Letteratura italiana del primo Novecento


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Luigi De Bellis

FINE SECOLO ED ETA' GIOLITTIANA

Negli ultimi decenni dell'Ottocento nel contesto europeo si verifica una serie di trasformazioni dell'assetto economico-sociale, delle quali partecipa naturalmente anche l'Italia. Un dato fondamentale è il passaggio dal cosiddetto capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico o oligopolistico, che comporta un processo di cencentrazione delle strutture produttive, di un determinato settore e quindi il costituirsi di gruppi di pressione e di interessi che innescano un'intensa competizione tra gli stati per la conquista sia di materie prime sia di nuovi mercati. Da queste solide motivazioni economiche nascono miti di supremazia nazionale, di conquista (e quindi la teorizzazione dello "Stato forte"), di "missione dell'uomo, branco", di violenza e di avventura. Dall'idea di nazione, che nella prima metà dell'Ottocento era stata intesa come legittima affermazione della propria identità nazionale, si passa ora al nazional-imperialismo e al colonialismo, al disprezzo dell'egualitarismo democratico, all'esaltazione della grande personalità al vagheggiamento dello Stato forte. In questa complessa trasformazione della società europea si intrecciano condizionamenti economici e ideologie, si influenzano vîcendevolmente miti letterari e comportamenti degli individui e dei gruppi.

In Italia negli ultimi decenni dell'Ottocento la costruzione di uno Stato unitario pone problemi complessi: la repressione dei malcontento meridionale sfociato nel banditismo; il pareggio del bilancio raggiunto con una tassazione spesso esosa; l'organizzazione scolastica e l'unificazione linguistica; l'avanzare del "quarto stato" che si esprime ora in jacqueries e disperate proteste ora nelle prime organizzazioni mutualistiche e socialiste; l'inserimento del nuovo Stato nel gioco della politica europea. A confronto con le speranze e le idealità risorgimentali la realtà nazionale di fine Ottocento appare di una grigia mediocrità, la vita parlamentare immiserita nei giochi trasformistici. Da ciò sorgono molteplici atteggiamenti variamente legati però fra di loro: la cosiddetta delusione risorgimentale (già presente in Carducci e in Verga); il disprezzo per i princìpi e la pratica democratico-parlamentare; il vagheggiamento di uno Stato forte (Fogazzaro e D'Annunzio se ne faranno banditori); l'esaltazione delle grandi personalità e il conseguente disprezzo per la "plebe". Siamo di fronte a una revisione di fondo della cultura precedente, dei princìpi - in sintesi, il positivismo - che nel corso del secolo avevano ispirato l'ascesa della borghesia. Questa revisione o meglio questa crisi è d'altra parte riscontrabile in tutta la cultura europea. Le certezze positivistiche, la fiducia nella scienza liberatrice dall'ignoranza, dalla malattia, dalla miseria, l'assoluta validità dei metodo scientifico, fa convinzione che il progresso sia inarrestabile ora vengono contestate; e il pensiero filosofico e scientifico sottolinea la relatività della conoscenza scientifica (Einsteìn), rivela l'incidenza, nei comportamenti dei singoli e delle collettività, di componenti oscure e di pulsioni che sfuggono alla consapevolezza (Freud), e tende alla demistificazione dei valori fondati sul progresso scientista e sull'etica borghese che ora vengono considerati falsi valori (Nietzsche). Questo orientamento fondamentalmente razionalistico percorrerà a lungo l'Europa generando inquietudini e ricerche, inciderà profondamente nelle manifestazioni artistiche sia, per le tematiche sia per le tecniche, e costituisce per così dire una "cifra" dell'arte novecentesca.

In Italia questo clima novecentesco è ben evidente nel quindicennio giolittiano, nel corso del quale prende avvio un processo di intensa industrializzazione che comporta una serie di problemi: si accentua il divario fra Nord e Sud; si intensifica lo scontro sociale per il costituirsi di organizzazioni politiche di operai e braccianti; si diffondono i miti della competitività, interna e internazionale, del nazional-imperialismo, della conquista e dello Stato forte. Lucidamente consapevole del nuovo clima, Giolitti tenta un coraggioso disegno politico: quello di integrare nell'anemico stato liberale italiano le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazione, un blocco, tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno, che nei primi tempi sembrava destinato al successo, fallisce, in quanto egli si trova a dover combattere con un'opposizione di destra e con una di sinistra. A destra le esaltazioni nazionalistiche, la teorizzazione dello Stato forte, la polemica contro una politica "pacifista" e imbelle assumono una sempre più virulenta consistenza. Si distinguono in queste posizioni - collegate anche ai desiderio di fare tabula rasa dei valori dei passato, a un'inquieta disponibilità ai "nuovo" - le riviste fiorentine e i futuristi: su «Hermes», sul «Leonardo», sul «Regno», nelle serate futuriste, folti gruppi di intellettuali esaltano l'avventura, il rischio, la missione africana dell'Italia, contaminando la dannunziana lezione di una vita d'eccezione col torbido esplodere di posizioni irrazionalistiche e con gli interessi espansionistici della grande industria. Da sinistra Giolitti viene attaccato come gestore dello Stato "borghese", e la polemica trae alimento dall'affermarsi, in campo socialista, di una corrente massimalista e di una mitologia della violenza rivoluzionaria che trovano alimento nella ferrea logica del processo di industrializzazione ed espressione esemplare negli scritti di George Sorel, che proprio in quegli anni si diffondono in Italia.

Con un'abile politica pendolare Giolitti riesce a tenersi in equilibrio tra le due opposizioni: ora combatte il potere delle concentrazioni bancarie, ora fa concessioni agli interessi industriali e alle mitologie nazionalistiche con l'impresa di Libia, ora con le leggi di tutela del lavoro e con la riforma elettorale realizza fondamentali aspirazioni socialiste. Ma le lotte per l'intervento e il prevalere - in dispregio della volontà del parlamento - delle forze nazionalistiche, del mito della guerra come "sola igiene del mondo", degli interessi della grande industria e degli intrighi della monarchia portano l'Italia nella prima guerra mondiale e pongono fine all'egomonia di Giolitti.

Prima di passare in rassegna la fisionomia letteraria di questa età, sarà utile soffermarsi sulle caratteristiche che ha assunto in questo periodo il "mercato delle lettere". Molteplici fattori economici, sociali, culturali e ideologici determinano in questo periodo un allargamento del pubblico dei lettori, che via via comincia ad includere anche i ceti subalterni. Si tratta di fattori che interagiscono fra di loro: la costruzione dello Stato unitario e l'unificazione amministrativa comportano la diffusione di una burocrazia e l'adozione di una lingua nazionale, ma per diffonderla bisogna lottare contro l'analfabetismo e quindi avviare un processo di larga scolarizzazione. Sono processi lenti, specie per quanto riguarda le classi subalterne, ma che già nell'età giolittiana danno frutti. Si aggiunga a questo - ma qui il discorso riguarda gli strati borghesi - l'influenza che esercita D'Annunzio contaminando la letteratura con la mondanità, intuendo che il giornalismo può essere un veicolo per accostare il lettore alla letteratura e che il romanzo è il genere più adatto all'allargamento del pubblico potenziale. Si intreccia con questi fattori - causa ed effetto insieme l'industria editoriale che sollecita e accontenta insieme i bisogni di un pubblico che lentamente ma costantemente si allarga: te case editrici Sonzogno e Treves con la loro produzione (popolare e divulgativa quella di Sonzogno, più borghese e rivolta alla narrativa contemporanea quella di Treves) testimoniano che in età giolittiana si può già parlare di una produzione di consumo. di una letteratura di massa.

Passando ora agli aspetti specificamente letterari, la profonda crisi epocale di cui abbiamo parlato all'inizio dà luogo a quella fase dell'arte e della cultura europea che viene definita unitariamente decadentismo. ma che presenta una gamma assai variegata di soluzioni in rapporto alle singole aree nazionali e ai singoli autori. Sono certamente comuni a tanti artisti decadenti un cupo senso di stanchezza, una lucida consapevolezza di estraneità alla vita normale, di "inettitudine", un'insuperabile sfiducia nell'agire umano, quasi un'ebbrezza di rovina, dovuta alla coscienza di essere degli epigoni, la voce di un'età che vive il suo tramonto (era stato Verlaine il primo a paragonarsi, in un verso che ora diventa un emblema, all'impero romano sul finire della sua decadenza). Questa coscienza di epigoni e questa predilezione per le epoche in disfacimento costituiscono un terreno comune a tanti artisti del decadentismo, dal quale deriva tutta una serie di temi ricorrenti: gusto delle esperienze "estreme" e ricerca della lussuria; stanchezza ed estenuazione dei sensi; femminilità ambigua e perversa (da Salomè - rappresentata dal pittore Moreau, da Huysmans e da Wilde - a tutte le donne che popolano la prosa e la poesia dannunziana); contemplazione della morte delle cose e della società. Nato da una frattura fra l'artista e la società, che col progressivo affermarsi della civiltà di massa era destinata ad accentuarsi, il decadentismo si esprimeva anzitutto nell'enfatizzazione della diversità (da Huvsmans a D'Annunzio), nell'angoscia della solitudine o dell'inconoscibilità del reale (Pascoli, Pirandello), nel privilegiamento della "malattia" rispetto alla "salute" (Mann, Svevo), nel compiacimento vittimistico.

Ma c'è un'altra espressione, sia pure minoritaria, del decadentismo: la coscienza della diversità, l'assenza di legami con la comunità poteva costituire la premessa per lo scatenarsi di uria volontà di affermazione individualistica, per ila celebrazione delle valenze vitalistiche e irrazionali, per la supremazia dell'uomo d'eccezione, (lei superuomo (che Nietzsche teorizzava in quegli anni) sulla "plebe".

Nella letteratura italiana il decadentismo trova parecchie - e ovviamente differenziate - espressioni. Pascoli, deluso nelle iniziali speranze laiche di estrazione positivistica fil progresso scientifico e il socialismo), smarrito di fronte al mistero del mondo e al dolore dell'uomo, tenta di carpire alle cose di ogni giorno il loro senso riposto, ne esprime il mistero ricorrendo al simbolo, scruta e si scruta con voluttà di pianto. La posizione di D'Annunzio è più vistosa ma meno profonda: il suo decadentismo saturo di compiacimenti estetizzanti è soprattutto - ma non sempre - giocato sul versante attivistico e diventa celebrazione di vitalistica ferinità, mito del superuomo, culto del bel gesto. In Pirandello la sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà, il relativismo gnoseologico approdano alta coscienza della solitudine e dell'incomunicabilità dell'io, al frantumarsi della personalità: nella rappresentazione che nella narrativa e nel teatro egli dà della vicenda umana c'è posto per l'assurdo e il grottesco, ma anche per una dolente pietà della condizione-umana, per la «pena di vivere cosi». Sul fallimento, sullo scacco, sulla `senilità" come inettitudine alla vita normale, sulla malattia è centrata la narrativa di Svevo, che nella Coscienza di Zeno stempera il suo pessimismo in una distaccata e superiore ironia.

Sono, questi autori, espressioni esemplari di un'età di crisi e di profondo malessere, che sarebbe durata ben oltre il quindicennio giolittiano e che però trova una sua ulteriore espressione - non intimistica e riflessiva ma aggressiva, urlata, nichilistica - nelle avanguardie: l'espressionismo, che si sviluppa nell'area germanica già in questo periodo e troverà significative espressioni nell'immediato dopoguerra, è una violenta reazione al buonsenso e all'ottimismo borghese, è «la poetica della vita tramontata; violentata, della disperazione, della morte e dell'assurdo che ne hanno preso il posto» (Bonesio) e predilige forme espressive "urlate", grottescamente deformanti, violente, dissonanti; il futurismo, l'unica avanguardia italiana, intende fare piazza pulita delle tematiche e delle modalità dell'arte del passato, ripudia le complicazioni intimistiche e i "chiari di luna", esalta l'aggressività, le valenze istintuali e vitalistiche, la velocità, e propugna un radicale scardinamento delle modalità espressive tradizionali (è difficile comprenderlo senza collegarlo al clima di aggressiva competitività conseguente allo sviluppo capitalistico della società italiana); il dadaismo; sorto a Zurigo nel 1916, si fonda sull'alogicità, sul nonsense, sulla provocazione fine a se stessa: ma questa vocazione distruttiva, nichilistica, finisce col diventare un vicolo cieco che non dà adito ad alcuna realizzazione.

Se ora rivolgiamo l'attenzione ai singoli generi letterari, non sarà difficile cogliere i segni di quel processo di superamento della tradizione, di inquieta ricerca di novità che caratterizza quest'epoca. Nell'ambito della produzione poetica Pascoli e D'Annunzio, di contro alla poesia tradizionale che aveva avuto in Carducci il suo ultimo aulico esponente, danno inizio al rinnovamento ma con vistose differenze: Pascoli crea il nuovo nel rispetto delle strutture metriche tradizionali, dissolvendole dall'interno, spezzando i ritmi tradizionali in una musica nuova, ricca di pause e di silenzi, e col ricorso, da un lato, agli effetti fonosimbolici e, dall'altro, al simbolo, cerca di dar voce al mistero che ci circonda; D'Annunzio supera le strutture metriche tradizionali, adotta con varietà il verso libero, dà voce con una lingua ricercata e fastosa all'inesauribile trama di rapporti tra l'uomo e il mondo della natura. Al rinnovamento, alla destrutturazione delle forme tradizionali contribuiscono in vario modo i futuristi più con enunciazioni di poetica che con durevoli realizzazioni di poesia (ma L'Allegria di Ungaretti si spiega solo tenendo conto dell'esperienza futurista) e i crepuscolari con l'adozione di un linguaggio antiletterario o con un'abile contaminazione di letterario e di parlato e con l'ironico trattamento a cui sottopongono strutture metriche e rime. Intanto, esiti di grande interesse e suggestione raggiungono Clemente Rebora con le sue asprezze espressionistiche e Dino Campana con la sua dimensione favolosa e onirica. Saba realizza già risultati notevoli, ma la sua fisionomia si chiarirà meglio in seguito.

Meno ricco il panorama della narrativa, dove per l'ampliamento del pubblico al quale si è accennato prevale una produzione di intrattenimento, di consumo (Guido Da Verona volgarizza in accattivante erotismo le tematiche dannunziane): ma due opere fondamentali sconvolgono le modalità narrative tradizionali: le novelle e soprattutto Il fu Mattia Pascal di Pirandello e l'antiromanzo il codice di Perelà di Palazzeschi.

Nella produzione teatrale, accanto alla persistenza di modalità veristiche o naturalistiche, sono presenti indicazioni e realizzazioni orientate verso il nuovo. Il superamento del teatro naturalistico avviene o attraverso una particolare attenzione dedicata ai valori poetici del testo (è il cosiddetto "teatro di parola" o "teatro di poesia", di cui D'Annunzio è in Italia il maggior esponente) o attraverso l'utilizzazione di suggestioni che derivano dalle avanguardie (è in parte il caso del cosiddetto "teatro del grottesco").

L'autore di rivoluzionaria originalità è Pirandello, la cui definitiva affermazione si avrà negli anni Venti, ma che già negli anni 1916-18 ha dato, fra l'altro, due testi fondamentali della sua produzione: Il berretto a sonagli e Così è (se vi pare).

DIBATTITO POLITICO-CULTURALE NELLE RIVISTE


IIl primo quindicennio del Novecento è un periodo di vivi fermenti non solo in ambito letterario, ma anche in ambito politico: il - sia pur tardo - processo di industrializzazione e il conseguente accentuarsi dei conflitti di classe, il progressivo formarsi di un'opinione pubblica nazionale, la maggiore conoscenza delle esperienze culturali straniere sollecitata dal decadentismo sono alla base di questa particolare "vivacità" del periodo, vivacità che trova nelle riviste canali e strumenti di espressione particolarmente efficaci. Procederemo ora a un'essenziale ricognizione delle più significative, di quelle cioè che, al di là di interessi specifici e settoriali, hanno maggiormente inciso sul dibattito politico-culturale.

La prima di esse è «La Critica» che, fondata da Croce nel 1903, è quella che è durata più a lungo (sino al 1944), probabilmente perché legata non ad un gruppo ma .ad un uomo («rivista persona che esprime solo e sempre un uomo», come dirà Renato Serra). Croce ha spiegato nel Contributo alla critica di me stesso del 1915, in pagine di notevole interesse, le motivazioni etico-politiche di questa sua iniziativa («compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte m'era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi»). In quanto agli obiettivi culturali, attraverso la discussione di «libri italiani e stranieri, di filosofia, storia e letteratura» Croce dichiarava di indirizzare « le sue censure e le sue polemiche per una parte contro i dilettanti e i lavoratori antimetodici, e per l'altra contro gli accademici adagiati in pregiudizi e ozianti nella esteriorità dell'arte e della scienza».

Ciò significa che per un verso l'obiettivo polemico saranno i giovani intellettuali inquieti e "geniali", vogliosi di novità, spesso irrazionalisticamente velleitari e troppo disponibili alle avventure intellettuali (i Papini, i futuristi, i "rivoluzionari"), per l'altro sarà la cultura positivistica attardata su posizioni ottocentesche. Nell'impossibilità di dar conto qui di un'attività di mezzo secolo, ci limitiamo a dire che nei primi due decenni Croce procede all'esame critico della letteratura di tardo Ottocento (in saggi che confluiranno nei volumi de La letteratura della nuova Italia) e Gentile si interessa soprattutto di filosofia. Quando, con l'avvento del fascismo, l'operosa amicizia tra i due si spezzerà, «La Critica» - che aveva preso posizione contro l'in-7 terventismo - assolse il ruolo di cittadella dell'antifascismo liberale: Croce con i suoi seguaci (Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora ecc.) si batte - pur nei limiti che la situazione politica imponeva - contro le mitologie del tempo, prima fra tutte il razzismo.

«Leonardo»

I dilettanti e i geniali contro i quali polemizzava Croce si esprimevano, con una variegata gamma di posizioni, in parecchie riviste che, dalla sede di pubblicazione, vengono complessivamente indicate come "le riviste fiorentine". La prima di queste è il «Leonardo» che, fondata da Giovanni Papini, si pubblica con varia periodicità dal 1903 al 1907, e si distingue per le suggestioni dannunziane che accoglie, per le sprezzanti posizioni antidemocratiche e antisocialiste, per la polemica contro il positivisismo (che poteva coincidere con gli obiettivi polemici di Croce, ma finiva per sfociare in una concezione misticheggiante, e irrazionalistica dell'arte). Al «Leonardo» - come dichiarava il direttore sul primo numero - aveva dato vita «un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale [...] pagani ed individualisti, amanti della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e delle vita piena, nemici di ogni forma dì pecorismo nazareno e servitù plebea». Di chiarezza ideologica, al di fuori del superomismo pagano anticristiano. («pecorismo nazareno») e antidemocratico(«servitù plebea» la rivista ne ebbe poca, ma probabilmente fu questo a permetterle di ospitare voci che in direzioni disparate cercavano la novità, ad allargare, con interessi verso le manifestazioni straniere, gli orizzonti culturali dell'Italia giolittiana.

«Hermes» e «II Regno»

Il « Leonardo» non è però la sola rivista fiorentina di quegli anni, che vedono contemporaneamente la pubblicazione di «Hermes» (fondata da Giuseppe Antonio Borgese nel 1904) e de «II Regno» (fondata da Enrico Corradini alla fine del 1903).
«Hèrmès» nel complesso fu, come scrive la Frigessi, «una rvista disorganica e frammentaria; le sono mancate così l'audacia antiaccademica, la libertà di discorso, la capacità e il'assimilazione e la vitalità culturale del "Leonardo" come la definita funzione politica del "Regno"»; va sottolineato comunque che anche essa si colloca nell'ambito delle suggestioni dannunziane (delle quali proprio il direttore, Borgese, avrebbe fatto un'inclemente demistificazione nel suo Rubé del 1921), che i suoi collaboratori si autodefiniscono «imperialisti» , che sulle sue pagine viene vaticinato «un prossimo risorgimento di tutte lè àttività nazionali; tanto intellettuali quanto fantastiche, così politiche come industriali ed economiche».

È comunque «II Regno» la rivista di giù accesi spiriti nazionalistici e antidemocratici; è sulle sue pagine che si comincia a parlare di «missione africana» dell'Italia, e della Francia come della «rivale naturale» nel Mediterraneo, ed è su essa che si insiste sulla concezione di uno Stato come strumento per la realizzazione dei «migliori». In altre parole, l'esaltazione della forte personalità la mitologia individualisticà - alle quali avevano contribuito il decadentismo, l'interpretazione "sociale" delle teorie di Darwin, Nietzsche, la teoria delle élites di Gaetano Mosca e parecchi altri fattori - ora non sono concepite come antagonistiche nei riguardi dello Stato, e trovano invece in uno Stato autoritario al servizio dei migliori lo strumento per meglio realizzarsi ed espandersi. È chiaro che da una prospettiva simile gli obiettivi polemici sono il socialismo, i principi democratici e persino certe posizioni di cattolici avanzati, come ad esempio don Romolo Murri, nei riguardi dei quali Papini - con una posizione autenticamente "forcaiola" - scriveva: «Essi vanno rodendo quello che c'era di più saldo nel popolo non ancora impestato: il rispetto dell'autorità, del
prete e del padrone».

«La Voce»

La più importante rivista del periodo è però «La Voce» che Giuseppe Prezzolini fonda nel dicembre del 1908 (durerà silo al 1916). Definire sinteticamente la fisionomia non è facile, anche perché essa ebbe varie fasi, cioè direttori e orientamenti diversi. Nella prima fase (1908-1911) diretta da Prezzolini - Tra i collaboratori Croce, Amendola, Salvemini, Cecchi, Einaudi - « La Voce» affronta i problemi di un rinnovamento culturale compiendo analisi concrete (sulla scuola, sulla questione meridionale ecc.) e collegando la figura di un nuovo letterato a una nuova realtà politico-
sociale (e da ciò la polemica per un verso contro D'Annunzio e per l'altro contro Giolitti). E tuttavia assieme a questo c'è - specie in Prezzolini - una sorta di illuministica fiducia nei poteri della cultura, degli intellettuali, un atteggiamento di intellettualistica superiorità che isola questi "primi della classe" da collegamenti e alleanze con le forze politiche. Quando Salvemini e altri lasciano «La Voce» nel 1911 perché Prezzolini approva l'impresa libica, la direzione passa dal 1912 alla fine del 1913 - la seconda fase - a Papini, e la rivista si apre particolarmente a quelle prove letterarie (liriche, frammenti, impressioni) che hanno fatto parlare di " espressionismo vociano". Per un anno, il 1914 - è la terza fase - « La Voce» torna ad essere diretta da Prezzolini, che la definisce «rivista dell'idealismo militante », facendone una tribuna di posizioni irrazionalistiche e attivistiche (da Bergson a Sorel) e dell'interventismo. Quando egli l'abbandona per collaborare con Mussolini, che ha fondato il «Popolo d'Italia», « Là Voce» passa a Giuseppe De Robertis dalla fine del 1914 al 1916 - è la quarta fase, quella della cosiddetta "Voce bianca", dal colore della copertina - e diventa una rivista esclusivamente letteraria, che ospita autori destinati a diventare poi fondamentali nella nostra letteratura (Ungaretti, Govoni, Palazzeschi, Campana ecc.). Anche da questi rapidi accenni risulta evidente I'eterogeneità di posizioni e di interessi di questa che è tuttavia la più importante rivista del periodo: «è una verità, come è stato detto, affermare che sulle colonne della "Voce" si trovarono fianco a fianco i nomi dei futuri persecutori e dei futuri perseguitati, uniti ancora in quella prima confusa elaborazione di motivi culturali novecenteschi»

«l'Unità»

Carattere decisamente politico ebbe invece, «l'Unità», fondata da Salvemini nel 1912 dopo il suo dissenso con i vociani sull'impresa libica (e pubblicata sino al 1920): concreta e pragmatica come la personalità del direttore d'altronde), «divenne in breve il cenacolo di quanti rifuggendo dalla moda del dannunzianesimo e dalle astrattezze idealistiche intendevano approfondire lo studio della realtà che li circondava».

«Lacerba»

Eterogenea nei suoi interessi, volutamente eccessiva, iconoclastica, "futurista" fu «Lacerba», fondata da Papini e Ardengo Soffici nel 1913 (durerà fino al 1915); in essa parecchi autori (tra cui Palazzeschi) espressero il loro momento più vistosamente futurista e Papini esibì il suo ribellismo (famigerato l'articolo Vogliamo la guerra!). Gobetti a questo proposito parlerà di «letteratura canagliesca».

LA NARRATIVA


Aspetti del panorama italiano

In Italia nel periodo preso in esame, nell'ambito della narrativa, il caso più significativo è quello di Pirandello, che col suo Il fu Mattia Pascal (1904) realizza compiutamente un romanzo nuovo, "novecentesco" e con la sua produzione di novelle (diventeranno poi le Novelle per un anno) e col saggio L'umorísmo (1908) supera le modalità narrative e la concezione stessa dell'arte che erano state dominanti nell'Ottocento. Non si può dire comunque che il riconoscimento della sua straordinaria novità sia avvenuto nell'età giolittiana. Ancora nel 1914 un critico come Renato Serra lo considerava alla stregua di tanti narratori di "intrattenimento" e di "consumo".

Intanto, mentre sull'opera di Verga era calato il silenzio, i romanzi di Fogazzaro e più ancora quelli di D'Annunzio godevano di ampio successo presso la borghesia più o meno colta, che nei conflitti delle "anime belle" fogazzariane o nelle estetisti che raffinatezze degli eroi dannunziani poteva illudersi di riconoscersi o di trovare suggestioni e modelli di comportamento.

Narrativa e consumo

C'era poi tutta una produzione di narratori oggi completamente ignorati - da Luciano Zuccoli ad Ugo Ojetti, da Antonio Beltramelli a Virgilio Brocchi, da Carola Prosperi ad Amalia Guglielminetti, ecc. - dei quali Renato Serra in quel suo prezioso bilancio della letteratura dell'età giolittiana che sono Le lettere (1914) scriveva: «Ognuno di questi [...] scrive con decoro e con qualche facoltà non trascurabile o di sentimento o di ironia o di realismo o di letteratura; ma tutto questo si confonde un poco nella produzione e nel consumo di tutti i giorni: non c'è pagina che si stacchi dalle altre, né scrittore che spicchi dalla pagina». Purtroppo, nell'elenco degli scrittori sopra citati, Serra includeva Pirandello... Ma a parte questo "incidente di percorso", il critico coglieva bene quello che stava accadendo: la letteratura diventava "produzione" e "consumo di tutti i giorni", il pubblico dei lettori via via si allargava, prendevano fisionomia sempre più definita i vari fenomeni connessi alla cosiddetta para-letteratura, che si basa fra l'altro sul declassamento e sulla "volgarizzazione" della letteratura alta - dei valori e dei miti che essa elabora - per un'utenza sempre più larga (cfr. Profilo, 2.2). Ora, i miti del tempo sono quelli dannunziani (cfr. 9.1) e in una prospettiva di sociologia letteraria merita attenzione la loro volgarizzazione operata con largo successo di pubblico da Guido Da Verona (1881-1939). Definito da Adriano Tilgher il «D'Annunzio delle dattilografe e delle manicure», Guido Da Verona mutua dal maestro alcuni temi di fondo (l'esotismo, il disprezzo della morale borghese, l'esaltazione del superuomo, l'erotismo), ma li "cucina" in una prosa meno raffinata e artificiosa; si abbandona a moduli più facili, più accattivanti, più sentimentali e "struggenti", e si fa complice delle fantasticherie con le quali il piccolo borghese sfoga 1e sue frustrazioni. Opere come IL piacere o Le vergini delle rocce esigevano dal lettore, in ultima analisi, una certa educazione letteraria, della quale si poteva fare a meno invece per immedesimarsi e stordirsi nelle pagine di Colei che non si deve amare (1910) o di Mimì Bluette, fiore del mio giardino (1916), romanzi che godettero di larghissimo successo. Ma ebbero anche successo, in quegli anni, opere che anziché blandire il lettore sia sul piano tematico che su quello formale, ponevano invece problemi, costringevano a riflettere, rappresentavano con spirito critico la società costituita e le sue convenzioni.

È il caso di Una donna, un'avvincente narrazione della propria vicenda biografica che SIBILLA ALERAMO (1876-1960) pubblicava nel 1906. Oggetto di attenzione da parte di Graf, Ojetti, Panzini, Pirandello, tradotto nel giro di pochi anni in tutte le principali lingue europee, questo testo, «che non può dirsi come genere letterario un'autobiografia, ma è un vero e proprio romanzo» (Corti), non interessa solo "il mercato delle lettere" del primo Novecento italiano, ma anche il dibattito culturale e il costume: i problemi della condizione femminile trovano qui una delle prime espressioni, e con un'incisività e una modernità che anche il lettore di oggi - dopo che in questo ambito tanto si è detto e si è realizzato - non può fare a meno di apprezzare.

Un caso eccentrico

E' di quegli anni - e collegabile in fondo a quel clima di ricerche che connota l'età giolittiana - un'opera che va ricordata e merita molta più attenzione di quanta normalmente non gliene venga attribuita: Il codice di Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi. La storia del protagonista - un "uomo di fumo" che non ha consistenza corporea, scende fra gli uomini attraverso la cappa di un camino, viene prima ammirato e onorato per la sua singolarità e, dopo, condannato a reclusione perpetua, si invola al cielo ancora una volta attraverso un camino - è narrata in 19 agili capitoletti, molti dei quali sono costituiti da un susseguirsi di velocissimi dialoghi, di rapide battute: la tradizionale struttura narrativa è sconvolta. Siamo di fronte a « un esempio precoce di antiromanzo», osserva il De Maria, il quale fa poi notare, oltre l'aspetto formale, che «nell'aerea favola palazzeschiana Perelà rappresenta l'alterità, la coscienza possibile, il simbolo di una vita libera da ceppi». Si tratta perciò di un'opera che, come la contemporanea produzione in versi di Palazzeschi, è sottesa da una poetica di libertario "divertimento", che si presenta con una molteplicità di aspetti («favola allegorica; romanzo ermetico [...] farsa, opera buffa, romanzo aperto, antiromanzo; opera impegnata sia pure indirettamente con le tensioni sociali del proprio tempo; libera fantasia poetica», suggerisce ancora il De Maria) e che nel Novecento dà inizio a quella linea di narrativa "fantastica" di cui in seguito parleremo.

La produzione di ALDO PALAZZESCHI (1885-1974) occupa più di un cinquantennio e interessa sia la narrativa sia la poesia.

Il famoso verso «E lasciatemi divertire» (che dà anche il titolo ad un componimento poetico) si potrebbe scegliere come sintetica indicazione della sua poetica e della sua "cifra". Sin dalla sua prima attività, che già nel primo decennio del Novecento dà notevoli realizzazioni, Palazzeschi con le poesie delle raccolte I cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (1909), L'incendiario (1910) definisce la sua fisionomia, nella quale il gusto della dissacrazione delle forme metriche e dei valori tradizionali si coniuga coll'irruenza iconoclasta e polemica del futurismo (al quale per breve tempo aderì) ma con una levità ironica, con una vocazione al divertimento, con un'abilità funambolesca che costituiscono un unicum nel panorama letterario del tempo. Certe sue filastrocche cantabili, certi suoi componimenti di versicoli che registrano la banalità del quotidiano (La passeggiata, ad esempio) sono sottesi da una forte carica eversiva, che trova però la sua modalità specifica nello sberleffo monellesco, nel divertimento: l'irrisione nasce da una crisi di valori, il grottesco da un sostrato pessimistico. Anche Il Codice di Perelà (1911) si inserisce, col suo umorismo fantastico e con la destrutturazione delle tecniche narrative tradizionali, in questo orientamento e conclude la prima fase dell'attività di Palazzeschi.

Stampe dell'Ottocento (1932) e Le sorelle Materassi (1934), due opere che segnano un'altra fase della produzione di Palazzeschi, sono una raccolta di "ritratti", di "figure umane" rappresentate nell'ambiente cui appartengono: la prima è ispirata al tradizionale memorialismo e bozzettismo toscano, e la seconda è la storia di due anziane ricamatrici travolte dal condiscendente affetto per il nipote Remo, un giovane scavezzacollo che le manda in rovina e poi le abbandona. Nel panorama narrativo di quegli anni, oscillante tra l'inclemente referto sulla corruzione borghese di un Moravia o le sofisticate analisi coscienziali dei solariani, Palazzeschi si distingue per una cordialità narrativa in sapiente equilibrio fra dissacrante divertimento e fascino della memoria, e per una prosa di particolare vivacità e freschezza. È comunque «nella misura del racconto - scrive Giorgio Luti - che lo scrittore sembra raggiungere la concisione necessaria a disegnare in modo mirabile le sue figure tragico-grottesche e ad affidargli un peso simbolico altrimenti irraggiungibile». Da questa prospettiva, i racconti raccolti ne Il palio dei buffi (1937) «ci consegnano il ritratto più autentico di Palazzeschi narratore, inventore di situazioni umane in cui l'assurdo e il grottesco assumono il significato di simboli». C'è poi (ferma restando la relatività di queste scansioni) una terza fase dell'attività di Palazzeschi, quella dei romanzi I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953), nella quale sono presenti certe ambizioni ideologiche che compromettono la felicità narrativa.

Da ultimo Palazzeschi ritorna alle sue vocazioni più vere - l'estrosità surreale, il diverIimento grottesco - con le novelle de Il buffo integrale (1966), con i romanzi Il doge (1967) e Stefanino (1969) e con le poesie di Cuor vaio (1968) e di Via delle cento stelle (1972), nelle quali «dimostra una stupefacente vitalità espressiva, riproponendo accanto alla fresca e polemica inventività degli anni futuristi un'immagine di vecchio fanciullo sensibile e indulgente» (Luci).

Ma accanto all'eccentrico romanzo di Palazzeschi un altro testo ci sembra significativa testimonianza di questo periodo per ragioni, oltre che letterarie, culturali: il romanzo/autobiografia Un uomo finito di GIOVANNI PAPINI (1881-1957), edito nel 1913. Si tratta di un'autobiografia "letteraria'', che può considerarsi il rendiconto, il bilancio e, per così dire, la mappa culturale di una generazione - quella delle riviste fiorentine - con le sue ribellioni autentiche e i suoi ribellismi in posa, con le sue novità realizzate e con le sue "rivoluzionarie" ricerche d'effetto. E si tratta, nel contempo, del libro tipico di Papini, cioè di un'opera paradigma le cui caratteristiche possiamo ritrovare in tante altre che la precedono o la seguono. Nel ripercorrere le tappe del suo itinerario intellettuale, in quest'opera Papini assume toni di compiaciuto ribellismo, si atteggia in pose titaniche, e nel descrivere la sua vicenda di moderno Faust punta volutamente sull'eloquenza, sull'ostentazione di tanta impresa dominare tutto quanto lo scibile, esaurire tutte le esperienze intellettuali possibili e di tanta sconfitta. Sia le ambizioni che le sconfitte del protagonista sono sempre al di là della normale dimensione umana: e da ciò l'impressione di troppo scaltrita ricerca di effetti che dà il libro. Se ne può ammirare l'eloquenza, ma è l'ammirazione che si può provare per l'equilibrista, che non ci commuove quando simula di cadere: anche questo rientra nel gioco, fa numero.

Nella raccolta Autobiografia di Saba si legge: «A Giovanni Papini, alla famiglia / che fu poi della "Voce" io appena o mai / non piacqui. Ero fra lor di un'altra specie». Non è difficile comprendere questa scarsa simpatia, anzi questa "alterità", se si pensa da un lato alla serietà umana e intellettuale di Saba, alla stia ricerca di una «poesia onesta» (cfr. Profilo, 237, e dall'altro al clima dei cenacoli e delle riviste fiorentine, nel quale «si sentiva più accaloramento che calore, più impeto iniziale che costanza, più mobilità che movimento, più curiosità e dilettantismo che interessamento e serietà» (Croce). ln questo contesto di per sé ricco di intellettuali "presenzialisti" e smaniosi di novità, Giovanni Papini è una delle presenze più rumorose e costanti. Assetato di cultura, sinceramente bramoso di una conoscenza enciclopedica, disponibile - con gli entusiasmi dell'autodidatta e l'ardore del neofita - a tutte le avventure intellettuali, Papini è da considerare il rappresentante esemplare di questo clima culturale, nel quale già la conquista del favore del pubblico era imposta dall'industria editoriale e l'esempio dannunziano esercitava profonda suggestione. Papini passò attraverso il pragmatismo, il futurismo, l'interventismo, gli studi di religione e di teosofia, la poesia e la critica: ma di quest'ultima scelse, come formula o come sottogenere, la stroncatura con una frequenza e un'ostinazione che sanno molto di partito preso: Crepuscolo dei filosofi (1906); Stroncature (1916). Non diversamente, d'altra parte, da quanto avviene negli scritti che in quegli anni Papini dissemina nelle riviste: nel «Leonardo», che fonda nel 1903 (durerà sino al 1907); nel «Regno», di cui è redattore capo; in «Lacerba», che fonda nel 1913. Nella virulenta polemica contro la democrazia e contro il socialismo, c'è sempre un di più e un'ostentazione che insospettiscono.

È un atteggiamento, questo, che più o meno costantemente sarà la "cifra" di Papini: anche quando nel primo dopoguerra si converte clamorosamente al cattolicesimo e pubblica una Storia di Cristo (1921) nella quale, al solito, non rinunzia a épater les bourgeois, se non concettualmente almeno stilisticamente. Toni meno forzati è invece possibile trovare nelle prose poetiche di Cento pagine di poesia (1915), nei versi di Opera prima (1917) e nei "racconti metafisici" (qualcuno è piaciuto a Borges) che risalgono agli inizi della sua attività (Il tragico quotidiano, 1903; Il pilota cieco, 1907).

Col regime fascista Papini vede realizzare molte delle sue aspirazioni e l'ex ribelle diventa un intellettuale integrato: dedica il primo volume di una Storia della letteralura italiana "al duce, amico della poesia e dei poeti"; entra a far parte dell'Accademia d'Italia; nel 1939 pubblica Italia mia, un'opera nella quale la retorica nazionalistica tocca - in linea con la propaganda ufficiale - punte difficilmente superabili.

Negli ultimi 10-15 anni della sua vita, letterariamente è un sopravvissuto.

La prosa non narrativa


Dopo questo panorama della narrativa del primo Novecento, vorremmo ora prendere in esame un uso della prosa che, esulando dal genere narrativo, si colloca in una zona non chiaramente definibile secondo la catalogazione dei generi, in una zona magari "ambigua" ma non per questo meno degna di attenzione in una prospettiva di storia letteraria.

Per impostare il problema occorre rifarsi un po' indietro e ricordare che il canone romantico della spontaneità, dell'originalità, della valorizzazione dell'io comportava, a breve o a lunga scadenza, l'abbattimento delle "regole" e innescava un processo irreversibile di destrutturazione. Già nel nostro romanticismo, pur così "conciliativo " rispetto a quelli d'oltralpe, un primo esempio di destrutturazione delle forme metriche tradizionali lo si ha con Leopardi, che abolisce le forme chiuse e la rima regolare e costruisce i suoi Canti con estrema libertà rispetto alle regole della tradizione. Ma c'è un altro effetto dell` onda lunga" romantica, che almeno per ora ci preme maggiormente sottolineare, ed è il progressivo superamento della distinzione tra prosa e poesia, che nelle letterature straniere si constata prima che in quella italiana e del quale realizzazioni esemplari sono i poèmes en prose di Baudelaire e di Rimbaud (le Illuminazioni). Il poema o poemetto in prosa si presenta come un nuovo genere letterario che contamina prosa e poesia e ha caratteristiche ben definite: è breve e scritto in un linguaggio estremamente denso e concentrato; ha un carattere prevalentemente lirico; valorizza le qualità musicali della parola (eletta e calibratissima); presenta un frequente ricorso all'iterazione; abbandona il piano referenziale e informativo e per così dire prende quota col ricorso alla dimensione immaginifica, metaforica. Si tratta nel complesso di modalità espressive che sono proprie della poesia: e il poemetto in prosa nasce appunto come sperimentazione, come tentativo di realizzare un discorso poetico al di fuori delle forme metriche tradizionali. Da questo punto di vista esso si inserisce nel processo di dissoluzione delle strutture metriche tradizionali che si esprime anche nel verso libero.

La presenza di questo nuovo genere o forma letteraria si registra in Italia un po' in ritardo rispetto alle esperienze straniere ed è particolarmente fiorente nel primo quindicennio (circa) del Novecento. Contribuivano al fiorire del poemetto in prosa in Italia la maggiore conoscenza della produzione straniera collegata all'esperienza del decadentismo, ma anche suggestioni critiche che orientavano verso il "frammento", verso il componimento in prosa breve e intenso (si pensi a quanto teorizzava De Robertis sulla «Voce», nonché alle giustificazioni che alla poetica del frammento poteva fornire - magari al di là delle sue intenzioni - Croce con la sua estetica, col suo ridurre l'opera d'arte ad un nucleo lirico).

È soprattutto il gruppo degli scrittori che gravita attorno alla «Voce» a porsi con particolare tensione intellettuale il problema della "parola letteraria", delle valenze e delle possibilità che essa racchiude. Alla ricerca di uno stile capace di inglobare la totalità del reale, i "vociani" esprimono il meglio delle loro capacità in pagine frammentarie, dense, cariche di tensione che parecchia critica qualifica come "espressionistiche" per la violenza espressiva, per la vocazione a ridurre la distanza fra prosa e poesia e a forzare l'area semantica tradizionale caricando la parola di nuove valenze, per il gusto della sottolineatura autobiografica che le caratterizza. Ne IL mio Carso (1912) di SCIPIO SLATAPER (1888-1915), nei frammenti di Giovanni BOINE (1887-1917), in tante pagine "in prosa" di poeti come Campana e Rebora, in Con me e con gli alpini (1919) di Piero Jahier tutto ciò è ben visibile: siamo di fronte al poemetto in prosa, al superamento della tradizionale distinzione fra prosa e poesia.

Autori (in ordine alfabetico)


CORRADO ALVARO

Nato nel 1895 a San Luca (Reggio Calabria), Corrado Alvaro studiò in un collegio dei gesuiti, partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria (e rimase ferito alle braccia), si laureò nel 1920 e si dedicò al giornalismo (lavorando al «Corriere della Sera» e al «Mondo» di Amendola fino alla sua soppressione nel 1926) e alla letteratura. Dopo le sue prime prove narrative (La siepe e l'orto, 1920; L'uomo nel labirinto, 1926) si trasferì a Berlino, perché costretto dal regime ad abbandonare il giornalismo. Ritornato a Roma, dove poi è sempre vissuto, agli inizi degli Anni Trenta, continuò in un difficile rapporto col regime a svolgere la sua attività letteraria: fu redattore della rivista «900» di Bontempelli, pubblicò nel 1930 Gente in Aspromonte che gli diede ampia notorietà, nel 1935 I maestri del diluvio. Viaggio nell'Unione Sovietica, nel 1938 il romanzo L'uomo è forte.
Dopo il 1945 fu vicino - ma con discrezione ed equilibrio - all'area politico-culturale della sinistra e intanto lavorava alla realizzazione della trilogìa Memorie del mondo sommerso, composta da L'età breve (1946) e dai postumi Mastrangelina (1960) e Tutto è accaduto (1961). Morì a Roma nel 1956.

Corrado Alvaro è una delle personalità più interessanti della prima metà del Novecento e la sua produzione narrativa meriterebbe di essere "riscoperta" e tratta da quell'oblio (o quasi) nel quale negli ultimi decenni è stata relegata.

Va anzitutto precisato che con la cultura straniera e con le importanti esperienze narrative che maturavano negli anni Venti Alvaro ebbe notevole dimestichezza, grazie al suo lavoro, prima, di collaboratore al «Mondo» di Giovanni Amendola e, dopo, sino alla metà degli anni Trenta, di inviato del «Corriere della Sera» e de « La Stampa» soprattutto in Germania e nell'URSS. Sono da ricordare anche, in questo senso, i suoi rapporti con un intellettuale di interessi europei come G.A. Borgese e la collaborazione a « 900» di Bontempelli, che si batté contro l'autarchia culturale. Dopo le Poesie grigio verdi (1917) ispirate all'esperienza della prima guerra mondiale, Alvaro pubblica nel 1926 il romanzo L'uomo nel labirinto, interessante, anche nei suoi esiti non sempre felici, perché l'autore adotta soluzioni narrative e sperimentazioni linguistiche che si rifanno alle contemporanee suggestioni europee (Joyce innanzitutto) e perché affronta un tema - la babelica civiltà moderna con le sue conseguenze sull'interiorità dell'individuo - che costituirà una delle costanti della meditazione e della produzione di questo scrittore. Il tema infatti verrà ripreso oltre che in pagine diaristiche, in saggi, in "riflessioni di viaggio" (I maestri del diluvio. Viaggio nell'Unione sovietica, 1935), nel romanzo L'uomo è forte (1938 e, con rifacimenti, 1946) dove il dramma dell'uomo contemporaneo «è ambientato nella società di un intero paese, che dovrebbe essere la Russia, ma può essere anche l'Italia, e potrebbe essere, vittorinianamente, qualsiasi paese dell'Uomo» (Petronio). Nella produzione di Alvaro con questo tema coesiste, ad esso tuttavia opponendosi, la rappresentazione del mondo delle origini e dell'infanzia (la Calabria), che si realizza in opere quali Gente in Aspromonte (1930), in molti dei racconti (una scelta è nei Settantacinque racconti; 1959) e nella trilogia Memorie del mondo sommerso, composta da L'età breve (1946) e dai postumi Mastrangelina (1960) e Tutto è accaduto (1961).

Nella trilogia (ma soprattutto nel primo volume, pubblicato vivente l'autore) la componente in senso lato autobiografica si snoda in pagine che rievocando episodi e ambienti danno il senso, il clima di una civiltà, remota e pur perenne nella coscienza del narratore.

Non va dimenticata un'altra vocazione di Alvaro (Quasi una vita, 1951; Ultimo diario, 1959): la sua capacità di cogliere con brevi ritratti, riflessioni, "moralità" appunto, i segni e il senso dei tempi.

È indiscutibile che nella pagina di Alvaro è presente la realtà storica dei pastori di Calabria, dalle abitudini di vita ai rapporti sociali, ma trasfigurata e, per così dire, distanziata. La rappresentazione si colloca sin dall'inizio in una dimensione tutt'altro che realistica: i pastori coi loro corti mantelli fanno pensare alla raffigurazione di «qualche dio greco pellegrino», il sentiero scosceso richiama l'immagine di un «presepe», i buoi evocano degli «animali preistorici», la pecora arrostita sullo spiedo è «solenne come una vittima prima del sacrifizio», la nostalgia dei pastori per le domeniche trascorse in paese si snoda in un susseguirsi di proposizioni collegate paratatticamente («e rispondono... e i bambini... e i vecchi») che hanno la grandiosa semplicità di una canzone di gesta e conferiscono al dato reale un alone di arcana solennità.
Trasfigurante è anche il secondo brano (la conclusione del racconto), nel quale la figura di Antonello alla macchia assume quella dimensione favolosa che una lunga tradizione meridionale assegna al fuorilegge, che «toglie ai ricchi e dà ai poveri».

GIUSEPPE ANTONIO BORGESE

Giuseppe Antonio Borgese, nato a Polizzi Generosa (Palermo) nel 1882 e morto a Fiesole nel 1952, é uno degli intellettuali più significativi e meno adeguatamente conosciuti della prima metà del Novecento. Animatore e collaboratore delle riviste del primo Novecento, docente universitario di letteratura tedesca e di estetica, diretto conoscitore delle realtà culturali straniere (anche per motivi biografici, in quanto aveva sposato una figlia di Thomas Mann), superò le iniziali suggestioni dannunziane sia attraverso l'elaborazione di una concezione dell'arte che almeno in parte si rifaceva a De Sanctis e a Croce, sia con una concreta attività critica (Storia della critica romantica in Italia, 1905; Gabriele D'Annunzio, 1909; Studi di letteratura moderna, 1915; Ottocento europeo, 1927) attenta anche alla problematica contemporanea (i tre volumi de La vita e il libro; 1910-13, a giudizio di Sciascia contengono «una mole ingente di lavoro critico tanto intelligente e sagace da resistere al senno del poi, da essere ancora oggi illuminante»). Espulso per antifascismo, alla fine degli anni venti, dalla cattedra di estetica dell'Università di Milano, riparò e insegnò negli Stati Uniti, dove fra l'altro pubblicò in inglese Golia, la marcia del fascismo (uscito in Italia nel 1946). Della sua attività di narratore, oltre a Rubè(1921), vanno ricordati i racconti e i "ritratti" della raccolta Le belle (1927, riedíta da Sellerio nel 1983).

II monologo «lo lo so... dell'onore» è di fondamentale importanza per capire il personaggio creato da Borgese. Come tanti altri eroi (o piuttosto anti-eroi) del decadentismo europeo, Filippo Rubè è una personalità piena di complicazioni cerebrali, che avverte però i limiti del suo particolare modo d'essere e nel suo scrutarsi e tormentarsi approda al disprezzo di se stesso e sente come una vergogna la sua qualità di intellettuale. Sogna allora il riscatto da questa condizione, la redenzione in una vita comune: di contadini, di marinai, ecc. (si ricordino i vv. 157-180 della Signorina Felicita di Gozzano per un atteggiamento analogo). Ma in tutto questo, oltre che un evidente velleitarismo, c'è anche molta letteratura (la sana vita dei campi, celebrata da una lunga tradizione letteraria, una vita primitiva e tutta istinto contrapposta alle complicazioni intellettualistiche). Bisogna però sottolineare il lucido, rigoroso distacco con cui l'artista rappresenta il suo personaggio: com'è stato giustamente detto, tanto Filippo Rubè è fiacco e dubbioso, altrettanto è sicura e misurata la rappresentazione che ne propone Borgese.

RUBE'
Intrecci e percorsi tematici

Filippo Rubè è un giovane ambizioso, giunto a Roma da un paesino siciliano con la speranza di affermarsi nell'avvocatura e nella politica. L'autore (nelle vesti di narratore esterno "onnisciente") coglie il suo personaggio all'età dei trent'anni, il tempo dei bilanci, per Rubé non certo positivi: la sua anima era «simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un infinito sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance». Quasi subito è introdotto nel romanzo il riferimento alla guerra, tema fondamentale e sfondo delle due prime sezioni di esso. Acceso interventista, Rubè parte volontario, ma la sua adesione alla guerra ha motivazioni non tanto politiche, quanto piuttosto intime e personali: affrontando il pericolo, Rubè vuole vincere la malattia spirituale da cui si sente affetto («la guerra risanatrice del mondo sarebbe stata la sua medicina»). Il treno che lo porta al fronte gli sembra allontanarlo definitivamente da un passato inerte e senza significato: davanti a lui si apre la sicurezza di «entrare nella nuova vita tutto nuovo nell'uniforme nuova». A Novesa, dove si è fatto destinare, avvia un tortuoso e contraddittorio rapporto con Eugenia, la figlia del maggiore Berti. La distanza spirituale tra i due fidanzati è grande, come testimoniano le lettere che aprono il cap. VII: l'inquietudine esistenziale di Rubè non può essere appagata dalla tranquilla bellezza e dall'opaca bontà di Eugenia, neppure quando essa diventerà sua moglie. Solo la guerra, conosciuta nella sua quotidiana realtà di rischio e di morte, può alleggerire lo spirito dalle inquietudini: soprattutto quando viene seriamente ferito, Rubè si convince del valore risanatore della guerra, che «cauterizza le coscienze scrupolose e malate».
Il dopoguerra aggrava in Filippo, trasferitosi intanto a Milano, il senso di vuoto: come tanti altri reduci, dopo l'ebbrezza della guerra, è incapace di adattarsi ad una vita «ordinaria». Le sue condizioni, e quelle della famiglia che ha fondato, si fanno sempre più precarie, soprattutto quando, a causa di un'incauta presa di posizione politica, viene licenziato dalla ditta presso cui era impiegato. Sono i tempi roventi dei disordini di piazza, dell'ascesa del fascismo (tra le cui file figurano, anche alcuni ex commilitoni di Filippo), di un serpeggiante clima di violenza, da cui lo stesso Filippo si sente affascinato. Un'imprevista vincita al gioco segnala l'ingresso nel romanzo del Caso, che avrà una parte determinante nel seguito della vicenda: casuale la fuga di Filippo da Milano; casuale la sua fermata a Stresa; casuale, anche se ardentemente desiderato, l'incontro con Celestina Lambert, la giovane affascinante moglie di un generale, precedentemente conosciuta a Parigi. L'amore tra i due, consumato nell'incantevole scenario del lago Maggiore, si tingerà presto di morte. Durante una gita in barca Celestina morirà affogata e la sua tragica fine spingerà sempre più Filippo verso la disperazione, l'alienazione, la perdita di identità (al proposito sono emblematici i suoi continui cambiamenti di nome). Il destino, che gioca da padrone le ultime mosse con Rubè, assume le vesti di un inquietante personaggio che lo accompagna nel suo ultimo viaggio. Seguendo fatalmente il «Viaggiatore sconosciuto», Rubè non si incrocia con la moglie, venuta a Bologna ad incontrarlo. Mentre vagabonda senza meta per la città, afflitto da presentimenti di morte, si imbatte in un corteo di dimostranti «rossi», dal quale viene, ancora una volta casualmente, trascinato: muore travolto da una carica di cavalleria, trovandosi in una «prima fila» che non ha cercato e a cui ideologicamente non appartiene.

Esaminando anche solo l'intreccio ci si accorge dell'importanza che assume, sia nella dinamica narrativa che nella strutturazione del messaggio, il tema del viaggio. Rubè è infatti un personaggio itinerante e c'è indubbiamente uno stretto parallelismo tra la sua tormentata ricerca esistenziale e i suoi spostamenti in luoghi sempre provvisori, sedi di mancati appuntamenti con la felicità. Si tratta di una ricerca fallimentare dunque, che, conducendo Rubè all'annichilimento e infine alla morte, rovescia radicalmente la formula narrativa a cui a prima vista Rubè sembra conformarsi: quella del "romanzo di formazione". Tra tutti gli spostamenti, quello che assume maggiore significato è il secondo viaggio a Calinni, il paese natale, estrema ricerca di identità, che si configura come regressione, ritorno alle origini. È significativo in proposito l'uso dell'aggettivo "vecchio", nettamente contrapposto al "nuovo" cercato nella guerra all'inizio del romanzo: «... Avrebbe dormito a Calinni... nel vecchio lino di sua madre; al suono del vecchio pendolo a pesi.». Anche questo viaggio-ricerca è però fallimentare, ennesimo appuntamento mancato: Calinni rimane lontana, alta sulla «montagna inaccessibile e sacra». A Rubè, eroe dannunziano dimidiato, non è più possibile tornare a rivestire i panni dell'eroe verghiano, nonostante la scoperta della propria "meridionalità": il suo destino di personaggio letterario è di procedere "oltre", percorrendo fino in fondo il calvario della paralizzante autoanalisi e dell'inerzia spirituale, proprie del personaggio novecentesco.

Macrostoria e microstoria

L'aspetto che maggiormente caratterizza la struttura narrativa di Rubè è la relazione che l'autore volutamente istituisce tra la vicenda di Filippo Rubè e la crisi etica, ideologica, spirituale di una nazione (e in particolare di una classe sociale, la piccola borghesia intellettuale) tra la prima guerra mondiale e il fascismo. Indubbiamente però a Borgese interessa in modo predominante la messa a fuoco del "suo" personaggio: si potrebbe dire quindi che egli introduca la macrostoria (guerra, ecc.) solo in quanto concorre a determinare (o a chiarire) la microstoria del protagonista. Rubè è prima di tutto un romanzo "psicologico", che però «porta e sviluppa in sé un romanzo politico» (De Maria).

Il "sistema dei personaggi"

Nel romanzo si articola un complesso sistema di relazioni tra i vari personaggi: alcune di esse hanno un ruolo particolarmente importante nella costruzione del messaggio del testo. A Rubè, ad esempio, si contrappone evidentemente Federico Monti, con la sua filosofia serena e distaccata, nutrita di letture classiche, la sua accettazione della guerra come espressione della volontà di Dio, la sua composta dignità. A Eugenia, la mite sposa che non sa dare gioia, sono contrapposte Man, e soprattutto Celestina, figure femminili che sprigionano gioia e sensualità. Anche su questi personaggi però, finisce per stendersi l'ombra del dolore e della morte: la "sanità" di Federico è minata dalla menomazione fisica; la bellezza e la gioia di vivere di Man, sono spente dalla morte della sua bambina; Celestina muore annegata (e la rappresentazione crudamente veristica del suo cadavere costruisce un aspro contrappunto con la celebrazione della sua prepotente bellezza). Non mancano poi nel romanzo personaggi che rivestono un ruolo simbolico: l'Anonimo alienato di guerra che ha smarrito il suo nome, in cui Rubè vede rispecchiata la sua perdita di identità, e il Viaggiatore sconosciuto, che simboleggia il Destino e la Morte.

Notazioni stilistico-linguistiche

La "scrittura" di Rubè è assai composita. Perdura nel romanzo (soprattutto in associazione al tema-paesaggio) l'uso di un lessico letterario, di un'aggettivazione sovrabbondante e ricercata, la tendenza a un'espressione immaginosa ed enfatica di marca dannunziana. Ma questa scrittura "fascinosa" si trova a coesistere con una prosa lucidamente analitica e raziocinante e, in alcuni casi, persino con un registro espressivo colloquiale-popolare (significativamente impiegato per personaggi e situazioni del mondo siciliano). In relazione poi alla costante autoanalisi del protagonista (e alla focalizzazione interna della narrazione), è presente in Rubè l'uso del discorso indiretto libero e addirittura del monologo interiore. Particolarmente interessante è la presenza di squarci grottesco-espressionistici, che corrispondono a un'ottica straniata, a una visione profondamente alterata della realtà. Si consideri ad esempio un passo come questo: «... vide, con gli occhi sbarrati nel vuoto, cose orrende: il terremoto, i carri funebri della peste con sopra i monatti, dentiere splendide ridenti un gran riso da facce di morti...».

MASSIMO BONTEMPELLI

Massimo Bontempelli, nato a Como nel 1878, per molti anni docente di italiano, esercitò una notevole influenza sul dibattito letterario degli anni Venti e Trenta. Nella sua vicenda umana e nella sua attività ci sono parecchi aspetti "esemplari", tali cioè da far capire le difficoltà dell'intellettuale alle prese col regime e le ambiguità di un rapporto tutt'altro che semplice. Aderì al fascismo, ebbe cariche di regime, nel 1930 fu nominato accademico d'Italia, ma nel 1938 rifiutò la nomina a professore universitario per succedere ad Attilio Momigliano radiato per le leggi razziali; esaltò la "missione di Roma" - un luogo comune della cultura fascista - ma nel dibattito politico-culturale si oppose all'oltranzismo strapaesano di Maccari e compagni e si batté per una sprovincializzazione della cultura e della letteratura italiana e per una maggiore conoscenza delle esperienze straniere. Strumento di questo suo programma fu la rivista «900» (1926-29), redatta per i primi due anni in francese (vi collaborarono Virginia Woolf, David M. Lawrence e altri scrittori stranieri). Nelle sue opere narrative (La scacchiera di fronte allo specchio, 1922; Vita e morte di Adria e dei suoi figli, 1930; Gente nel tempo, 1937) egli realizza quelle modalità che aveva definito "realismo magico" e che sono in vario modo presentì anche nei lavori teatrali Nostra Dea (1925) e Minnie la candida (1927). I suoi saggi critici - discorsi pronunziati all'Accademia d'Italia, di cui era membro - su Leopardi, Verga, D'Annunzio, Pirandello (raccolti nel volume Introduzioni e discorsi, 1944) si segnalano per il notevole estro interpretativo. Nel 1939 fu espulso dal Partito e inviato al confine (a Venezia però, su sua designazione...); negli anni di guerra maturò una revisione delle sue ideologie, e alle elezioni del 1948 fu eletto senatore nelle liste del Fronte popolare: la nomina fu però invalidata per i suoi trascorsi fascisti. Morì a Roma nel 1960.

Ne La scacchiera di fronte allo specchio il protagonista narratore racconta in 24 brevissimi capitoli di essere stato una volta rinchiuso, da bambino, in una stanza dove c'erano soltanto un tavolo con sopra una scacchiera e, di fronte, uno specchio che la rifletteva. Ad un tratto il Re Bianco, non quello vero della scacchiera, ma quello riflesso sullo specchio, gli rivolge la parola, lo invita a chiudere gli occhi per passare così al «mondo di là». II bambino obbedisce e inizia così questa esplorazione di un mondo fantastico popolato da tutto ciò che negli anni si è riflesso in quello specchio e regolato da leggi sue particolari. La vicenda diventa gioco della fantasia volto a immergere personaggi e cose in un alone tutto particolare che li scorpora quasi della loro materialità e permette uno svolgimento quanto mai lontano da ogni legge di logica o di verosimiglianza: tutto si svolge in un'aura rarefatta e assorta, che rende tutto credibile e possibile (il dialogo coi vari pezzi degli scacchi, le riflessioni del manichino ecc.).

ANTONIO FOGAZZARO

Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza nel 1842, dopo la laurea in legge conseguita all'Università di Torino e dopo il matrimonio, si stabili nel 1869 nella sua città natale, dove visse dedicandosi all'attività letteraria. Dopo raccolte di versi (il poemetto Miranda del 1874 e le liriche di Valsolda, 1876) pubblicò nel 1881 il suo primo romanzo, Malombra, cui seguirono fra l'altro Daniele Cortis (1885), II mistero del poeta (1888), Piccolo mondo antico (1895). Attento al dibattito ideologico contemporaneo, Fogazzaro cercò di conciliare le acquisizioni scientifiche (positivismo, darwinismo) con le istanze religiose da lui seriamente sentite. Da ciò le sue simpatie per i fermenti di rinnovamento volti a ripensare le posizioni religiose ufficiali, che all'inizio dei Novecento furono espressi nel cosiddetto Modernismo. Ma il suo romanzo II Santo (1905) centrato su questa problematica, suscitò la scomunica dell'autorità religiosa, che l'autore silenziosamente accettò.
Morì a Vicenza nel 1911.

I conflitti di Corrado Silla (Malombra)

Il testo mette in luce un aspetto della produzione romanzesca di Fogazzaro che ci sembra particolarmente significativo: la presenza, cioè, di un tipo umano conflittuale, sostanzialmente malato nella volontà, cosciente della propria "alterità" rispetto al mondo a lui contemporaneo. Si tratta di una tipologia che avrà ampia e variegata presenza nella letteratura del decadentismo.
Per riuscire a seguire il testo basta ricordare che Corrado Silla, giovane scrittore, è combattuto fra un'intensa passione sensuale per Marina e una pura, spirituale attrazione per un'altra donna, Edith.
L'inquieta Marina di Malombra, la protagonista del romanzo che a lei si intitola, è ossessionata dalla convinzione di reincarnare l'anima di una sua antenata, Cecilia (di cui ha trovato nel cassetto di un secrétaire una ciocca di capelli, un guanto, uno specchio e un breve manoscritto), che per espiare un tradimento era stata segregata dal marito. Marina crede di riconoscere nello zio la reincarnazione del marito di Cecilia e in un giovane scrittore, Corrado Silla, quella dell'antico amante. Corrado è intanto combattuto tra una passione sensuale per Marina, e una pura e spirituale attrazione per un'altra donna, Edith. Dopo una serie di vicende l'ossessione di Marina giungerà al parossismo, al punto che la donna ucciderà Corrado.


PIETRO JAHIER

Piero Jahier, nato a Genova nel 1884 e morto a Firenze nel 1966, aveva in un primo tempo intrapreso gli studi teologici, che interruppe perché costretto a trovar lavoro (si impiegò nelle ferrovie) dopo la morte del padre, pastore evangelico valdese. Si laureò in seguito in giurisprudenza e in lettere francesi. Collaborò alle riviste del primo Novecento, soprattutto a «La Voce», e partecipò poi come ufficiale degli alpini alla prima guerra mondiale. La personalità di Jahier, dominata da una forte tensione morale da collegare al clima culturale familiare, oltre che sul piano pratico (la non accettazione del fascismo) si espresse nella ricerca di una scrittura intensa, "espressionistica", varia nei toni - dall'utilizzazione del parlato al lirismo al sarcasmo - e volta a mettere in evidenza i complessi aspetti della realtà (Resultanze in merito alla vita di Gino Bianchi, 1915, una amara "radiografia" dei meccanismi alienanti del sistema burocratico; Ragazzo, 1919, con forti componenti autobiografiche; Con me e con gli alpini, 1919).

Con gli alpini

Con me e con gli alpini (1919) non è soltanto il libro più bello della memoralistica della prima guerra mondiale, è anche un'opera nella quale la risentita tensione etico-civile dell'autore (già manifestata nei suoi scritti su «La Voce»), la sua quasi religiosa solidarietà col soldato che soffre e muore si estrinsecano in uno stile che è una delle prove più riuscite e più durature - nell'ambito della prosa - di quello che viene definì "espressionismo vociano"
Con me e con gli alpini è costituito da versi e da prose ed è centrato sull'esperienza dell'autore come comandante di un reparto di alpini durante la prima guerra mondiale: un'esperienza che gli permette di scoprire I"'Italia dei poveri" (di cui il soldato Somacal Luigi, descritto in un famoso capitolo, è un esemplare rappresentante), di fronte alla quale il rigorismo morale di Jahier diventa commozione, pietà, rancore per l'altra Italia, quella che ha trasformato queste plebi in soldati senza aver mai pensato, prima, a farne dei cittadini. Vanno sottolineate le caratteristiche della scrittura di Jahier (accentuata scansione melodica, ricerca di effetti anche attraverso gli artifici grafici), testimonianza di quella oscillazione tra prosa e poesia che già nell'Ottocento ha significative realizzazioni col poème en prose.

FILIPPO TOMMASO MARINETTI

Filippo Tommaso Marinetti nacque nel 1876 ad Alessandria d'Egitto, dove studiò presso scuole francesi; più tardi seguì corsi universitari in Italia, laureandosi in giurisprudenza a Genova. Già dal 1893 stabilisce la sua residenza a Parigi, dove ha la vera e propria formazione letteraria. Alla letteratura si dedica interamente a partire dai primi anni dei Novecento. Pubblica varie opere in francese, prima di pubblicare il suo primo Manifesto del futurismo sulle pagine del «Figaro, il 10 febbraio 1909. Seguono altri manifesti e opere ispirate alla nuova poetica, tra cui il romanzo Mafarka il futurista (1910), le raccolte poetiche Zang Tumb Tuuum, Adrianopoli ottobre 1392 (1914), Dune (1914), 8 anime in una bomba (1919), ecc. Vari gli scritti politici in cui espose la sua concezione nazionalistica e interventistica prima e l'adesione al fascismo poi: ad esempio Guerra sola igiene del mondo (1915), Democrazia futurista (1919) e Futurismo e Fascismo (1924). Nel 1929 venne nominato Accademico d'Italia. Mori a Bellagio (Como) nel 1944.

Sulla poetica del futurismo e su alcune sue implicazioni politico-culturali proponiamo una nota di Luisa Bonesio:

L'antipassatismo, e il suo correlato, la modernolatria, sono i tratti ideologici salienti dei manifesti marinettiani. «Uccidere il chiaro di luna», combattere contro Venezia passatista, sono gli emblemi di una volontà di recuperare l'unità di arte e vita, eliminando tutti i ciarpami e gli ingombri di una cultura ritenuta irrimediabilmente arretrata. I futuristi volevano «cambiare la vita», passare a un ordine sociale diverso, a un'esistenza più frenetica e disinibita, e ritenevano mezzi idonei a conseguire queste mete l'attivismo sfrenato e la guerra. In questo senso, l'efficacia presso il pubblico più vasto, fu quella di una retorica di fatto prefascista, anche se le velleità di trasformazione politica furono assorbite dal fascismo e il futurismo si ridusse a una scuola letteraria di epigoni. Marinetti seppe confezionare con grande abilità una merce culturale in cui le innovazioni sul piano della letterarietà si accompagnavano a posizioni ideologiche reazionarie, come l'esaltazione della violenza, una feroce misoginia, un accentuato nazionalismo. «(Marinetti) proprio perché organicamente legato alla borghesia, è il primo a rendersi conto che l'arte è produzione subordinata alle leggi del mercato capitalistico, e soggetta quindi a un consumo che rende indispensabili una sempre nuova progettazione di modelli formali e un loro continuo aggiornamento, un diverso tipo di contatto, diretto e pressante, con la massa degli acquirenti e un'incessante pubblicità della novità insuperabile e della perfetta efficienza dei prodotti». La risonanza che Marinetti riuscì a creare intorno al fenomeno futurista, a livello di pubblico, è legata anche alla messinscena parodistica della letteratura, che esce dai confini dei luoghi deputati - libri, musei, biblioteche - per trasformarsi in spettacolo, cioè un accadimento da vivere collettivamente. Sotto questo profilo, è rilevabile qualche analogia fra gli spettacoli futuristi e le teatralizzazioni di massa della retorica fascista.

Tuttavia il futurismo ebbe nei confronti della cultura borghese italiana chiusa e arretrata, una funzione dirompente. Gramsci stesso seppe vedere la positività del movimento futurista, quando nell'«Ordine nuovo» del 5 gennaio 1921, scrisse: «I futuristi (...) hanno avuto la concezione netta e chiara che l'epoca nostra, l'epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita densa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio (...). I futuristi, nel loro campo, il campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare più di quanto hanno fatto i futuristi».

Tutto, nel futurismo, a cominciare dalle innovazioni tecniche, è uno sforzo per liberare lo spazio dall'assoggettamento allo spirito. Lo spazio fisico, ritrovato, restituito a se stesso, percepito come altro, esterno all'uomo, è avvertito nella sua avvolgente drammaticità. Così si pone il problema della «ricostruzione futurista dell'universo», anch'essa concepita in modo polemologico: «Col futurismo l'arte diventa arte-azione, cioè volontà, aggressione, possesso, penetrazione (...), proiezione in avanti. Dunque l'arte diventa Presenza, nuovo oggetto, nuova realtà creata con gli elementi astratti dell'universo. Le mani dell'artista passatista soffrivano per l'Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare».

ALDO PALAZZESCHI

Nato a Firenze nel 1885, Palazzeschi (anagraficamente Aldo Gìurlani) compì studi di ragioneria, frequentò una scuola dì recitazione e fece per qualche tempo l'attore nella compagnia di Lida Borelli, Fu compagno di strada dei futuristi (scrisse anche su «Lacerba» ), ma se ne staccò presto per il loro interventismo e nazionalismo. Visse gran parte della sua vita a Firenze - con brevi soggiorni a Venezia e a Parigi - e a Roma, dove morì nel 1974.

Nel panorama del Novecento italiano la sua produzione, che occupa più di un cinquantennio, è di notevole importanza sia nell'ambito della poesia (L'incendiario, 1910; Cuor mio, 1968; Via delle cento stelle, 1972) che in quello della narrativa (oltre II codice di Perelà, i racconti di Stampe dell'Ottocento, 1932; II palio dei buffi, 1937; II buffo integrale, 1966; i romanzi Le sorelle Materassi, 1934, Roma, 1953, e II doge, 1967).

Il codice di Perelà, che più che romanzo si potrebbe definire una sorta di "favola allegorica" o "favola surreale", fu pubblicato nelle edizioni futuriste di «Poesia» nel 1911, col sottotitolo di «romanzo futurista». Fu ripubblicato con qualche variante e come Perelà uomo di fumo nel 1954 da Vallecchi. «La vicenda è estremamente lineare: il protagonista giunge in un'anonima città dove, come più tardi nel Doge, l'ambientazione mischia gli elementi realistici della cronaca agli elementi eterni delle favole. Per le sue inconsuete caratteristiche psicofisiche, Perelà viene accolto nella reggia, nella quale gli sono subito presentati i notabili del paese e le dame di corte. Gli viene affidata, compito supremo, la stesura del Codice. Ma la morte di un servitore, Alloro, lo perde: l'uomo di fumo viene condannato alla reclusione a vita. Ma come il Cristo, Perelà fugge dal suo sepolcro (il carcere) e s'invola nel cielo».

GIOVANNI PAPINI

Nato a Firenze nel 1881 da un'umile famiglia, Giovanni Papini fu sostanzialmente un autodidatta che sin dalla prima giovinezza si immerse nella lettura, spaziando nei più disparati campi del sapere. Conseguito il diploma magistrale, insegnò per alcuni anni e fece il bibliotecario, Attivissimo nel dibattito politico culturale fondò con Prezzolini il «Leonardo» (1903-07), fu nel 1903 redattore capo del quotidiano nazionalista «II Regno», diresse nel 1912 «La Voce», fondò la rivista futurista «Lacerba» (1913-15), si batté per l'interventismo. Pubblicava intanto, fra l'altro: Il crepuscolo dei filosofi, 1906; i racconti fantastici de II tragico quotidiano, 1903, e II pilota cieco, 1907; l'autobiografia Un uomo finito, 1913; le raccolte di versi Cento pagine di poesia, 1915 e Opera prima, 1917; i saggi letterari e filosofici di Stroncature, 1916. Frutto letterario della sua conversione al cattolicesimo fu nel 1921 la Storia di Cristo che ebbe larga notorietà. Della sua posteriore attività di scrittore prolifico (forse un po' troppo) e polemico (quasi deliberatamente) ricordiamo: l'incompiuta Storia della letteratura italiana, 1937; Dante vivo, 1933, e Vita di Michelangelo, 1949; Lettere agli uomini di papa Celestino VI, 1946. Fu nominato Accademico d'Italia nel 1937; morì a Firenze nel 1956.

Su «Lacerba» trovò collocazione e sfogo, esasperandosi fino alle sue estreme conseguenze, quella componente di rivoluzionarismo anarchico e gratuito, quell'atteggiamento fatto più di boutades letterarie che di maturate convinzioni che era già visibile nel «Leonardo» e si era poi rivelato in pieno, irrobustito, col futurismo.

A proposito del «caldo bagno di sangue nero» va precisato che, «la barocca immagine si riallacciava (nonostante l'apparenza di sconvolgente novità) a un vecchio motivo retorico della nostra tradizione post-risorgimentale», come nota lo storico Nino Valeri, il quale poi cita Rocco de Zerbi, che nel 1882 auspicava un «tiepido fumante bagno di sangue» come mezzo per far grande I'Italia avvilita, Felice Cavallotti che sognava «qualche battesimo cruento», e poi Oriani e Carducci. Nel Novecento, con D'Annunzio, Marinetti (la guerra «igiene del mondo»), Corradini e i nazionalisti questa esaltazione dello scontro cruento e della guerra trova largo spazio.

Chiarita questa filiazione o questa persistenza di un motivo retorico, va però precisata la fisionomia, la specificità di questo testo, nel quale c'è anzitutto una forte dose di letteratura, cioè di vistoso compiacimento di toni satanici, di gratuito gusto della provocazione, di ostentato cinismo, di calcolata irrisione dei «buoni sentimenti». Fino ad arrivare ad atteggiamenti volgari, beceri («E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere»; «Che bei cavoli... che grosse patate... quest'altro anno!»).

Inoltre, mentre nella tradizione citata dal Valeri il "bagno di sangue" è motivato (se non giustificato) da finalità nazionalistiche (far grande l'Italia, "lavare" le sconfitte, ecc.), qui tale motivo è assente e quello dominante è il superomistico disprezzo per gli altri (classificati vigliacchi, ipocriti, paciosi) e addirittura per l'umanità.

Certo, ci sono molti modi di concepire la letteratura e di praticarla; Piero Gobetti a proposito di pagine come questa parlava di «letteratura canagliesca».

UN UOMO FINITO

Un uomo finito, pubblicato prima come quaderno doppio della «Voce» nel gennaio 1913 e l'anno dopo in volume, è centrato sulla vicenda umana e intellettuale dell'autore. Ne vengono descritte prima la fanciullezza solitaria e pensosa, poi l'adolescenza tormentata da sogni e trascorsa sui libri in biblioteca, infine la giovinezza animata da furori rivoluzionari e iconoclastici. Ma il protagonista-autore non trova appagamento nella fama intanto raggiunta con gli scritti polemici; egli aspira a essere l'iniziatore, il profeta e la guida di una nuova era dell'umanità, a trasformare l'uomo, a farne un uomo-Dio svincolandolo dalle sue pastoie materiali e terrene. Per questo ambizioso disegno non può bastare a Papini I'«enciclopedismo ingordo» (è una sua definizione), ed egli si volge così alla magia e alla taumaturgia indiana. Ma in un complesso itinerario, fra esaltazioni e cadute, è costretto a prendere atto del suo fallimento: è costretto a ritornare sulla terra, rassegnandosi a diventare «una specie di Gorgia da caffè che per vendicarsi della certezza perduta e della superbia fiaccata si diverte a dissolvere e fiaccare le fedi degli altri». La registrazione della sconfitta però non cancella l'iniziale titanismo: «lo mi presento ai vostri freddi occhi - dichiara nelle ultime righe dell'opera - con tutti i miei dolori, le mie esperienze e le mie fiacchezze. Non chiedo pietà né indulgenza, né lodi né consolazioni [...]. E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch'io sia davvero un uomo finito dovrete almeno confessare ch'io son finito perché volli incominciare troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto».

PASCOLI

Nel complesso rapporto di vecchio e di nuovo che caratterizza gli ultimi decenni dell'Ottocento (non solo italiano), la funzione di Pascoli nell'ambito della produzione poetica è di un'importanza fondamentale: Pascoli è da considerare per così dire uno spartiacque che segna l'inizio del Novecento. I suoi rapporti col decadentismo, meno vistosi di quelli di D'Annunzio, sono in compenso più profondi e la sua influenza sulla posteriore poesia italiana - sul piano del linguaggio e dei moduli espressivi - sarà determinante.

È essenziale distinguere in Pascoli la novità che - specie nella prima produzione - si cela e si confonde, apparentemente, con il rispetto o la prosecuzione di temi e di forme di quella produzione veristica ché per i primi due-tre decenni del secondo Ottocento era stata egemone: i "quadretti di genere", le rappresentazioni di scene della vita dei campi che troviamo in Myricae é che paiono rimandare a tanta produzione letteraria e figurativa di quei decenni in realtà sono per Pascoli lo scenario sul quale proiettare inquietudini, smarrimenti, un senso del vivere fatto di ansiose perplessità. E di conseguenza i dati "realistici" presenti nelle sue liriche si caricano, di significati e di simboli, diventano quasi dei "correlativi oggettivi', per significare altro che ne trascende l'apparenza. Con questa prima fondamentale novità Pascoli per un verso si inseriva in un orientamento presente a livello europeo in quegli anni (il simbolismo) per un altro trovava le modalità più adatte e suggestive per esprimere un senso della vita sotteso da turbamenti adolescenziali, da incertezze e da paure di fronte alla realtà storica contemporanea, e, di conseguenza, tutto proiettato verso il vagheggiamento del proprio nido familiare, verso la contemplazione della campagna come idilliaco "rifugio", verso l'ossessivo ricordo dei morti. Una tematica, questa, che è collegata alla dolorosa esperienza biografica del poeta, e che di
frequente dà luogo a sbavature sentimentalistiche e a querule insistenze.

Ma a parte ciò, il processo di rinnovamento realizzato da Pascoli si manifesta, oltre che nella dimensione simbolica della sua poesia, in parecchi altri modi. Anzitutto, sul piano linguistico egli adotta frequentemente un lessico nel quale o entrano termini tecnici, gergali, relativi al mondo della campagna, o c'è posto per termini che sono al di qua della comunicazione, privi di senso, "pregrammaticali" ma carichi di valenze fonosimboliche, di suggestioni evocative (le onomatopee ad esempio). Inoltre, Pascoli apparentemente rispetta la prosodia e le forme metriche tradizionali, ma in realtà il singoio verso o la struttura strofica sono dissolti e disarticolati: al posto della loro compattezza armonica tradizionale, subentrano e si insinuano una versificazione e una musicalità frantumate dalle cesure, dilatate dagli enjambements, o rotte da pause, da attoniti spazi di silenzio.

Se è indiscutibile che queste sono le novità di fondo del Pascoli migliore, è altrettanto vero che la sua produzione è assai ampia e presenta altri aspetti che non sono stati - come invece quelli che abbiamo elencato - fertili di sviluppi. Nei Poemi conviviali ad esempio Pascoli realizza componimenti raffinatamente letterari che traggono spunto e suggestioni da capolavori del mondo fisico (l'Odissea, soprattutto) e quindi si distinguono per la parnassiana ricercatezza di un «linguaggio antiquario» (Contini), sono cioè un'opera di letteratura che nasce da una preesistente letteratura. Nei componimenti di Odi ed inni (le sue ultime cose) quel Pascoli che in Myricae e nei Poemetti era stato il cantore delle "umili cose" affronta la celebrazione delle idealità civili e patriottiche e si trasforma - con risultati discutibili - in un poeta vate, sull'esempio di Carducci e di un certo D'Annunzio: una metamorfosi, questa, collegata ad un confuso itinerario ideologico che fa sì che questo poeta inizi la sua carriera come cantore del chiuso nido familiare e la concluda come celebratore, della conquista della Libia.

LUIGI PIRANDELLO

Luigi Pirandello non fu soltanto quel narratore e quel drammaturgo che sappiamo, ma fu anche dotato di una scaltrita coscienza critica ed autocritica, come dimostrano i suoi numerosi interventi sulla letteratura contemporanea e vari saggi critici, il più importante dei quali è certamente quello dedicato a L'Umorismo (1908). Proprio in questo saggio, scritto quando egli aveva già dato parecchie prove della sua qualità di narratore, Pirandello ci dà una chiave di lettura della sua opera allorché dichiara che essa nasce in lui dal «sentimento del contrario» e chiarisce che con questa definizione si deve intendere la capacità o meglio la vocazione a cogliere i molteplici e contrastanti aspetti della realtà, a scinderne e isolarne le varie e contraddittorie componenti, a percepire quale vita palpita e soffre dentro le strettoie delle forme, ad andare al di là di ciò che in prima istanza cade sotto i nostri sensi. Ora è chiaro che questa disposizione, questa prospettiva da cui nasce quella forma d'arte che egli definisce «umoristica» - non può dare una visione univoca del reale, anzi dissolve la stessa concezione di una realtà oggettiva e autonoma: la realtà è tante cose, tante - e contraddittorie - realtà nel contempo.

Le conseguenze di queste dichiarazioni pirandelliane possono essere così elencate:
1) superamento di un canone fondamentale del verismo-naturalismo, come quello dell'esistenza di un realtà da descrivere con puntigliosa precisione;
2) relativismo gnoseologico, cioè affermazione della relatività del processo della conoscenza e dei giudizi ai quali esso porta; la realtà è una e tante insieme, proprio come ognuno di noi è per l'altro Uno nessuno e centomila (come suona il titolo di un romanzo pirandelliano): ogni individuo quindi può avere, della realtà, un'idea che non coincide con quella degli altri.

Un narratore che muova da queste premesse non può accettare i canoni cari al verismo, ma deve trovare modalità narrative nuove che mettano in evidenza questa indefinibilità o precarietà del reale, che dissolvano le certezze di estrazione positivistica. E Pirandello infatti avvia questa novità nel suo primo romanzo (L'esclusa) e poi la realizza con risultati particolarmente felici ne Il fu Mattia Pascal (1904), e con esiti diversi negli altri romanzi e nella produzione novellistica (che inizia nei primi anni del secolo e continuerà pressoché sino ai suoi ultimi giorni). L'adozione del protagonista-narratore (cioè l'uso della prima anziché della terza persona), il frequente ricorso al discorso indiretto libero, lo scompaginamento dell'ordine cronologico-casuale nella narrazione, sono alcuni dati di questa destrutturazione delle forme narrative tradizionali che Pirandello attua.

Il relativismo gnoseologico fra le altre conseguenze comporta anche quella di mettere a nudo la convenzionalità dei valori accettati, dei ruoli imposti dalla vita associata; da questo punto di vista l'opera di Pirandello è una continua e inesorabile demistificazione. Ma l'animus, la disposizione con la quale egli procede a questa inclemente demistificazione è complesso, coerentemente col «sentimento del contrario» da cui è sotteso, è fatto di grottesco e di pietà. Ora infatti Pirandello si accanisce a mettere a nudo beffardamente, grottescamente le incongruenze delle meccaniche convenzioni imposte dalla vita associata, ora invece ci sono, nella sua pagina, toni di dolente comprensione per le grige e dolenti esistenze stritolate da quei meccanismi, per la «pena di vivere così».

Quanto abbiamo detto vale anche per la produzione teatrale, si potrebbe anzi asserire che il teatro era il genere letterario specifico, ottimale al quale doveva approdare il suo relativismo gnoseologico che, come si è detto, comportava disparità di giudizi sulla realtà, quindi scontro e opposizione tra contrastanti tesi. Proprio per questo i personaggi del teatro pirandelliano talvolta discutono troppo, sono dei "loici" agguerriti.

Come per la narrativa, così nel teatro Pirandello disarticola le strutture tradizionali: nei drammi in cui egli attua l'avanguardistica soluzione del "teatro nel teatro" (eccezionali, tra questi, i Sei personaggi in cerca d'autore) crolla una convenzione (quella della "quarta parete") sulla quale da sempre il teatro si era retto.

GIUSEPPE PREZZOLINI

Nato nel 1882 a Perugia, Giuseppe Prezzolini svolse nei primi due decenni del Novecento una straordinaria opera di suscitatore di energie intellettuali e di organizzatore culturale, passando attraverso una varietà di atteggiamenti con una disinvoltura che può risultare discutibile. Come Papinì, d'altra parte, cui per tutta la vita fu legato da profonda amicizia. Fondò nel 1903 il «Leonardo» e nei 1908 «La Voce», che ispirata all'inizio a concretezza pragmatistica diventò poi «rivista dell'idealismo militante»} e non disdegnò gli entusiasmi nazionalistici. Partecipò alla prima guerra mondiale; ammirò Mussolini e nel contempo approvò l'azione culturale di Pìero Gobettì. Geloso dell'indipendenza e della "superiorità" dell'intellettuale, non si compromise col regime fascista e dal 1925 lavorò per alcuni anni presso un istituto culturale della Società delle Nazioni. Dal 1929 al 1950 visse in America e insegnò letteratura italiana presso la Columbia University. Pubblicò tra il '37 e il '39 i primi due volumi dì un Repertorio bibliografico della storia e della critica della letteratura italiana dal 1933 al 1942. Ritornato in Italia, con frequenti interventi giornalistici ha continuato a svolgere il suo ruolo di intellettuale "non integrato" e imprevedibile, con un orientamento politico decisamente di destra. E' morto, centenario, a Lugano nel 1982. Fra le molte opere, oltre a quelle giovanili (La coltura italiana, in collaborazione con Papini, 1906; Benedetto Croce, 1909), ricordiamo le interessanti memorie (L'italiano inutile, 1953; Diario, 1978-80), un'antologia della «Voce» (1974), e un testo di riflessioni filosofico-religiose, Dio è un rischio (1969).

Parecchi degli obiettivi proposti anche nell'articolo La nostra promessa (sempre dì Prezzolìnì), pubblicato come edìtoriale de «La Voce» (n. 2, 1908): «Di lavorare abbiamo voglia. Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di informare, senza troppa smania di novità, di quel che di meglio si fa all'estero; di proporre riforme e miglioramenti alle università italiane; di segnalare le opere di letteratura e di commentare la viltà della vita contemporanea». A parte, comunque, ci sembra più proficuo sottolineare che, pur indicando concreti settori di intervento, Prezzolini manifesta - in modo ora più ora meno evidente - un atteggiamento di discutibile moralismo, sembra quasi costantemente guardare dall'alto la situazione italiana e pensa di operarne demiurgicamente un radicale mutamento. II tutto sa più di critica di costume che di politica culturale. L'illusione che una rivista potesse bastare per trasformare la vita politica italiana, senza chiedersi a quali forze concrete legarsi, quali alleanze realizzare, è la spia della fiducia tutta illuministica che Prezzolini aveva nell'azione culturale. È un problema, d'altra parte, che si porrà altre volte nella storia italiana.

Fornisce spunti di approfondimento questo giudizio critico di A. Asor Rosa.

Nella prospettiva della «Voce» [...) la deprecazione politica si trasfondeva in intransigentismo morale e in puro rafforzamento della corporazione intellettuale. È quindi giusto ed intelligente osservare che « La Voce» rappresenta un esempio unico e irripetibile di «cultura nazionale» (Mangoni). Ma bisognerà precisare che si tratta di un'esperienza di «cultura nazionale» inconfondibilmente segnata dai tratti della tradizione liberale più autentica. Cioè: la diagnosi della degenerazione italiana e la tensione di rinnovamento spingono indubbiamente ad uscire dall'ambito del sistema liberale classico. L'antigiolittismo e l'antidemocratismo lo provano con abbondanza. Ma l'idea che la rinascita potesse essere affidata ad un fascio di forze intellettuali poteva scaturire soltanto da quella società, che per tanti altri versi si voleva condannare. Essa insisteva, infatti, sul carattere altamente individualizzato (fino ad apparire titanico ed eroico) del contributo di ciascuno; metteva fra parentesi l'esistenza delle grandi masse sociali (proletarie e piccolo-borghesi), autonome e con le loro organizzazioni; risolveva il problema della politica in quello della educazione delle ristrette élites. In questo, ridimensionandola, riusciva in pratica a svolgere la sua funzione: ma senza possibilità alcuna di controllare (anche solo intellettualmente) gli esiti finali (politici ideologici) della sua campagna di rinnovamento.

L'interpretazione più autentica della «Voce» è dunque oggi quella di considerarla l'espressione di una frazione consistente del ceto intellettuale liberale in crisi, che ivi realizza il suo ultimo, anzi supremo tentativo di contare socialmente qualcosa, senza pensare decisamente alla necessità di cambiare il sistema: e, più che come organo di direzione e di orientamento di quella crisi, come sua più eloquente e veritiera manifestazione: per i propositi ambiziosi che mise in campo, per la tensione profonda che l'animò, per l'assenza di sbocco verso la quale camminava. Perciò si può anche concedere che sia giusta quell'affermazione, cui Prezzolini è tanto affezionato e di cui attribuisce la paternità a Malaparte, che dalla «Voce» esca un filone di cultura fascista e, accanto a questo, un filone di cultura antifascista: ma solo nel senso che essa segna il confine dell'esperienza di produzione e di organizzazione culturale di un sistema, quello liberale, appunto - mostra cioè che cosa questo sistema poteva fare e non fare in campo culturale, questo e non più; dopo di che le strade, a partire da lì, si biforcano e si volgono verso ipotesi di sistemi diversi, nessuno dei quali potrà più coincidere, nè in termini politici, nè in termini culturali, con quello liberale.