia fu scarsa.
Alla metà del 1894 fu fondata in Italia la Banca Commerciale
Italiana con capitali germanici, austriaci, svizzeri e italiani,
cinque milioni in tutto, ed ecco in quali circostanze.
L'idea di fondare una banca italo-germanica fu una conseguenza
dell'interessamento dell'alta finanza della Germania al credito
italiano, reclamato da Crispi e incoraggiato dalla Cancelleria di
Berlino.
Sollecitati ad occuparsi degli affari italiani, i banchieri tedeschi
furono naturalmente portati a considerare la convenienza della
creazione in Italia di un istituto col quale potessero esercitare
più facilmente il controllo su quegli affari.
Ritornato appena al governo e informato del progetto, ancora vago,
manifestato dal capo della casa Bleichroeder, sig. Schwabach,
all'ambasciatore conte Lanza, il 21 dicembre 1893 Crispi fece
mandare parole d'incoraggiamento. Come l'idea divenisse
realtà risulta dai documenti che seguono:
«Berlino, 3 giugno 1894.
Signor Ministro,
Esce da casa mia questo momento il signor Schwabach, Capo della Casa
Bleichroeder, il quale più di noi forse desidera creare una
Banca in Italia col concorso di capitali tedeschi ed austriaci, e
che sempre fu trattenuto dai suoi soci in quest'affare, in attesa
della soluzione delle nostre questioni finanziarie pendenti davanti
al Parlamento. Egli vorrebbe, se ancora il R. Governo avrà un
voto favorevole in questi giorni, tentare di nuovo trascinare i suoi
compagni ad una sollecita decisione e crede farsi forte di ottenere
lo scopo se solo potesse aver fra mani un documento che provi il R.
Governo vedrebbe con piacere l'istituzione della Banca in discorso.
Che questo sia il sentimento del R. Governo ebbi già a
dichiararlo in tutti i modi, in conformità agli ordini
ricevuti; il signor Schwabach però insistè nella sua
domanda, dicendomi che gli basterebbe una parola del Presidente del
Consiglio, la quale confermasse il discorso che S. E. avrebbe, pare,
tenuto a certo signor Veil37 venuto qui ultimamente, il quale
rientrato in Italia avrebbe appunto parlato a Roma con Sua
Eccellenza Crispi. Ignoro quanto siavi di vero in ciò che il
Veil ha riferito qui dopo quel discorso; ad ogni modo non potendo la
cosa impegnare a nulla, io sarei del remissivo parere volesse Sua
Eccellenza il Presidente del Consiglio spedirmi un telegramma che io
possa far vedere allo Schwabach e concepito all'incirca così:
«Ringraziola comunicazioni fatte: come Vostra Eccellenza sa,
R. Governo vedrebbe con sommo piacere l'istituzione di una Banca
tedesca in Italia e spera che i signori Banchieri tedeschi, i quali
paiono disposti a concorrere coi loro capitali alla creazione della
Banca, si persuaderanno che sia, anche nel loro interesse, giunto il
momento di prendere una decisione.»
Lanza.»
«Ambasciata Italiana,
Berlino.
Roma, 7 giugno 1894.
[Telegramma]
Ringraziola comunicazione fatta. Come V. E. sa, R. Governo vedrebbe
con sommo piacere l'istituzione di una Banca tedesca in Italia e
spera che i signori banchieri germanici, i quali paiono disposti a
concorrere coi loro capitali alla sua creazione, si persuaderanno
che anche nel loro interesse, sia giunto il momento di prendere una
decisione.
Crispi.»
«Berlino, il 9-6-1894.
Capo della Casa Bleichroeder, con lettera di iersera, m'informa che
15 corrente saranno Milano delegati per costituzione nota Banca
italo-germanica. Di là si porteranno a Roma. Aggiunge sperare
Banca possa essere costituita fine corrente. Segue rapporto.
Lanza.»
«Berlino, 10 giugno 1894.
Signor Ministro,
(Riservato). Facendo seguito al mio telegramma di ieri, pregiomi
trasmettere qui unito a V. E. copia della lettera direttami dal
signor Schwabach, capo della Casa Bleichroeder, per comunicarmi la
decisione presa dal gruppo da lui rappresentato, di fare incontrare
il 15 corrente a Milano i propri delegati con quelli
dell'Austria-Ungheria e della Svizzera, per risolvere le questioni
le più importanti di massima, e venire in seguito a Roma.
Egli soggiunge sperare una prossima favorevole soluzione della
questione.
Lanza.»
[Annesso]
«Berlin, le 9 juin 1894.
Excellence,
Mon intention était de vous faire personnellement la
communication qui suit, mais la conférence a duré si
longtemps que je n'ai plus pu arriver à temps pour me
présenter à V. E. Comme d'un autre côté
nous avons demain dimanche et que je voudrais bien pouvoir me
reposer un jour sur ma propriété à la campagne,
mes nouvelles ne vous parviendraient que Lundi très tard, de
sorte que je me permets de choisir la voie épistolaire.
Les amis ont pris note avec satisfaction des informations que
V. E. a bien voulu nous faire, et ont décidé par suite
d'envoyer des délégués en Italie.
Délégués qui se rencontreront à Milan le
15 juin a. c. avec leurs collègues Austro-Hongrois et Suisses
pour résoudre en Italie même les questions les plus
importantes, telles que: qui du côté Italien devra
participer à l'affaire, et ce qui concerne la question du
personnel.
Aussitôt que l'on se sera entendu par rapport au Groupe
à former, tous les Délégués ou quelques
uns d'eux, se rendront à Rome pour les négociations
avec monsieur le ministre, de sorte que j'ose espérer que la
fondation de la Banque pourra se faire avant la fin du mois.
Tout en laissant à V. E. le choix si elle veut porter cette
information confidentielle à la connaissance de S. E. le
président du Ministère Crispi, je prie V. E.
d'agréer (ecc.)
(Signe): Schwabach.»
«Berlino, il 23 giugno 1894.
Constami che Casa Bleichroeder ha versato Banca Imperiale nome
fondatori Banca Commerciale Italiana somma marchi quattro milioni
ottocento sessantamila a disposizione Banco Sicilia in Milano.
Lanza.»
Con cinque milioni, adunque, fu fondata in Milano la Banca
Commerciale Italiana, che ha oggi centocinquanta milioni di capitale
e un larghissimo giro d'affari in tutto il Regno.
A questo Istituto è legato il nome di Crispi, che gli
creò l'ambiente propizio e gli dette l'impulso a nascere.
L'ITALIA E IL VATICANO.
Capitolo Settimo.
Un incidente italo-portoghese.
Il Re Fedelissimo a Roma pel Re d'Italia. - L'annunzio ufficiale
della visita. - Il Vaticano mette il veto. - Imbarazzo e indecisione
del Re Carlo e del suo governo. - Re Carlo si raccomanda a Crispi. -
Linguaggio severo della stampa portoghese. - Re Carlo prega di
essere ricevuto a Monza; rifiuto di Re Umberto. - Rinunzia alla
visita. - Crispi rompe le relazioni diplomatiche col Portogallo. -
Colloquio Crispi-Vasconcellos. - Giudizii di diplomatici sulla
condotta del Ministero portoghese. - Le origini remote della caduta
del regime monarchico nel Portogallo.
Il primo di ottobre 1895 il Sotto-segretario di Stato del Ministero
degli affari esteri, on. Adamoli, partecipava all'on. Crispi:
«Il Ministro di Portogallo presso la Real Corte è stato
oggi alla Consulta per annunciarmi ufficialmente che S. M. il Re di
Portogallo verrà far visita in Roma al nostro Augusto
Sovrano.
Il signor di Carvalho e Vasconcellos ha soggiunto che l'arrivo di S.
M. il Re di Portogallo in Roma avrà luogo tra il 15 ed il 20
del corrente mese di ottobre. Egli si riserva di indicarlo con
maggior precisione».
Per fare analoga comunicazione al Re, il Ministro Carvalho e
Vasconcellos partiva per Monza lo stesso giorno primo di ottobre.
Don Carlos, Re di Portogallo e figlio di Maria Pia, sorella del Re
Umberto, muoveva dal suo paese un giorno dopo per fare la prima
visita dacchè era salito al trono ai capi degli Stati amici.
Da Lisbona, in una corrispondenza in data 3 di ottobre, si
annunziava:
«Il Re è partito ieri a mezzogiorno. Oggi sarà a
San Sebastiano, ospite della Reggente di Spagna e dopo dimani
giungerà a Parigi. I giornali dicono che vi si
tratterrà una diecina di giorni, ma ho motivo di credere che
egli prolungherà oltre quel termine la durata della sua
permanenza in Francia. Verrà in seguito la visita di Sua
Maestà alla nostra Real Corte, d'onde proseguirà per
Berlino terminando il suo giro con un breve soggiorno in
Inghilterra. È commentata l'esclusione della Corte
Austro-Ungarica dal programma di questo viaggio ufficiale, tanto
più che la stampa ispirata dai circoli di Corte lo dichiara
provocato dal solo desiderio di visitare i Sovrani e Capi degli
Stati amici. In quanto alla Russia, la lontananza e le scarse
relazioni che passano tra l'uno e l'altro Stato bastano a spiegare
in modo più o meno soddisfacente, come non sia compresa
nell'itinerario una visita alla Corte di Pietroburgo.»
Lo stesso giorno 3 di ottobre un telegramma dell'Incaricato d'affari
italiano a Lisbona, di Cariati, avvertiva:
«Mi consta da fonte sicura ed in via strettamente
confidenziale, che il Nunzio apostolico ritiene che la Santa Sede
romperà probabilmente le sue relazioni diplomatiche col
Portogallo in conseguenza della visita del Re a Roma, dove Sua
Santità ricuserà, in ogni caso, di riceverlo.»
Un altro telegramma dello stesso Ministro, in data 5 ottobre, era
così concepito:
«Ministro degli affari esteri, col quale ho avuto una
conversazione mi ha confermato poc'anzi che la visita del Re di
Portogallo a Roma sarebbe certamente seguita dal richiamo del
Nunzio, il che avrà conseguenze gravissime per questo paese.
Governo portoghese, egli ha detto, è pronto a tutto per
compiacere al Re e al Governo italiano, ma non può
considerare senza grave apprensione una simile
eventualità che l'Italia non può desiderare,
giacchè invece di creare un precedente favorevole, non
farebbe che precludere definitivamente ogni ulteriore
possibilità di visite di Sovrani e Capi di Stato a Roma.
È nello interesse del Governo italiano di lasciare questa
questione impregiudicata, tanto più nel caso presente essendo
abbondantemente noti i sentimenti di profonda affezione che legano
le due Corti e la simpatia tradizionale delle due Nazioni.»
Il viaggio a Roma del re Carlo, spontaneamente deciso e annunziato,
incontrava dunque un ostacolo che inconsideratamente non era stato
preveduto. Il signor Pinto de Soveral, ministro degli affari esteri
del Portogallo, si scusava rigettando la responsabilità della
decisione della visita a Roma sul defunto suo predecessore, ma egli
era già in carica il 1.° ottobre quando di quella visita
ne fu dato l'annunzio ufficiale. Crispi, informato esattamente di
quanto avveniva in Vaticano, il 7 telegrafava al Primo Aiutante di
Campo del Re, generale Ponzio Vaglia:
«Il Papa si oppone al viaggio di Re Carlo a Roma. La
Segreteria di Stato pontificia ha scritto a Lisbona protestando che
ove le sue domande fossero respinte richiamerebbe il Nunzio
accreditato presso la Corte portoghese.
Pregola informare S. M. il Re.»
Contemporaneamente il re Carlo, ch'era giunto a Parigi, pregava il
re Umberto di toglierlo dall'imbarazzo ricevendolo in incognito a
Monza. Ma questa soluzione non era possibile dopo la partecipazione
ufficiale della visita a Roma e la pubblicità che se n'era
fatta. Alla comunicazione ricevuta della negativa fatta da Umberto
al suo reale nipote, Crispi rispondeva:
«S. E. Ponzio Vaglia
Monza.
Roma, 9 ottobre 1895.
Il contegno del nostro Augusto Sovrano non poteva essere che quello
che dalla M. S. mi attendevo. Noi non abbiamo bisogno di questo
minuscolo Re di Portogallo, il quale non ha importanza alcuna in
Europa. Se egli non può venire in Roma, che resti a casa sua
- e siccome il pentimento suo e del suo Governo indica una
manifestazione di principii a noi contraria, ritireremo il nostro
Ministro da Lisbona, come risposta alla sua condotta.
La prego di voler rassegnare a S. M. i miei devoti omaggi.
Crispi.»
Il re Carlo, tra la negativa dello Zio di riceverlo altrove che a
Roma e l'annunzio da Lisbona che il Papa avrebbe considerato la sua
andata a Roma come «un insulto personale», da Sovrano
«cattolico e fedelissimo» quale era, prese la
risoluzione di rinunziare al suo viaggio in Italia. Ma poichè
doveva preoccuparsi delle conseguenze di essa, fece giungere a
Crispi la preghiera di considerare benevolmente la sua posizione e
per mezzo dell'ambasciatore italiano a Parigi, gli fece pervenire
l'assicurazione che sarebbero state date dal suo governo «le
più amichevoli spiegazioni».
A questa comunicazione Crispi obbiettava:
«S. E. Tornielli
Parigi.
15 ottobre 1895.
Le notizie ch'ella mi dà col suo telegramma di ieri non sono
segrete: esse furono contemporaneamente mandate col telegrafo ai
giornali di Roma.
Ringrazio S. M. Fedelissima delle comunicazioni di cui l'ha
incaricato. Ma non posso nascondere che ciò ch'è
accaduto è abbastanza deplorevole, e non sarebbe avvenuto se
il Governo portoghese avesse ben valutato il progetto del viaggio
del Re in Italia, ed avesse saputo prevederne le conseguenze.
La spiegazione che S. M. ha voluto dare del mancato viaggio, se
testimonia della sua personale delicatezza e del suo desiderio di
evitare penose impressioni in Italia, dopo le polemiche delle quali
da dieci giorni sono pieni i giornali di tutta Europa non può
contentare la pubblica opinione in Italia.
E fatalmente ieri stesso, dal Gabinetto di S. M. il Re Carlo, usciva
una conversazione, riferita dai giornali di qui, che la spiegazione
sovrana mette un po' in dubbio.
Un complesso di circostanze, come si espresse S. M. di Portogallo,
ma tutte all'infuori di noi, hanno reso la posizione assai
difficile.
Per quanto personalmente deferente alla persona di Re Carlo, io devo
preoccuparmi della pubblica opinione del mio paese, la quale nello
sgradevole incidente non può non vedere offeso il sentimento
nazionale.
Crispi.»
L'intervista alla quale alludeva Crispi era stata accordata dal
ministro di Portogallo a Parigi e dal Segretario particolare del re
Carlo al corrispondente della Tribuna di Roma, e in essa i due
personaggi avevano dichiarato che il re Carlo non faceva
l'annunziata visita in Italia perchè non poteva prolungare la
sua assenza dal Portogallo. D'altronde, il Nunzio pontificio a
Lisbona aveva fatto sapere ai giornali cattolici di quella capitale
il vero motivo della decisione del Sovrano portoghese.
Un grave fermento si notava frattanto in Portogallo che faceva
temere delle sorti della dinastia. Nella stampa, anche in quella
più ligia alle istituzioni monarchiche, e nei circoli
politici della capitale portoghese, il biasimo diveniva ogni giorno
più acerbo. Il Jornal do Commercio, autorevole e diffuso
organo del partito monarchico-progressista, pubblicava nei numeri
del 15, 16 e 18 ottobre articoli violenti, dei quali citiamo qualche
brano:
«.... Abbiamo posto in dubbio, fin da principio, la
convenienza politica di tal viaggio, ma eravamo lungi dal poter
prevedere gli incidenti, che si vanno manifestando e che non sono
solo un disdoro pel Re, ma altresì un obbrobrio per la
Nazione che egli rappresenta.
Chi lasciò partire così alla ventura di quanto potesse
succedere, il Re di Portogallo?
Chi doveva essere, se non questo Governo senza scrupoli...?
Giacchè consigliò il viaggio reale o lo
consentì, gli incombeva di formularne il programma di
completo accordo coi Governi delle Nazioni che il Re proponevasi di
visitare.
Non fece ciò, lo trascurò interamente, ed il risultato
eccolo, senza parlare del rimanente: - un conflitto col proprio zio
Umberto, o col Santo Padre, a scelta, il quale può tosto
risolversi in una rottura di relazioni, o, nel migliore dei casi, in
un fiasco di più pel Portogallo; e, questa volta, ricadendo
sulla stessa corona del suo Sovrano, al cospetto dell'intera
Europa.»
«.... Il Governo non ha neppure il decoro di tentare una
difesa; e neppure ha l'alterezza di assumere le rispettive
responsabilità.
Aspettavamo oggi alcune spiegazioni alla vergognosa situazione in
cui trovasi il real viaggio, tanto preconizzato, allorchè fu
annunziato, come sommamente benefico pel paese.... Il Governo nega
l'esistenza dell'incidente diplomatico nel quale si avvolse colla
Curia e col Governo del Quirinale, non si difende della propria
imprevidenza, non assume la minima particella di
responsabilità, ed al contrario, la scarica sopra.... chi?
Sul Re, sullo stesso Re.
Dubitate?
Aprite il Diario de Noticias e leggete:
«Nulla è ancora deciso circa l'andata di S. M. il Re a
Roma, questo viaggio dipendendo dai piani che farà Sua
Maestà....»
Ciò che sembra incredibile, è scritto, e scritto col
tono di una informazione ufficiale. E, infatti, è noto essere
il Diario de Noticias uno dei ricettacoli delle informazioni del
signor Presidente del Consiglio.
In detta piccola notizia, d'apparenza così innocente,
contiensi tuttavia questa enormità: di ciò che
succede, la colpa non è del Governo, poichè i piani
del viaggio non sono suoi, ma del Re.
Sono del Re?
Lo saranno! Il Diario de Noticias che lo afferma, lo saprà ed
in tal caso è da deplorarsi che il Re non sia stato
all'altezza da delinearli. Ma non è a lui che legalmente si
possono far risalire responsabilità, poichè l'articolo
della Carta che lo fa irresponsabile è tra quelli che la
Dittatura non revocò....»
«.... I sorrisi ironici cominciano già a spuntare nella
stampa straniera, diretti specialmente contro i consiglieri
responsabili del Re di Portogallo, i quali gli preparano
quest'avventura, ma striscianti già sulla stessa
persona del Capo della Nazione Portoghese, per modo che
potrà benissimo avvenire quanto prima, che i cronisti
parigini comincino a ingrandire la già troppo pesante
leggenda della gaité delle cose portoghesi.
Ma il Governo più nulla sente di ciò...!
Sconcertato dall'inatteso incidente, conscio del suo grave errore e
delle sue enormi responsabilità, sta come se fosse stato
spaventato da un fulmine; perdette la facoltà di sentire, di
pensare, di deliberare e di procedere.
È in stato di completa paralisi, di sincope; e per quanto si
riuniscano a consiglio i dittatori, poco più conseguono, che
di guardarsi gli uni gli altri, e di grattarsi automaticamente la
testa, senza che ciò valga a dissipare la prostrazione in cui
trovasi il suo contenuto.
E mentre i ministri non risolvono, il Re Don Carlos, in attesa che
risolvano, si mantiene in Parigi, nel non interrotto rinnovarsi di
caccie, corse e teatri, come se estraneo agli avvenimenti, nei quali
è implicata la sua personalità, ed in una evidenza, in
faccia all'Europa, secondo noi poco propizia ai suoi interessi ed a
quelli del Paese.
È indispensabile dunque, che il Governo si svegli, e prenda
una deliberazione, che tronchi prontamente l'incidente, il quale se
non può ormai essere soppresso, conviene non ingrossi e non
si protragga, poichè il Portogallo ed il suo Sovrano nulla
hanno da guadagnare in ciò; al contrario.
Il male è fatto, lo scandalo è dato e tutto ciò
è ormai irrimediabile; il Re non può andare in
Italia....»
Il governo portoghese, in realtà, rimase per parecchi giorni
indeciso sulla via da prendere; o meglio, deciso a non affrontare le
ire del Vaticano, non sapeva quali potessero essere le
«spiegazioni amichevoli» che il re Carlo avevagli
ordinato di dare a Crispi. Il 17 ottobre, l'Incaricato d'affari
italiano a Lisbona si recò dal ministro degli affari esteri
per domandargli quanto vi fosse di vero nell'affermazione di
parecchi giornali che S. M. Fedelissima avesse deciso di astenersi
dalla sua visita a Roma. Il signor de Soveral rispose che
«l'idea del viaggio a Roma non era definitivamente
abbandonata» e affermò che «il Governo portoghese
non si era impegnato con la S. Sede a rinunziarvi». Ed
esprimendo il profondo rammarico suo per le spiacevoli complicazioni
sorte dal viaggio del Re, aggiunse che quel viaggio aveva «una
grande importanza politica, specialmente nei rapporti con la
Germania e l'Inghilterra, date le pendenti questioni
coloniali».
Poco tempo prima il de Soveral aveva assicurato il rappresentante di
un'altra grande potenza che il Re si era messo in viaggio «per
distrarsi»!
Due giorni dopo un giornale ufficioso del gabinetto portoghese, La
Tarde, pubblicava un comunicato del tenore seguente:
«Ci consta che il Re non andrà per adesso in Italia,
proseguendo invece il suo viaggio per la Germania e
l'Inghilterra.»
Il Diario de Noticias, anch'esso governativo, riproduceva cotesto
comunicato facendolo seguire da un telegramma del suo corrispondente
parigino così redatto:
«Parigi 19. - Essendo stato impossibile ottenere dal Governo
italiano che il Re di Portogallo fosse ricevuto altrove che a Roma,
e visto l'atteggiamento del Papa, Sua Maestà ha deciso di
rinunziare alla sua visita in Italia, proseguendo da qui per la
Germania. È giunto il signor Visconte de Pindella (Ministro
di Portogallo a Berlino) il quale accompagnerà il Re a
Berlino».
L'ispirazione ufficiale di questa notizia era indiscutibile, ma
intanto la Legazione italiana non riceveva alcuna comunicazione. Il
ministro de Soveral era così imbarazzato, che per qualche
giorno rimase invisibile al Ministero degli Affari esteri
oltrecchè al di Cariati, anche ai rappresentanti degli altri
Stati. La partecipazione dell'abbandono del viaggio a Roma fu fatta
il 21 ottobre, contemporaneamente a Lisbona e alla Consulta.
Il governo italiano non volle aggravare la situazione. Speciali
riguardi erano da esso dovuti alla Corte portoghese imparentata con
la Casa reale d'Italia, ma non poteva d'altronde rinunziare a
precisare dinanzi all'opinione pubblica italiana ed all'Europa come
lo spiacevole incidente fosse nato e si fosse svolto.
Cosicchè quando il 21 ottobre il ministro Carvalho
diresse una nota al nostro Ministro degli Affari esteri nella
quale si partecipava che la visita del re Carlo era aggiornata
indefinitamente «per l'assenza da Roma del re Umberto e per
l'impegno del re Carlo di trovarsi a giorno fisso presso altra
Corte», Crispi dovette, a salvaguardia della
responsabilità e dignità del governo italiano, esporre
in un comunicato dell'Agenzia Stefani la verità e annunziare
che all'Incaricato d'affari d'Italia a Lisbona era stato dato
l'ordine di interrompere le relazioni diplomatiche col governo
portoghese e di limitarsi alla trattazione degli affari correnti.
Una frase del comunicato fece impressione, quella che
«augurava cordialmente al Portogallo di recuperare la propria
indipendenza»38.
Nel Diario di Crispi, sotto la data del 21 ottobre ore 21-1/2 si
legge:
«Visita di Carvalho e Vasconcellos in casa mia. Il
Vasconcellos è una mia vecchia conoscenza. Lo conobbi a
Lisbona nell'ottobre 1858. Dopo i saluti consueti, egli
accennò all'incidente del viaggio del Re Carlo. Risposi:
- Quello che è avvenuto è deplorevole. Amico vostro
sin dal 1858, vi ricevo quale amico e non quale ministro di S. M.
Fedelissima presso il Re d'Italia.
E quale amico vi dirò che il vostro Governo ha agito con
molta leggerezza. Noi non avevamo chiesta la visita del vostro Re, e
non ce n'era bisogno.
- È vero, e sono io che il primo ottobre venni a comunicare
l'avviso ufficiale al sottosegretario di Stato, Adamoli. Venni qui
da voi, ma non vi trovai. Andai poscia a Monza per darne
partecipazione a S. M. il Re Umberto.
- Or bene, fatto ciò, il vostro Governo doveva andare sino al
fondo, e non doveva cedere alle minaccie del Papa. Voi lo sapete, il
Vaticano fa guerra alla monarchia italiana, non ostante il nostro
contegno benevolo e corretto verso il medesimo. È una
questione interna italiana, e voi vi avete dato carattere
internazionale.
Noi non ci adonteremo per questo. Ma innanzi al mondo, voi avete
preferito il Papa al Re d'Italia, avete soddisfatto il nostro
nemico, il quale ritiene l'azione negativa di Re Carlo quale
vittoria della Santa Sede. Per ora ci limitiamo a non mandarvi alcun
ministro. Vedremo dappoi quello che a noi converrà.
- Fo appello alla vostra amicizia di comporre il dissidio. Non ve lo
domando per me, ma pel mio povero paese.
- Comprendo la vostra premura; ma nulla ho che fare per ora. Ve lo
ripeto, quale ministro del Portogallo non avrei dovuto ricevervi. Vi
ho ricevuto e parlato come amico e questo nostro colloquio non ha
nulla di ufficiale.
Dopo un breve silenzio, il Vasconcellos si è levato e ci
siamo divisi cordialmente.»
La rottura delle relazioni diplomatiche con l'Italia ferì
l'amor proprio del popolo portoghese e fu un grave colpo al
prestigio del Governo e della Dinastia. Il veto del Vaticano
raggiunse lo scopo di turbare ancor più un paese le cui
condizioni interne erano già difficili. Il Papato, il quale
non si preoccupò del male che sapeva di fare, fornì la
prova della sua politica nefasta che ogni considerazione subordinava
alla cieca ostilità all'Italia. Ma nessun giornale portoghese
potè dolersi della decisione del governo italiano. I fogli
liberali, al contrario, giustificarono questo con un linguaggio che
non era mai stato adoperato. Il Jornal do Commercio interpretava
fedelmente il sentimento della grande maggioranza del suo paese nel
seguente articolo del 26 ottobre:
«Si è veduta mai maggiore incoscienza?
Il Governo di S. M. il Re d'Italia, di un Sovrano che è
nè più nè meno che fratello di S. M. la Regina
Donna Maria Pia, interrompe le sue relazioni col nostro Governo.
E qual è l'atteggiamento del Governo Portoghese?
Si limita a far inserire nel giornale officioso La Tarde quanto
segue:
«Il Diario de Noticias che accenna a questa nota la commenta
nei termini seguenti:
.... «Sembra pertanto dal modo in cui la stessa stampa
italiana apprezza i fatti, che questo raffreddamento sarà di
breve durata».
......................
«Concordano pienamente colle nostre le informazioni del nostro
collega».
Questo, in poche parole, vuol dire semplicemente quanto segue:
«Il Governo italiano sta di cattivo umore? Non c'è da
preoccuparsene: gli passerà!»
Tali sono le soddisfazioni che il Governo crede di dare al Re
Umberto, cioè al monarca più strettamente imparentato
col Re Don Carlos, per la sconvenienza [semcerimonia] del
procedimento che adoperò verso di Lui.
Perchè la verità è questa: Il Governo
portoghese - secondo le sue dichiarazioni - volle usare verso il Re
d'Italia ogni cortesia ed amabilità, ma - in conclusione -
ciò che si osserva è che l'effetto di tale cortesia e
di tale amabilità fu semplicemente quello di lasciare il
monarca italiano perfettamente paralizzato dinanzi al Papa e di far
constare che Roma è appena la capitale d'Italia.... in
partibus.
Ciò fatto, il Governo portoghese poco si cura del giustissimo
risentimento dell'Italia e telegrafa al Re di Portogallo che non se
ne dia pensiero, che il risentimento dell'Augusto suo zio non
è che un capriccio infantile perchè non fu fatta la
sua volontà, che il capriccio gli passerà e che,
frattanto, Sua Maestà può continuare a divertirsi per
avere una distrazione dai mali che il paese sta soffrendo e per non
preoccuparsi soverchiamente delle notizie che ci giungono
dall'Affrica e dalle Indie.
Lo diciamo in coscienza: tanta insensatezza, tanto sconoscimento dei
proprii doveri, tanta inconsideratezza, verso il paese e pei
sagrificii che esso fa, non possono che essere precursori di gravi
avvenimenti perchè sono sintomi indubitabili di uno stato di
dissoluzione dei poteri dirigenti che ne preannunziano già
chiaramente l'ora estrema.
No! Le cose non possono continuare così. Il paese può
pagare col suo danaro e col suo sangue le aberrazioni dei suoi
governanti, ma non può tollerare che in faccia all'Europa, la
sua onestà, il suo decoro, la sua dignità, la sua
fierezza siano resi solidali delle spregevoli manovre nelle quali si
tenta involgerlo.
No! l'opinione protesta ed è necessario che il Re intenda, ed
intenda bene, che se acconsente a lasciarsi trascinare alla
sconsiderazione universale alla quale lo conducono gli errori dei
suoi Ministri ed i suoi propri errori, il paese - lo stesso paese
monarchico - non vuol essere travolto in questa fiumana ed altamente
protesta contro questi procedimenti di governo e di diplomazia, nei
quali l'illegalità, la violenza, la leggerezza ed il solo
desiderio di godere - al coperto della più pazza incoscienza
- si dànno la mano per annichilirci e disonorarci.
Noi non vogliamo mancare al rispetto dovuto al Re, ma è
indispensabile convincerlo che questo stato di cose non può
continuare. Non v'è una voce sola che non lo dichiari. Nobili
e plebei, vecchi e giovani, ricchi e poveri, tutti sono unanimi nel
riconoscere e nel lamentare che il Re ed il suo Governo non
soddisfano le aspirazioni politiche e morali della nazione.
Il tedio incomincia ad invadere tutte le classi, già spunta
il disprezzo e se il Re non capisce l'urgenza di retrocedere sulla
via che ha presa liberandosi dal nefasto suo governo ed ispirandosi
a migliori e più serii esempi, male gliene avverrà,
rovinerà nel dispregio pubblico e sè stesso e la
Corona gloriosa di cui fu erede.
Lunedì scorso partì per l'India la spedizione
comandata dal proprio fratello del Re e le tristi notizie che ci
giungono da Goa non sono tali che possiamo avere piena fiducia
sull'esito finale della lotta e dei sacrificii cui vanno incontro i
nostri soldati.
Non sarebbe stata questa una propizia occasione perchè il Re
tornasse direttamente in Portogallo, ponendo a tempo un termine
dignitoso all'incidente italiano?
Tutto lo indicava, ma tanto il Re quanto il suo Governo, ciechi
l'uno al par dell'altro, non lo videro, e la vigilia di quella
giornata grave e penosa Sua Maestà non trovò nulla di
più opportuno che di andarsi a distrarre nel teatro della
«Gaité» dagli alti suoi doveri di capo dello
Stato, e di rammentare le pagine della nostra epopea indiana....
ascoltando i «couplets» dei «Vingt huit jours de
Clairette».
Che ufficiali e soldati abbandonino le loro famiglie, offrendo in
sacrificio alla patria la miglior parte del loro sangue; che il
contribuente sparga il suo sudore per soddisfare le esigenze della
nazione....
In cima a tutto ciò passa trionfante il Re di Portogallo,
violando i suoi giuramenti, calpestando le leggi, senz'altro
pensiero ostensibile se non quello di menar vita allegra e senza
fastidi.
Per quanto sia duro a dirsi, vi sono due cose che nessuno
negherà: cioè la verità fotografica del quadro
che abbiamo tracciato, l'opportunità di gridare ad alta e
chiara voce ciò che tutti nell'intimità riconoscono.
Siccome non chiediamo dalla Corona la soddisfazione di alcuna
ambizione e poichè, al contrario, siamo mossi da un
irresistibile impulso di civico dovere, assumiamo di buon grado
questa ingrata missione di dire la verità al Re, e non la
tradiremo perchè non siamo mossi da odii, nè da
timore.
Monarchici e conservatori liberali quali siamo, noi sappiamo che il
nostro posto è questo!»
La soluzione data all'incidente dal Governo italiano fu giudicata
favorevolmente da quasi tutta Europa (fece eccezione, naturalmente,
la stampa clericale), e raffreddò le accoglienze che il re
Carlo ebbe in Germania e in Inghilterra.
Da Berlino, l'ambasciatore conte Lanza scriveva in data 20 e 31
ottobre:
«.... Il barone Marschall si espresse, fin d'allora, meco in
termini sdegnosi per l'incapacità, la debolezza, del resto
ben note, del Gabinetto di Lisbona. S. M. Fedelissima
arriverà qui il 1.° novembre. Essa aveva fatto chiedere
di anticipare di una settimana il suo arrivo, ma S. M. l'Imperatore
rispose che non poteva riceverlo prima di quell'epoca, già
precedentemente fissata. Di feste a Corte non si parla finora e Sua
Maestà non farà col re Carlos, che si tratterrà
qui pochi giorni, molti complimenti, tanto più dopo
l'incidente del viaggio a Roma....»
«Segretario di Stato dipartimento Esteri quasi volendo scusare
ricevimento Re del Portogallo, mi disse iersera confidenzialmente
che, stante l'incidente viaggio Roma, feste sono state ridotte
stretto limite convenienza, non vi sarà ricevimento ufficiale
Berlino, ma solo al Neuen Palais a Potsdam ove Re del Portogallo
alloggia. Sabato pranzo a Potsdam senza invito Corpo diplomatico.
Domenica Loro Maestà interverranno Opera ove avrà
luogo non la così detta rappresentazione di gala, ma soltanto
teatro paré. Giornali parlano appena arrivo Re del
Portogallo.»
Al teatro l'Imperatore fece rappresentare l'opera Rienzi,
divertendosi a far vedere al suo ospite Roma sulla scena.
In Inghilterra non fu meno avvertito il danno che l'incidente aveva
prodotto, e l'ambasciatore Ferrero riferiva:
«Salisbury, mostrandosi vivamente preoccupato di quanto
potrebbe avvenire in Portogallo, qualora nel Parlamento italiano
qualche interrogazione intorno al noto incidente della visita
suscitasse espressioni vivaci, mi ha chiesto caldamente di pregare
il Regio Governo di evitare possibilmente ogni interpellanza al
riguardo nella Camera. Egli giunge perfino a temere che il
contraccolpo nel Parlamento portoghese potrebbe condurre alla caduta
di quella dinastia.»
Alla caduta della monarchia portoghese, avvenuta dopo l'inaudita
strage della famiglia reale, non fu estranea la supina
subordinazione dello Stato all'influenza clericale, che
determinò l'incidente del quale abbiamo narrato le fasi.
È giustizia ricordare che il malcontento popolare aveva
origini remote, ed era andato sempre crescendo. Quando
penetrò nell'esercito decise delle sorti del regime
monarchico.
Sin dal dicembre 1889 si scriveva a Crispi da Berlino:
«Fortunatamente non esiste alcun generale abbastanza in vista
per mettersi, come al Brasile, alla testa di un pronunciamento
simile a quello che ha rovesciato Don Pietro II con un colpo di mano
che ha avuto quasi le proporzioni di un escamotage. Altrimenti, al
primo tentativo di adoperare a Lisbona un tale procedimento, la
Dinastia «crollerebbe come un castello di carta». Una
rivoluzione popolare sembra in Portogallo tanto poco inverosimile
come era a Rio de Janeiro; l'esercito, nel suo insieme, è
senza dubbio animato da sentimenti di onore e di disciplina, ma a
condizione che abbia un capo di sua fiducia. Del resto, la
rivoluzione o evoluzione operatasi recentemente nel Brasile prova
che i mestatori non hanno bisogno del concorso delle masse,
purchè dispongano di generali come i capi del pronunciamento
brasiliano. Importa quindi che il Sovrano sappia guadagnare le
simpatie dell'esercito, circondarsi di ufficiali di provata
fedeltà, e sopratutto ch'egli possa fare assegnamento sul
comandante militare di Lisbona....
Se il movimento repubblicano avesse, come al Brasile, trionfo in
Portogallo, e in seguito forse anche in Spagna, tale avvenimento
sarebbe un danno grave per il principio monarchico in Europa e un
vantaggio per le istituzioni della Francia, che vorrebbe trovare
dappertutto alleati contro la Germania e l'Italia.»
Crispi non aveva mancato di dare consigli al governo portoghese, e
si era adoperato con successo presso l'Inghilterra per una soluzione
amichevole del conflitto sorto per le colonie anglo-portoghesi
nell'Africa occidentale. In una lettera - si noti - dell'11 gennaio
1891, il ministro d'Italia a Lisbona scriveva a Crispi:
«Dopo il mio ritorno fui ricevuto in udienza particolare da S.
M. il Re, il quale mi espresse il suo gradimento pei buoni uffici
prestati da V. E. al Portogallo nella sua vertenza coll'Inghilterra.
Il Ministro degli affari Esteri mi incaricò di ringraziare V.
E. pel benevolo e costante concorso prestato dal R. Governo in
questi difficili momenti al Governo Portoghese.
Colsi l'occasione per eseguire le istruzioni datemi verbalmente da
V. E. ed esposi al signor Du Bocage la penosa impressione che desta
la soverchia indulgenza del Governo Portoghese verso il partito
repubblicano per gli inconvenienti che ne possono risultare a danno
delle istituzioni, e sovratutto per la rilassatezza della disciplina
nell'esercito.
Il Ministro mi assicurò che la condizione interna si era
molto migliorata e che il Gabinetto si studiava di mantenere
l'ordine e che il partito repubblicano non era da temersi che in
caso di nuovi aggravii da parte dell'Inghilterra, che desterebbero
grande irritazione nel paese, la quale sarebbe poi sfruttata a suo
pro dal partito repubblicano. Le notizie poi circa allo spirito
dell'esercito essere esagerate.
Non devo celare a V. E. che il mio discorso non sortì molto
effetto. Il signor Du Bocage accolse le mie parole come espressione
della premura che dimostra il R. Governo verso il Portogallo, ma
parmi che egli non si renda conto dei pericoli di una simile
condizione di cose. Tale è la fiacchezza degli ordini di
Governo e dei costumi politici in questo paese, che ben
difficilmente si muteranno le cose ed il mio collega di Spagna, il
quale, per incarico del suo Governo, tenne un simile linguaggio, ha
la stessa opinione.
Il Re mi parve maggiormente impressionato e mi disse, e forse con
ragione, essere ora assai difficile di prendere provvedimenti contro
ufficiali, ai quali finora si era lasciata la più sconfinata
libertà di parola e di azione.
Intanto, malgrado che gli spiriti siano ora più calmi e che i
partiti apparentemente mettano a tacere i loro dissensi, il partito
repubblicano continua la sua propaganda.
Si tenne in questi giorni un Congresso del partito repubblicano a
Lisbona, con piena libertà, e si addivenne alla nomina di un
nuovo Direttorio, nel quale figurano due Maggiori Generali in
servizio attivo, sebbene non provvisti di comando di truppe, i
signori Latino Coelho e Souza Brandão.
Altro sintomo poco rassicurante circa la disciplina dell'esercito si
è l'adesione di molti ufficiali all'associazione della
«Lega Liberale», fondata sotto parvenza di
un'associazione patriottica dal signor Fuschini, deputato del gruppo
parlamentare detto della Sinistra dinastica. L'associazione non ha
carattere repubblicano, ma è certo cosa poco consentanea allo
spirito di disciplina militare questa partecipazione di ufficiali a
manifestazioni politiche.
Nel riferire le condizioni attuali del Portogallo mi giova ripetere
quanto ho già esposto nella mia corrispondenza in proposito,
cioè che i costumi e l'indole di questo popolo attenuano la
gravità della situazione e rendono forse più remoto lo
svolgimento di avvenimenti che altrove sarebbero la conseguenza
immediata delle cause di pericoli per le istituzioni da me
enunciate.
Il componimento della vertenza colla Gran Bretagna gioverà
molto a rendere più sicuro il mantenimento dell'ordine
vigente e toglierà al partito repubblicano l'arma più
potente di cui dispone per agitare il paese.»
Date le cause molteplici del malcontento del paese contro la
dinastia, la propaganda repubblicana, facilitata dalla debolezza del
governo, doveva portare i frutti che ha portato.
L'EUROPA E LA QUESTIONE ORIENTALE.
Capitolo Ottavo.
La questione balcanica.
Nel 1879 Crispi esprime la sua fede nel riordinamento della penisola
balcanica sulla base delle nazionalità. - Critica del
Trattato di Berlino nei riguardi della Balcania. - Tre colloqui
inediti tra Crispi e il principe di Bismarck. - La seconda fase
della questione bulgara e la Triplice italo-anglo-austriaca. - La
Turchia dichiara al principe Ferdinando l'illegalità del suo
soggiorno in Bulgaria. - Insuccesso della politica russa. -
Stambuloff ringrazia Crispi in nome del popolo bulgaro. -
Riconciliazione russo-bulgara. - Due indirizzi a Crispi della
«Confederazione Orientale». - La questione di Creta e il
malgoverno turco. - Crispi e l'Albania. - Crispi trova nel
Montenegro la sposa pel futuro re d'Italia. - La Confederazione
balcanica con Costantinopoli capitale. - «Il Sultano se ne
vada in Asia».
Le idee di Crispi intorno al complesso problema della sistemazione
dell'Oriente europeo non mutarono mai; che fossero conformi ai
diritti dei popoli balcanici e della civiltà, e politicamente
rispondessero agl'interessi essenziali di tutta l'Europa, è
dimostrato dalla guerra di liberazione mossa alla fine del 1912 dai
quattro Stati alla Turchia, - guerra fatale, preferibile anche a
qualsiasi soluzione che avesse potuto escogitarsi e imporsi dalle
grandi Potenze. Soltanto le armi, infatti, possono col loro taglio
netto dipanare siffatte intricate matasse, e operare le supreme
rivendicazioni. Questa volta esse hanno altresì reso un
notevole servigio alla diplomazia, riscattandola dalla politica
ipocrita e umiliante che ha sostenuto per tanti decenni un regime
spregevole e spregiato.
Per rimanere nel tempo a noi più vicino, ricordiamo che in
occasione della discussione circa la politica estera fatta alla
Camera nel febbraio 1879, nella seduta del 3 l'on. Crispi, trattando
della questione orientale, disse:
«Io, o signori, ho la convinzione che la penisola dei Balcani
può essere ricostituita sulla base della nazionalità.
Io ho fede profonda che fra quelle genti non vi sia che il soffio
della libertà il quale possa vivificarle, incivilirle,
metterle in quella grande via in cui sono da parecchi secoli le
altre nazioni di Europa.
La Bulgaria, signori! ma quanti atti di eroismo non furono fatti in
quel paese? Avete dimenticato il libro di Gladstone, Bulgarian
orrors, dove si ricordano gli alberi convertiti in forche per
impiccarvi coloro che erano insorti in nome della patria e della
religione?
Come mai si può dire che quei popoli fossero contenti del
dominio turco, mentre hanno lottato per tanti secoli contro il
medesimo?
Dimenticheremo l'eroismo di quella forte razza, la quale vive nel
Montenegro, e la quale per lungo tempo, mentre altre popolazioni
cedevano alla forza brutale, seppe resistere con miracoli di eroismo
all'invasore straniero?
Signori: Non vedete voi che questi atti di coraggio, tanta
virtù e tanta potenza di volontà, provano
indiscutibilmente quella vitalità che è l'indizio vero
della esistenza dei popoli?
Come volete che si affermi una nazione nei momenti della lotta di
fronte ad una forza superiore che le sovrasta, e, dopo la lotta,
dinanzi al carnefice? Non abbiamo forse uguali esempi nel nostro
paese dal 1820 al 1860? E mettendo a paragone quello che fu fatto
dall'Italia durante il lungo servaggio e che fu fatto nella penisola
balcanica dalle soggiogate popolazioni dal principio del secolo in
poi, avremo noi il coraggio, noi nazione costituita da ieri, di
imprecare a tanto eroismo e a tanta virtù? (Bravo! Bene, a
Sinistra.).
Dunque gli elementi pel riordinamento della penisola balcanica sulla
base della nazionalità esistono, e bisogna fidare nel tempo
perchè fruttino e si svolgano.»
Crispi non fu soddisfatto del trattato di Berlino del 1878 che
«smembrò la Rumania, tradì la Grecia, ruppe il
fascio delle forze rivoluzionarie le quali sin dal giugno 1875 si
erano levate per la redenzione della razza slava. Al 1878, come al
1875, fu disconosciuta la ragione dei popoli. Quello che si volle e
si convenne nella capitale tedesca fu detto nel Parlamento inglese.
Lord Beaconsfield, questa incarnazione del vecchio spirito
britannico, dichiarò alla Camera dei Pari che i congregati
sentirono la necessità di mantenere ancora il dominio degli
Osmani. Ma neanco questo è definitivo, esso è
piuttosto un componimento provvisorio e - siccome scriveva Lord
Salisbury nella sua circolare la quale era unita al trattato -
dipenderà dai ministri del Sultano se sapranno usare degli
accordi conclusi, o se sprecheranno questa probabilmente ultima
opportunità offerta alla Turchia.
E tutti prevedono che la Turchia non farà senno, e che tosto
o tardi verrà scossa da nuove convulsioni, ond'essa
andrà irremissibilmente a rovina. Pertanto l'Inghilterra si
è impossessata di Cipro, la Russia riprese la Bessarabia, e
l'Austria occuperà l'Erzegovina e la Bosnia. Sono tre potenti
stazioni militari, le quali mentre indicano la reciproca diffidenza
dei gabinetti di Londra, Pietroburgo e Vienna, fanno presumere un
forzato compromesso, cioè che nulla verrà stabilito
nell'Oriente senza il loro consenso. È chiaro che sono nelle
mani di coteste potenze i termini della grave questione, e che
dipenderà dalla prudenza dei tre governi la fortuna delle
popolazioni, le quali vivono nella penisola balcanica.»
In altra circostanza Crispi disse:
«Al 1878 l'Europa ebbe una tregua e non la pace. In Oriente il
problema nazionale è ancora insoluto. Si dice: o la Russia
sino all'Adriatico, o l'Austria sino all'Egeo. Non accetto il
dilemma. L'Italia deve essere amica dell'Austria e della Russia, ma
non dobbiamo voler mai che l'una o l'altra escano dai loro confini.
L'Austria ebbe a Berlino con la Bosnia e l'Erzegovina una
invulnerabile frontiera all'Oriente39 e dev'esserne contenta.»
A questo programma Crispi rimase fedele anche da Ministro.
Ostacolò i tentativi della Russia di esercitare un'influenza
preponderante in Bulgaria e in Rumania, temperando il russofilismo
del principe di Bismarck, e legò l'Austria all'impegno di
garantire lo statu-quo nei Balcani. Tale politica ha mantenuto la
pace ed ha dato tempo ai popoli balcanici di prepararsi a risolvere
la loro partita secolare con la Turchia, con le proprie forze e nel
proprio interesse. Oggi la Russia non può più pensare
ad alcuna supremazia sugli Stati balcanici, usciti con quest'ultima
guerra dalla minore età, nè a stabilirsi a
Costantinopoli; e neppure l'Austria può ragionevolmente
coltivare ancora la speranza d'inorientarsi. È finalmente
avvenuto quello che Crispi auspicava nel 1879: le genti balcaniche,
postesi sulla grande via del progresso civile, costituiscono oggi un
baluardo insuperabile alle ambizioni russe e austriache.
Quello che Crispi pensasse della politica russa in Oriente, e come
agisse per ostacolarla, risulta dai colloqui col principe di
Bismarck e dai documenti sulle questioni bulgara e rumena da noi
pubblicati in un precedente volume40.
Qui riproduciamo dal Diario di Crispi tre dialoghi ancora inediti
tra il gran Cancelliere e Crispi del maggio 1889. In quel mese, come
è noto, il re Umberto, accompagnato dal suo primo ministro,
si recò a Berlino a restituire la visita ricevuta
dall'imperatore Guglielmo l'anno innanzi:
22 maggio. - Alle 4.45 pom. vo dal principe di Bismarck.
Trovo nel salone il Re, il quale conversa con la principessa di
Bismarck. Dopo 5 o 6 minuti il Re si congeda con queste parole:
«Vi lascio col signor Crispi».
Il principe ritorna al discorso fatto altre volte sulla Russia, e
sui suoi progetti nella penisola balcanica.
- Bisogna - egli dice - non impedire alla Russia di andare a
Costantinopoli. Collocata quale è oggi, essa è
inattacabile. Sul Bosforo diverrebbe debole e potrebbe facilmente
esser battuta.
- E la Rumania e la Bulgaria diverrebbero sua preda. Comprendo che,
con un Sultano russofilo, l'impresa sarebbe facile; ma l'Europa ci
perderebbe.
- Lasciando la Russia libera, la Francia se ne distaccherebbe; ed
avremmo anche evitato una grande guerra. Al contrario, se non si
lasciasse alla Russia di avanzarsi, essa entrerebbe in Galizia, ed
avremmo una crisi generale.
- Quanta è la truppa russa sulle frontiere?
- 200 mila uomini sono verso la nostra frontiera, 300 mila verso i
possedimenti austriaci, nulla verso la Rumania. Siete stato mai alla
caccia? Bisogna attendere gli animali al varco per ucciderli. Non
abbiate fretta, e lasciate che le cose si svolgano da sè. La
Russia vuol Costantinopoli, e bisogna lasciar che ci vada. Del
resto, non vale la pena di occuparci del Sultano. Che si lasci al
suo destino. Una volta i Russi a Costantinopoli, il Sultano si
contenterà del loro protettorato; purchè gli lascino
l'harem egli non domanderà altro.
- Sarebbe un danno pei piccoli Stati danubiani, i quali sarebbero
assorbiti.
- No, la Russia non li toccherebbe. Il suo proponimento è
quello soltanto di avere dei principi ortodossi.
- Ed in Rumania pare che si avvii a ciò, la potenza del
principe Carlo essendo scossa ed il partito russofilo manifestando
l'antico desiderio di mettere sul trono uno degli antichi ospodari.
- I rumeni vanno anche più in là; distruggerebbero
l'unità, e rifarebbero i due piccoli Stati con Jassy e
Bucarest capitali.
Mentre il principe pronunziava le ultime parole, l'orologio segnava
le 5.30 pomeridiane.
Mi alzo, pregandolo a permettermi di riprender domani il discorso.
Alle 6 essendovi il gran pranzo a Corte, ero costretto ad andarmene.
23 maggio. - Alle 2 e mezzo giungo alla casa del principe di
Bismarck. Egli era in un salone del pian terreno.
Chiesi scusa di esser giunto mezz'ora dopo dell'ora stabilita. Il
principe rispose che nulla vi era di male, egli dovendo restare
tutta la giornata in casa.
Entrai subito in argomento, e ripresi il discorso al punto in cui
ieri era stato interrotto.
- Orbene, Altezza, le cose dettemi ieri io le sapeva. Me ne avete
parlato altre volte. Ora vi domando: le avete mai fatte conoscere a
Lord Salisbury?
- No; ma ne ho parlato all'Imperatore d'Austria.
- E quale è stata la sua risposta?
- L'Imperatore crede che non bisogna lasciar passare la Russia, ma
impedirle di andare a Costantinopoli. L'Imperatore teme degli
Ungheresi, i quali sono contrarii a che la Russia si stabilisca sul
Bosforo. Ed han torto! La Russia sul Bosforo s'indebolirebbe,
finirebbe come tutti gli altri che vi stettero altre volte.
- Ma gl'Imperatori romani vi stettero per molti secoli, ed il Turco
v'impera anche da secoli, e quantunque debole, nissuno ha potuto
spodestarlo.
- Non l'han voluto spodestare, perchè l'Europa si è
sempre opposta alla marcia dei Russi. La Russia questa volta non
andrà per terra a Costantinopoli. Essa farà una
spedizione per mare.
- Credete voi, che la flotta russa sia forte nel mar Nero?
- Lo diviene; e fra un paio d'anni avrà raddoppiato il suo
naviglio. Essa potrà riunire subito da 30 mila a 40 mila
uomini e gettarli in Rumelia. Bisogna lasciarla fare, e porre
l'Inghilterra in condizione da gettarsi nella lotta.
- Ma voi non ignorate che ci siamo concordati con l'Inghilterra di
non permettere alcun mutamento allo statu-quo del Mediterraneo e
dello Egeo.
- Non basta. L'Inghilterra potrebbe trovar modo a sfuggire
all'adempimento delle fatte promesse. Bisogna comprometterla, ed
allora, essendo impegnata a far la guerra, saremo in quattro.
- Credete voi, che la Francia farà presto la guerra?
- Non lo credo. Non è pronta. La sua polvere non dura sei
mesi.
- Ma l'Inghilterra anch'essa ha bisogno di tempo. Avrà
bisogno di 3 o 4 anni per compiere il naviglio.
- Basterà un paio d'anni. Ma avendola anche oggi con noi, le
nostre navi riunite alle inglesi potranno tener fronte alla squadra
francese.
- Conoscete un signor Tachard?
- Lo conosco. Stette da me alcuni giorni. Le mie signore lo
chiamavano sempre Crachard, perchè sputava sempre, anche sui
tappeti.
- Che ne dite del suo progetto, di fare dell'Alsazia e della
Lorena uno Stato autonomo neutrale.
- Per darlo a chi?
- Anche ad uno dei vostri principi.
- È finito il tempo degli Stati neutrali. Lo vedete con la
Svizzera, la quale arresta i miei agenti. Bisogna che lo Stato, come
l'uomo, sia responsabile degli atti suoi.
- Si toglierebbe un motivo di guerra con l'Alsazia e la Lorena
neutrali. Che ne dicono in Francia?
- Il Governo francese l'accetterebbe; ma anche con questo, la guerra
non sarebbe evitata. Sarebbe tolto a noi di attaccare la Francia per
terra, mentre la Francia ci attaccherebbe per mare.
- Avete fede nel Governo austriaco?
- Ho fede nell'Imperatore. Ma non certamente nel Conte Taaffe.
- Taaffe non è amico vostro, siccome non è amico mio.
- Bisogna aggiungere che in Austria son molte le simpatie per la
Francia, e si fa tutto il possibile per distaccarla dall'Italia e
dalla Germania.
- L'Austria vivrà finchè sarà con voi.
L'Imperatore tiene alla nostra alleanza, perchè tiene
all'esistenza dell'impero. Lo Czar sarebbe contento del distacco
dell'Austria; egli non vorrebbe che la nostra neutralità, ed
allora l'Austria sarebbe distrutta. La sua posizione non è
come la vostra e la nostra. L'Italia e la Germania vivono delle
forze proprie, perchè hanno il cemento della
nazionalità.
- Lo comprendo. Ma l'Austria com'essa è, è necessaria
all'equilibrio europeo, e giova mantenerla.
- Anch'io sono di questo avviso. Ed ho lavorato sempre a mantenerla.
Al 1866 non volli annientarla. Oggi dobbiamo mantenerla.
- Sta bene, ma è necessario che quel Governo non turbi la
nostra esistenza.
- L'Imperatore lo sa; e con lui nulla havvi da temere.
- Taaffe è troppo cattolico, e per poco che s'intenda con la
Francia, potrebbe suscitarci molestie. Globet negli ultimi giorni
del suo governo tentò di risuscitare la Convenzione di
settembre.
- Globet non è un uomo abile; ma parmi inverosimile che abbia
potuto usare un tal contegno. Il domandare
il ristabilimento della Convenzione di settembre sarebbe lo stesso
che far occupare una parte del territorio italiano con un esercito.
Sarebbe la guerra; e la Francia non commetterebbe cotesto errore.
25 maggio. - Alle 5 e mezzo pomeridiane il principe di Bismarck
è venuto a trovarmi. Il discorso versò sull'argomento
del giorno, cioè il ritorno del Re in Italia, e perciò
sulla via da seguire.
- Siccome saprete, disse il principe, tutto è accomodato.
L'Imperatore, spontaneamente, ha rinunziato al viaggio a Strasburgo;
solamente ha espresso il desiderio che restiate fino a domani,
domenica, e credo che S. M. il Re avrà consentito.
- Vi ringrazio della presa risoluzione. Io ho bisogno di ritornar
presto a Roma; le Camere sono aperte, ed il lavoro, che ci resta
ancora, è molto.
- Domani, domenica, credete voi che il Re abbia bisogno di un prete?
- È un affare che lo riguarda ed in materia di religione io
non entro. Quando siamo a viaggiare in Italia nei palazzi reali
è la cappella, e Re e Regina vanno a messa. A Roma, la
domenica, vedo il Re dalle 10 alle 12 per la firma dei decreti e
delle leggi; e non mi occupo d'altro.
- Avete ancora questioni col Turco?
- Quegli è una bestia; e non sa quello che fa.
- Avete ragione; ma le bestie bisogna addomesticarle e non batterle.
- E i suoi governatori bestie come lui....
- No, più di lui; ma non bisogna tenerne conto. Quando avrete
bastonato un cane, sarete per ciò più forte di prima?
- Io credo che sono mal consigliati quei governatori, perchè
li trovo sempre insolenti ad ogni occasione, e suscitano brighe
senza motivo alcuno. Nell'affare di Hodeida mi tennero a bada per
oltre due anni. Avevamo convenuto che per la ingiuria fatta al mio
console, il governatore avrebbe dato soddisfazione. Un giorno ebbi
da Costantinopoli la notizia che tutto era finito, che la
soddisfazione era stata data. Io, per togliere nuovi contatti tra il
governatore ed il console, richiamai quest'ultimo. Quale non fu la
delusione! Ero stato ingannato;
era una menzogna quello che mi era stato assicurato dalla Porta
Ottomana. Più tardi nel gennaio di quest'anno, alcuni
artiglieri turchi scompongono la tomba di un cittadino italiano e ne
violano il cadavere. Reclamiamo e ci vien risposto che si aspettano
ordini dal Governo centrale. Domandiamo che li sollecitino per
telegrafo e ci vien detto che il telegrafo era rotto. Anche questa
era una menzogna. Allora diedi l'ordine al general Baldissera che
mandasse le navi. Nel mar Rosso non potevo permettere che l'Italia
fosse trattata così male. La Turchia, con le sue
follìe, può essere scusata altrove, ma non nel mar
Rosso.
- Andrete in Africa?
- Sventuratamente vi siamo, Altezza. Soltanto bisogna trovar modo di
starvi bene. All'Asmara, nel paese dei Bogos e altrove vi sono
terreni da coltivare; e anche potremo avere una frontiera
naturalmente strategica.
- Gl'inglesi però, dopo aver conquistato l'Abissinia,
l'abbandonarono. Se fosse stato possibile colonizzarla, vi sarebbero
rimasti.
- Agl'inglesi bastò di imporvi il segno della loro potenza, e
non ebbero altro scopo con la loro spedizione. Noi, l'Italia e la
Germania, siamo venuti tardi. Abbiamo trovate occupate nell'Asia,
nell'Africa e nell'America le regioni coltivabili e ci resta poco a
fare.
- Volete comperarvi i possedimenti tedeschi dell'Africa?
- Altezza, io sono pronto a vendervi i possedimenti italiani!»
Se la Bulgaria ha potuto ordinarsi e sviluppare le sue risorse sotto
il savio governo di Ferdinando di Coburgo, non piccolo merito spetta
a Crispi che, dal giorno dell'elezione di quel principe, sostenne
con successo nei consigli d'Europa il non-intervento, in omaggio al
principio di nazionalità. L'Inghilterra dapprima si era
disinteressata delle sorti dell'elezione fatta dall'assemblea
bulgara di Tirnovo, e non si opponeva alla pretesa russa che il
Sultano rifiutasse di confermarla, come, mancando il consenso
unanime delle grandi potenze, gliene dava diritto il trattato di
Berlino. Mutò atteggiamento dipoi, associandosi alla proposta
italiana che si rispettasse il volere del popolo bulgaro.
Senza riprodurre qui documenti già da noi pubblicati, giova
tuttavia, a esporre esattamente il pensiero di Crispi, che
ricordiamo poche frasi contenute in telegrammi di quel tempo:
Crispi al Re (16 agosto 1887):
.... Aggiungerò che l'Italia per essere fedele alle sue
tradizioni, ai suoi principii, ai suoi interessi, deve mirare a che
la Bulgaria, come tutti gli Stati balcanici, si avvii
all'indipendenza.»
Crispi all'ambasciatore italiano a Costantinopoli (18 agosto):
«Due fini essenzialmente ci proponiamo: l'uno immediato,
cioè il mantenimento della pace; l'altro mediato ed a
più lunga scadenza, che è l'assetto definitivo su basi
salde e razionali, di popolazioni europee e cristiane non ancora
costituite a nazioni, benchè aventi tutti gli elementi etnici
e morali che valgono a determinare la nazionalità.»
Crispi all'ambasciatore italiano a Costantinopoli (31 agosto):
«I bulgari, sotto un principe di loro scelta, il quale,
malgrado gli errori che ha potuto commettere, dispone certamente di
un partito non indifferente, sono in procinto di organizzare un
governo. Il meglio è di non intralciare l'opera loro. Un
tentativo d'ingerenza, o peggio d'intervento, esporrebbe l'Europa o
a dover confessare la propria impotenza a dar soluzione alla crisi,
oppure, se si ricorresse alla violenza, a provocare essa stessa il
conflitto che si vuole appunto evitare.»
La questione non ebbe termine nel 1887; ma alla fine di quell'anno
l'entente italo-anglo-austriaca era un fatto compiuto ed esercitava
a Costantinopoli una grande influenza. Quello che avvenne dipoi, tra
la Russia irritata e irremovibile nella sua avversione al principe
Ferdinando e le tre potenze concordi nel mandare a monte i suoi
disegni, fu un giuoco di abilità dal quale la Russia non
trasse alcun vantaggio.
Il governo russo non volendo confessare il vero motivo del suo
contegno, si lagnava di pretese relazioni esistenti tra i capi del
potere a Sofia ed i nihilisti. Il signor Stambuloff stesso,
presidente del gabinetto bulgaro, era accusato di essere stato
espulso dal seminario di Odessa a cagione dei suoi principii
ultra-socialisti; e si affermava altresì la scoperta di una
corrispondenza tra un membro del medesimo gabinetto e un ufficiale
di marina compromesso in un attentato contro la vita dello Czar.
Tali accuse venivano considerate come molto pericolose per la pace
europea, poichè lo spettro del nihilismo era agitato nello
intento di mantenere viva l'ansietà dello Czar e di spingerlo
a risoluzioni estreme.
Il terreno legale sul quale la Russia si era posta, era questo. La
Turchia, invitata ad agire, esitava per due ragioni: 1.a
perchè mancava l'unanimità delle Potenze; 2.a
perchè si preoccupava di quello che sarebbe avvenuto in
Bulgaria tanto se il principe di Coburgo avesse obbedito
all'intimazione di ritirarsi, quanto se avesse disobbedito.
Il Cancelliere russo non ammetteva che potesse esservi divergenza
tra le potenze sul primo punto. Il trattato di Berlino era stato
violato dal Principe il quale aveva assunto la carica prima che la
sua elezione fosse confermata. Su ciò nessuna potenza
dissentendo, a tutte s'imponeva, all'infuori di ogni altra
considerazione, l'obbligo di ristabilire l'ordine giuridico e di
manifestare la loro solidarietà a Costantinopoli.
Sulla seconda ragione delle esitazioni del Sultano, il Cancelliere
Giers si limitava a protestare che le intenzioni della Russia erano
pacifiche: lo Czar non voleva spingere il Sultano a misure militari,
nè ricorrervi esso medesimo. La dichiarazione che si chiedeva
al Sultano di fare a Sofia avrebbe raggiunto pacificamente lo scopo
di togliere alla questione ciò che aveva di minaccioso per la
penisola balcanica e per la pace europea.
Appare evidentemente evasiva la risposta che la Cancelleria di
Pietroburgo dava al secondo quesito.
Il 17 e il 19 febbraio 1888 l'ambasciatore di Russia sig. Uxkull,
conferiva sul detto argomento con Crispi. Leggiamo nel Diario di
questi:
«Viene d'ordine del suo Governo a chiedere che l'ambasciatore
italiano a Costantinopoli si associ all'ambasciatore russo di quella
città allo scopo di ottenere dal
Sultano che dichiari al principe Ferdinando illegale il suo
soggiorno in Bulgaria.
Rispondo che l'Italia ritenne sempre legale l'elezione del principe
Ferdinando, illegale la sua presenza sul trono bulgaro. In quanto
alla domanda russa soggiungo non comprenderne lo scopo. Chiedo tempo
a rispondere. Stabiliamo d'accordo che ci saremmo riveduti domenica
19.»
«Uxkull viene a chiedermi la risposta promessagli
venerdì.
Rispondo: vi ripeto che noi riteniamo legale l'elezione del principe
Ferdinando, illegale la sua presenza in Bulgaria. Questa mia
opinione l'ho manifestata alla Turchia, verbalmente dicendola a
Photiadès-pascià, e per nota scrivendola sin dal 17
agosto 1887 al barone Blanc, che la comunicò alla Porta. Mi
par inutile, ozioso, ripeterla oggi e non so comprendere lo scopo
cui mira la Russia.
- La chiediamo perchè senza l'assentimento di tutte le
potenze, la Porta non farebbe la dichiarazione.
- Ma quando la Porta avrà fatto cotesta dichiarazione, quale
conseguenza ne trarrete? Prima di decidermi, avrei bisogno di
conoscere quali sarebbero gli ulteriori propositi della Russia. Voi
lo sapete: noi siamo contrari a qualunque azione militare in
Bulgaria.
- Noi non intendiamo agire con la forza contro il principe
Ferdinando.
- Benissimo. E allora è inutile l'opera mia in
Costantinopoli. Mi deciderò quando avrò conosciuto le
vostre intenzioni. Ma perchè non convocate una conferenza?
Sarebbe il solo modo di uscire dall'imbarazzo.
- Le conferenze non riescono senza un accordo preventivo.
- È vero. Ma io non vedo nulla di meglio.»
«Londra, 18 febbraio 1888.
L'ambasciatore di Russia ha fatto oggi a Salisbury una comunicazione
verbale analoga a quella fatta a V. E. Salisbury ha risposto che
prendeva in considerazione la domanda russa, ma che si riservava di
rispondervi. Egli sin d'ora credeva che l'allontanamento del
principe Ferdinando potrebbe avere le più gravi
conseguenze e produrre dei disordini in Bulgaria. Occorrerebbe
d'altronde sapere chi la Russia proporrebbe di mettere al posto del
Principe.
Catalani.»
«Londra, 19 febbraio.
Ho comunicato a Salisbury il telegramma di V. E. di ier sera. Sua
Signoria mi ha risposto come segue: «Aspetto di conoscere la
maniera di vedere di Crispi e di Kálnoky, che ho consultati
oggi, ma io son disposto a far sapere in sostanza alla Russia che il
Governo inglese non può rispondere alla sua proposta senza
conoscere che cosa il Gabinetto di Pietroburgo conti di proporre nel
caso in cui, come risultato dell'azione delle potenze, il principe
Ferdinando sia mandato via e la Bulgaria rimanga senza
governo.»
Catalani.»
Il conte Kálnoky dette alla comunicazione russa, fattagli
dall'ambasciatore principe Lobanow, risposta preliminare analoga a
quella di Crispi e di Salisbury, che sviluppò dipoi in una
nota. In essa il gabinetto imperiale e reale, dopo essersi associato
con sincera soddisfazione e con spirito di conciliazione al
desiderio espresso dal Governo della Russia di ricercare una
soluzione pacifica della questione bulgara basata
sull'autorità del diritto e sul corso naturale delle cose, e
con esclusione di qualsiasi impiego di forza, chiedeva che le
potenze s'intendessero su questi due punti:
«1.° Dato il caso che il principe Ferdinando abbandonasse
il paese, quale sarebbe il governo provvisorio e la reggenza che
sarebbero riconosciuti e dichiarati legali sino all'elezione di un
principe?
2.° Dato il caso che il principe Ferdinando e il suo governo
resistessero o minacciassero di proclamare l'indipendenza della
Bulgaria, che cosa si dovrebbe fare per ovviare ai pericoli reali
che ne risulterebbero per la Turchia e per la pace d'Oriente?
Escluso l'impiego della forza militare, come potrebbero le potenze
esporsi a una sfida della Bulgaria, senza far valere la loro
autorità?»
La risposta del signor Giers alle obbiezioni austriache, comunicata
a Crispi dal barone Uxkull, fu la seguente:
«Sulla prima, il Governo russo è convinto che la
dichiarazione categorica della Porta, appoggiata dai rappresentanti
delle potenze a Sofia, finirà con l'indurre il principe
Ferdinando a ritirarsi. In caso contrario, la Russia
riserverà la sua attitudine cercando, se occorresse,
d'intendersi con le potenze circa i passi ulteriori.
Sulla seconda: il Governo russo dichiara non avere alcuna intenzione
d'imporre i suoi partigiani al governo provvisorio, e
regolerà la propria attitudine in conformità delle
disposizioni che tale governo gli dimostrerà.»
Crispi precisò la sua risposta con la nota seguente:
«In conformità a ciò che il Ministro degli
affari esteri ha di già avuto l'onore di far conoscere a S.
E. l'ambasciatore di Russia in data 17 e 19 corrente, il Governo del
Re ha dichiarato, sin dal mese di agosto decorso, per mezzo
dell'ambasciatore d'Italia a Costantinopoli, che secondo la sua
opinione, il principe Ferdinando prendendo possesso del trono
bulgaro ha contravvenuto alle prescrizioni del trattato di Berlino,
l'elezione di cotesto principe non avendo avuto preventivamente
l'approvazione della Porta, nè il consenso delle Potenze.
Ciò premesso, si tratta ora di esaminare se, pronunziata la
dichiarazione d'illegalità, l'allontanamento del Principe
potrà avvenire senza un'azione militare, sia della Porta, sia
di altra potenza, e se potrà stabilirsi facilmente in
Bulgaria un nuovo governo, secondo la volontà del popolo
liberamente manifestata.
Delle due previsioni, quella che la partenza moralmente o
materialmente forzata del principe Ferdinando provocherebbe
disordini in Bulgaria, è ai nostri occhi molto più
fondata che l'altra di una soluzione pacifica della questione. In
conseguenza, il Governo del Re, giustamente preoccupandosi di quel
che può seguirne, non crede di dover prestare il suo concorso
a un passo diretto contro uno stato di cose, il quale, sebbene
difetti di legalità, ha garentito sin'ora al principato
un'amministrazione relativamente organizzata.
In ogni caso il Governo del Re prende atto con la più viva
soddisfazione delle assicurazioni date dal Governo imperiale di
astenersi dall'impiego di qualsiasi mezzo coercitivo contro i
bulgari e che la volontà di S. M. l'Imperatore è di
vedere la questione risolversi pacificamente.»
Dopo pochi giorni l'ambasciatore russo a Costantinopoli fece,
d'ordine del suo governo, la seguente comunicazione alla Porta
Ottomana:
«L'assentiment des Puissances prévu par le
traité de Berlin n'a pas été obtenu pour la
confirmation du Prince Ferdinand de Coburg comme Prince de Bulgarie.
Dès lors, la présence à la tête de la
Principauté vassale est illégale et contraire au
traité de Berlin. Le Gouvernement Imperial de Russie demande
en conséquence à la Sublime Porte de notifier
officiellement ce qui précède au Gouvernement bulgare
et de porter officiellement cette notification à la
connaissance des grandes Puissances.»
Questa comunicazione fu appoggiata dagli ambasciatori di Germania e
di Francia, in omaggio al trattato di Berlino. Il principe di
Bismarck non negò la platonica assistenza chiestagli dalla
Russia, alla quale aveva interesse di dar prove di amicizia; ma
è legittimo pensare ch'egli la concedesse sapendo che non
poteva nuocere alla politica seguita dall'entente
italo-anglo-austriaca, che aveva incoraggiato a formarsi.
Alla comunicazione russa, seguì una dichiarazione di
Said-pascià, così concepita:
«Son Altesse le Grand Vézir
à Monsieur Stambouloff,
Sofia.
Lors de l'arrivée en Bulgarie du Prince Ferdinand de Cobourg,
j'ai déclaré a Son Altesse par un
télégramme en date du 22 Chewal 1887 que son
élection par l'Assemblée Générale
Bulgare n'ayant pas réuni l'assentiment de toutes les
Puissances signataires du Traité de Berlin et que cette
élection n'ayant pas été sanctionnée par
la Sublime Porte, sa présence en Bulgarie était
contraire au Traité de Berlin et n'était pas
légale.
Aujourd'hui, je viens déclarer au Gouvernement Bulgare,
qu'aux yeux du Gouvernement Impérial, la situation est
toujours la même, c'est-à-dire que la présence
du Prince Ferdinand à la tête de la Principauté
est illégale et contraire au Traité de Berlin.
Je vous prie de porter ce télégramme à la
connaissance du Gouvernement auprès duquel vous êtes
accrédité.
Said.»
Photiadès-pascià portando a conoscenza di Crispi
questa dichiarazione, lo assicurò che la Porta non avrebbe
fatto altri passi senza essersi prima intesa con tutte le potenze.
Tutte le potenze presero atto puro e semplice della dichiarazione di
Said-pascià, la quale lasciò il tempo che
trovò.
Il principe Ferdinando non si mosse; il suo governo, presieduto
dall'energico Stambuloff, si limitò a sorvegliare e colpire i
numerosi agitatori e rifugiati russi i quali lavoravano a fomentare
sollevazioni, sventando così l'accusa, la quale sarebbe stata
portata dinanzi all'Europa, che la Bulgaria fosse in preda
all'anarchia.
Per qualche tempo dipoi la questione bulgara cessò
dall'essere preoccupante per le Cancelliere delle grandi potenze: il
governo principesco continuò a organizzare il paese; la
Russia, pur non dichiarandosi vinta, prese un'attitudine di attesa.
Alla fine del 1889 qualche timore risorse. Il mancato riconoscimento
del principe Ferdinando indispettiva i patriotti bulgari e nuoceva
al prestigio della Bulgaria specialmente presso i popoli vicini,
allora diffidenti e ostili verso il nuovo Stato. Si attribuiva al
governo del signor Stambuloff l'intenzione di proclamare la
legalità della costituzione e l'indipendenza del suo paese, e
questo atto era considerato come una sfida alla Russia e ancora
inopportuno. Crispi, sebbene ritenesse che la situazione anormale
della Bulgaria si dovesse regolare, non credeva ne fosse giunto il
momento, e dette a Sofia il consiglio di attendere. Egli credeva
preferibile il tentare di persuadere il governo russo a desistere
dalla sua opposizione. Infatti il 1.° novembre 1889 telegrafava:
«R. Ambasciata,
Pietroburgo.
Nel colloquio col Barone Uxkull essendosi parlato della Bulgaria e
del principe Ferdinando, espressi il convincimento del R. Governo
che non si debba mutare lo statu-quo, ma non nascosi che
l'esperimento fatto dal Principe ci sembra soddisfacente, avendo
egli dimostrato contegno serio e saputo governare con lode il
Principato in circostanze difficili.
Crispi.»
Del resto, nulla vi era nella situazione che consigliasse di
affrettare una soluzione che non avrebbe potuto mancare. Appunto al
principio di novembre i Cancellieri imperiali di Austria-Ungheria e
di Germania avevano avuto la consueta conferenza annuale e avevano
fatto le constatazioni che risultano dal seguente telegramma:
«Vienna, 10-11-1889.
Kálnoky non ha potuto ricevermi che oggi soltanto, dopo il
suo ritorno da Friedrichsruhe. Egli mi ha detto che aveva trovato il
principe di Bismarck in ottime condizioni di salute e che era molto
soddisfatto dei colloqui con lui avuti, ed aggiunse che essi si
trovavano in perfetto accordo in tutte le questioni pendenti. Il
principe di Bismarck si era compiaciuto che gli sforzi delle potenze
alleate avessero potuto assicurare la pace per un anno e sperava che
avrebbero continuato ad assicurarla anche in seguito. Però
Kálnoky aggiunse che Bismarck aveva riconosciuto con lui che
la situazione non era cambiata e che, quantunque pacifica, poteva
dar luogo da un momento all'altro a nuove inquietudini. In quanto
alla Bulgaria, Bismarck aveva ammesso che bisognava conservare un
piede nel Principato, cercare di mantenerlo dal nostro lato per
impedire che la Russia vi sorgesse di nuovo. Per quanto riguarda la
Grecia, la situazione sembrava tendere a divenire alquanto critica,
perchè si cercava di fare risorgere la questione di Candia.
Tricupis accennava ad agire e ad assumere un contegno ostile contro
la Turchia, verso la quale dichiarava voler mettersi in istato di
guerra. Kálnoky spera che egli verrà a migliori
consigli. Sua Eccellenza aggiunse che lo stesso imperatore
Guglielmo, nella sua recente dimora ad Atene, aveva dato a Tricupis
dei consigli di moderazione e che i governi di Germania e di
Austria-Ungheria avevano fatto altrettanto; ed egli non dubita che
V. E. farà altresì parlare in questo senso ad Atene.
In quanto alla Serbia e alla Rumania, Kálnoky disse che le
questioni che potrebbero per avventura sorgervi non sembravano tali
da far temere per la pace europea e che era da sperarsi che
avrebbero potuto essere localizzate.
Avarna.»
In gennaio 1891 Crispi ebbe nuova occasione di dimostrare il suo
interessamento alla Bulgaria. Il governo russo si lagnava che la
maggior parte degli anarchici russi che riuscivano ad emigrare,
trovassero buona accoglienza in Bulgaria, ed anche degli impieghi.
L'ambasciatore Uxkull fu incaricato di un passo confidenziale e
amichevole presso Crispi. «Noi non dubitiamo - così
scrivevano da Pietroburgo all'ambasciatore - dell'effetto salutare
che raccomandazioni energiche provenienti da Roma eserciteranno a
Sofia, per metter fine ad uno stato di cose che sarebbe impossibile
lasciar sussistere senza prevederne conseguenze funeste.»
Crispi non indugiò a secondare il desiderio del governo
russo, e inviò questa lettera al Ministro d'Italia a Sofia,
Gerbaix de Sonnaz:
«Roma, il 16 gennaio 1891.
Signor Conte,
Il barone Uxkull, nel ricevimento ebdomadario dell'11 corrente mi
partecipò le lagnanze del suo Governo contro il Ministero
bulgaro per la protezione usata da costui verso alcuni nichilisti
russi. Il giorno 13, ritornando sullo stesso argomento, mi diede
notizia officiosa di un dispaccio.
Cotesti emigrati non solamente godrebbero i favori del Governo di
Sofia, ma parecchi sarebbero stati impiegati nella amministrazione
del Principato.
Nelle condizioni politiche nelle quali è la Bulgaria,
prudenza esige che si allontani una nuova causa di malumori tra il
Principato ed il potente Impero, al quale cotesto paese deve la sua
indipendenza. Veda il signor Stambuloff e veda anche il principe
Ferdinando e li consigli a liberarsi di cotesti ospiti incomodi.
La parola di un Governo amico e disinteressato, quale il nostro,
dovrà giunger gradita a cotesti signori. Noi, sin dalla
costituzione del Principato, abbiamo esercitato a Sofia con amicizia
cordiale un'opera di pace; e tale sarà il nostro compito
anche in avvenire.
Le ho telegrafato nei medesimi sensi.
Crispi.»
Quando Crispi alla fine del 1893 tornò al potere, il
riconoscimento del principe Ferdinando da parte delle potenze non
era ancora avvenuto. Crispi ebbe occasione di accennare alla
Bulgaria nella discussione del bilancio degli affari esteri fattasi
alla Camera in maggio 1894, e ne parlò con simpatia. Le sue
parole provocarono lo scambio dei seguenti telegrammi:
«Mr. Crispi
Président du Conseil des Ministres,
Sofia, 6 mai 1894.
Le discours prononcé par Votre Excellence dans la Chambre
à l'occasion de la discussion du budget du Ministère
des affaires étrangères a produit une grande joie
parmi le peuple Bulgare qui a vu que dans les moments difficiles et
critiques que notre patrie a traversé le gouvernement
italien, ayant à sa tête un champion
éprouvé dans les luttes pour l'indépendance et
l'unité de l'Italie, a pris la défense des droits d'un
Etat qui venait d'être appelé à une vie
politique, en le sauvegardant de l'intervention
étrangère dans ses affaires intérieures. Je
remplis un agréable devoir en présentant en cette
occasion à Votre Excellence les remerciements sincères
et chaleureux du Gouvernement Bulgare et je prie le Gouvernement de
Sa Majesté le Roi d'Italie de continuer à l'avenir son
bienveillant soutien à un peuple qui lutte pour son existence
dans l'unique but de son paisible développement.
Le Président du Conseil des Ministres
Stambuloff.»
«Son Excellence M.r Stambuloff
Président du Conseil des Ministres,
Sophia.
Rome, le 5 mai 1894.
Je remercie Votre Excellence de son télégramme,
heureux de savoir appréciés les sentiments que
j'éprouve pour le peuple bulgare et les principes que j'ai
invoqués en sa faveur.
Crispi.»
Stambuloff cadde dal governo poco dopo, si disse per influenza
dell'Austria alla quale dava ombra la politica attiva che
quell'eminente uomo di Stato faceva in Macedonia. Quello che fece
traboccare il vaso dell'indignazione austriaca sembra fosse la
coincidenza tra lo scambio di felicitazioni sopra riferito tra
Stambuloff e Crispi - quest'ultimo sospettato a Vienna di mene nei
Balcani - e il vanto che lo Stambuloff si faceva di avere con la
nomina di vescovi bulgari in Macedonia, ottenuta dalla Sublime
Porta, assicurato l'avvenire della Macedonia stessa alla Bulgaria.
Un anno dopo (luglio 1895) lo Stambuloff venne assassinato per
vendetta politica.
Lo stato provvisorio del principato bulgaro ebbe termine nel 1896,
senza ulteriori lotte. La Russia, siccome Crispi aveva sperato,
disarmò per stanchezza. Era impossibile negare che la
Bulgaria sotto il governo del principe Ferdinando fosse diventata un
elemento d'ordine nella penisola balcanica e che progredisse
mirabilmente. Dovendo rinunziare al proposito di dominarla, parve
saggio consiglio al governo russo adattarsi alle mutate circostanze
e limitarsi a una politica più modesta. La Bulgaria non
voleva essere una provincia russa, ma era disposta a
dimostrare alla Russia tutta la deferenza dovutale, specialmente per
essere stata da essa sottratta al giogo turco.
Alla tranquillità e all'interesse dello Stato il principe
Ferdinando sacrificò la sua fede religiosa, aderendo alla
conversione all'ortodossia del suo primogenito, Boris. Venne a Roma
il 27 gennaio 1896, fu ricevuto dal Papa e ottenne la licenza che
invocava. L'8 febbraio lo Czar telegrafava al Principe per
felicitarlo della «patriottica risoluzione»
comunicatagli e per dirgli che accettava di essere padrino al
battesimo di Boris. Lo stesso giorno l'organo ufficiale russo
dichiarava cessato il conflitto con la Bulgaria, osservando che
«la conversione del principe Boris alla ortodossia dimostrava
aver la nazione bulgara compreso la necessità di affermare la
sua fede religiosa come pegno dei legami spirituali che la univano
alla Russia emancipatrice».
Conseguenza naturale di questo mutamento della Russia, fu l'invito
della Sublime Porta alle Potenze di volere riconoscere il principe
di Bulgaria in conformità dell'articolo 3.° del Trattato
di Berlino. Tutte le Potenze aderirono: l'Italia potè
rispondere che l'adesione dell'Italia a cotesto riconoscimento da
parte della Turchia era acquisita sin dal 1887, da quando
cioè dichiarò di considerare valida la manifestazione
della volontà del popolo bulgaro.
In tutto l'Oriente europeo il nome di Francesco Crispi si
identificò per lungo tempo con le aspirazioni
all'indipendenza dei popoli oppressi dal Turco. Egli difese tutte le
nazionalità, una dopo l'altra; fu capo di Comitati filelleni
e parlò in ogni occasione, dalla tribuna parlamentare e nei
comizii, in favore di una più grande Grecia; propugnò
l'autonomia e l'indipendenza dell'Albania; cercò e
trovò nell'eroico Montenegro la sposa del principe ereditario
d'Italia; fece, da ministro, quanto potè per sottrarre Candia
e l'Armenia ai periodici massacri turchi.
Merita in questo momento storico in cui l'idea della federazione
militare dei popoli balcanici si è concretata nel fatto,
speciale menzione l'ausilio chiesto a Crispi da un Sillogo ateniese
per la Confederazione Orientale, con le seguenti due lettere le
quali portano una firma illustre:
Confédération Orientale.
«All'Illustre Uomo di Stato Crispi.
Atene, 24 ottobre 1885.
Illustre Maestro,
Il Comitato e la Direzione della Confederazione Orientale, i quali
or è più che un anno avevano fondato in Atene un
giornale di questo titolo, devoto all'idea di stabilire un'alleanza
federale dei popoli della penisola balcanica, hanno l'onore di
domandare la vostra alta e potente protezione allo scopo di
riprendere l'opera sospesa per mancanza di aiuti efficaci.
Noi abbiamo tutto sagrificato a quest'idea, convinti che la sua
realizzazione condurrà alla liberazione di questi popoli per
la sola via logica e pacifica desiderata dall'Europa. Ma dal momento
della comparsa del nostro giornale la Turchia e l'Austria ci hanno
combattuto senza quartiere: la prima perchè noi parliamo di
libertà ai cristiani dell'Oriente; la seconda perchè
domandiamo l'autonomia per i Macedoni, unico mezzo, secondo noi, di
conciliare le pretese delle razze diverse abitanti questa provincia.
Il nostro giornale, proibito e perseguitato negli Stati dei Balcani,
la nostra opera era colpita a morte. Invano noi tentammo di lottare:
ci è stato giocoforza soccombere.
Questa situazione ispirerà forse qualche interessamento a
voi, illustre Maestro, le cui idee liberali e l'alta intelligenza si
volgono a tutti i problemi politici e sociali, e il cuore generoso
si commuove dinanzi ad ogni ingiustizia e ad ogni disgrazia.
D'altronde, l'opera nostra aveva prodotto qualche frutto in Oriente,
e degli spiriti lungoveggenti, in comunione d'idee con noi,
c'incoraggiavano a perseverare nella ferma credenza che la
confederazione dei popoli orientali è la soluzione più
equa del problema posto, da più di quattro secoli, alla
giurisdizione dell'Europa.
Non è forse anche di un interesse capitale per le potenze
mediterranee che l'Oriente non diventi preda delle cupidigie
austriache o russe? Questi grandi imperi, una volta stabiliti sulle
rive del Bosforo e del Mar Egeo, minacceranno l'indipendenza degli
Stati mediterranei. Ci sembra dunque utile reagire contro questi
progetti e aprire gli occhi agli sventurati cristiani dell'Oriente.
Questo è il programma seguito dal nostro giornale per il
quale osiamo, pieni di confidenza nella vostra alta intelligenza,
sollecitare il vostro prezioso e benevolo concorso.
Abbiamo l'onore di essere, illustre e venerato Maestro, vostri
rispettosi e riconoscenti servitori
per il Comitato
il Dir. della «Confederazione Orientale»
Leonidas A. Bulgaris.»
«A S. E. Il signor Crispi
Roma.
Atene, 8-20 novembre 1887.
Eccellenza,
L'idea della Confederazione Orientale di tutti i popoli della
Penisola Balcanica che non è punto nuova, è il
risultato di profonde meditazioni di uomini di Stato che l'accolgono
come la sola soluzione possibile della questione d'Oriente senza
scuotere l'equilibrio europeo. Durante lunghi secoli si sono fatte
guerre terribili per risolvere questa questione con la violenza, ma
è stato provato che questo metodo è inefficace
poichè invece di avere fatto un passo verso la sua soluzione,
questa questione si è ancor più complicata e i
disgraziati popoli dei Balcani rimangono l'oggetto delle cupidigie
delle potenze e dei loro antagonismi. Ne segue che la questione
d'Oriente non può essere risoluta che con mezzi pacifici,
cioè con una Confederazione di tutti gli Stati della Penisola
Balcanica, poichè questa è la sola soluzione che non
dia ombra ad alcuna delle grandi potenze.
L'associazione greca della Confederazione Orientale, fondata tre
anni or sono, proclamò altamente queste idee e le sostiene
nel suo giornale; ma, come era da attendersi, essa fu combattuta da
tutti coloro che hanno interesse che la discordia regni in Oriente.
La stampa di Vienna si è distinta in modo speciale col suo
accanimento nel combattere le idee sostenute nel nostro giornale,
poichè esse inceppano la politica austriaca ponendo ostacoli
ai suoi disegni di conquista nella penisola dell'Hemus,
poichè lo scopo principale della nostra associazione è
il protestare contro ogni conquista straniera della Turchia Europea.
Ma per riuscire nell'opera che noi perseguiamo sono necessari sforzi
costanti e pratici, e le circostanze attuali ce ne fanno un dovere,
giacchè nessuno dei governi degli Stati dell'Hemus può
prendere l'iniziativa di proporre la Confederazione agli altri
Governi, prima che questa idea non sia maturata in Oriente.
Però non si potrà arrivare a questo risultato che
fondando in tutti gli Stati della Penisola Balcanica delle
associazioni della Confederazione Orientale, le quali diffondendo
tra i loro connazionali i grandi vantaggi di una Confederazione, si
mettano d'accordo per trovare la maniera di condurre in porto
quest'opera di grande interesse.
E poichè, felicemente, negli Stati Balcanici cominciano a
formarsi partiti potenti, i quali, prevedendo i pericoli dai quali
questi Stati sono minacciati, mirano alla Confederazione come
all'unico mezzo di salute, l'associazione greca che aveva interrotto
i suoi lavori in seguito agli avvenimenti di Bulgaria, considerando
che gli odii di razza si sono calmati e prevedendo che talune
potenze sono pronte a irrompere in Oriente, riprende i suoi lavori
con maggiore energia per la difesa della autonomia minacciata della
Penisola.
Prima d'impegnarsi più avanti la nostra associazione ha
bisogno di domandare il patrocinio morale di coloro che dividono i
loro principii e sopratutto di coloro che reggono i destini di uno
Stato al quale l'Associazione greca della Confederazione Orientale
si rivolge oggi facendo appello al suo potente appoggio.
Voglia gradire, Eccellenza, l'espressione dell'alta nostra
considerazione.
Leonida A. Bulgaris
Membro delegato della «Confederazione Orientale».
Sin dal 1877, in un colloquio col principe di Bismarck, il concetto
che le grandi Potenze dovessero astenersi da ogni conquista sulle
Provincie balcaniche41 era stato difeso da Crispi; il quale essendo
ministro nel 1889 propose altresì quella federazione militare
balcanica che i popoli hanno ora stretto di loro iniziativa42.
Tale proposta sta ad attestare una convinzione salda della
necessità, una proba valutazione del diritto dei popoli e
insieme degl'interessi della pace europea. Ma i tempi non erano
maturi; l'Austria, che non voleva l'egemonia russa nei Balcani
soltanto perchè le preferiva la propria, si oppose alla
proposta di Crispi, protestando di non volere sollevare la
suscettibilità della sua competitrice.
La questione cretese, dall'indomani del Congresso di Berlino, ha
richiamato periodicamente l'attenzione dell'Europa. Se le Potenze
fossero state concordi nell'esigere buon governo dalla Turchia,
questo focolare di rivolte e di preoccupazioni sarebbe stato spento,
perchè le aspirazioni dei cretesi a congiungersi con la
Grecia hanno trovato sempre il maggiore incentivo nel malcontento
contro la tirannide turca. Ma le potenze, gelose l'una dell'altra,
anche a proposito di Candia si sono preoccupate soltanto del loro
giuoco d'influenze a Costantinopoli, astenendosi, per non dispiacere
il Sultano, dall'unica azione che sarebbe stata efficace. Valga un
esempio. Nel 1889, Crispi telegrafò alle ambasciate italiane
di Londra, Berlino e Vienna:
«31 luglio.
L'agitazione in Candia non sembra provocata dal di fuori,
bensì causata dal malgoverno turco. Un accordo fra le potenze
amiche ed alleate ci parrebbe necessario per consigliare alla Porta
i mezzi migliori onde far fronte situazione. Crediamo che a
pacificare popolazioni siano preferibili mezzi conciliativi
anzichè violenti, questi ultimi lasciando germi di nuove
insurrezioni. Esprimendosi in tal modo con cotesto ministro degli
affari esteri voglia chiedere se e quali istruzioni siano state date
al rappresentante di codesto Governo in Costantinopoli.
Crispi.»
Ed ecco i risultati di questa onesta iniziativa. Il principe di
Bismarck fu contrario ad ogni pressione sulla Sublime Porta.
«Secondo il modo di vedere di Sua Altezza una simile
pressione, anche semplicemente platonica, non farebbe che aumentare
man mano le pretese dei cretesi. Una delle conseguenze più
spiacevoli della ingerenza sarebbe quella di dare incremento alle
malevoli insinuazioni franco-russe a Costantinopoli.»
Il conte Nigra da Vienna telegrafò che Kálnoky avrebbe
desiderato procedere d'accordo con le Potenze alleate e con
l'Inghilterra, ma che preferiva tenersi in seconda linea. «La
Francia sembra essersi pronunziata in favore della Turchia.»
Il Nigra concludeva:
«Io penso che V. E. non vorrà imitare Robilant e
mettersi troppo ostensibilmente in prima linea. La prevengo per ogni
ottimo fine che la di lei proposta del 30 luglio, secondo ciò
che mi ha detto Kálnoky, venne a notizia del Sultano, il
quale, sospettoso com'è, se ne mostrò inquieto.»
Da Londra: Risposta di Salisbury:
«Simpatizzo completamente colle vedute, colle apprensioni di
Crispi circa le cose di Candia. Sarei favorevole ad una azione
comune delle potenze, ma non è facile scorgere la via da
seguire praticamente. La occupazione militare fatta da qualsiasi
delle grandi Potenze o dalla Grecia, getterebbe completamente la
Turchia nelle braccia della Russia e produrrebbe nel momento
eccitamento assai pericoloso nella penisola balcanica.»
In conclusione, Crispi non proponeva un intervento armato, ma
un'azione diplomatica, la quale, fatta collettivamente da quattro
grandi potenze, avrebbe raggiunto lo scopo. Si lasciò cadere
la sua proposta perchè non si volle dispiacere il Sultano
richiamandolo all'adempimento dei suoi doveri. E questa astensione
interessata si è ripetuta sempre per le riforme in Macedonia,
in Armenia, in Albania, ed è la vera causa della durata di un
regime nefasto che, divenuto un male estremo, doveva finire
coll'essere distrutto coll'estremo rimedio della guerra degli
oppressi contro gli oppressori.
Le simpatie di Crispi per l'Albania avevano fondamento anche nel
ricordo delle origini della sua famiglia, emigrata nel secolo XV
dall'Albania appunto e stabilitasi, dopo lunga peregrinazione, a
Palazzo Adriano, in Sicilia. Ma, devoto al principio delle autonomie
nazionali, egli augurò sempre alla nazionalità
albanese di sottrarsi al dominio turco e di formare uno stato
indipendente; e quando alla vigilia del Congresso di Berlino, il
principe di Bismarck e il conte Derby gli accennarono all'Albania
come ad un possibile compenso per l'Italia dell'occupazione
austriaca della Bosnia e dell'Erzegovina, Crispi non si
mostrò soddisfatto dell'offerta. Non si può dire
quello che egli avrebbe fatto se fosse stato al governo quando il
Congresso affidò all'Austria «l'amministrazione a tempo
indeterminato» di quelle due provincie turche; ma il fatto
è che nei successivi accordi che da ministro prese con
l'Austria-Ungheria e con l'Inghilterra, l'indipendenza dell'Albania
fu considerata come la definitiva sistemazione di questo paese
nell'eventualità di un suo distacco dall'Impero Ottomano.
Nel Diario di Crispi troviamo un accenno all'Albania nelle note di
un colloquio da lui avuto il 26 ottobre 1896 con Domenico Farini,
presidente del Senato.
«Al 1877 - tu lo saprai - noi eravamo contrarii a che
l'Austria si prendesse la Bosnia e l'Erzegovina. Esposi cotesto
pensiero, a nome del governo italiano, a Derby e a Bismarck, i quali
con un accordo che a me parve meraviglioso, mi risposero: Prenez
l'Albania.
Naturalmente, io replicai: Qu'est-ce que nous devons en faire?
E Derby allora: C'est toujours un gage.
E Bismarck: Si l'Albanie ne vous plaît pas, prenez une autre
terre turque sur l'Adriatique.
Il senso delle parole dei due uomini di Stato era chiaro a me che
avevo motivato il mio rifiuto di dare all'Austria la Bosnia e
l'Erzegovina, dal punto di vista della difesa militare dell'Italia.
Le frontiere orientali sono aperte all'invasione nemica, e
rinforzando l'Austria con nuovi territorii il danno era tutto
nostro.
Ma se realmente Crispi non ebbe nel suo programma positivo
l'annessione dell'Albania all'Italia, neppure ammetteva che quel
territorio turco potesse cadere nel dominio di un'altra potenza. In
un suo scritto del 1.° maggio 1900, egli manifestò la sua
mente su tale argomento colle seguenti parole:
«In questi ultimi tempi si è asserito, con molta
leggerezza, che la diplomazia viennese meditava l'occupazione
dell'Albania. L'asserzione è delle più singolari.
L'Albania non è slava; è una nazione che ha una
personalità propria, che ha lingua ed usi a sè,
ricordanti le origini pelasgiche.
Così essendo, si comprenderebbe che, accogliendo un lungo ed
antico voto, si consentisse all'Albania di proclamare la sua
indipendenza - ma sarebbe gravissimo errore pretendere di
incorporarla con i paesi slavi d'Europa.
L'Albania fu quella che, più d'ogni altra, resistette alle
occupazioni turche. E se al secolo XV, dopo la morte di Giorgio
Castriota, vinta, dovette subire il giogo ottomano, essa non fu mai
doma; e in questo secolo fu la prima ad insorgere vigorosamente.
Albanesi sono le più nobili figure degli eroi che
illustrarono il risorgimento ellenico - e se la Grecia avesse avuto
virtù di assimilazione, queste popolazioni, che tanti punti
di contatto avevano con essa per aspirazioni politiche e per fede
religiosa, oggi forse farebbero parte della Grecia. Invece, gran
numero di Albanesi venne a prendere stanza nell'Italia meridionale e
in Sicilia.
Concedere oggi l'annessione dell'Albania all'Austria non sarebbe un
vantaggio per questo impero e sarebbe, invece, un danno
incalcolabile per l'Italia che vedrebbe così cancellata e per
sempre ogni traccia di sua influenza sull'Adriatico. Tanta offesa
alle nostre ragioni, ai nostri diritti che una gloriosa e secolare
tradizione consacra, non sarà compiuta.
L'Albania ha in sè tutti gli elementi per uno Stato autonomo,
meglio che non li avessero Serbia e Bulgaria - e consentendole
uguale autonomia di governo, l'Europa compirebbe opera civile. Le
relazioni di intima e cordiale amicizia, coltivate per ben cinque
secoli, la rendono assai più affine a noi che non all'Impero
austriaco, dove l'annessione sua non farebbe che aumentare dissidii
di razze e confusione di lingue.»
Tuttavia, in varie epoche, a Crispi sono dall'Albania pervenute
invocazioni senza che egli le incoraggiasse o anche mostrasse di
gradirle. Ne citiamo una sola registrata nella seguente lettera:
«Jannina, 6 gennaio 96.
Signor Ambasciatore,
In questi giorni è ritornato da Argirocastro, dove si era
recato per affari professionali, il Dr. Fanti, nativo di
Argirocastro e regio suddito. Il Dr. Fanti, appena di ritorno dal
suo viaggio, mi fece chiedere un colloquio, nel quale mi
manifestò quanto segue:
Egli mi disse che non appena giunto in Argirocastro venne tosto
visitato dalla maggior parte dei bey albanesi, non solo mussulmani,
ma bensì cristiani, i quali lo pregarono caldamente, appena
ritornato in Jannina di recarsi tosto dal Cav. Millelire
perchè egli volesse far giungere sino al Governo Italiano le
loro idee.
I bey albanesi dissero al Fanti che oramai non vi era più
dubbio come le sorti della Turchia fossero per precipitare, e che in
mezzo allo sfacelo imminente gli occhi di tutti i veri albanesi, sia
mussulmani che cristiani, sono incessantemente rivolti al di
là dello Adriatico, all'Italia. Essi hanno pure dichiarato
che giammai si uniranno alla Grecia, che piuttosto bruceranno il
paese ed uccideranno i loro figli; che tutte le loro aspettazioni, i
loro desiderii sono concentrati nei fratelli italiani, a capo dei
quali sta la degna persona di S. E. Crispi, di cui già
conoscono la energia, l'abilità ed il cuore albanese.
Aggiunsero ancora che il giorno in cui il vessillo italiano
apparisse sulle sponde dell'Epiro, un grido di gioia all'unisono
accoglierebbe lo stendardo di civiltà e che i fratelli
italiani dovunque sarebbero accolti colle braccia aperte.
Credo mio dovere di sottomettere a V. E. quanto mi fu trasmesso dai
bey albanesi per mezzo del Dr. Fanti, per iscarico di ogni mia
responsabilità. Io però non ho ad essi trasmesso in
risposta che parole vaghe e generiche, onde non impegnare in modo
qualsiasi nè la mia azione, nè quella del R. Governo.
Il R. Console
Millelire.»
Nell'ottobre del 1896 fu celebrato in Roma con solenni
festeggiamenti il matrimonio tra il principe di Napoli, erede della
Corona d'Italia, e la principessa Elena del Montenegro, ora
felicemente regnanti.
Il primo pensiero di cotesto matrimonio era stato di Francesco
Crispi; rimontava al 1894 e fu forse l'unico legato della politica
sua che il successore, marchese di Rudinì, non abbia cercato
di mandare in malora. Al Rudinì, anzi, ne fu attribuito il
merito, e nella circostanza delle nozze gli fu conferita dal re
Umberto la suprema onorificenza italiana, cioè il Collare
dell'Annunziata.
Perchè tra le possibili spose delle case reali d'Europa la
scelta di Crispi cadesse su Elena Petrovich, è scritto nel
Diario brevemente e lucidamente.
Il 5 dicembre 1896 Crispi visitò il re Umberto.
«Dopo pochi minuti di attesa entrai nel gabinetto del Re.
Il Re mi baciò ed abbracciò, ed io presi a discorrere:
- Ricevuto il libro sul Montenegro, che Vostra Maestà si
è degnato mandarmi, ho sentito il bisogno di venirla a
ringraziare del prezioso dono e nel tempo stesso a spiegarle i
motivi pei quali io proposi il matrimonio della principessa Elena
con l'augusto figlio di V. M., il principe di Napoli.
I motivi erano tre:
apparentarsi con una famiglia che non potrebbe avere influenza su
noi;
prendere una principessa di buon sangue;
in caso di guerra in Oriente avere un punto di appoggio nella
penisola balcanica.»
Sino agli ultimi giorni della sua vita, Crispi augurò che il
popolo turco fosse respinto in Asia e che i popoli balcanici,
liberati dalla secolare barbara dominazione e collegati, formassero
un forte Stato.
Ecco come in febbraio 1897, in una consultazione del Figaro di
Parigi, riassunse le idee sempre professate:
«Il Turco in Europa è una permanente offesa al diritto
delle genti. In quattro secoli e mezzo non ha saputo naturalizzarsi,
nè fondere in unità di nazione le razze sulle quali ha
esercitato ed esercita il suo crudele impero.
La sua lingua non ha letteratura, e sul suolo maledetto le arti
belle non sorgono ad allietare la vita. Colà non è
possibile l'ordinamento del comune; il municipio è nella
Chiesa o nella sinagoga e le genti si distinguono per la religione
che professano e non per la civiltà che sola potrebbe essere
il pungolo alle azioni benigne ed oneste.
Sul luogo istesso, nella stessa città, - se tal nome
potessero meritare quegli ammassi di case luride che l'incendio di
tanto in tanto ripulisce e fa rinnovare - coabitano, non convivono,
il greco, lo slavo, il rumeno, l'albanese, sospettosi e senza amore,
e su tutti sovrasta il turco con la brutalità di un
selvaggio, al quale l'islamismo ispira odii e vendette.
Abdul Hamid Can, ricco di vizii e di paure, essendo il califfo,
cioè re e supremo pontefice, capo dello Stato e capo della
religione, è inetto ai civili miglioramenti nel governo dei
popoli, perchè ad ogni riforma nello interesse dei cristiani
si trova l'ostacolo di un versetto del Corano.
Questo disordine morale si perpetua per l'antitesi che domina le
esigenze politiche di ciascuna delle grandi potenze. Io non so quali
siano i patti dell'alleanza franco-russa. Ricorderò soltanto
che quando a Tilsit Napoleone ed Alessandro trattavano la
ripartizione del vecchio continente, il grande imperatore era pronto
a cedere le Provincie danubiane, ma si rifiutava di dare
Costantinopoli allo Czar. Si parla di accordo europeo per la
soluzione della questione d'Oriente. Illusione! Questo accordo
è affatto negativo. Lo scopo costante delle potenze finora
è stato d'impedire al russo il possesso di Costantinopoli.
Al 1854 le potenze occidentali invasero la Crimea e lo czar
Nicolò dovette sospendere la marcia delle sue truppe. Al 1878
lo czar Alessandro, minacciato dalle navi inglesi, dovette fermarsi
a Santo Stefano. L'impero turco era salvo, l'ambizione moscovita
veniva arrestata nel suo periodico svolgimento; ma la quistione
d'Oriente non era risoluta.
È un pericolo che bisogna rimuovere una volta per sempre,
è un problema che dobbiamo avere il coraggio di sciogliere, e
non rimandarlo di anno in anno alle future generazioni.
Al 1856 a Parigi, salvo la proclamazione di alcuni principii di
diritto internazionale per la libertà dei mari, tutti gli
sforzi, tutte le cure delle potenze raccolte in Congresso, furono
diretti a garantire la vita dell'impero ottomano. Sangue e danaro
perduti, perchè la Conferenza di Londra del 1871
restituì allo Czar quello che gli era stato tolto; premio
dovuto dalla Germania alla Russia per la neutralità mantenuta
nella guerra franco-prussiana.
Oggi siamo da capo colla quistione d'Oriente. Le stragi degli
Armeni, che da due anni si ripetono, sono seguite da quelle dei
Cretesi. L'Europa si commuove, le grandi potenze mandano le loro
navi nelle acque greche, il furore turco si rivela come prima, le
genti balcaniche minacciano una insurrezione.
Come finirà questa brutta tragedia? Le grandi potenze
continueranno a curare con rimedii empirici questa piaga orientale,
che ogni giorno più incancrenisce?
Domando ai francesi: avete una soluzione? Avreste il coraggio di
dare Costantinopoli al giovine Czar per ricostituirvi l'impero
bizantino? Ciò sarebbe contrario alle vostre tradizioni, le
quali v'impongono di difendere i popoli oppressi. Pel mio amico, il
principe di Bismarck, che non sacrificherebbe un solo soldato della
Pomerania pro o contro il Sultano, la risposta sarebbe facile. Egli
crede che lo Czar, padrone di Costantinopoli, diverrebbe più
debole di quello ch'è oggi, chiuso entro i suoi ghiacci, e
che l'Europa potrebbe batterlo con sicuro successo. Io, in
verità, non vorrei fare la prova, e la mia soluzione è
diversa. Il partito nazionale italiano, del quale io sono stato un
modesto soldato, vorrebbe una Confederazione balcanica con
Costantinopoli sua capitale. Gli elementi di questo nuovo
ordinamento politico esistono nei cinque Stati, la cui indipendenza
è stata riconosciuta dall'Europa: la Rumania, la Bulgaria, la
Serbia, la Grecia, il Montenegro. Costituite altri Stati, se volete;
od aggiungete a quelli esistenti le popolazioni della stessa razza,
della stessa lingua, della medesima religione e l'ordine sarà
ristabilito per sempre in quelle regioni. I mussulmani potrebbero
trovarvi posto, se lo volessero, ma da fratelli, non da signori. Ma
lo Czar resti entro le attuali sue frontiere, ed il Sultano se ne
vada in Asia. E la Grecia non pensi a disseppellire Bisanzio, che
ricorda la decadenza e non la vita di un impero. E così la
quistione d'Oriente sarebbe definitivamente risoluta e conservata la
pace d'Europa.
La Confederazione balcanica dovrebbe essere neutrale.»
Capitolo Nono.
Le stragi d'Armenia e il concerto europeo.
Gladstone e le stragi d'Armenia. - Le Potenze esigono un'inchiesta
internazionale. - L'Italia e la Commissione d'inchiesta. - Il
Sultano scongiura che i delegati delle Potenze non interroghino i
testimoni. - Risultati dell'inchiesta e rifiuto del Sultano di
concedere le riforme propostegli. - La Russia si oppone alle misure
coercitive contro il Sultano. - Nuovi massacri. - Gli ambasciatori
chiedono un secondo stazionario a Costantinopoli. - Le squadre
europee in Levante. - L'Inghilterra vorrebbe spodestare il Sultano.
- Le stragi rimangono impunite; la Russia protegge il Sultano.
Le stragi d'Armenia del 1894-96 riempirono il mondo di orrore.
Guglielmo Gladstone - la cui voce potente tuonò contro ogni
tirannide - scrisse essere sue opinioni:
«che l'Assassino (e non i suoi sudditi maomettani) è
stato l'autore deliberato delle stragi armene dal principio alla
fine: che queste atrocità non hanno confronto nella storia
recente: che il concerto dell'Europa di fronte alla Turchia è
stato una miserabile, una brutta irrisione; che il metodo delle
rimostranze a cui si attengono le potenze di fronte all'evidenza
estrema che non si può riuscire a nulla senza la forza,
è stato una colpa morale ed uno sbaglio politico: che alcuni
sovrani e governi hanno protetto apertamente e sostenuto l'Assassino
e che la presenza delle ambasciate a Costantinopoli in sostanza si
rivolvette in uno scherno ed appoggio dato a lui ed a' suoi
misfatti: che la coercizione da un pezzo si sarebbe dovuta adoperare
e potrebbe anche oggi riescire ad evitare un'altra serie di eccidii
peggiori ancora di quelli di cui già fummo spettatori.»
Di quelle stragi un chiaro pubblicista italiano, in una relazione
presentata a Crispi in dicembre 1895 sulla situazione della Turchia,
scriveva:
«V. E. sa meglio di me che le stragi d'Armenia, come quelle di
Bulgaria nel 1875, sono un natural portato della politica
tradizionale turca, la quale ogni volta che ha visto gli elementi
cristiani in qualche parte dell'impero prevalere su quelli turchi
pel numero, per la ricchezza o per la cultura, ha ristabilito
l'equilibrio col metodo primitivo della decimazione. Quando
l'applicazione del regolamento di Midhat-pascià, che aveva
fatto del vilayet di Bulgaria un paese amministrativamente quasi
autonomo, portò i suoi frutti, e i bulgari cominciarono a
fondare scuole, a mandare i loro figli a studiare in Europa, e
accennarono per altre vie a svegliarsi e a riscuotersi dalla
barbarie, venne da Costantinopoli la parola d'ordine; e cominciarono
i massacri che condussero alla guerra turco-russa e alla liberazione
della Bulgaria.
Lo stesso è accaduto in Armenia. Appena per la trasformazione
del Patriarcato in una istituzione elettiva e per la costituzione a
Londra di un Comitato armeno che propugnava l'idea, se non della
indipendenza politica, almeno dell'autonomia amministrativa, il
Sultano ha incominciato a vedere che gli armeni, i quali avevano
già nelle loro mani i tre quarti della ricchezza dell'impero,
acquistavano la coscienza della loro superiorità morale sui
turchi e dei loro diritti, l'idea del massacro si è
presentata al suo spirito.»
Alla fine del 1894 l'opinione pubblica di Europa, esasperata per le
notizie d'immani eccidi di cristiani commessi dai Kurdi in Armenia -
notizie che trapelavano nonostante il terrore e gli sforzi delle
autorità ottomane - reclamò l'intervento delle potenze
e una inchiesta internazionale.
Il governo inglese era il più designato per presentare il
reclamo; gli armeni erano i protetti dell'Inghilterra, avendone
questa, con la convenzione anglo-turca seguita al Trattato di
Berlino, assunto ufficialmente la tutela. D'altronde il Comitato
anglo-armeno di Londra, del quale facevano parte parecchie
notabilità britanniche, era riuscito a creare un movimento
del quale il Governo non poteva non tener conto.
La Sublime Porta, soltanto con lo scopo di gettare polvere negli
occhi, mandò in Armenia dei funzionari ottomani per fare
un'inchiesta. Ma poichè s'accorse subito che nessuno avrebbe
prestato fede ai risultati di essa, Said-pascià
cominciò coll'offrire al ministro degli Stati Uniti a
Costantinopoli di aggregare un americano alla Commissione ottomana;
poi, si dichiarò pronto ad accettare anche un vice-console
inglese.
Ma il Governo d'Inghilterra impose che la Commissione fosse
internazionale e consigliò alla Porta d'invitare la Francia e
la Russia a parteciparvi con loro delegati. L'invito fu fatto e i
Governi di Pietroburgo e di Parigi l'accettarono. Il Governo
italiano, allora, domandò che della Commissione facesse parte
anche un suo console.
L'ambasciatore d'Italia, Catalani, telegrafava il 15 dicembre:
«Nel nostro colloquio, Nelidow [ambasciatore russo] si
è espresso nel modo più deciso contro la
partecipazione Console d'Italia inchiesta. Ha detto che Italia non
ha interessi in Armenia, che il nostro concorso darebbe carattere
politico all'inchiesta, ed ecciterebbe popolazioni ad insorgere. Ho
ribattuto inutilmente argomenti trattandosi di risoluzione
già presa.»
Se l'Italia non aveva interessi diretti in Armenia, il suo concorso
all'inchiesta era, per questa considerazione, più indicato,
poichè dava maggior guarentigia alle popolazioni, alla Porta
e all'Europa, d'imparzialità e di giustizia. D'altronde il
Catalani, sapendo che la partecipazione dell'Italia era desiderata
dall'Inghilterra, insistette e, nonostante gli intrighi russi e
francesi presso Said-pascià, riuscì nell'intento di
fare aggregare alla Commissione un proprio delegato.
Era stato convenuto tra gli ambasciatori d'Inghilterra, di Russia e
di Francia che i Consoli europei ad Erzerum avrebbero fatto
accompagnare la Commissione d'inchiesta turca da loro delegati; a
questi era data facoltà d'indicare alla Commissione i
luoghi da visitare e le persone da interrogare e, in casi speciali,
d'interrogare essi stessi i testimoni. Il 20 dicembre Catalani
telegrafava:
«Sublime Porta non ha sinora risposto alla nota identica dei
tre ambasciatori e nulla è quindi concluso circa rapporti che
dovranno avere i delegati colla Commissione turca. Jeri Sultano
inviò un ex-Gran Visir dall'ambasciatore di Francia
dichiarando essere pronto a destituire immediatamente tutte le
autorità implicate nei recenti massacri, a condizione che i
delegati non accompagnino Commissione turca od almeno che non
abbiano facoltà d'interrogare in caso di bisogno i testimoni.
Il fatto è che il Sultano teme che Zechi pascià,
comandante in capo delle truppe, non produca firmano col quale
ricevette da S. M. ordine dei massacri. Proposta del Sultano
è stata respinta. Tre ambasciatori hanno invitato Sublime
Porta ordinare Commissione turca fermarsi dovunque essa si trovi,
dichiarando nulla e non avvenuta inchiesta fatta senza presenza
delegati. Ambasciatore d'Inghilterra crede che saranno necessarie
due settimane prima che delegati possano raggiungere
Commissione.»
I tre ambasciatori non potevano infatti - neppure quelli di Russia e
di Francia più favorevoli al Governo ottomano - decentemente
cedere; e il Sultano, temendo che l'Inghilterra sarebbe rimasta sola
e avrebbe fatto una inchiesta per suo conto, non parlò oltre
di limitazioni ai poteri dei delegati europei.
In seguito all'inchiesta, che assodò responsabilità
gravissime delle autorità ottomane e del sistema, fu redatto
dagli ambasciatori un progetto di riforme e proposta una Commissione
europea di controllo per l'applicazione delle medesime. Il delegato
italiano fece una inchiesta indipendente pel suo Governo.
Che cosa fece il Governo ottomano? Si affrettò ad accogliere
i saggi consigli che gli si davano?
Il 4 giugno 1895 Catalani43 telegrafava:
«Contrariamente ad ogni aspettazione, risposta Sultano ai tre
ambasciatori fu un rifiuto. Sua Maestà dichiara che le
riforme da lui promulgate anteriormente saranno applicate a tutta
l'Armenia, ma senza alcun controllo estero. Tre ambasciatori
decisero ieri sera riferire risposta ai loro governi ed aspettare
istruzioni.»
Il 17 giugno la Porta assicurò che le riforme sarebbero state
attuate in base all'art. 61 del Trattato di Berlino, sotto la
sorveglianza di un Alto Commissario «degno di fiducia» -
e che alle ambasciate sarebbero state date informazioni circa
l'esecuzione delle riforme medesime.
La Russia e la Francia, che avevano accettato di partecipare
all'inchiesta soltanto per sorvegliare l'Inghilterra, furono felici
di separarsi da questa nell'apprezzamento dell'affronto ricevuto.
«Mentre l'ambasciatore britannico è molto irritato - si
telegrafava a Roma - l'ambasciatore di Russia prende la cosa quasi
con indifferenza». E a lord Salisbury - ritornato allora al
Governo - non rimase che raccomandarsi a Berlino affinchè
l'ambasciatore di Germania a Costantinopoli suggerisse alla Sublime
Porta l'accettazione del maggior numero possibile delle riforme
proposte «per non rendere difficile la situazione del nuovo
Gabinetto inglese di fronte all'opinione pubblica».
Nel dissenso delle Potenze è naturale che il Governo turco
continuasse nel suo sistema di mancare alle promesse. Il 1.° di
ottobre una moltitudine di armeni, riunitasi al Patriarcato armeno
di Costantinopoli, si diresse per varie vie alla Sublime Porta con
lo scopo di presentare un memoriale relativo alle riforme. In vari
punti di Stambul la gendarmeria assalì quella gente pacifica,
ferendo e uccidendo parecchi, e facendo numerosi arresti.
Dall'ambasciata d'Italia si mandavano a Roma queste informazioni:
«Folla armeni continua stazionare presso Patriarcato
protestando non volere disperdersi se non hanno garanzie per loro
sicurezza.
Nuovi particolari sui fatti di ieri confermano ferocia repressione,
prigionieri trattati con crudeltà inaudita. Oggi altri fatti
isolati si produssero in diversi punti della città. Anche in
Galata situazione considerata assai grave.»
Le ambasciate delle grandi potenze furono di nuovo concordi nel
richiamare l'attenzione della Porta sulla eccezionale gravità
di quel che avveniva sotto i suoi occhi, affermando risultare loro
da informazioni sicure «che privati musulmani hanno percosso e
ucciso dei prigionieri armeni condotti da agenti di polizia,
senzacchè questi vi si opponessero, - che si sono prodotti
attacchi di privati contro persone assolutamente inoffensive, - che
i prigionieri feriti furono uccisi a sangue freddo nelle corti della
polizia e nelle prigioni».
Il 4 ottobre il Patriarca armeno invocava la protezione degli
ambasciatori per i suoi connazionali terrorizzati; egli affermava di
non potere persuaderli ad uscire dalle chiese ove si erano
rifugiati. In seguito a questo appello, gli ambasciatori
presentavano alla Porta una nota collettiva nella quale, insistendo
sulla gravità degli avvenimenti passati, si chiedeva al
Governo ottomano quali misure contasse di prendere per calmare
l'agitazione musulmana e armena, prevenire il ripetersi dei
deplorati incidenti e proteggere cristiani e stranieri. Reclamavano
inoltre una inchiesta immediata e severa; e frattanto risolvevano di
far avvicinare a Costantinopoli le navi stazionarie.
L'8 e il 10 ottobre da Trebisonda telegrafavano:
«Terribile massacro Armeni; tutt'oggi città in
balìa del popolo turco armato, truppa scarsissima impotente
lasciò fare, anzi soldati presero parte massacro e
saccheggio. Vittime molte. Consolato, chiesa, scuola protette, ma
pericolo ancora immenso. Indispensabile immediato invio truppa da
Costantinopoli.»
«Massacro ieri l'altro durato dalle undici alle quattro,
seguìto completo saccheggio case, negozi armeni. Morti sopra
cinquecento (?). Notte seguente, lo stesso accadde villaggi armeni
vicini. Ieri, calma relativa salvo nuovo panico rumore sparso arte;
Consolati tuttora quantità rifugiati. Positivamente, massacri
concertati connivenza autorità civili e militari.
Valì, contro formale promessa, chiese truppa solo dopo
massacro. Jersera, arrivò battaglione con maggior generale
nominato presidente tribunale guerra. Stato d'assedio oggi
proclamato. Aspettasi corazzata russa.»
Diminuita, ma non sedata l'agitazione, la Sublime Porta si persuase
a riprendere il programma, proposto dai tre ambasciatori, delle
riforme armene, le quali il 17 ottobre furono promulgate con un
iradè del Sultano. Non erano tutte le riforme sulle quali
l'Inghilterra specialmente aveva insistito, ma lord Salisbury
dovette pel momento contentarsene, sebbene senza speranza che
raggiungessero lo scopo della pacificazione.
La comunicazione del testo delle riforme deliberate era stata fatta
ufficialmente soltanto ai tre ambasciatori. L'Italia, insieme alla
Germania e all'Austria-Ungheria, dovette reclamare in base al
Trattato di Berlino uguale trattamento, per trovarsi sullo stesso
terreno delle altre potenze nella sorveglianza dell'adempimento da
parte della Porta degl'impegni assunti dinanzi all'Europa.
La questione, in verità, era tutt'altro che chiusa: i
massacri di cristiani continuavano in Armenia; fu proposto un altro
passo collettivo delle Potenze presso la Porta per invitarla ad
esercitare la sua autorità pel mantenimento dell'ordine
pubblico; ma gli ambasciatori russo e francese dissentirono,
giudicando quel passo inutile e inopportuno. In realtà il
Governo imperiale, dopo avere scatenati gli odii e il fanatismo
religioso, era impotente a trattenerli; e il peggio era che
l'anarchia si estendeva in altre provincie dell'Impero ottomano. Le
cose giunsero al punto che i sei ambasciatori non poterono, dinanzi
ai pericoli che sovrastavano, non accordarsi in un atto di protesta,
che fu una diffida. Il Sultano licenziò tutti i ministri,
allontanò Kiamil-pascià, di cui diffidava, relegandolo
ad Aleppo; ma con la scelta dei nuovi suoi consiglieri accrebbe le
diffidenze sulle sue intenzioni. Che cosa di Abdul-Hamid si pensasse
in quel momento (novembre 1895) nelle sfere diplomatiche di
Costantinopoli, si legge in queste righe:
«Ambasciatore di Germania a Costantinopoli opina che il
Sultano si sostiene soltanto per rete inestricabile spionaggio,
organizzato da tutte le parti, che rende tutti reciprocamente
diffidenti, ed impedisce congiure. Marschall ritiene situazione
sempre più grave. Russia ed Inghilterra assicurano non volere
intervenire, ma avvenendo catastrofe, possono eventi essere
superiori buon volere. Si prevede eventualità di dover
spodestare Sultano attuale e mettere al posto successore naturale.
Ad ogni modo Marschall confida nella stretta unione delle Potenze
della triplice alleanza.»
Intanto, mentre il nuovo ambasciatore italiano in Turchia, Pansa,
telegrafava:
«Kiamil partito oggi per Smirne, ove ottenne essere destinato,
invece di Aleppo. Corre voce possibili nuovi cambiamenti
ministeriali. Temesi ripetizione dimostrazione armena in Pera, il
che creerebbe gravissimo pericolo. Sultano in preda morbosa
esaltazione, che rende possibile qualunque sorpresa. Tutti gli
ambasciatori si sono oggi riuniti per combinare misure eventuale
protezione.»
Crispi ordinava l'invio della flotta italiana nelle acque turche.
Contemporaneamente il Governo francese decideva che una divisione
della sua squadra del Mediterraneo si recasse in Levante.
Le navi Re Umberto, Doria, Stromboli, Etruria, Partenope partirono
da Napoli il 16 novembre.
Frattanto gli ambasciatori presso il Sultano telegrafavano ai
rispettivi Governi che, in vista del crescente malcontento dei
turchi e di qualche possibile catastrofe a Palazzo, era opportuna la
presenza nel Bosforo di un secondo stazionario, con marinai da
sbarco per la protezione delle ambasciate. Avutane l'autorizzazione,
gli ambasciatori richiesero il firmano per l'entrata negli Stretti
della seconda nave; ma, nonostante il parere del Consiglio dei
Ministri, il Sultano, temendo che l'Europa preparasse la sua
deposizione, rifiutò di accordarlo. Riunitisi i
rappresentanti delle grandi potenze, quello d'Inghilterra, Currie,
propose che se il firmano richiesto non fosse accordato, i secondi
stazionarii entrassero nei Dardanelli sotto la protezione delle
squadre; dissentirono gli ambasciatori di Russia e di Francia
dichiarando di non avere istruzioni dai loro Governi.
La proposta di Currie combinava col parere del Cancelliere
austro-ungarico, conte Goluchowski, comunicato ai Gabinetti delle
Potenze il 15 novembre. Il Goluchowski opinava che tutte le Potenze
tenessero in Levante squadre, dalle quali gli ambasciatori a
Costantinopoli potessero in breve tempo distaccare navi per la
protezione della vita e della proprietà dei connazionali. Non
si sarebbe dovuto, in caso di necessità, fermarsi dinanzi
alle proteste della Porta per l'entrata delle navi da guerra nei
Dardanelli.
Vi fu allora un vivo scambio di comunicazioni tra i Gabinetti, il
cui risultato fu che la Russia, temendo che Inghilterra, Austria e
Italia avrebbero agito ugualmente, finì col dare ordine al
proprio ambasciatore di associarsi alla intimazione proposta. La
Francia, che in tutta la questione seguiva fedelmente la condotta
della Russia, fece altrettanto. E il 10 dicembre i firmani imperiali
erano concessi a tutte le sei grandi Potenze.
Ma il Governo russo non mancò di far sapere che non sarebbe
andato più oltre, e non si sarebbe associato ad altre misure
di coercizione, come quelle indicate da Goluchowski, sostenendo che
bisognava sorreggere il prestigio del Sultano e non indebolirlo, se
si voleva che egli riuscisse a ristabilire l'ordine nell'Impero.
Rotto così il concerto europeo, Crispi avrebbe voluto che in
Oriente, come nel Mediterraneo, la politica dell'Inghilterra,
dell'Austria e dell'Italia riprendesse il corso che aveva avuto
durante il suo primo Ministero, in base agli accordi del 1887.
Della decisione di Crispi a prender parte in prima linea ad
un'azione contro il malgoverno ottomano, che alla metà del
novembre 1895 sembrò inevitabile, abbiamo più di un
documento.
L'Italia, cercando di procedere d'accordo con l'Inghilterra, si era
dichiarata pronta ad unire le proprie forze navali a quelle
britanniche. Quando la squadra italiana al comando del
vice-ammiraglio Accinni ebbe ordine di salpare per il Levante, l'on.
Crispi ricevendo (16 novembre) l'Accinni e l'on. Bettolo, allora
capitano di vascello, fece loro augurii di vittoria:
«Facciamo il dover nostro - egli disse - e teniamo alta la
bandiera d'Italia. Ho piena fede in voi. La bandiera nazionale
è affidata in buone mani. Iddio vi benedica.»
Nello stesso Diario, dal quale trascriviamo queste parole, Crispi
prese le seguenti note:
«21 novembre. - Alle 9.15 i Reali giungono a Roma provenienti
da Monza. Avendomi il Re invitato a recarmi da lui al Quirinale,
sono ricevuto alle 10.
Espongo al Re lo stato delle cose in Oriente. Le potenze sono
d'accordo nella loro azione verso la Porta Ottomana. Il passo
dell'Austria fu inopportuno. Non era possibile che la Russia
consentisse il passaggio degli Stretti alle flotte europee. Essa non
poteva permettere un condominio, anche temporaneo, nel Mar Nero.
Doveva quindi rifiutarsi. Il rifiuto però non ha rotto gli
accordi. La posizione del Sultano è grave. Si trova tra due
fuochi: il fanatismo musulmano e la volontà dell'Europa
decisamente espressa. Sarà gran fortuna per lui e per le
grandi potenze, se giungerà a ristabilire l'ordine nel suo
impero.
La nostra flotta è a Smirne. Il vice-ammiraglio Accinni ebbe
ordine di essere cortesissimo coi Francesi. L'ammiraglio Seymour
offrì alla nostra squadra un comodo ancoraggio a Salonicco.
Non ne abbiamo ancora profittato. Lord Salisbury dichiarò di
ritenere in vigore gli accordi del 1887. Dichiarò che vuol
procedere d'accordo con noi e che in caso di occupazione dei
Dardanelli toccherebbe all'Italia la espugnazione delle fortezze
turche.
Spero nella pace, ma ho preveduto il possibile caso della
guerra.»
Delineatosi il dissenso tra le Potenze, lord Salisbury visse e fece
vivere giorni di grande indecisione. Mentre il 15 novembre egli
dichiarava all'ambasciatore d'Italia, generale Ferrero, di
«voler profittare, anche in prossime evenienze, della nostra
collaborazione» - mentre il barone Marschall assicurava
risultargli da rapporti giuntigli da Londra che il nobile lord era
«deciso ormai a rientrare nella linea della sua antica
politica», e il 17 l'ammiraglio sir Seymour, comandante della
squadra inglese ancorata a Salonicco, faceva premure affinchè
lo raggiungesse colà la squadra italiana - quando, pel
rifiuto russo di associarsi ad una dimostrazione negli Stretti,
sembrava che pel suo precedente atteggiamento l'Inghilterra avrebbe
dovuto passar oltre, - lord Salisbury non solo non si risolvette a
muoversi coi suoi alleati, ma alla fine di novembre avanzò a
Pietroburgo, isolatamente, senza prevenirne i Gabinetti di Roma e di
Vienna, una proposta formale per stabilire una specie di tutela
sull'Impero ottomano, che il Governo russo declinò.
Data da quell'epoca la lenta conversione dell'Inghilterra verso la
duplice alleanza.
LA TRIPLICE ALLEANZA
E L'INGHILTERRA.
Capitolo Decimo.
La crisi delle alleanze e degli accordi.
La politica estera dei successori di Crispi dal 1891 al 1893. -
Conseguenze immediate dell'inerzia italiana negli affari d'Oriente
avvertite dal Blanc. - Germania e Austria desiderano il ritorno di
Crispi al governo. - Colloqui di Crispi con gli ambasciatori di
Germania e d'Austria-Ungheria. - I torbidi interni del 1893-94
deprimono il credito dell'Italia all'estero. - Guglielmo II e
Crispi. - Motivi del ritiro di Caprivi dalla Cancelleria germanica.
- Nomina di Hohenlohe. - Favorevoli disposizioni di Guglielmo II
verso l'Italia. - Crispi e il dissidio anglo-germanico pel
Transvaal. - L'Italia nella politica internazionale al principio del
1896. - La crisi delle alleanze e degli accordi. - I tentativi per
ristabilire le antiche intelligenze con l'Inghilterra falliscono. -
Dal Diario di Crispi. - Necessità di estendere i patti della
Triplice alla protezione degl'interessi italiani nel Mediterraneo e
in Oriente. - Energiche rimostranze di Crispi. - L'imperatore di
Germania annunzia un suo viaggio in Italia per conferire con Crispi,
ma questi prima della venuta dell'imperatore deve abbandonare il
governo.
Abbiamo notato in questo stesso volume che quando riprese le redini
del Governo, Crispi trovò tutta mutata la posizione
dell'Italia in Europa. La Triplice era stata rinnovata, ma era
tornata ad essere come nel primo periodo, dal 1882 al 1887, un
legame oneroso; e gli accordi speciali con l'Inghilterra e con
l'Austria-Ungheria, che formavano il complemento della Triplice,
erano caduti nel nulla.
Sia perchè mancasse ai successori di Francesco Crispi
l'elemento prezioso dell'autorità personale, sia
perchè la loro azione fosse pregiudicata da dichiarazioni
pubbliche accennanti a preferenze per un diverso orientamento della
politica italiana, l'edificio innalzato con tante fatiche
crollò. Germania e Austria cominciarono a guardarci con
diffidenza; - la Francia, tra le proteste di amicizia a lei e il
mantenimento dell'alleanza con le Potenze centrali, non vide chiaro
e continuò le sue ostilità; - l'Inghilterra,
convintasi della nostra incostanza e debolezza, accentuò la
sua tendenza a intendersi a tutti i costi con la sua antica nemica,
la Francia. Cosicchè si andò formando questa
situazione: le nostre alleanze ci garentivano l'integrità
territoriale, ma ci attiravano nello stesso tempo tutti i danni
della guerra tenace che i francesi, sapendoci indifesi, ci facevano
dovunque; e inoltre eravamo tenuti in disparte dalle combinazioni
della grande politica europea.
Uno dei nostri migliori diplomatici, il barone A. Blanc, che fu
ministro degli affari esteri nel secondo ministero Crispi, aveva
veduto subito nel 1891, dall'osservatorio importantissimo che era
allora Costantinopoli, i danni del nuovo indirizzo e li aveva
segnalati:
«Terapia, 30 giugno 1891.
.... Non si può più dissimulare al pubblico, il quale
qui incomincia a scandalizzarsi dell'impotenza della diplomazia
anche per la protezione dei nazionali esteri, che, distruttosi il
concerto europeo, del che le ambasciate di Russia e di Francia
accusano le potenze alleate, non vi fu sostituita la preponderanza
effettiva di queste ultime, onde anarchia in un governo che senza
ingerenza europea non può compiere i suoi obblighi interni ed
internazionali. Il Sultano non crede il gruppo anglo-austro-italiano
capace d'una vera e seria azione solidale; è convinto non
potersi più riunire gli ambasciatori in conferenze; li
oppone, più che non potè far mai pel passato, l'uno
all'altro, sfidandoli, finchè osa, tutti.
I ministri ed il Palazzo in piena balìa di finanzieri, il
Sultano che investe personalmente in Inghilterra ed in America
quanti più capitali può, aspettano la preveduta fine;
ed il Sovrano diceva testè ad un suo famigliare: «Che
direste se accettassi la protezione russa?» Per ciò
militarmente il Bosforo è aperto alla Russia e i Dardanelli
sono chiusi a noi. Non vi sarebbe resistenza armata nè
reazione di popolo contro la Russia, se questa sbarcasse una
divisione a tre ore dalla capitale. Sarebbero allora in tempo le
squadre inglesi o le squadre alleate a rinnovare la dimostrazione
fatta nel 1878 a Santo Stefano? Non è probabile. O può
dirsi che una volta a Costantinopoli la Russia sarebbe in una
trappola, in condizioni insostenibili? Al punto di vista militare e
navale, può darsi: al punto di vista politico, da nessuno,
neppure dagli uomini di Stato bulgari si nega che intorno a
Bisanzio, restituita alla ortodossia, tutti gli Slavi dei Balcani
saranno trascinati da irresistibile impulso, come nel 1861 tutti gli
Italiani si unirono al grido di Roma capitale. Che avverrà
allora dell'ideale nostro delle autonomie, la cui unica guarentigia
sarebbe stata la preponderanza politica e navale dell'Inghilterra e
dell'Italia sui porti della Turchia europea? Che avverrà
allora della teoria germanica dell'inorientazione
dell'Austria-Ungheria? e della possibilità di soddisfazioni,
a meno d'un'altra gran guerra, nell'interesse anglo-italiano
d'equilibrio nel Mediterraneo? Non è forse abbastanza
valutato dalla Germania e dall'Austria-Ungheria il fatto che in
certi momenti la presenza d'un principe di loro fiducia a capo di
tale o tal altro Stato balcanico non è punto sufficiente ad
impedire rivolgimenti di volontà popolare? Basti ricordare
come trionfò la causa della riunione della Rumelia orientale,
tanto avversata e temuta a Vienna e a Berlino, per dimostrare che,
anche in Oriente, si deve pur tener conto delle tendenze dei popoli.
Questa regia ambasciata s'inspirò fin dal 1887 al
convincimento che a tale situazione è pericoloso applicare la
massima inertia sapientia; che la pace e lo statu-quo legale non
sospendono il corso della evoluzione delle nazioni; che in piena
pace, in pieno regime d'alleanze, se l'Egitto diventò inglese
e se il versante sud dei Balcani diventò bulgaro, più
facilmente ancora possono stabilirsi nel Mediterraneo nuove
condizioni propizie o contrarie agli essenziali interessi italiani;
che il programma di pace essendo per sè negativo, non si
doveva esporre l'Italia a non vedere più altri scopi positivi
per l'alleanza se non quelli odiosi che le attribuiscono i nostri
avversari, cioè un appoggio cercato all'estero per le
istituzioni monarchiche, o un pegno preso sulla eredità d'una
Francia minacciata di smembramento; e che in conclusione,
perchè l'alleanza diventasse popolare e proficua, e fosse
nella coscienza italiana non un espediente necessario alla
sicurezza, ma una base di fruttuosa operosità, dovessimo,
dopo aver rifiutato disgraziatamente quel primo premio dell'alleanza
che era l'Egitto, rifarci almeno con una legittima influenza in
Oriente, fondata sopra un liberale sviluppo di autonomie nella
penisola balcanica e sopra la preponderanza navale e politica delle
quattro potenze sugli scali del Levante.
Perciò quest'ambasciata proponeva nel 1887 quelle
intelligenze che furono adottate senz'altro a Vienna e a Londra.
Queste, che i miei colleghi amici chiamarono il patto fondamentale
della nuova politica europea in Oriente, e che sir W. White diceva
segnare una data storica, colla quale si poneva termine al secolo di
guerra caratterizzato dagli spartimenti della Polonia e della
Turchia; questo punto di partenza d'una nuova êra d'influenza,
consentitaci in Oriente, ove col fatto si decide la questione se una
potenza sia grande o piccola, dall'Inghilterra o
dall'Austria-Ungheria, ambedue allora per ragioni diverse disposte
ad appoggiarci per ingerenze per noi più naturali e
più facili, a favore delle autonomie e della libertà
degli stretti; questo programma, infine, la cui pratica attuazione,
studiata in ogni particolare, ci avrebbe costato assai meno oro e
meno forza della nostra politica militare nel mar Rosso, è
desso rimasto finalmente lettera morta! Fin dal 1888 i miei colleghi
dichiaravano non spettar più all'iniziativa di essi e mia
qui, bensì a diretti concerti tra i gabinetti, la pacifica ma
efficace attuazione di quelle intelligenze. Havvi luogo ancora di
sperare che intervengano simili concetti, estesi, cioè, ad
altri interessi pacifici nel Mediterraneo, oltre a quelli della
sicurezza delle nostre coste!
Succede ora un fatto capitale, che fu appena avvertito in Italia, il
riparto virtuale dell'Africa tra l'Inghilterra, Germania e Francia,
le quali sole si inoltrano verso i decisivi punti centrali, ove fra
le sorgenti dei grandi fiumi verrà decisa un giorno la
preponderanza sul continente nero, - mentre la Tripolitania senza
l'hinterland non è più, per le relazioni che a noi
premono tra il Mediterraneo e l'Africa, che quasi un non valore,
secondo l'espressione del signor di Radovitz. Mentre durano la pace
e l'apparente statu quo, sipario calato davanti agli spettatori,
velo protettore dietro il quale altri opera mutamenti di scena
d'importanza mondiale, vedremo noi troppo tardi verificarsi
qui altre trasformazioni per noi non meno gravi, di cui forse
oggidì i preludi passano dalla nostra diplomazia
inosservati?»....
«Costantinopoli, 2 settembre 1891.
Il 26 luglio informavo Vostra Eccellenza che questo incaricato
d'affari d'Inghilterra aveva, d'ordine del Foreign Office, avvisato
la Porta che le condizioni dell'isola di Candia vanno peggiorando
pei numerosi misfatti; al punto da far temere che ne approfitti a
scopi politici chi è interessato a fomentare una nuova
insurrezione nell'Isola.
Il 20 agosto sir W. White, tornato da una breve escursione in
Germania, aveva con me un colloquio particolare nel quale egli mi
faceva prevedere che mi avrebbe diretto prossimamente una
comunicazione sugli affari cretesi in seguito ad «uno scambio
d'idee avvenuto tra i gabinetti di Londra e di Parigi». Egli
era in possesso della relativa corrispondenza, piuttosto voluminosa,
tra lord Salisbury ed il signor Ribot, non conosciuta dai nostri
rappresentanti a Parigi e a Londra. Il 23 agosto sir W. White
parlò pure al signor di Radovitz di una comunicazione che gli
avrebbe fra breve fatta circa le cose di Candia, ma senza spiegarsi,
che io sappia, altrimenti.
Per altro Vostra Eccellenza mi segnalava il 22 agosto la
coincidenza, che non le sembrava fortuita, tra l'annunzio a noi
fatto dal signor de Giers con dimostrazioni di fiducia, che la
Russia intende insistere presso la Porta per provvedimenti acconci
alle condizioni aggravate di Candia, e una domanda fatta al regio
Ministero da codesto Incaricato d'affari di Grecia, se cioè
l'Italia sarebbe disposta ad associarsi alle rimostranze di alcune
grandi potenze al Governo ottomano circa i casi di Candia, anche
quando Austria e Germania non vi prendessero parte. Il
rappresentante ellenico a Roma rinnovava l'invito il 26 agosto,
chiedendo più precisamente a Vostra Eccellenza se l'Italia
avrebbe voluto associarsi non solo alla Russia, che ce n'aveva
avvisati, ma alla Francia e all'Inghilterra, che verso di noi
mantenevano il silenzio, per ottenere un migliore Governo per
Candia.
Vostra Eccellenza avendomi pregato il 28 agosto, in base a tali
comunicazioni della Russia e della Grecia, di assumere informazioni
circa la notizia pervenutale «da altra parte» che
l'Inghilterra, d'accordo colla Francia e coll'Austria-Ungheria,
aveva fatto passi presso la Porta a favore di Candia, Le risposi
ricordando che già il 26 luglio precedente io aveva riferito
a Vostra Eccellenza come l'Inghilterra avesse fatto presso la Porta
il passo che ho accennato di nuovo più sopra, e non altro
passo qualsiasi. Prima e dopo di quelle date, il mio collega
d'Austria-Ungheria non ha comunicato alla Porta, mi dice egli, se
non, come al solito, le informazioni dei consoli locali
austro-ungarici sulle cose cretesi; anch'egli per altro aveva
ricevuto l'annunzio da sir W. White d'una prossima comunicazione
sulle cose di Candia, e dopo ciò sir W. White si era
limitato, aggiungevami il barone di Calice, a colloqui confidenziali
coi soli ambasciatori di Francia e di Germania. Così
l'Austria-Ungheria dimostrava a noi essere rimasta estranea a tutto
il negoziato, cosa degna di nota dopo le circostanze segnalate nel
mio rapporto del 30 giugno scorso, indicanti una diminuzione di
fiducia dei gabinetti di Londra e di Vienna verso la politica
italiana.
Trovandomi il 28 a sera all'ambasciata d'Inghilterra, sir W. White
mi disse avere aspettato l'occasione d'incontrarmi per notificarmi
il risultato delle sue conferenze col collega di Francia. Egli aveva
avuto, in conformità d'istruzioni del suo Governo, un ultimo
colloquio col conte di Montebello sulle presenti condizioni di
Candia, la quale da recenti rapporti dei consoli inglesi e francesi
risultava un poco più tranquilla. Nè egli, nè
il conte di Montebello si erano trovati in grado di proporre alcun
passo che non si riducesse ad ufficiose osservazioni alla Porta nel
senso di conservare la pace e l'ordine dell'isola. Il conte di
Montebello avevagli dichiarato non essere propenso ad alcuna
ufficiale osservazione alla Porta, disposizione questa nella quale
sir W. White conveniva pienamente. Quanto precede era stato portato
a cognizione di lord Salisbury. Sir W. White mi disse inoltre che
per conto suo non avrebbe fatto, salvo ordine del suo Governo, alcun
passo formale dopo quello già fatto, come le avevo riferito
il 26 luglio, e aggiunse non poter prevedere se questi
rappresentanti di Francia e Austria-Ungheria avranno istruzioni per
analoghi passi più o meno confidenziali, ma ritenere
che ad ogni modo risulteranno passi isolati; non esservi luogo a
concerti tra i rappresentanti in Costantinopoli, ogni concerto al
riguardo, non potendo e non dovendo stabilirsi se non direttamente
tra i gabinetti stessi. Tutto ciò mi parve nuovo sintomo
dell'isolamento, conseguenza di anteriori divergenze di indirizzo
dell'Italia rispetto all'Inghilterra e all'Austria-Ungheria,
isolamento del quale volta per volta, ed ultimamente col mio
rapporto del 30 giugno, era stato mio dovere segnalare le origini.
Il 29 agosto, ulteriori mie informazioni mi davano certezza che
l'ambasciata d'Austria-Ungheria, anzichè rimanere inoperosa
quando l'incaricato d'affari d'Inghilterra faceva il suaccennato
passo, aveva, nelle sue comunicazioni al Gran Visir, dimostrato
preoccupazioni perchè si fosse sguarnito Candia di truppe, e
desiderii perchè venissero rimosse le cagioni di
complicazioni provenienti da disordini nell'Isola; ed il signor di
Radovitz mi confermò poi avere il barone di Calice tenuto un
tale linguaggio «in espresso appoggio» al passo formale
dato dall'incaricato d'affari d'Inghilterra. Ne emergono due
conclusioni per noi: in primo luogo, la conferma delle notizie
giunte all'Eccellenza Vostra di intelligenze dell'Inghilterra non
solo colla Francia, ma coll'Austria-Ungheria per Candia, senza
partecipazione al regio Governo; in secondo luogo, la
conformità del linguaggio del barone di Calice con quello del
signor de Giers, il quale, secondochè fu telegrafato a Vostra
Eccellenza da Pietroburgo, si dimostrava preoccupato perchè
il Governo ottomano continuava a sguarnire Candia di truppe per
portarle allo Yemen ove la situazione si fa più critica, il
Governo russo cercando di rimuovere ogni cagione di complicazione
internazionale circa Candia.
Così risultava ad evidenza che le due potenze alle quali ci
eravamo legati con speciali intelligenze di massima per interessi
comuni nel Mediterraneo, l'Inghilterra e l'Austria-Ungheria, si
occupavano, insieme ai gabinetti di Russia e di Francia, e senza che
Vostra Eccellenza ne avesse notizia se non da Pietroburgo e da
Atene, delle cose di Candia.
In questo corpo diplomatico si spiegava ciò col fatto che in
seguito a conferenze avute dal signor Tricoupis a Sofia, il Re di
Grecia avesse ottenuto dai gabinetti di Londra e di Parigi,
notoriamente ravvicinatisi nei negoziati che precedettero la visita
della squadra francese a Portsmouth, un qualche compenso in Candia
ai progressi dei Bulgari in Macedonia; l'Inghilterra era supposta
non aliena dal favorire la concessione ai Candioti d'un governatore
cristiano personalmente grato alla Francia, la quale così
avrebbe desistito dal premere per lo sgombro dell'Egitto;
l'Austria-Ungheria poi era evidentemente desiderosa ad un tempo di
evitare ogni passo collettivo che ponesse, come desideravano i
Greci, la questione di Candia davanti all'Europa, e di apparire
ciò nullameno per conto proprio facilitare ai Greci il
vantaggio di un'influenza francese in Creta, vantaggio anche per gli
interessi austro-ungarici, poichè diventava così meno
esclusiva la preponderanza russa in Atene, aggiungendovisi la
francese.
Intanto mi giungeva inaspettatamente una lettera del signor di
Radovitz dalla quale emerge che, secondo il mio collega di Germania,
l'Italia potesse disinteressarsi insieme alla Germania dai negoziati
iniziati dalle altre grandi potenze circa Candia. Vi era una tale
coincidenza tra l'invito di lui a non unire l'Italia ai passi
dell'Inghilterra e dell'Austria-Ungheria in una questione pur
mediterranea, e le ripetute dichiarazioni di sir W. White a me e al
barone di Calice non avere più pratico valore le intelligenze
stabilite fra i tre gabinetti nel 1887, che non esitai ad alludere a
tal punto delicato nella mia risposta al signor di Radovitz a
proposito di lui evidente tentativo d'isolare l'Italia nella
questione di Candia, della quale sole Russia e Grecia avevano fatto
parola a Roma.
Sir W. White passò nell'ambasciata di Germania la serata del
29, quando già il signor di Radovitz aveva in mano detta mia
lettera; e venne da me l'indomani mattina, a dirmi che credeva non
esservi nulla da fare per ora circa Candia. Io gli esternai il
desiderio di tenermi in ogni caso in intima relazione come per il
passato con lui e con il collega d'Austria-Ungheria, a scopi comuni.
Egli mi rispose non esservi base a concerti in tre in tali
questioni. Io m'ispirai allora al rapporto del conte Nigra del 4
agosto, e dissi a sir W. White che il conte Kálnoky, secondo
le mie informazioni, continuava a credere che le intelligenze prese
nel 1887 coll'Inghilterra non solo debbono essere considerate
in pieno vigore, ma costituiscono una base preziosa ed importante
dell'azione eventuale delle tre potenze alleate in Oriente. Sir W.
White mi domandò se il conte Kálnoky avesse fatto
qualche speciale allusione all'una o all'altra delle tante questioni
che in Oriente sono criterio di una voluta e sincera comunanza
d'interessi ed intenti, la quale, se manifestatasi nelle opere della
pace, può tanto meglio poi esternarsi negli eventuali periodi
d'azione. Replicai io non avere mai cessato dal segnalare non solo
al mio governo, ma ai colleghi d'Austria-Ungheria e di Germania, le
occasioni ed i mezzi di pacifica ed effettiva attuazione, per parte
delle tre potenze mediterranee amiche, del convenuto scopo di
benefica ed operosa preponderanza nostra comune; ma che delle tante
questioni presentatesi, economiche, religiose, o puramente
politiche, nelle quali antiche divergenze tra l'Italia e
Austria-Ungheria erano da togliersi di mezzo, ignoravo se alcuna
fosse stata trattata col conte Kálnoky, il quale menzionava
soltanto l'interesse della consolidazione del principe Ferdinando,
argomento sul quale in verità le tre potenze, come le tre
ambasciate, non hanno per un momento mancato di dimostrare la
più completa e favorevole comunanza d'apprezzamento. Ma ad
ogni modo, osservai io a sir W. White, le anteriori asserzioni di
lui stesso al barone di Calice e a me circa la caducità delle
intelligenze tra l'Italia, Inghilterra ed Austria-Ungheria per le
cose d'Oriente erano ritenute dal conte Kálnoky non conformi
alla realtà delle cose. Sir W. White mi replicò
dubitare che il conte Kálnoky avesse attualmente confermato
le intelligenze del 1887 quali vigenti ed esecutorie; mi
narrò aver egli, in una recente sua conversazione col conte
Kálnoky, chiamatane l'attenzione sui pericoli per la
conservazione dello statu quo in Oriente del sistema di doppio
governo vigente qui, ove la Porta impotente è incaricata
d'intrattenere le volontarie illusioni delle potenze alleate, mentre
il solo vero potere è nel Palazzo, ostile alle potenze
stesse; nè avergli taciuto il suo pensiero, essere funesto il
sistema della diplomazia austro-ungherese di assicurare
l'impunità al Sultano e lusingarne l'arbitrario a scopi di
apparente influenza, ed a detrimento dei più essenziali
interessi comuni delle potenze amiche in Oriente.
Tali gravi affermazioni dell'ambasciata d'Inghilterra, alle quali
egli aggiungeva, all'indirizzo della politica italiana, altri
rimproveri, sui quali la mia precedente corrispondenza mi dispensa
dal ritornare, traevano per me chiaro significato da amichevoli sue
confidenze relative a quella questione di Macedonia che,
inseparabile per la Grecia dalla questione di Candia, è
tuttora il nodo delle difficoltà balcaniche. Sir W. White
deplorava che l'ambasciata d'Austria-Ungheria, approfittando degli
intrighi turco-russi del Palazzo contro lo sviluppo degli interessi
anche commerciali e ferroviari inglesi ed italiani nella penisola
balcanica, continuasse in Turchia la politica di esclusivismo
economico che le era mal riuscita in Rumenia ed in Serbia; che a
Vienna si fosse osteggiata la riforma del Consiglio del debito
ottomano e della banca ottomana, istrumenti di monopolio
politico-finanziario avverso all'Inghilterra e all'Italia; favorito
in Macedonia i Serbi quando Re Milano era sul trono, i Bulgari solo
dopo che il principe Ferdinando venne a Sofia; sostenuto il
principio francese e russo delle protezioni religiose a pro di
protezioni austro-ungheresi sui cattolici dei Balcani,
contrariamente al principio anglo-italo-tedesco delle protezioni di
ciascuno sui propri nazionali; rifiutato di ammettere passi
collettivi presso la Porta contro il brigantaggio sulle ferrovie
ottomane sottoposte alla protezione austro-ungherese fino a
Costantinopoli ed a Salonicco; dimostrato inquietudini ad ogni
comparsa di squadre inglesi od italiane a Salonicco o a Smirne;
ammesso la teoria russa per il passaggio di truppe russe nel
Bosforo; evitato ogni adesione ai reclami inglesi e italiani contro
la complicità del Palazzo col brigantaggio e contro la
spoliazione sistematica dei rispettivi nazionali a beneficio della
lista civile, abusi coperti dalla incondizionata protezione
accordata dall'Austria-Ungheria al Sultano.
Pure malgrado tanti gravami, osservai io, l'Inghilterra aveva
negoziato coll'Austria-Ungheria per l'attuale situazione di Candia,
e coll'Italia no. Eravamo dunque in presenza di qualche nuova
combinazione a nostro danno, come nel Congresso di Berlino? Sir W.
White non rispose.
Anche il mio collega di Germania, come per dimostrarmi al pari di
sir W. White non essere diminuita la nostra reciproca fiducia
personale, si recò da me il 31 agosto ed intavolò
francamente la conversazione sul grave argomento delle scosse
intelligenze fra gli alleati in quanto all'Oriente. Sorvolando sulle
divergenze verificatesi fra i gabinetti di Roma e di Berlino circa
gli affari di Candia ed alludendo a disposizioni che negli ultimi
tempi si erano, secondo il signor di Radovitz, dimostrate a Roma a
favore della Russia, disse non potersi sperar nulla dal collega di
Austria-Ungheria ormai per gli interessi politici ed i diritti
privati compromessi dalla curée finale che si fa in Palazzo
degli ultimi elementi di vitalità dell'impero ottomano; il
barone di Calice considerare successo bastante alla propria
situazione l'aver fatto prevalere nel recente incidente di Uskub il
principio di protezione religiosa non ammesso nè dalla
Germania, nè dall'Italia, nè dall'Inghilterra; non
potersi sperare il concorso del delegato austro-ungarico al disegno
di eliminare dal debito ottomano il noto sindacato speculatore;
perfino riguardo al brigantaggio, che assume nella Turchia la stessa
indole politica che in Creta, avere egli, Radovitz, quale decano, in
assenza del barone di Calice, chiesto al suo Governo
l'autorizzazione di riunire i rappresentanti delle grandi potenze
per deliberare circa i passi da farsi presso la Porta a beneficio
anche dei sudditi di potenze minori, ma essersi il gabinetto di
Vienna opposto a qualsiasi collettività anche ristretta in
proposito. Passando alla quistione di Candia il signor di Radovitz
mi confidò che le istruzioni di lord Salisbury a sir W. White
ordinavano a quest'ultimo non solo di conferire col conte di
Montebello ma «di trovar modo di porsi d'accordo con
lui», lo che produsse in essi, Radovitz e White, profonda
sorpresa e preoccupazione. Le mire delle rispettive potenze essere
così apparse tanto oscure che il signor di Nelidow,
sospettoso contro le tendenze francesi ad accordarsi
coll'Inghilterra, aveva consigliato al suo collega di Francia a non
spingere più oltre il negoziato. In conclusione il mio
collega di Germania aggiunse che la questione di Candia sarebbe
risorta fra breve, ma che per ora era meglio lasciarla cadere. E
questa conclusione è concorde col telegramma di Berlino che
Vostra Eccellenza mi comunicava iersera.
In sostanza, un principio d'accordo franco-inglese avendo avuto
luogo per gli affari di Candia quale compenso per l'occupazione
dell'Egitto, il regio Ministero venne escluso per volontà dei
nostri alleati da tutto il negoziato relativo. Tale fatto è
sintomo assai chiaro del ritorno alla situazione del 1884, nella
quale l'Italia, per aver sistematicamente agito negli affari
d'Egitto in senso contrario allo spirito delle alleanze da essa
concertate, vide sciogliersi di fatto il fascio delle alleanze
stesse e rimase nell'isolamento. Vengono anche confermate da tale
fatto le previsioni espresse nel mio rapporto del 30 giugno, circa
la situazione disastrosa per i nostri interessi mediterranei, che
risulta per l'Italia dal tornare ad essere lettera morta le
intelligenze di massima coll'Inghilterra, programma che io ho pur
ordine, finora non revocato, di seguire in Costantinopoli e sul
quale non ho cessato di essere in pieno accordo coi miei colleghi
d'Inghilterra e di Germania....»
Alla fine del 1893 l'inerzia politica dell'Italia aveva già
dato tutti i suoi frutti, e non era facile cosa riprendere la
posizione perduta e rimuovere le altre potenze dalle nuove
combinazioni nelle quali si erano impegnate. Caprivi e
Kálnoky, Cancellieri dei due imperi centrali quando Crispi
nel 1891 lasciò il governo d'Italia, erano tuttavia in carica
e si deve credere che desiderassero il ritorno di lui al potere,
poichè mentre Crispi ne sembrava ancora lontano, gli
ambasciatori conte Solms e barone De Brück gli recavano
messaggi e voti.
Il Solms fece visita a Crispi il 13 ottobre 1893. Dal Diario
più volte ricordato riferiamo qualche nota:
«L'ambasciatore germanico, dopo qualche accenno sulla politica
generale, mi racconta con visibile soddisfazione che l'Imperatore lo
aveva invitato a pranzo a Potsdam, e che con lui ragionando delle
sue relazioni col Papa, lo aveva incaricato di riferirmi, appena
tornato in Roma, che non aveva dimenticato le osservazioni da me
fattegli sulla politica pontificia e che non si lascerebbe prendere
dal Vaticano.
- Il Papa - dissi - è nemico della Triplice perchè
questa è un ostacolo al ristabilimento del potere temporale
ed assicura a noi il possesso di Roma.
- L'Imperatore non lo ignora e sa quello che fa. Avete visto come
l'Imperatore si è condotto col principe di Bismarck? In
Germania ha fatto magnifica impressione l'offerta che il nostro
Sovrano ha fatto al Principe di un Castello imperiale per
ristabilirsi in salute. È una riconciliazione tra
l'Imperatore e il suo antico Cancelliere che ha davvero consolato il
popolo tedesco. E voi che cosa fate? Continuerete con l'attuale
ministero? Quale sarà il vostro contegno?
- Io? Sono fuori dalla politica militante....
- Ma l'Italia non può continuare con un ministero come
l'attuale.
- Non ho alcun giudizio da emettere. Sto a guardare!»
Il De Brück si recò da Crispi il 25 ottobre. Leggiamo
nel Diario:
«Visita del barone De Brück alle 3.45 pom.
Il barone è preoccupato delle condizioni d'Italia. Soggiunge
che ne sono preoccupati anche a Vienna....
- Bisogna che vi occupiate delle cose del vostro paese. Che volete?
Questo linguaggio parrà singolare in bocca di un austriaco,
ma tanto più dovete ascoltarlo. Noi abbiamo bisogno che
l'Italia sia ben governata e tranquilla; e lo stato attuale
c'inquieta.
- Me ne duole; ma io non ho che farci. È la disgrazia
d'Italia. È il nostro un paese cui manca la continuità
nella politica; ed è la ragione per la quale all'estero non
abbiamo la dovuta considerazione. Ai tempi di Mancini, non ostante
il trattato della Triplice, il Principe di Bismarck non aveva fede
in lui. A Berlino ed a Vienna si cominciò ad aver fede nel
governo d'Italia con Robilant....
- Dite piuttosto con voi. Con Robilant ci fu una fiducia relativa.
Con voi a Berlino ed a Vienna non si dubitò mai. E bisogna
che ritorniate al potere.
- .... Io vengo dalla rivoluzione. Io ero repubblicano, ed accettai
la monarchia perchè con essa potevamo acquistare
l'unità. Sono stato fedele alla forma di governo che ho
adottato, e deputato e ministro non ho mancato ai miei doveri. Il Re
avrebbe dovuto comprendere tutto ciò, ed avrebbe dovuto
sentire l'importanza della mia devozione.... Se non amassi il mio
paese, mi sentirei legittimato a ritirarmi completamente dalla
politica....
- E fareste male. Voi bisogna che continuiate a servire il Re ed il
vostro paese. Io non vedo un uomo che possa giovare all'Italia e
servirla come voi; ed il Re lo sa, e più d'una volta me lo ha
dichiarato....»
Affidando al barone Blanc il ministero degli Affari esteri, Crispi
non rinunziò ad avere una diretta ingerenza nella politica
estera. Portare nella trattazione delle maggiori questioni
internazionali il suo criterio e l'autorità del suo nome era
un dovere ch'egli sentiva come presidente del Consiglio, e non
avrebbe saputo mancarvi anche perchè la politica estera era
stata sempre prediletto oggetto dei suoi studî.
Nei primi mesi del 1894 le condizioni interne d'Italia erano
così gravi che richiesero tutta la sua attenzione. In
Parlamento non vi furono per qualche tempo dissensi; le ambizioni
tacevano; tutti i partiti, dominati dal timore, seguivano
ansiosamente l'azione di Crispi rapida, energica contro un movimento
anarchico che minacciava un caos sociale e politico. Ristabilito
l'ordine pubblico, risollevato il morale del paese e restaurata la
finanza, Crispi potè, nonostante che cominciassero ad
addentarlo le ire di parte, dedicarsi maggiormente alla situazione
internazionale.
La politica estera dell'Italia non poteva non risentirsi delle
difficoltà interne. Dovunque eravamo meno considerati.
L'Ambasciatore a Londra, conte Tornielli, scriveva l'8 gennaio 1894:
«Le notizie tendenziose della stampa francese, ripercosse
nella inglese, l'opera dei pochi corrispondenti speciali di
quest'ultima residenti in Italia, cospiravano negli ultimi mesi ad
accrescere le prevenzioni e le diffidenze alle quali il mio
linguaggio ufficiale e privato non bastava certamente a porre
argine. Poche volte Lord Rosebery mi parlò delle nostre
difficoltà interne e sempre con quella misura che gli
è propria, piuttosto, se ben io ne intesi l'intenzione, per
dare a me l'occasione di spiegare o di smentire le altrui
esagerazioni. Egli accolse sempre con benevolo interesse le
spiegazioni e le smentite mie.»
In Germania la fiduciosa amicizia degli anni del primo ministero
Crispi, che aveva avuto una manifestazione solenne nel 1889 in
occasione del viaggio a Berlino del Re Umberto, era un ricordo del
passato. Il ritorno di Crispi ridestò la speranza che
potessero tornare i giorni della intimità italo-germanica.
«L'imperatore Guglielmo - riferiva l'Ambasciatore Lanza - non
dubita che passeggere sieno le nubi che passano sulla nostra povera
Italia, e che il senno del Re e l'energia del suo governo sapranno
presto dissiparle». In data 5 marzo lo stesso generale Lanza
riferiva:
«Ieri sera ad una rappresentazione di beneficenza ebbi l'onore
di conferire con S. M. l'Imperatore, che sedeva in palco a me
vicino.
S. M. si degnò esprimermi le sue felicitazioni per la
vittoria riportata dal Regio Governo nelle ultime discussioni
parlamentari, per la splendida votazione avuta in suo favore, ed
ebbe parole improntate, come sempre, a grande amicizia per la
famiglia Reale, a stima e benevolenza grandissima per l'Italia,
augurando che l'energia e l'autorità da lui molto apprezzate
del Capo attuale del Gabinetto, l'alto senno del Re, riescano a
superare tutte le difficoltà della crisi che attraversiamo.
S. M. ebbe anche parole di grande lode per la condotta dell'esercito
nelle luttuose circostanze in cui ebbe a trovarsi in Sicilia, e
nella Provincia di Massa e Carrara; mi parlò con vivo
compiacimento del valore dimostrato dai nostri nel combattimento di
Agordat, del quale, mi disse, si era fatto spiegare tutti i
particolari dal Capo del Grande Stato Maggiore, particolari che egli
infatti conosceva meglio di me.»
Ai primi di aprile Guglielmo e Umberto s'incontrarono a Venezia. Il
Re si compiacque di telegrafare a Crispi:
«A S. E. Cav. Crispi
Presidente del Cons. dei Ministri.
S. M. l'Imperatore lascerà Venezia domattina portando seco la
migliore impressione di questa Città che ha così
degnamente rappresentato l'Italia nell'onorare l'augusto nostro
alleato e amico. L'Imperatore nei varî colloquî avuti
con me mi ha parlato di Lei e sempre con sentimenti di viva simpatia
e di alta considerazione.
Mi compiaccio di esprimerle la particolare e meritata benevolenza di
S. M. l'Imperatore e di confermarle la mia cordiale amicizia.
Affezionatissimo
Umberto.»
In ottobre la Cancelleria germanica era in crisi. Il generale
Caprivi, il successore di Bismarck, col quale Crispi stava per
riannodare i rapporti che un'altra crisi, quella del 1891, aveva
interrotti, si dimise dall'altissimo ufficio. Le cause immediate che
determinarono quell'avvenimento furono narrate a Crispi nei seguenti
termini:
«L'accordo fra il Cancelliere e il Ministero prussiano nella
questione delle misure da adottarsi per combattere i partiti
sovversivi era fatto; le misure stesse erano state concretate (non
se ne conoscono ancora i particolari), ed avevano ottenuto
l'approvazione dei Governi confederati, il decreto d'apertura del
Parlamento per il 15 novembre era già pubblicato; Sua
Maestà l'Imperatore doveva ripartire ieri sera per le caccie
di Blankenburg; quando nel pomeriggio egli riceveva successivamente
a Potsdam il Conte Eulenburg, Presidente del Ministero Prussiano, e
il Cancelliere Conte Caprivi, e dopo tali visite contromandava la
sua partenza. Nella sera si spargeva la notizia che quei due alti
funzionari avevano rassegnato le loro dimissioni e queste erano
accettate!! Che cosa era avvenuto?
Una breve conversazione avuta iersera col Conte Eulenburg che, come
se nulla fosse avvenuto, incontrai in una soirée, mi pone in
grado di desumere come siansi passate le cose.
Quando il Conte Caprivi, a proposito della legge scolastica,
lasciò la carica di Presidente del Ministero Prussiano, che
fu assunta dal Conte Eulenburg per deferenza ai voleri sovrani,
questi era già convinto che la separazione delle due cariche
di Cancelliere e di Ministro Presidente Prussiano non poteva durare
a lungo, come non durò ai tempi di Bismarck senza dar luogo
ad inconvenienti, ad attriti gravi. Questi attriti giunsero al
colmo, fra il Conte Caprivi e il Conte Eulenburg, a proposito delle
misure sovraccennate e solo per intromissione dell'Imperatore un
accordo fu possibile. Fu però un accordo, per così
dire, forzato, concluso il quale e terminata la preparazione dei
provvedimenti legislativi che ne erano la conseguenza, ambedue
posero subito ieri i loro portafogli a disposizione di Sua
Maestà. La quale dovette convincersi che realmente si doveva
venire ad una soluzione radicale prima della convocazione del
Parlamento. Non potendo naturalmente lasciar partire il Conte
Eulenburg senza profondamente ferire il partito conservatore,
già tanto ostile al Conte Caprivi, e d'altra parte non
sentendosi questi, che sì frequenti volte dimostrò
desiderio di ritirarsi, di assumere il peso delle due cariche,
nè di difendere davanti il Reichstag delle misure cui in
massima si era sempre mostrato ostile, Sua Maestà decise di
dar corso alle dimissioni di ambedue e mandò ad effetto,
colla sua solita rapidità di decisione, il provvedimento.
Il posto di Cancelliere dell'Impero e Ministro Presidente Prussiano
è stato offerto al principe Hohenlohe, attualmente
Governatore dell'Alsazia-Lorena. Se accetterà sarà il
regno dei Segretari di Stato, giacchè egli non ha più,
a mio parere, l'energia, la vigoria necessaria per sì alta e
grave carica. Il suo nome però, il suo passato,
raccoglierà su di lui i voti dei partiti conservativi e
specialmente della nobiltà prussiana che in Parlamento e
fuori si mostrarono sì ostili al Conte Caprivi.»
Il 29 ottobre il principe di Hohenlohe fu nominato Cancelliere
dell'Impero e Presidente del ministero prussiano. Crispi
inviò al Lanza il seguente telegramma:
«Il nome di Hohenlohe, già amato in Italia, viene oggi
salutato con la più viva simpatia. Voglia far sentire al Gran
Cancelliere che il nostro paese si felicita insieme al Governo di
una nomina che siamo sicuri gioverà ai comuni interessi delle
due nazioni.
Crispi.»
Hohenlohe mandò dapprima il barone Marschall, poi si
recò lui stesso dall'ambasciatore d'Italia a ricambiare il
saluto:
«Hohenlohe - telegrafava l'ambasciatore al ministro Blanc il
30 ottobre - venuto in persona casa mia, vuole rinnovi a V. E. e al
Presidente del Consiglio vivi ringraziamenti e ricambi loro i
sentimenti espressigli, lieto poter cooperare interessi comuni due
paesi. Più che sue parole, la sua visita fattami oggi fra
tante altre cure e prima di aver potuto ricevere la mia e quella di
altri ambasciatori, dimostra il conto nel quale egli tiene il capo
del R. Governo che egli disse esser lieto già conoscere,
nonchè V. E. e ciò mi è di buon augurio per
l'avvenire.»
Le buone disposizioni dell'Imperatore Guglielmo verso l'Italia erano
confermate dal Lanza in un suo rapporto del 5 marzo 1895, del quale
riferiamo questo interessante brano:
«Al suo ritorno da Vienna S. M. l'Imperatore mi onorò
di una sua visita personale per esprimermi, come disse, la sua
soddisfazione di aver potuto stringer la mano a S. A. R. il Duca
d'Aosta in occasione dei funerali dell'Arciduca Alberto. La visita
durò a lungo e S. M. parlò un po' di tutto....
Fermandosi a discorrere specialmente dell'Austria, della sua
impolitica condotta nell'Istria, ecc., S. M. mi disse aver trovato
il conte Kálnoky meno inquieto per le nostre relazioni con la
Francia, ma pur sempre alquanto preoccupato, che noi possiamo
considerare la Triplice Alleanza non sufficientemente vantaggiosa
per noi sol perchè non ci dà subito in piena pace il
mezzo di giungere alla realizzazione dei nostri desiderii, delle
nostre aspirazioni sui territori del Nord africano e altri. Sua
Maestà avendo soggiunto: «Aspettate, lasciate che venga
l'occasione e avrete tutto quel che volete», mi affrettai, non
volendo per avventura che le parole del conte Kálnoky
lasciassero cattiva impressione sull'animo del mio Augusto
interlocutore, ad osservare che S. M. e il suo Governo conoscevano
troppo bene la nostra politica, l'attitudine presa dall'attuale
Gabinetto verso l'Inghilterra nelle cose d'Africa, il nostro
desiderio di farci veramente il tratto d'unione fra l'Inghilterra e
le Potenze della Triplice Alleanza, per dubitare che noi vogliamo
con intempestivi conati suscitare complicazioni, che anzi facciamo
sacrifizî per evitarle. Soggiunsi che siamo sempre stati e
siamo consci dei nostri doveri e dei nostri diritti, che ci premeva
anzitutto lo statu quo nel Mediterraneo minacciato dalla Francia, e
non sapevo spiegarmi la preoccupazione del conte Kálnoky. Se
ci allarmiamo dei continui tentativi della Francia per estendersi in
Africa, questi allarmi non sono infondati, chè quei
tentativi, non mai ostacolati, potrebbero un giorno condurre ad uno
stato di fatti compiuti - e citai il porto di Biserta - cui la
guerra sola, che vogliamo tutti scongiurare, potrebbe riparare. S.
M., che mi sembra persuasa di queste cose, apprezza la nostra
politica verso l'Inghilterra, è sempre disposta ad
appoggiarla, e fa voti perchè sotto i successori di Rosebery
e di Kimberley, i quali non possono tardare molto a venire al
potere, essa trovi quella favorevole accoglienza e quella
cooperazione che finora abbiamo indarno cercato....»
Le buone relazioni tra l'Inghilterra e la Germania erano state per
molti anni un elemento importantissimo della nostra situazione
internazionale. È noto che gli accordi nostri con
l'Inghilterra pel mantenimento dello statu quo e la difesa dei
comuni interessi nel Mediterraneo e in Oriente, completavano le
stipulazioni del trattato della Triplice alleanza. La tendenza della
politica inglese a comporre i dissidi anglo-francesi mediante
compensi nel Mediterraneo e a modificare in Oriente il suo
atteggiamento intransigente verso la Russia, allontanando ogni
giorno dippiù l'Inghilterra dalla Triplice, giustamente
allarmava il governo italiano. Il 1.° marzo 1894 Gladstone si
ritirava definitivamente dal governo in seguito al voto contrario
della Camera dei lords al progetto sull'Home Rule. Il suo ministero
però rimaneva sotto la presidenza di lord Rosebery, che
cedeva il ministero degli affari esteri a lord Kimberley. Il ritiro
di Gladstone fu accolto con soddisfazione nelle sfere governative di
Berlino, presso le quali fece poi anche buona impressione la caduta
di Rosebery, avvenuta il 22 giugno 1895. Col ritorno al potere dei
conservatori la Cancelleria germanica concepì qualche
speranza nella ripresa, da parte dell'Inghilterra, dell'antica
politica. Il barone Marschall, segretario di Stato al ministero
germanico degli Affari esteri, divideva tale speranza:
«Potremo - diceva egli - aver divergenze coll'Inghilterra, e
ne prevedo ancor molte nelle questioni coloniali, ma queste sono
cose secondarie che non impediranno mai l'accordo sui grandi
problemi che possono sorgere nel Mediterraneo e che toccano gli
interessi dei nostri alleati; quelle divergenze daranno ragione
all'Imperatore che, di recente, parlando con me su questi argomenti
diceva: Bah! wer sich lieb hat, neckt sich (qui s'aime, se
querelle).»
Ma sorse poco dopo a creare malumori la questione del Transvaal,
venne il telegramma dell'imperatore Guglielmo al presidente
Krüger nel quale felicitava questi «che senza ricorrere
all'aiuto delle Potenze amiche fosse riuscito a ristabilire la pace
contro le bande armate che avevano invaso il suo paese e a
difenderne l'indipendenza», venne l'acre polemica tra la
stampa inglese e la germanica. Crispi, a dimostrazione di sentimenti
amichevoli verso i due Stati, appena dichiaratosi il dissidio che
fortunatamente fu subito composto, aveva accennato a una mediazione
dell'Italia con questo telegramma all'ambasciatore a Berlino:
«Il dissidio anglo-tedesco è una sventura
internazionale, e bisogna trovar modo di comporlo. Esso giova ai
nemici della Triplice e nuoce a noi. Il nostro Augusto Sovrano se ne
preoccupa, e mi ha espresso il desiderio d'intervenire con una
parola amica fra le due parti, ove questa possa esser efficace. Ne
parli al barone Holstein in mio nome, e qualora egli le dia speranza
di successo, ne parli al Gran Cancelliere.
Qualunque sia il risultato delle nostre pratiche, avremmo per lo
meno dato prova della nostra buona volontà e della nostra
amicizia.»
Nei primi due mesi del 1896 apparve chiara la crisi delle alleanze e
degli accordi ai quali l'Italia aveva affidato la sua sicurezza e la
garanzia dei suoi interessi.
In breve, la situazione era la seguente: col peggioramento delle
relazioni anglo-germaniche la Germania nostra alleata, facendo una
politica a sè, riguardosa verso la Turchia, aveva agevolato
alla Russia la preponderanza a Costantinopoli, e verso la Francia
aveva iniziato una politica di concessioni, della quale uno dei
frutti era stato l'accordo franco-germanico, risultante dal
protocollo firmato il 4 febbraio 1894, che aveva riconosciuto
l'hinterland della Tripolitania nella sfera d'influenza francese.
La Francia, che nel 1891 aveva iniziato trattative per la
delimitazione dei possedimenti franco-italiani nell'Africa Orientale
e per una convenzione che avrebbe assicurato nella Tunisia un regime
economico soddisfacente ai cittadini e ai commerci italiani,
ritirò le sue proposte quando e perchè fu rinnovato il
trattato della Triplice Alleanza; e continuava ad osteggiarci anche
in Africa, inviando all'Harrar e allo Scioa denari e armi che
dovevano essere rivolte contro di noi.
L'Inghilterra, lasciata libera di trascurare gli accordi che aveva
con l'Italia per l'Oriente e pel Mediterraneo, si preoccupava
soltanto della contestata sua posizione in Egitto e tendeva a cedere
in Africa alla Francia, in tutte le questioni nelle quali era
interessata l'Italia, così per l'Harrar e Zeila, come per
Tunisi.
La Russia, come si era fatta guardiana degli Stretti, per difendere,
insieme al suo dominio incontrastato nel Mar Nero, la propria
influenza sulla Turchia, e aveva, rompendo il concerto europeo,
impedito che anche l'Italia riprendesse, a fianco dell'Inghilterra,
posizione in Oriente, intrigava, insieme alla Francia, in Abissinia,
avanzando altresì la pretesa di un protettorato ortodosso con
lo scopo di ostacolare l'influenza italiana.
L'Austria-Ungheria, infine, nonostante l'alleanza con l'Italia, si
era sentita così libera da iniziare trattative commerciali
col governo francese per la Tunisia, senza prevenirne nè
informarne il governo italiano.
Da questa situazione risultava che l'Italia legata all'Inghilterra,
alla Germania e all'Austria-Ungheria da convenzioni di reciproca
garenzia, era, a causa di quelle convenzioni, combattuta dalla
Francia in questioni vitali e, nella lotta, lasciata sola dalle
alleate. Cosicchè la Francia, pur non conoscendo i patti
della Triplice alleanza, era giunta con un processo intuitivo di
eliminazione, a conoscerne la portata, e procedeva quindi
brutalmente nella sua guerra coperta a tutti gl'interessi italiani,
avendo la sicurezza di non incontrare ostacoli da parte della
Germania e dell'Austria-Ungheria. Si può anche aggiungere che
a nostre spese essa si era indennizzata della perdita
dell'Alsazia-Lorena, acquistando preponderanza in tutto il
Mediterraneo occidentale e negli hinterlands delle regioni del
Nord-Africa, dall'Atlantico sino all'Alto Nilo.
Esposta per tal modo l'Italia nello stato di pace a tutti i danni
della guerra, al governo italiano, per la salvaguardia
degl'interessi nazionali, si presentavano due vie: sciogliersi dalla
Triplice alleanza cedendo alle pressioni francesi, o denunziare il
trattato per sostituirlo con un altro che non prevedesse soltanto la
guerra, ma fosse una garanzia per l'Italia anche nello stato di
pace.
La prima via era irta di pericoli: seguendola, l'Italia sarebbe
ritornata nelle condizioni d'isolamento nelle quali si era trovata
sino al 1882, cioè prima della sua accessione all'alleanza
austro-germanica, in balìa delle sopraffazioni francesi e
della irritazione delle ex-alleate. La seconda via era più
conveniente, e Crispi la preferì.
D'altronde, egli che non aveva mai ammesso che l'alleanza
dell'Italia con le potenze centrali fosse una dedizione
degl'interessi italiani, doveva nei precedenti della sua azione
diplomatica attingere la fede di potere rompere il ghiaccio del
particolarismo austro-germanico formatosi nei tre anni della sua
lontananza dal Governo.
I documenti che seguono hanno un altissimo interesse storico: essi
contengono i termini del problema che s'imponeva, l'ansietà
patriottica del governo di Crispi e i suoi propositi.
Diario - 20 gennaio 1896.
Il barone Pasetti, ambasciatore d'Austria-Ungheria, giusta la fatta
domanda, giunse alle ore 15.
Egli cominciò a discorrere degli accordi del 1887, della
insufficienza dei medesimi per lo scopo cui si riferiscono. Il
barone si espresse con diffidenza del Ministero britannico, e si
lagnò del medesimo per aver agito a Pietroburgo senza averne
avvertito i due alleati. Soggiunse, che bisognerebbe render
più precisi gli accordi, modificandoli od ampliandoli, per
renderli più sicuri.
Risposi, rifacendo la storia dei fatti che ci condussero ai suddetti
accordi. Dissi che per me non hanno cessato di aver vigore le
obbligazioni allora assunte. Ricordai che essendo stati trascurati
tali accordi sotto Rosebery, all'avvento di Salisbury abbiamo
interpellato questi, e ci fu risposto ch'egli riteneva ancora
esistenti quegli accordi. Soggiunsi, che avevo fede nel ministro
inglese, quantunque incerto talora ed esitante.
Il barone Pasetti fu lieto della opinione mia favorevole a lord
Salisbury. Ripetè che, nondimeno, era necessario dare alle
note del 1887 maggiore precisione. Espose dei dubbi sul contegno del
Governo tedesco.
A questa osservazione dovetti rispondere, che gli accordi del 1887
erano stati fatti coll'intesa di Berlino e conseguentemente con
l'approvazione del Principe di Bismarck, il quale dichiarò
che stava al di fuori degli accordi. Egli voleva che gli obblighi
fossero limitati tra l'Austria, l'Inghilterra e l'Italia. La
Germania, pel momento in disparte, entrerebbe quando la Francia
avesse preso parte diretta nelle cose d'Oriente e del Mediterraneo.
Certamente oggi in Berlino non potrebbe prevalere una politica
diversa; e non bisogna diffidarne.
Conclusi, che noi stiamo fermi agli accordi del 1887; se giova
renderli più precisi, noi vi ci presteremo. In questo caso ne
avverta Vienna affinchè l'ambasciatore italiano e quello
dell'Austria-Ungheria a Londra facciano le pratiche necessarie
presso lord Salisbury.
Se lord Salisbury ha proceduto solo, ciò ha fatto per
precauzione, e nel dubbio che i due alleati non lo seguissero. Non
dobbiamo dimenticare la condotta nostra al 1878 ed al 1882. Tanto
nella guerra contro la Russia, quanto per la insurrezione egiziana,
l'Inghilterra fu lasciata sola. Aggiungete che in questi ultimi
anni, dopo il mio ritiro al 1891, dei tre Governi ciascuno ha fatto
a modo suo, e noi nelle quistioni del Mediterraneo, a Tunisi per
esempio e nell'Eritrea, ci siamo trovati soli; la Francia ha fatto
quello che ha voluto.
E che si è fatto in Oriente? Le flotte presenziarono le
carneficine turche, e nissuno se n'è impensierito. Anche
l'Austria fece da sè. - Dica al suo Governo, che l'Italia
procederà lealmente coi suoi alleati. Mettiamoci d'accordo, e
il mio Governo non mancherà al dover suo.
Diario - 21 gennaio.
Il conte Nigra ed il barone Blanc giungono a casa mia alle ore 15 e
10 minuti.
Il discorso si è aggirato su gli accordi del 1887. Dissi al
nostro ambasciatore come in fatto quegli accordi siano rimasti
inefficaci. Anche nella quistione orientale, tanto l'Inghilterra
quanto l'Austria, ciascuna ha agito isolatamente senza averne
prevenuto i due Governi alleati.
Riferii al conte Nigra il mio colloquio di ieri col Pasetti.
Il barone Pasetti manifestò che a Vienna diffidano di lord
Salisbury, e chiedono che agli accordi del 1887 si dia precisione
negli obblighi e negli scopi.
Osservai che, se vi è potenza che debba lagnarsi del modo
come si son condotte l'Inghilterra e l'Austria, è l'Italia.
Il nostro Governo, da parecchi anni in quà non ebbe l'ausilio
dei due alleati. Tanto dalla triplice continentale, quanto dalla
orientale, siamo stati lasciati soli. Ciò non avvenne mai
prima del 1891 e specialmente quando Bismarck era al potere. Accetto
quindi che gli accordi del 1887 si rivedano e si rendano più
precisi; ma chiedo innanzi tutto che i firmatarii eseguano quanto
avran pattuito.
Il conte Nigra affermò che non bisogna dubitare che l'Austria
possa avvicinarsi alla Russia, e n'è garentia il fatto che a
Vienna il ministro degli affari esteri è un polacco.
Ciò posto, dobbiamo ritenere che l'Austria è
interessata a rispettare la nostra alleanza.
Il ministro Blanc espose alcune sue osservazioni sulla condotta
dell'Austria verso di noi. Conchiuse anche lui che gioverebbe al
mantenimento della alleanza il rivedere gli accordi del 1887.
Partito Blanc verso le ore 15 e 45, siamo rimasti, Nigra ed io,
un'altra buona mezz'ora insieme.
Il conte perorò la buona fede dell'Austria verso di noi.
Ci rivedremo.
Diario - 22 gennaio.
Il barone de Bülow giunge alle ore 18.
Il barone cominciò col chiedere notizie dell'Africa,
felicitandosi della condotta dei nostri soldati. Venendo poi alle
cose di Europa, affermò che la Germania sarebbe stata sempre
con noi. Su questo feci qualche osservazione.
Dissi che dei beneficii dell'alleanza, io mi accorsi ai tempi di
Bismarck, non dopo coi successori. Prima del 1890 appena una
questione sorgeva, ne avvertivo Bismarck, ed egli, tanto in Londra,
quanto a Parigi faceva sentire la sua parola e tutto andava pel
meglio44. Della Triplice Alleanza noi soli abbiamo sentito il peso.
Alle frontiere della Francia, nostra accanita nemica, noi abbiamo
quotidianamente a provare fastidi d'ogni genere.
Il barone non potè negarmi che ai tempi di Bismarck le cose
procedevano in miglior modo per noi. Soggiungeva però che il
suo Governo si interessa delle cose d'Italia, e che noi l'avremmo al
nostro fianco tutte le volte che ne sorgesse il bisogno.
Parlammo delle cose di Oriente, e non volli lasciar passare
l'occasione per dichiarargli che l'Europa, con le sue navi tenute
inerti nelle acque della Turchia, ha dato prova della sua impotenza.
Ritornati alle cose di Francia, ripetei che gran danno noi proviamo
per gli odii di quella nazione e per le insidie di quel Governo.
Diario - 9 febbraio, ore 17.
Sono andato dal barone de Bülow alle 5 pomeridiane. Lo scopo
era di parlargli delle relazioni tra l'Italia e la Francia.
Dissi all'ambasciatore tedesco:
- Più di una volta ci son venuti consigli da Berlino
perchè trovassimo modo di accordarci con la Francia in tutte
le speciali quistioni che interessano i due paesi.
Non ci siamo riusciti! Sono pochi giorni ancora, avendo mandato a
Parigi un nostro funzionario, ci servimmo di questa occasione per
esplorare l'animo del signor Bourgeois, il quale, come sapete,
è il presidente dell'attuale Ministero francese. Questo
funzionario parlò delle varie quistioni pendenti tra noi e la
Francia, e disse che giammai come oggi potrebbe trovarsi un accordo
fra i due Governi, essendo Crispi al potere.
Il Bourgeois rispose a un dipresso nei seguenti termini:
«Un accordo tra i due paesi non è possibile,
finchè l'Italia fa parte della Triplice. Il popolo francese
vi si ribellerebbe. Tutti qui tengono gli occhi rivolti alle
provincie perdute, e sanno che l'Italia alleata della Germania
è di ostacolo al ritorno delle medesime alla madre patria.
Assicuratevi che finchè voi farete parte della Triplice non
è possibile intenderci».
Siccome vedete, caro barone, il signor Bourgeois fu molto esplicito
e noi vediamo in tutto il contegno di lui verso di noi una asprezza
tale che non lascia speranza di venire ad un accordo.
La Francia ci fa la guerra dappertutto. In Europa ed in Africa noi
ci troviamo il Governo francese di fronte in ogni occasione e sempre
malevolo. Dicesi che la Triplice fu stipulata per mantenere la pace.
Per noi è il contrario. La Triplice per noi è la
guerra. In Italia siamo insidiati per mezzo del Vaticano, e fuori
con tutti i mezzi che può adoperare una diplomazia astiosa e
sottile. I nostri commerci sono interrotti, e nessun trattato
è possibile, nè in Tunisia, nè tra Francia ed
Italia. Sventuratamente la Francia è alle nostre frontiere, e
non possiamo fare a meno di avere rapporti con essa.
Ai tempi di Bismarck le cose erano meno difficili, perchè la
parola del principe spesso si faceva sentire a Parigi.
E tutto ciò avviene perchè ci s'imputa a colpa di far
parte della Triplice. Vi prego scriverne al principe di Hohenlohe, e
far giungere queste mie dichiarazioni all'Imperatore. È una
posizione intollerabile la nostra. Ve lo ripeto, per noi questo
stato di cose è peggiore della guerra.
Il barone de Bülow parve impressionato delle mie parole e mi
promise che ne avrebbe scritto a Berlino.
Crispi all'ambasciatore d'Italia a Berlino:
«Roma, 9 febbraio 1896.
Signor Ambasciatore,
Parmi utile che Vostra Eccellenza abbia notizia di una conversazione
da me avuta oggi stesso con questo ambasciatore di Germania.
Ho creduto conveniente che il rappresentante di S. M. l'Imperatore
Guglielmo in Roma fosse, al pari del rappresentante di S. M. il Re
in Berlino, a perfetta conoscenza del pensiero del Governo italiano
sulla situazione che ci è creata dalla ostilità della
Francia e insieme dalla triplice alleanza. A conforto quindi di
quanto già il barone Blanc aveva avuto occasione di esporre
al signor de Bülow, ho richiamato sopra tale situazione
l'attenzione del signor de Bülow stesso.
Gli dissi che, desiderosi anche noi, come sempre, di evitare
complicazioni e di consolidare la pace, avevamo completamente diviso
il modo di vedere, espressoci replicatamente dal Governo germanico,
circa alla convenienza di venire tra Francia ed Italia ad accordi
sopra le speciali questioni riguardanti i due paesi. Il regio
ambasciatore a Parigi aveva quindi ricevuto istruzione di cogliere -
ed aveva colto infatti - tutte le occasioni per rendere noti al
Governo francese i nostri intendimenti più concilianti.
Così è che, approfittando delle espressioni di
simpatia e quasi di solidarietà civile contro la barbarie,
dirette al regio ambasciatore dal presidente del Consiglio, dal
ministro degli affari esteri e dal Presidente della Repubblica
Francese a proposito della nostra guerra d'Africa, il Conte
Tornielli era stato autorizzato a lasciar comprendere, ancora una
volta, il nostro desiderio di venire ad accordi concreti per tutte
le questioni ancora insolute tra Francia ed Italia, come la
delimitazione nell'Africa orientale, il regime commerciale e
personale in Tunisia, ecc.
Ancora una volta il Governo francese aveva mostrato a tutta prima di
comprendere e di apprezzare il valore delle importantissime
concessioni che noi ci chiarivamo disposti a fare; ma, ancora una
volta, al momento di venire a qualche conclusione positiva, il
Governo francese ne declinava ogni possibilità.
Aggiunsi al signor de Bülow che, mentre il Governo italiano
aveva fatto così quanto gli era ufficialmente possibile, per
venire agli accordi che la stessa Germania aveva mostrato di
desiderare, io non aveva voluto darmi per vinto; e, approfittando
della circostanza che un mio alto ed egregio funzionario, godente
insieme di tutta la mia fiducia e dell'amicizia personale del signor
Bourgeois, da lui stesso altra volta presentatomi, si recava a
Parigi incaricato di una missione tecnica, gli avevo detto che,
vedendo il Presidente del Consiglio francese, ne approfittasse per
fargli presente che il momento non avrebbe potuto essere più
favorevole per risolvere, d'accordo col Governo italiano, ogni
questione irritante; che egli sapeva essere il Governo italiano in
ottime disposizioni per ciò, mentre, d'altro lato, il paese
avrebbe accettato, a questo proposito, da un Ministero da me
presieduto, anche ciò che con altri Ministeri gli sarebbe
sembrato costituire un atto di debolezza.
Ora, la risposta del signor Bourgeois era stata questa:
«Sentite, gli animi di tutti i Francesi sono sempre volti alle
Provincie perdute, e nulla, checchè avvenga, varrà mai
a distornerli; nessuno accetterà mai la separazione
dell'Alsazia e Lorena dalla Francia come un fatto definitivo ed
irrimediabile; a quella separazione tutti i Francesi riferiranno
sempre le altre questioni; non vi potrà dunque essere mai
accordo alcuno tra noi e l'Italia, finchè questa, essendo
alleata della Germania, contribuirà a quella
separazione».
Il signor de Bülow parve molto impressionato da ciò che
io gli esponeva. Gli feci allora considerare come tutti gli sforzi
nostri per la consolidazione della pace s'infrangessero contro una
volontà che è stata ed è in Francia comune a
tutti i ministri e a tutti i gabinetti; che fatti e dichiarazioni
l'hanno patentemente chiarito; e come quella volontà
annullasse per noi quei benefici della pace che ci dovevano essere
garantiti dalla triplice alleanza, poichè, per la triplice
appunto, la Francia si credeva in diritto di considerarsi di fatto
in guerra con noi e ce lo dimostrava in ogni questione, col maggiore
nostro danno; quanto è avvenuto e quanto avviene ora in
Abissinia non ne era che un esempio.
Ricordai a questo proposito al signor de Bülow che, mentre era
cancelliere dell'Impero il principe di Bismarck, quando i rapporti
franco-italiani minacciavano di peggiorare vieppiù per le
intolleranze, la indebita ingerenza e l'ostilità della
Francia, il Governo germanico non esitava a far comprendere a Parigi
che non si doveva passare il segno; e a Parigi lo si comprendeva.
Così avevano potuto risolversi pacificamente, secondo il
diritto e la convenienza internazionale, incidenti come quelli dei
Greci di Massaua, del consolato francese di Firenze, della
spedizione Atchinoff, delle istituzioni italiane in Tunisia, ecc. Il
Governo francese aveva allora dovuto persuadersi che l'alleanza
italo-germanica era un patto efficace non solo pel caso di guerra,
ma per prevenire la guerra, garantendo anche in tempo di pace alle
potenze alleate la difesa reciproca dei rispettivi interessi.
Ora, aggiunsi, sembra che la Francia siasi formata della triplice e
specialmente dell'alleanza italo-germanica un concetto tutto
diverso: un concetto, cioè, per cui la Francia potrebbe
offendere impunemente l'Italia, perchè alleata della
Germania, sicura, d'altro lato, che la Germania non le opporrebbe
ostacolo di sorta.
Quindi, io conclusi, desideravo che il signor de Bülow facesse
presente tutto questo a S. M. l'Imperatore e a S. A. il cancelliere,
avendo io la fiducia che tutto ciò sarebbe tenuto da essi in
amichevole considerazione.
Queste mie dichiarazioni mi parvero tanto più opportune,
visto che ci avviciniamo al mese di maggio, all'epoca, cioè,
in cui si dovrà da una parte e dall'altra decidere sulla
opportunità di confermare o meno, puramente e semplicemente,
il trattato di alleanza.
Del linguaggio da me tenuto al signor de Bülow Vostra
Eccellenza potrà mostrarsi edotta presso codesto Governo.
Crispi.»
I negoziati intavolati a Londra per stabilire un'intesa concreta
negli affari di Oriente e nel Mediterraneo tra l'Italia,
l'Austria-Ungheria o l'Inghilterra, erano paralleli alle rimostranze
che Crispi faceva alla Germania. Se i primi fossero riusciti, le
seconde sarebbero divenute meno urgenti e perentorie, poichè
l'Italia avrebbe trovato nella solidarietà inglese una
garenzia degli interessi ai quali era estranea la triplice alleanza.
In verità, la Cancelleria germanica esercitò tutta la
sua abilità per indurre lord Salisbury a ritornare alla
politica anteriore al 1891; l'ambasciatore Hatzfeldt in quei giorni
era continuamente al Foreign-Office, ma v'incontrava sempre il
signor de Courcel, ambasciatore francese. L'esito del duello tra la
triplice e la duplice franco-russa fu favorevole a quest'ultima:
lord Salisbury confermò il mutamento della politica estera
britannica. Il 10 febbraio, infatti, il conte Nigra telegrafava:
«Goluchowski mi ha detto essere stato informato da Deym che
Salisbury gli ha dichiarato lealmente che non poteva assumere
coll'Austria-Ungheria e coll'Italia nessun impegno più
preciso di quello del 1887».
Il che voleva dire che non s'intendeva dare pratico seguito a
quell'impegno, dimostratosi inefficace quando sopraggiunse la
cattiva volontà, e solo per cortesia si esprimeva una
platonica intenzione di procedere d'accordo, la quale non escludeva
ogni dissenso.
Non rimaneva al governo italiano che rivolgersi agli alleati. Ma in
Germania si era poco ben disposti a considerare la difficile
posizione dell'Italia; anzi il vecchio e stanco principe di
Hohenlohe45 si mostrava allarmato delle esigenze di Crispi. Da
Berlino si scriveva:
«Il timore che si ha qui che noi cerchiamo di forzar la mano
alla Germania, contribuisce certo a rendere il Governo Imperiale
più restìo a parlar alto a Parigi a tutela dei nostri
interessi. Io mi sono astenuto dal parlar di diritti nostri e di
doveri della Germania nello stretto senso della parola, ma non ho
tralasciato d'insistere sul fatto che tutte le difficoltà che
incontriamo a Parigi, tutte quelle che ci vengono create in
Abissinia, dipendono dall'essere noi membri della Triplice Alleanza
e il solo fra quei membri sul quale i nemici di essa possano sfogare
le loro ire. Il barone Marschall, che di ciò conviene meco
pienamente, si dimostra anche disposto ad assisterci; ma come farlo
efficacemente senza andar incontro a pericoli, a danni maggiori e
d'ordine generale? A Pietroburgo gli ordini dati al Principe
Radolin, le recenti dichiarazioni stesse del Principe Lobanoff circa
il Leontieff, non lasciano dubbio che quel rappresentante germanico
agisce, con prudenza ed energia, in nostro favore, d'accordo col
conte Maffei. Ma più che a Pietroburgo noi vorremmo, noi
avremmo bisogno che la parola autorevole della Germania si facesse
sentire sullaSenna e qui cominciano le dolenti note. Ho avuto lunghe
e ripetute conversazioni col barone Marschall e col barone Holstein
in tutti questi ultimi giorni; essi hanno studiato, con amichevole
premura devo dirlo, la questione sotto tutti i rapporti, ma la
risposta che mi si fa è sempre la stessa: «A Parigi non
si ignorano le simpatie della Germania per l'Italia, si sa benissimo
che la Francia non potrebbe attaccar l'Italia senza che la Germania
accorra in sua difesa; ma intervenire ora, fare pressioni sulla
Francia in questioni come quelle delle trattative per le
delimitazioni in Africa, per le relazioni commerciali in Tunisi,
senza la certezza che quell'intervento sorta immediato effetto
favorevole, la Germania non può. In altri tempi, come quelli
cui allude S. E. Crispi, in cui esisteva in Germania una forte
corrente per la guerra, e la Francia non era forte come oggi,
nè resa più baldanzosa dallo appoggio della Russia,
poteva la Germania permettersi di tenir le verbe haut. Esporsi ora
ad un rifiuto o ad una semplice fin de non recevoir per parte della
Francia, la Germania non può; e non deve, senza essere
esposta a subirne le conseguenze e rompere en visière col
Governo della Repubblica. Il Presidente del Consiglio italiano e il
barone Blanc, concludeva il barone Marschall, da veri uomini di
Stato, devono comprendere quanto sia delicata la posizione della
Germania verso la Francia e come un nulla possa turbare le nostre
relazioni con essa e provocare complicazioni che è anche
interesse dell'Italia di evitare.
Alle obiezioni, delle quali si faceva organo l'ambasciatore Lanza,
rispondeva Crispi:
«Il barone Blanc mi comunica la di Lei lettera del 23 corr.
nella quale è fatto cenno della mia del giorno 9....
Noi possiamo comprendere la delicatezza della posizione che la
Germania deve considerare di fronte alla Francia, nella attuale
condizione di cose internazionali; il fatto che non esiste
più in Germania una forte corrente per la guerra, che la
Francia è oggi più forte di un tempo e resa più
baldanzosa dall'appoggio della Russia, non ci pare dispensi la
Germania dal dover considerare il danno che alla forza ed alla
autorità della triplice alleanza deriva da tutto ciò
che viene a colpire l'Italia, ad onta della triplice stessa, e
può ben dirsi pel fatto della sua esistenza.
Non ho d'uopo di ripeterle che, in realtà, le
difficoltà contro cui dobbiamo ora combattere ci derivano in
gran parte dai vincoli che ci uniscono alla Germania; e se non
è pensier nostro pretendere dalla lettera e dallo spirito del
trattato di alleanza conseguenze che a Berlino possano sembrare
eccessive, non è men vero che noi dobbiamo chiederci ora
più che mai se ed in qual grado e modo tuteli i nostri
interessi un trattato che ha bensì lo scopo principale di
prevenire ed impedire la guerra in Europa, ma che non si dovrebbe
veramente poter considerare come estraneo a ciò che, in forma
più o meno larvata, equivalga ad una guerra mossa fuori di
Europa all'una o all'altra delle potenze alleate.
A Parigi - le si è detto dal barone Marschall e dal barone
Holstein - non si ignorano le simpatie della Germania per l'Italia,
si sa benissimo che la Francia non potrebbe attaccare l'Italia senza
che la Germania accorra in sua difesa. Ma il fatto certo è
che questi attacchi della Francia non sono più una ipotesi da
considerarsi per un incerto futuro, sono un fatto ormai esistente,
che mira, non solo a combattere l'Italia in Africa, ma ad
indebolirla in Europa.
Non comprendo come possa ritenersi a Berlino che ciò sia in
realtà destinato a rimanere senza influenza su quella
situazione internazionale che ha la sua base principale per la
Germania stessa nella potenza della triplice, poichè
indirettamente i due imperi non possono non risentirsi di ciò
che tocca la forza dell'Italia; come l'Italia si risentirebbe di
ciò che in Europa o fuori d'Europa toccasse alla forza della
Germania e dell'Austria-Ungheria. Comunque, se a Berlino si è
risoluti a non escire assolutamente da quella riserva che induce la
Francia a ritenere di poter considerare l'Italia come isolata,
è ben naturale che da noi si consideri il trattato di
alleanza nei suoi rapporti, non più soltanto di una
conflagrazione generale, ma benanche della situazione speciale che
esso produce fra Italia e Francia isolatamente.
E poichè s'avvicina il momento in cui una decisione sul patto
che le unisce può esser presa dalle tre potenze alleate, ho
voluto richiamare sul grave argomento tutta l'attenzione di V. E.
perchè Ella ne prendesse norma nel suo linguaggio presso
codesto Governo e anche presso S. M. l'Imperatore.
Ella mi si dichiara profondamente convinto dell'importanza e
dell'utilità del trattato, anzi, della sua necessità,
malgrado gl'inconvenienti che possa avere. Su ciò le ho
espresso già in parte il mio pensiero, e mi riservo di
scrivere ancora all'E. V.
Un trattato di alleanza, sia pure concluso allo scopo d'impedire la
guerra, perde gran parte del suo valore quando si dimostra nella
pace inetto a tutelare gl'interessi dei contrattanti. Senza dire che
nella mente dell'Italia e degli Italiani, oltre e più che di
un patto scritto e limitato a certe date evenienze, si tratta di una
solidarietà morale e politica, che, trovando la sua ragione
nella storia, nella geografia, nella logica internazionale, ha fatto
sì che quel patto non avesse quasi oppositori, mentre se tale
solidarietà venisse a mancare per parte della Germania, il
giudizio sulla convenienza di quel patto verrebbe certo a
modificarsi in molta parte del popolo nostro.
Ora, non può ignorarsi a Berlino la forza che oggi deriva ai
patti diplomatici dal suffragio delle masse; tanto più quando
quei patti implicano la reciproca fratellanza delle armi e del
sangue. Le alleanze hanno infatti oggi tanto maggiore efficacia,
quanto più sono popolari, e non possono essere popolari se
non si dimostrano utili.
Il popolo italiano non è ancora disilluso dell'alleanza con
la Germania; ma chi può assicurare che non lo sarà
domani, così seguitando le cose? E se il Governo italiano
venisse dalle circostanze chiamato all'adempimento dei suoi impegni
verso la Germania, quando l'alleanza fosse divenuta impopolare,
certo esso non mancherebbe ai suoi doveri internazionali, qualunque
fossero gli uomini al potere; ma esso si sentirebbe ben debole di
fronte al suo stesso paese, e lo sarebbe per conseguenza anche di
fronte al suo alleato.
Non posso quindi a meno d'insistere sopra la gravità di uno
stato di cose che si fa per noi sempre meno tollerabile,
poichè facendoci subire in una pace formale i danni di una
guerra a cui l'alleanza non provvede, senza gli eventuali vantaggi
che in una guerra dichiarata l'alleanza dovrebbe assicurarci,
rende incerta e mal sicura la base stessa della nostra posizione
internazionale».
Il problema era posto in tali termini che l'Imperatore stesso
sentì l'opportunità di studiarlo per cercare una
soluzione. E poichè aveva grande stima di Crispi, decise di
venire in Italia per conferire con lui:
«Berlino, 29 febbraio 1896.
«S. M. l'Imperatore venne oggi casa mia per pregarmi far
conoscere al Re suo vivo desiderio incontrarsi con lui profittando
occasione per far prima un viaggio in mare coste italiane che i
medici giudicano necessario per salute Imperatrice. S. M.
l'Imperatore avrebbe quindi progettato giungere con S. M.
l'Imperatrice a Genova nel più stretto incognito ed
imbarcarsi subito colà nel suo yacht. Da Genova andrebbe a
Napoli a visitare fratello, quindi coste Sicilia e di là a
Venezia. A Venezia potrebbe essere non più incognito e aver
luogo, se S. M. il Re consente, ricevimento e incontro ufficiale.
Lanza.»
Disgraziatamente, tre giorni dopo Francesco Crispi era obbligato ad
abbandonare il Governo.
Scomparso il ministero Crispi per una battaglia perduta in Africa,
cadde nel nulla anche il suo programma di politica estera. I patti
della Triplice alleanza non furono modificati secondo la nuova
situazione internazionale, e i ministeri italiani che seguirono si
abbandonarono a quella politica di concessioni e di compensazioni
che fruttò soltanto sospetti, danni e nessun vantaggio.
Vennero le convenzioni franco-italiane per la Tunisia del 28
settembre 1896, le quali non garentirono i nostri interessi
economici e morali, e la convenzione marittima del 1.° ottobre,
che giovò soltanto alla marina mercantile della Francia;
venne «la pace commerciale», del 21 novembre 1898, che
fu difesa con la «ragione politica» e che in
realtà fece riprendere al commercio francese parte del
terreno perduto, e ben poco giovò al commercio italiano. Poi,
il primo viaggio all'estero del nuovo Re d'Italia, dopo la tragedia
di Monza, ebbe per méta Pietroburgo e non Berlino. Poi,
ancora, l'Italia accettò l'egemonia francese al Marocco, in
cambio di una ipotetica libertà d'azione in Libia, col
conseguenziale contegno ad Algesiras, favorevole alla Francia, nel
conflitto sollevato dalla Germania.
Il principe di Bülow parlò a proposito della condotta
della nostra diplomazia alla Conferenza di Algesiras, dei tours de
walzer dell'Italia. Ma la sua ironia non fu equa. I tours de walzer
erano stati consigliati dalla Germania, siccome abbiamo documentato,
per sottrarsi al ballo essa medesima. E dettero quella garenzia che
potevano dare agl'interessi dell'Italia nel Mediterraneo.
FINE.
INDICE ALFABETICO
dei nomi citati nel volume.
Abdul-Hamid, sultano turco, 250.
Accinni, ammiraglio italiano, 252.
Adamoli Giulio, sotto segretario di Stato, 191.
Alberto, arciduca d'Austria, 274.
Allegro, generale tunisino, 19, 21, 22.
Andrássy conte Giulio, cancelliere dell'impero
austro-ungarico, 97.
Antongini, 135.
Aosta (duca d') Emanuele Filiberto, 274.
Atchinoff, ufficiale dei cosacchi, 285.
Avarna, duca, incaricato d'affari italiano a Vienna, 115, 228.
Banca Commerciale Italiana, 185. 188.
Barsanti Pietro, 135.
Barth, viaggiatore tedesco, 24.
Barzilai Salvatore, 108.
Bassiri, notabile di Gadames, 27.
Bettólo Giovanni, capitano di vascello, 253.
Bianchi Giulio, deputato italiano, 123.
Billot Alberto, ambasciatore di Francia a Roma, 54, 66, 154, 160,
174.
Bismarck (di) principe Ottone, cancelliere dell'impero germanico, 3,
9, 155, 178, 214, 219, 225, 235, 236, 237, 279, 281, 283.
Blanc barone Alberto, ambasciatore d'Italia e ministro degli affari
esteri, 20, 160, 162, 258, 268, 270, 280, 288.
Bleichroeder S., banchiere tedesco, 181, 183, 188.
Boito Arrigo, musicista, 173.
Bonghi Ruggero, deputato italiano, 123, 125, 171.
Boris, principe ereditario di Bulgaria, 231.
Bourgeois Leone, presidente del Consiglio dei ministri di Francia,
282, 285.
Bovio Giovanni, deputato italiano, 107.
Bruck (barone de), ambasciatore di Austria-Ungheria a Roma, 11, 14,
15, 112, 142, 268, 269.
Bulgaris Leonida A., 232, 234.
Bülow conte Bernardo, ambasciatore germanico a Roma, 145, 146,
175, 281, 286, 292.
Burdeau, ministro francese, 167.
Caetani Onorato duca di Sermoneta, ministro italiano degli affari
esteri, 65.
Calice, ambasciatore austro-ungarico a Costantinopoli, 263, 264,
267.
Cambon, residente francese a Tunisi, 19, 24, 58.
Cambridge (duca di), 162.
Cantoni C., direttore generale del Tesoro, 181.
Caprivi (di) conte Leone, cancelliere dell'impero germanico, 3, 15,
17, 81, 85, 268, 272.
Caporali Enrico, 110.
Cariati (di), incaricato d'affari, 192.
Carlo, re di Portogallo, 191, 194.
Carvalho e Vasconcellos, ministro del Portogallo, 191, 199.
Caserio, 165.
Casimir-Périer, presidente del Consiglio e presidente della
Repubblica francese, 86, 164, 166.
Catalani Tommaso, ambasciatore italiano a Costantinopoli, 246, 247.
Cavalletto Alberto, deputato italiano, 102.
Cavallotti Felice, deputato, 7, 8, 102, 105, 109, 174.
Codronchi conte Giovanni, prefetto, 109.
Collobiano, ambasciatore d'Italia a Costantinopoli, 55.
Coyne, ufficiale francese, 24.
Courcel (de), ambasciatore francese a Londra, 286.
Currie, ambasciatore britannico a Costantinopoli, 51, 252.
Dal Verme Luchino, generale, 28, 85.
Dante Alighieri, Società italiana, 120.
Delcassé, ministro francese degli affari esteri, 56.
Derby (lord), ministro britannico degli affari esteri, 237.
Desmarest, avvocato francese, 54.
Destrées, console francese a Tripoli, 19, 20, 21, 28.
Dordi dottor Carlo, 120.
Dufferin e Ava (lord), ambasciatore inglese, 170, 172.
Dupuy, presidente del Consiglio in Francia, 165.
Durando, console italiano, 102.
Elena Petrovich, principessa montenegrina, 240.
Elisabetta, imperatrice d'Austria-Ungheria, 141.
Essad-pascià, ambasciatore di Turchia a Parigi, 20.
Eulenburg (conte di), presidente del Ministero prussiano, 272.
Fanti, 239.
Faure Fernando, deputato francese, 24.
Feder, avvocato, 137.
Féraud, console francese a Tripoli, 19, 27.
Ferdinando di Coburgo, principe di Bulgaria, 219, 231.
Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria, 111, 112, 141, 216.
Fratti Antonio, 107.
Fremdenblatt, giornale austriaco, 111, 142.
Galimberti, nunzio del Papa, 139.
Gambetta Leone, 155.
Garibaldi Giuseppe, 95.
Garrit Mohammed, visir marocchino, 67.
Gervais, ammiraglio francese, 88.
Gladstone Guglielmo, 244, 275.
Giers, cancelliere dell'impero di Russia, 160, 221.
Giolitti Giovanni, ministro del tesoro, 181.
Girardin (de) Emilio, giornalista francese, 155.
Goggia, generale italiano, 168.
Goltz (de), incaricato d'affari di Germania, 182.
Goluchowski, cancelliere austro-ungarico, 252.
Grey sir Edward, ministro britannico degli affari esteri, 56.
Grillo Giacomo, direttore della Banca Nazionale, 181, 184.
Guglielmo II, imperatore di Germania, 146, 204, 271, 274, 276, 291.
Hanotaux Gabriele, ministro francese degli affari esteri, 56, 69,
88, 165, 172.
Hatzfeldt, conte, ambasciatore di Germania a Londra, 52, 286.
Hohenlohe (de) principe Clodoveo, cancelliere dell'impero germanico,
273, 287.
Holstein (barone de), funzionario superiore della Cancelleria
germanica, 287, 288.
Kálnoky (conte di) cancelliere dell'impero austro-ungarico,
11, 14, 15, 85, 106, 111, 113, 142, 143, 147, 227, 236, 264, 268,
274.
Karamanli, principe di Tripoli, 24.
Kiamil-pascià, ministro turco, 250,251.
Kimberley, lord, ministro britannico degli affari esteri, 55, 275.
Krüger, presidente della repubblica del Transvaal, 276.
Imbriani Matteo, 102, 107, 109, 110.
Jaille (de la), ammiraglio francese, 88.
Jamais, generale francese, 18.
Jornal do Commercio, 195, 200.
Lamarmora Alfonso, generale, 95.
Lanza, generale, ambasciatore italiano a Berlino, 144, 185, 274.
Launay (de) conte, ambasciatore d'Italia a Berlino, 5, 6, 51, 73,
115, 117, 179.
Lavallette, giornalista francese, 153.
Lega Nazionale, società italiana d'Austria, 138.
Lega Paolo, 143.
Lobanoff, ambasciatore russo a Berlino, 287.
Logerot, generale francese, 18.
Macchiavelli, console italiano, 84.
Mac-Mahon, maresciallo di Francia, 27.
Maffei, marchese, ministro e ambasciatore d'Italia, 19, 162, 287.
Magliani Agostino, ministro del tesoro, 178.
Maistre (de), viaggiatore francese, 58.
Malmusi, console italiano, 133.
Mancini P. S., ministro italiano, 269.
Marchand, capitano francese, 56.
Mariani, ambasciatore di Francia a Roma, 152, 153, 154.
Marschall di Biberstein, ministro germanico degli affari esteri, 41,
73, 203, 274, 276, 287, 288.
Martini Ferdinando, deputato italiano, 143.
Martini Sebastiano, viaggiatore italiano, 55.
Méline, deputato francese, 168.
Menabrea L. F., generale, ambasciatore d'Italia a Parigi, 38, 46,
52, 53, 73, 153, 183.
Millelire, console italiano, 239.
Missori Giuseppe, 135.
Montebello (conte di), ambasciatore francese a Costantinopoli, 262,
267.
Moüy (conte de) Carlo, ambasciatore di Francia a Roma, 151,
152.
Mulei Abd-el-Aziz, imperatore del Marocco, 67.
Mulei Hassan, imperatore del Marocco, 67.
Münster (conte di), ambasciatore di Germania a Parigi, 51, 52,
171.
Narodni List, giornale slavo, 119.
Nelidow, ambasciatore russo a Costantinopoli, 246, 267.
Nigra conte Costantino, ambasciatore d'Italia a Vienna, 11, 15, 85,
105, 106, 119, 128, 130, 141, 143, 148, 162, 164, 236, 280, 286.
Oberdan Guglielmo, 135.
Orlando (fratelli), proprietari del cantiere navale di Livorno, 67.
Pasetti, ambasciatore austro-ungarico a Roma, 278, 280.
Pelletan Camillo, ministro francese della marina, 88.
Pervinquière Leone, scrittore francese, 70.
Philibert, generale francese, 18.
Piccoli, notaio, 102.
Pichon Stefano, deputato francese, 52, 53, 54.
Pinon R., scrittore francese, 69.
Pinto de Soveral, ministro portoghese degli affari esteri, 193, 197.
Ponza di S. Martino, colonnello, 42.
Ponzio-Vaglia generale, primo aiutante del Re, 193.
Pro-Patria, società italiana d'Austria, 119.
Radolin, principe, ambasciatore di Germania a Pietroburgo, 287.
Radowitz, ambasciatore germanico a Costantinopoli, 260, 261, 263,
267.
Rattazzi Urbano, ministro della R. Casa, 8, 159.
Ressman Costantino, ambasciatore d'Italia a Parigi, 86, 154, 166,
173, 175.
Reuss (principe di), ambasciatore di Germania a Vienna, 11.
Ribot, ministro degli affari esteri di Francia, 38, 39, 46, 49, 51,
52, 53, 54, 72, 73, 75, 154, 155, 159, 261.
Ricordi, editore di musica, 173.
Robilant (conte di) C., ministro degli affari esteri, 269.
Rosebery (lord), ministro britannico, 275.
Roustan, console francese, 64.
Rouvier Maurizio, deputato francese, 164, 168.
Rudinì marchese Antonio, presidente del Consiglio e ministro
italiano degli affari esteri, 64, 65, 81, 84, 89, 159, 160, 199.
Sadi-Carnot, presidente della Repubblica francese, 165.
Said-pascià, ministro degli affari esteri di Turchia, 20, 39,
72, 225, 246.
Salisbury (lord), primo ministro d'Inghilterra, 18, 35, 38, 39, 52,
74, 81, 84, 85, 204, 216, 222, 236, 248, 253, 261, 262, 279, 286.
Say Leone, deputato francese, 164.
Schwabach, 185.
Seismit-Doda Federico, ministro delle finanze, 137.
Seymour, ammiraglio britannico, 253.
Solimbergo Giuseppe, deputato italiano, 125.
Solms (di) conte, ambasciatore di Germania a Roma, 6, 179, 183, 268.
Spuller E., ministro francese degli affari esteri, 152, 153, 155.
Stambuloff, presidente dei ministri di Bulgaria, 221, 226, 229.
Taaffe, conte, ministro austriaco, 115, 123, 128, 131.
Tachard, 216.
Tetuan (duca di), ministro degli affari esteri di Spagna, 9, 68.
Thomas Ambrogio, musicista francese, 173.
Tornielli conte Giuseppe, ambasciatore d'Italia, 38, 55, 64, 72,
175, 271, 284.
Tricupis, uomo politico greco, 263.
Ulmann, giornalista italiano, 105, 119.
Umberto I, re d'Italia, 84, 136, 157, 158, 159, 160, 193, 214, 240,
253, 271.
Uxkull, ambasciatore russo a Roma, 221, 228.
Vega de Armijo, duca, ministro degli affari esteri di Spagna, 9.
Verdi Giuseppe, 169, 173.
Visconti-Venosta marchese Emilio, ministro italiano degli affari
esteri, 64, 65, 66, 89, 97.
Vittorio Emanuele, principe ereditario d'Italia, 240.
Waddington, ambasciatore di Francia a Londra, 35, 44, 72, 74, 84.
Weil Federico, 186.
White, ambasciatore britannico a Costantinopoli, 260, 261, 262, 264,
266.
Wimpffen, ambasciatore austro-ungarico a Roma, 97
Zechi-pascià, generale turco, 247.
Zia-bey, ambasciatore di Turchia a Roma, 41.
INDICE DEL VOLUME.
Avvertenza
GERMANIA, ITALIA E FRANCIA.
Capitolo Primo.
Il cancelliere Caprivi e Crispi.
Leone di Caprivi annunzia a Crispi di avere assunto la direzione
degli affari politici della Germania. - Scambio di saluti e proteste
di fedeltà. - Caprivi viene in Italia per conferire con
Crispi. - Colloquii del 7 e dell'8 novembre 1890.
Capitolo Secondo.
La Tripolitania e la Francia.
La Triplice Alleanza e gl'interessi italiani nel Nord-Africa. - La
Francia sulla frontiera tripolo-tunisina sino al 1890. - Una memoria
del generale Dal Verme sul confine storico tra la Tunisia e la
Tripolitania. - L'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890. -
Rimostranze di Crispi presso il governo inglese. - Nota di Said
pascià su l'hinterland tripolitano. - Come si potevano
impedire le ulteriori usurpazioni della Francia. - Crispi e il
governo francese; questo nega di aver delle mire sulla Tripolitania.
- Una nuova carta francese dell'Africa. - Dichiarazioni del ministro
Ribot alla Camera. - Protesta di Crispi. - Stato della questione al
1894. - La convenzione franco-germanica. - La Francia tenta
avanzarsi nel Sudan egiziano. - Fascioda. - Nuovi accordi
anglo-francesi a danno dell'hinterland tripolitano. - L'Italia
rinunzia senza compensi ai suoi diritti in Tunisia. - L'accordo
franco-italiano del 1902. - L'opera di Crispi nel Marocco. -
L'occupazione italiana della Tripolitania e un cattivo presagio.
Capitolo Terzo.
Le fortificazioni di Biserta.
Biserta, la «maggiore posizione strategica del
Mediterraneo». - Crispi impedisce alla Francia di
fortificarla. - Gl'impegni del 1881, confermati da vari ministri
francesi, sono da Ribot dichiarati senza valore. - Sorpresa della
Germania per la teoria di Ribot. - Lord Salisbury presta fede alle
dichiarazioni della Francia che non fortificherebbe Biserta. -
Pro-memoria di Crispi a Salisbury. - Il cancelliere Caprivi e il
reclamo italiano. - Possibilità di guerra. - Il ritiro di
Crispi dal Governo lascia libera la Francia. - Lo Stato Maggiore
germanico e Biserta. - Una lettera angosciosa di Crispi al Re
Umberto. - Biserta fortificata è l'orgoglio della Francia e
una minaccia per l'Italia.
ITALIA E AUSTRIA.
Capitolo Quarto.
Le relazioni italo-austriache e l'irredentismo.
Come nacque l'irredentismo anti-austriaco. - La campagna del 1866. -
Il punto di vista di Andrássy e il compito della diplomazia.
- Il movimento irredentista nel 1889. - Dichiarazioni parlamentari e
parallela azione diplomatica di Crispi. - Scioglimento del
«Comitato per Trento e Trieste». - Un giudizio di
Francesco Giuseppe su Crispi. - L'imperatore deplora di non poter
venire a Roma. - Il processo Ulmann; come fu abbandonato dal governo
austriaco.- Lo scioglimento della Società Pro Patria e la
Dante Alighieri. - Protesta di Crispi. - Corrispondenza
Crispi-Nigra. - Agitazioni irredentiste. - Scioglimento dei Circoli
Oberdank e Barsanti - La Società Pro Patria può
ricostituirsi sotto il nome di Lega Nazionale. - Le dimissioni di
Crispi nel 1891 e l'Austria. - L'agitazione dell'Istria nel 1894. -
Crispi domanda l'intervento dell'imperatore Guglielmo e l'ottiene. -
L'ambasciatore Lanza. - Il ritiro di Kálnoky.
ITALIA E FRANCIA.
Capitolo Quinto.
Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896.
L'ambiente e gli statisti in Francia. - Gli ambasciatori De
Moüy e Mariani e il ministro Spuller. - Come fu ricevuto il
signor Billot. - La sua azione conciliante. - Il varo della Sardegna
e la mancata visita della squadra francese alla Spezia. - Illusioni
francesi su l'on. di Rudinì. - La Triplice alleanza
rinnovata. - Secondo Ministero Crispi. - Strascico dei fatti di
Aigues-Mortes. - Politica di conciliazione. - Una missione segreta
di Maurizio Rouvier. - Corrispondenza dell'ambasciatore Ressman. -
Il richiamo di Ressman e le sue vere ragioni.
Capitolo Sesto.
La Francia contro il credito italiano.
Tutto il mondo finanziario francese ostile. - La guerra ai titoli
italiani. - Crispi chiede l'intervento della finanza germanica. -
Bismarck e gli accordi del 1888. - La campagna al ribasso del 1889.
- La stampa francese unanime consiglia l'espulsione dalla Francia
dei titoli italiani. - Nuove difese dei banchieri tedeschi che si
uniscono in Sindacato nel 1890. - Fondazione dell'Istituto Italiano
di Credito Fondiario. - Fondazione della Banca Commerciale Italiana
sotto gli auspicii di Crispi.
L'ITALIA E IL VATICANO.
Capitolo Settimo.
Un incidente italo-portoghese.
Il Re Fedelissimo a Roma pel Re d'Italia. - L'annunzio ufficiale
della visita. - Il Vaticano mette il veto. - Imbarazzo e indecisione
del Re Carlo e del suo governo. - Re Carlo si raccomanda a Crispi. -
Linguaggio severo della stampa portoghese. - Re Carlo prega di
essere ricevuto a Monza; rifiuto di Re Umberto. - Rinunzia alla
visita. - Crispi rompe le relazioni diplomatiche col Portogallo. -
Colloquio Crispi-Vasconcellos. - Giudizii di diplomatici sulla
condotta del Ministero portoghese. - Le origini remote della caduta
del regime monarchico nel Portogallo.
L'EUROPA E LA QUESTIONE ORIENTALE.
Capitolo Ottavo.
La questione balcanica.
Nel 1879 Crispi esprime la sua fede nel riordinamento della penisola
balcanica sulla base delle nazionalità. - Critica del
Trattato di Berlino nei riguardi della Balcania. - Tre colloqui
inediti tra Crispi e il principe di Bismarck. - La seconda fase
della questione bulgara e la Triplice italo-anglo-austriaca. - La
Turchia dichiara al principe Ferdinando l'illegalità del suo
soggiorno in Bulgaria. - Insuccesso della politica russa. -
Stambuloff ringrazia Crispi in nome del popolo bulgaro. -
Riconciliazione russo-bulgara. - Due indirizzi a Crispi della
«Confederazione Orientale». - La questione di Creta e il
malgoverno turco. - Crispi e l'Albania. - Crispi trova nel
Montenegro la sposa pel futuro re d'Italia. - La Confederazione
balcanica con Costantinopoli capitale. - «Il Sultano se ne
vada in Asia».
Capitolo Nono.
Le stragi d'Armenia e il concerto europeo.
Gladstone e le stragi d'Armenia. - Le potenze esigono un'inchiesta
internazionale. - L'Italia e la Commissione d'inchiesta. - Il
Sultano scongiura che i delegati delle Potenze non interroghino i
testimoni. - Risultati dell'inchiesta e rifiuto del Sultano di
concedere le riforme propostegli. - La Russia si oppone alle misure
coercitive contro il Sultano. - Nuovi massacri. - Gli ambasciatori
chiedono un secondo stazionario a Costantinopoli. - Le squadre
europee in Levante. - L'Inghilterra vorrebbe spodestare il Sultano.
- Le stragi rimangono impunite; la Russia protegge il Sultano.
LA TRIPLICE ALLEANZA E L'INGHILTERRA.
Capitolo Decimo.
La crisi delle alleanze e degli accordi.
La politica estera dei successori di Crispi dal 1891 al 1893. -
Conseguenze immediate dell'inerzia italiana negli affari d'Oriente
avvertite dal Blanc. - Germania e Austria desiderano il ritorno di
Crispi al governo. - Colloqui di Crispi con gli ambasciatori di
Germania e d'Austria-Ungheria. - I torbidi interni del 1893-94
deprimono il credito dell'Italia all'estero. - Guglielmo II e
Crispi. - Motivi del ritiro di Caprivi dalla Cancelleria germanica.
- Nomina di Hohenlohe. - Favorevoli disposizioni di Guglielmo II
verso l'Italia. - Crispi e il dissidio anglo-germanico pel
Transvaal. - L'Italia nella politica internazionale al principio del
1896. - La crisi delle alleanze e degli accordi. - I tentativi per
ristabilire le antiche intelligenze con l'Inghilterra falliscono. -
Dal Diario di Crispi. - Necessità di estendere i patti della
Triplice alla protezione degl'interessi italiani nel Mediterraneo e
in Oriente. - Energiche rimostranze di Crispi. - L'imperatore di
Germania annunzia un suo viaggio in Italia per conferire con Crispi,
ma questi prima della venuta dell'imperatore deve abbandonare il
governo.
INDICE ALFABETICO dei nomi citati nel volume