La lanterna di Diogene
“La lanterna di Diogene” è del 1907. In questa opera, scrive
Giorgio Bárberi Squarotti nel “Grande Dizionario
Enciclopedico” della UTET, Panzini “raggiunge uno dei risultati
più caratteristici nella rievocazione di un viaggio minore,
paesano, tutto descrizioni abilissime e arguzie, moralità e
sottile polemica conservatrice.”
È “un ardente pomeriggio” dell’11 luglio, allorché
l’autore varca la Porta Romana di Milano (“dove è necessario
possedere un sistema nervoso fabbricato appositamente.) su una
vecchia bicicletta per raggiungere un paesucolo sull’Adriatico, in
Romagna, Bellaria: “ornate le gambe di un paio di novissime calze,
montai in sella.”
Ci delizia subito una scrittura frizzante, briosamente arguta e
civettuola, di quelle che una volta nate continuano a crescere con
il tempo senza mai annoiare, fresche sempre, deliziose e gradite
alla mente e al sentimento: “Con prepotenti squilli mi diedi ad
avvertire la gente del mio passaggio, e la gente mi guardava”.
Lasciare Milano è mettersi dietro le spalle la pesantezza
della civiltà, il suo buio colore, il suo olezzo quasi di
morte. Bellaria si configura già come una meta liberatoria,
un ritorno alla purezza originaria: “una freschezza forte e giovane
mi alitò nel cuore.”
L’autore è sulla soglia dei quarant’anni quando inizia questo
viaggio. Attraverserà paesi e città: Lodi, Piacenza,
Parma, Reggio, Rubiera, Modena, Pavullo, Lama Mocogno, Abetone, San
Marcello Pistoiese, La Porretta, Savignano, San Mauro, il paese in
cui nacque Giovanni Pascoli, Ravenna, Mandriole, dove in una
fattoria morì Anita Garibaldi, Comacchio, e taluni luoghi gli
ispireranno quadretti di vita rustica e riflessioni e considerazioni
quando ironiche, quando pensose, quando ariose e sorridenti. Valga
per tutti l’esempio di Comacchio. C’è tanta luce, infatti, e
tanta letizia in buona parte di questo viaggio, che procurano al
lettore continue sensazioni di giovinezza e di libertà:
“l’umile duro pane, spezzato presso qualche osteria di campagna, mi
parve saporito più di ogni ricercata vivanda. Perché
io evitai le città, né mi fermai in esse: le grigie
mura mi avrebbero ricordato le morte età, le vane opere delle
generazioni umane. Oh più sapiente tu, o Terra! Tu riassorbi
ciò che, da te prodotto, si muore, e ne ricomponi le giovani
primavere.”
Si può notare, disseminata qua e là, qualche sbavatura
retorica o professorale, ma l’insieme resta compatto e assai
piacevole ancora oggi. Ove si pensi che l’opera nacque in mezzo ai
frastuoni dei molti movimenti letterari dell’inizio del Novecento,
la sua sobrietà fa pensare ad un vero e proprio miracolo. Un
esempio della gradevolezza in cui l’autore sa mantenere i confini
della sua retorica può essere dato da questo brano, scelto
tra i tanti: “Nel breve tragitto dalle Stiviere a Modena quante
deliziose ville occultate nel verde dell’ubertosa campagna, come
ninfe entro i boschi! Che lieto mattinare degli uccelli per i
giardini silenziosi!”
L’amor di Patria è uno dei segni distintivi di questo
viaggio. Una testimonianza evidente la si coglie allorché
ammira la bella Modena: “Questa piccola Italia, se ci mettiamo a
studiarla secondo geografia, diventa grande come un continente; e se
ci mettiamo a studiarla secondo storia, quest’umile Italia diventa
superba come un impero.”
Ma subito dopo ecco la sua stoccata, una delle tante: “La materia
è vasta; ed è forse per questo che gli studi della
storia e della geografia nazionale sono accuratamente evitati.”
Il suo non è mai uno sguardo disincantato. Vi è
felicità per le occasioni e le sensazioni che il viaggio
offre, ma non al punto di non accorgersi delle brutture che invadono
il Paese, tanto materiali quanto intellettuali: “l’onesta bicicletta
passa oramai inavvertita fra le genti. Gli occhi dei contadini non
si fanno più tondi se non al passaggio di un automobile.” Si
noti che Panzini, non solo qui, ma per tutto il libro, considera
maschile il vocabolo automobile, in quegli anni alle sue prime
apparizioni. Qualche volta anche estate è maschile
(“grandissimi pomeriggi del caro estate”).
Si incontrano, inoltre, qua e là alcuni vocaboli in disuso
(si rammenti che Panzini fu autore di un dizionario e di una
grammatica che furono famosi): sporchizie, rugghi, giovanezza,
sonettesse, suggesto, rancura, cria, butirro, spaldo, petaso,
balusche, viatore, rubeste, abbadia, nebule, discaro, scrignuta, e
altri ancora.
A proposito dell’automobile, ecco un’altra stoccata, che non ha
perso nulla della sua attualità: “Cesare è disceso
dalla quadriga: ma il capitalista anonimo è salito
sull’automobile e percorre da trionfatore la strada della
democrazia, con la visiera della maschera calata.”
Ci accorgiamo così che il viaggio di Panzini vorremmo farlo
anche noi per constatare quante vezzosità e armonie da lui
incontrate (“magnificenza delle cose presenti e viventi”) in quei
lontani anni abbiano resistito nel tempo oppure siano scomparse
lasciando il posto ad una modernità oscena, senza pudore e
senza misura. Amara, tuttavia, sarebbe la inevitabile constatazione
che è stato il peggio ad avanzare e a sconfiggere il bello.
“La lanterna di Diogene” assume, in realtà, la valenza di una
testimonianza malinconica lasciataci da un uomo che già
prevedeva le conseguenze nefaste delle nuove scoperte e delle nuove
invenzioni, ammaliatrici e ingannevoli.
La fede è una sua compagna di viaggio. Ricorrono le
invocazioni a Dio e i ringraziamenti rivoltiGli per la bellezza del
creato. È un sentire lieto e convinto, al punto che è
attraverso di esso che egli può apprezzare pienamente
ciò che si dispiega di mirabile e di incantevole sotto i suoi
occhi.
Panzini si porta dietro amor di Patria e fede in Dio quali valori
imprescindibili della nostra razza, e il renderli così
marcati assume la connotazione di un canto disperato per il
presentimento di decadenza e di morte che li avvolge.
Ma ecco che finalmente giunge alla meta: una casetta sul mare,
situata in un piccolo villaggio di pescatori, Bellaria. Qui la vita
vi scorre primitiva, “troglodita”, e Panzini annota quasi con
pignoleria, ma con piacevole e ridente sentimento, le abitudini
della gente: la vecchia bacucca che parla con le galline e i maiali,
le ragazze che mostrano le ceste della mercanzia ed hanno imparato
bene dalle loro madri l’arte e l’ingegno del vendere, il pescatore
novantenne che rattoppa le reti (“Egli dice a chi capita che non ha
mai saputo che cosa sia dolor di testa, tosse, raffreddore.”), il
tabaccaio Pirùzz, il conte ex capitano, amante della
bicicletta e delle donne, padron Isidoro, la venditrice Giovanna,
“una bestia da tiro”, con la sua famiglia numerosa, che disegna un
significativo quadretto della vita povera di quegli anni, Giacomo
Moroni che suona il suo organetto a manovella, Imperia, “la
marchesina ciclista”, e così via.
Bellaria è per Panzini il luogo ideale in cui tutto è
rimasto genuino, recalcitrante e impermeabile al degrado insito
nella modernità, una città del sole in cui
operosità e felicità vanno accompagnando in perfetta
armonia (“Il vero sapere è essenzialmente armonia”) la vita
dell’uomo. È un viaggio alla ricerca delle origini, del buono
e del bello, che ancora riescono a sopravvivere.
Trascorre la sua vacanza in quel bel paese con partecipazione alla
vita di tutti i giorni: conversa, osserva, legge, lavora, ozia. I
contadini e i pescatori sono ben lontani dal capire che anche lo
studio e la lettura in cui lo vedono coinvolto è una fatica
quanto la loro nei campi o sul mare. Ha da contrastare nelle
discussioni un tale pregiudizio. E lo fa molto volentieri, anche
quando sfilano una domenica i primi lavoratori socialisti: “Venivano
in ‘fitta schiera’ con una fanfara alla testa, per inaugurare il
vessillo di una Società operaia ed ascoltare, di conseguenza,
la predica di un loro oratore d’occasione.”, ai quali rimprovera che
nella vita di tutti i giorni sono e resteranno, per loro
convenienza, sempre cerimoniosi e succubi dei ricchi. I tempi,
insomma, non sono ancora maturi: “togliamo intanto dalla vita i bari
che mettono in circolazione i falsi valori; acquistiamo, tutti,
migliore coscienza; riformiamo l’inutile scuola dell’alfabeto,
semplifichiamo e miglioriamo la vita! Dopo, il resto verrà da
sé, quale esso sia: quale voi vorrete.” E però, poco
più avanti aggiunge: “Fare il vero profeta è cosa
difficilissima.”
Dirà anche: “Quanto a nobiltà di lavoro, essere bravo
contadino equivale per lo meno ad un titolo di dottore. Sì,
tutto ciò è ben detto, ma chi in questa nostra
nazione, in cui troppi sono gli aspiranti all’impiego, risponderebbe
all’appello?”. Non si sbagliava, Panzini, a porsi già allora
l’interrogativo, prevedendo l’abbandono delle campagne, in favore di
un terziario oggi fin troppo strabocchevole e, non di rado,
improduttivo.
A Bellaria si svolge la parte più gustosa e succosa del
libro, con descrizioni di scene e personaggi di gran colore e
simpatia. Panzini vi si rivela ritrattista di primordine,
osservatore attento e divertito, accompagnato da una prosa sagace,
arguta, piccante perfino.
Un velo di malinconia ogni tanto si leva ad accompagnare il viaggio:
“Noi cominciamo a morire un poco per volta inavvertitamente, e
questo lento morire, questo atrofizzarsi e involversi dei sensi
ingenui della gioia noi talora chiamiamo sapienza.”
E più avanti: “È inutile: gli uomini oramai non
sentono più la voce degli dei, né antichi, né
nuovi.”
Vibranti le pagine sul Pascoli e sulla triste storia della sua
famiglia, sepolta nel cimitero di San Mauro. Come è noto
Giovanni Pascoli e la sorella Mariù sono invece sepolti in
Lucchesia, a Castelvecchio Pascoli, nella casa che il poeta
acquistò con la vendita delle medaglie d’oro vinte al
Concorso di Poesia Latina di Amsterdam.
A mano a mano che la sua permanenza in quei luoghi si prolunga, la
nostalgia per una vita semplice e serena si acuisce e si impossessa
dell’autore, che si rivela: e non fa più mistero di
preferirla alla vita moderna. Il viaggio si sta trasformando in una
cognizione della possibile felicità che può essere
conquistata dall’uomo, se solo riuscisse a guardarsi dentro e a
rendersi conto delle “leggi della tirannide sociale” che lo
opprimono.
Un’aurea di commosso lirismo si diffonde nella parte finale del
libro, ed è il segno di un’aspirazione ad un ritorno che si
sa impossibile: “Sentii allora lagrime antiche che distillavano di
dentro, come fossero state di piombo liquefatto: ‘Ah, giovinezza che
ti allontani: giovinezza che non sei più!’”
Anche le frequenti immagini di giovinette, che aleggiano su tutto il
viaggio, possono essere assunte a simbolo di un tempo rimpianto e
lontano: “Era quella una voce di donna, ma non nenia dolorosa quale
il vespero e le basse tristi terre avrebbero domandato: ma voce
squillante e in pari tempo dolcissima, volubile d’uno in altro
canto, con una passione che parea dare a sé beatitudine.”
La ricerca della felicità, dunque, si accompagna sempre al
rimpianto e al dolore. Essa, alla fine, altro non è che la
ricerca della propria morte. Le pagine finali, con quell’eccidio di
agnellini alla vigilia della Pasqua, e la morte del maiale per mano
del norcino, ci dicono, infatti, che il mondo e la vita non sono
altro che mistero e contraddizione, e quel funerale con cui si
chiude l’opera in realtà ci appartiene: attende tutti noi.