Demagogia

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Nel mondo antico e moderno

di Luciano Canfora

Nel mondo antico e moderno Invano si cercherebbe una chiara e univoca indicazione del significato negativo del termine 'demagogia' e dei suoi derivati (δημαγωγόϚ, δημαγωγεῖν), passato di peso dal greco classico al linguaggio politico moderno. La prima attestazione di 'demagogia' (δημαγωγία) è in Aristofane, Cavalieri, 191. La commedia fu rappresentata nell'anno 424 a.C.: è dunque un'attestazione precedente Tucidide, VIII, 65, dove si parla della demagogia (nel senso di leadership) di Androcle, un esponente democratico ucciso da sicari oligarchici nel 411 a.C. Sia in un caso che nell'altro il termine indica semplicemente la guida politica della città, ovvero il far politica in un ruolo in vista. "Ormai - dice il servo A in Cavalieri, 191-194 - la guida del popolo (δημαγωγία) non tocca più a persone bene educate e perbene, è andata a finire nelle mani di un ignorante schifoso".È stato notato (v. Lossau, 1969, p. 84) che in Aristofane manca invece del tutto 'demagogo', che in Tucidide figura una sola volta (IV, 21, 3) a proposito di un politico, Cleone, che Tucidide non considera certo con favore. Circostanza che non dovrebbe indurre a pensare che, perciò, il valore del termine sia senz'altro negativo.
L'espressione adoperata ("Cleone che in quel periodo era ἀνὴϱ δημαγωγόϚ") fa quasi pensare a un ruolo formale. Inducono a pensarlo sia l'indicazione di tempo ("in quel periodo") sia la iunctura (ἀνὴϱ δημαγωγόϚ) equivalente per esempio ad ἀνὴϱ στϱατηγόϚ (Tucidide I, 74, 1) che significa 'persona in carica come stratego'. Sembra difficile sostenere (v. Lossau, 1969, p. 87) che l'epiteto abbia significato negativo perché riferito a Cleone, ed è probabilmente una sovrainterpretazione testuale suggerire che il sintagma ἀνὴϱ δημαγωγόϚ sia un conio ironico su ἀνὴϱ στϱατηγόϚ in quanto allusivo a una 'carica inesistente'.

Né deve ingannare un altro passo dei Cavalieri (213-219, nell'ambito del medesimo dialogo tra il servo A e il Salcicciaio, dove il servo così incita il Salcicciaio a fare politica per contrastare Paflagone (personaggio dietro cui è adombrata la figura dell'odiato Cleone): "Conquista il popolo con gustosi manicaretti di parole; tutti gli altri requisiti per la δημαγωγία li hai: una voce repugnante, origini basse, volgarità; hai tutto quello che ti serve per fare politica (πϱὸϚ πολιτείαν)". Poco prima il servo aveva detto che tanto, ormai, la δημαγωγία era passata dai bene educati alle persone "ignoranti" e "schifose". Qui c'è dunque una identificazione tra δημαγωγία e attività politica. E poiché c'è stata una mutazione nella politica, nel personale politico, dai "bene educati e perbene" agli "ignoranti schifosi", la δημαγωγία è caduta nelle mani di questi ultimi; se dunque questo è ormai il personale politico, il Salcicciaio può senz'altro far politica essendo dotato di quei requisiti che, oggi, sono peculiari del δημαγωγεῖν. Non è dunque il δημαγωγεῖν come tale un disvalore: gli è che oggi - così opina Aristofane nel 424 a.C. - lo si deve praticare con mezzi bassi. E infatti nell'omonima commedia i cavalieri ateniesi, la classe più cara ad Aristofane per il suo conservatorismo, l'educazione all'antica, ecc., si schierano senz'altro per il Salcicciaio, e suo tramite sconfiggono Paflagone-Cleone e favoriscono la rinascita del popolo (Demo, che è personaggio della commedia, ringiovanisce e ritorna fulgido com'era "al tempo di Temistocle e Aristide"). Ciò significa che anche il ceto dei cavalieri sa che, ormai, si fa politica con quel personale, dedito a quei metodi e che dunque c'è solo da individuare, tra quei politici, uno strumento da utilizzare per δημαγωγεῖν. Termine neutro, dunque, che si riempie di tratti negativi per il modo in cui i nuovi politici, provenienti dai ceti bassi, praticano la δημαγωγία.

Limpida riprova di ciò la testimonianza di Aristotele nella Costituzione di Atene: "In principio erano le persone perbene che facevano i demagoghi" (28, 2). Segue, nello stesso capitolo, la lista dei demagoghi del tempo andato, da Solone a Pisistrato, da Temistocle ad Aristide "il giusto". La lista è divisa tra "capi del demo" e "capi dei nobili", tutti 'demagoghi' dunque: non a caso lo stesso Aristotele nella Politica (1305 b 23) precisa che si può avere δημαγωγία anche all'interno delle oligarchie, e cita Caricle come demagogo dei Trenta e Frinico come demagogo dei Quattrocento. "Dopo la morte di Pericle - seguita Aristotele - a capo dei signori stava Nicia, a capo del demo Cleone, al quale sembra che spetti la massima responsabilità nella corruzione del popolo per quel che riguarda il modo di far politica (28, 3). Infine, "a partire da Cleofonte la δημαγωγία fu esclusivamente nelle mani degli sfacciati desiderosi solo di compiacere la massa" (28, 3).C'è dunque, per Aristotele, una parabola discendente dall'ottima demagogia dell'età arcaica (fino a Pericle incluso) alla totalmente pessima demagogia da Cleofonte in avanti. Dove collocare il punto di passaggio non era, forse, stabilito in modo convincente per tutti. Anche Tucidide, che sicuramente ha influenzato le idee di Aristotele sulla storia interna di Atene, poneva una cesura nel trapasso da Pericle ai suoi successori (II, 65). E l'anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi (tramandata come di Senofonte ma attribuibile all'oligarca socratico Crizia) tende a presentare un quadro totalmente negativo del personale politico ateniese, ma non è detto che non includa anche Pericle tra le figure deteriori.

Nella scena finale dei Cavalieri di Aristofane il buon tempo, l'età sicuramente positiva, è quello di Aristide e Temistocle (v. 1325). Infatti per Aristofane, come per i comici più anziani di lui, Pericle è già un politico impregnato di cattiva demagogia, tanto da portare la città alla dissennata avventura della guerra (Acarnesi, 515-537). E in questa periodizzazione Aristofane e i comici non sono soli: c'è Platone nel Gorgia, e ci sono gli intellettuali delle città alleate-suddite, che odiano i capi della democrazia dominatrice e mettono tra i demagoghi tutti: da Temistocle a Cimone a Pericle (Stesimbroto di Taso).L'idea sottesa a questa visione di progressiva decadenza è che, col farsi avanti sulla scena politica del popolo (cioè dei nullatenenti, tenuti ai margini delle massime cariche politiche fino alla rivoluzionaria riforma di Efialte, 456 a.C.), lo stile della politica necessariamente cambia in peggio (è ciò che vuol dire Aristofane con la parabola dei Cavalieri).

E poiché dal tardo V secolo a.C. all'età ellenistica, salvo brevi parentesi di governi oligarchici o timocratici, il soggetto della politica ateniese è appunto il popolo, la massa dei non possidenti, si fa strada sempre più l'idea che la politica come tale, in una città retta a democrazia, non può che essere demagogia in senso deteriore: appunto come la descrive al Salcicciaio il servo A dei Cavalieri. Questo spiega il perdurare di una certa incoerenza semantica nell'uso di 'demagogia'. Senofonte l'adopera in senso nettamente deteriore nell'ambito di un discorso di Crizia (Elleniche, II, 3, 27), ma come semplice equivalente di πϱοστάτηϚ τοῦ δήμου in un altro passo della stessa opera (V, 2, 7). Gli oratori attici evitano quasi sempre il termine, e comunque non lo caricano di valenze negative (in Demostene c'è una sola volta δημαγωγοῦντεϚ in Chersoneso, 34, detto degli avversari). Platone non fa distinzioni terminologiche, poiché, coerentemente con le sue premesse, colloca sul versante negativo tutti coloro che fanno politica in democrazia, e perciò usa indifferentemente demagogo o 'capo popolare' (πϱοστάτηϚ) entrambi come disvalori.

È Aristotele che sistematizza e distingue, e accanto all'uso neutro del termine (di cui s'è già detto) adotta anche la nozione negativa di demagogo (Politica, 1292 a 7-15, 23-28) riferendola a coloro che "coi decreti" esercitano il loro dominio contro le (o al di sopra delle) leggi. Perciò - deduce - è dal demagogo che discende il tiranno (1308 a 22). Per Platone, com'è chiaro da quel che si è ora detto, il tiranno proviene in genere "dai capi popolari" (Repubblica 565 d). In Polibio ormai i termini 'demagogo', 'demagogia', 'demagogico' (II, 21, 8; III, 80, 3; XV, 21, 1) hanno unicamente significato deteriore: si tratta di persone e metodi che cercano, per fini perversi, di catturare il favore delle masse adulandole.Via via che si impone questa nozione deteriore, si fa chiaro che il veicolo privilegiato della demagogia è la parola. È latente, ma ben si coglie, negli sforzi definitori sin qui descritti l'identificazione tra demagogo e abile parlatore. Giova ancora una volta il richiamo al servo A dei Cavalieri: lo strumento che suggerisce per δημαγωγεῖν sono i "gustosi manicaretti di parole", e il primo requisito che richiede è la voce (beninteso "repugnante"). Repugnante è Odisseo, buon parlatore, nella tragedia euripidea: nell'Ecuba strappa Polissena a sua madre, nelle Troadi fa prevalere il consiglio di massacrare il piccolo figlio di Ettore. Repugnante è Drance, l'oratore-demagogo dell'Eneide (XI, 343-375), "l'unico fra i personaggi umani [del poema] assolutamente negativo" (cfr. A. La Penna, Drance, in Enciclopedia virgiliana, vol. II, Roma 1985, pp. 138-140).

E anche nella Costituzione di Atene di Aristotele, i segni esterni dello scadimento della δημαγωγία consistono appunto nel modo di parlare in assemblea: Cleone si presenta con la veste stretta intorno al corpo, come in abito da lavoro - laddove prima si parlava "in ordine", immobili e con la tunica cadente fino a terra -, "alza la voce e offende" gli avversari (28, 3); Cleofonte, per fare impressione e imporre il rifiuto della pace, si presenta all'assemblea ubriaco e con indosso la corazza (34, 1). Del resto tutta la polemica socratica e poi platonica contro la retorica come pseudoscienza del politico mira appunto a denunciare il carattere ingannevole della parola politica in generale (corrispettivo della condanna del mestiere di politico come tale). Sintomatica è, in questo senso, la divergenza tra Tucidide e Platone nel giudizio su Pericle. Per Tucidide Pericle è colui che "tiene a freno il demo e lo trascina anziché esserne trascinato", colui che rifugge dal parlare "per compiacere" (II, 65, 8). Per Platone Pericle è colpevole come corruttore del demo, per averne sollecitato le peggiori inclinazioni (Gorgia, 515 d-e). E infatti tutta la rappresentazione dell'oratoria periclea in Tucidide è quella di un oratoria contro corrente. Pericle è contro corrente quando impone la scelta della guerra e quando impone la strategia dell'arroccamento dentro le mura, e "si aspetta", per questo, l'ostilità del pubblico (II, 60, 1), e parla essenzialmente per ammonire ed educare, non per adulare o sollecitare facili riflessi condizionati.

Perciò il suo epitafio liquida (II, 36) i luoghi comuni del più demagogico dei generi oratori qual è l'epitafio, vera recitazione collettiva dei presupposti (anche razziali e imperialistici) della democrazia attica, e si effonde invece in una esaltazione piuttosto anomala, che è quasi una re-interpretazione del meccanismo democratico (II, 37), e in una definizione del ruolo storico di Atene non già in termini di destino imperiale ma di predominio intellettuale sul mondo greco (II, 40). Naturalmente anche Pericle sa toccare i tasti della retorica seduttiva, ma preferisce il franco smascheramento dei veri rapporti, fino alla dura dichiarazione, nel suo ultimo discorso (II, 63, 2-3), che l'impero è tirannide, ma per gli Ateniesi è anche una condanna: e rinunciarvi significa correre pericoli immensi, molto più gravi della guerra.Nasce, con il Pericle tucidideo (che forse rassomiglia non poco a quello vero), l'oratoria politica severamente pedagogica: il politico che rimprovera il demo anziché blandirlo. È il modello cui si attiene costantemente Demostene, per quel che possiamo giudicare dai discorsi assembleari superstiti. È notevole però che anche Cleone, nel suo più impegnativo discorso (Tucidide, III, 37), parli come Pericle in tono duramente educativo e per nulla adulatorio nei confronti dell'uditorio. Addirittura riprende da Pericle la nozione dell'impero-tirannide e dell'impero-condanna; e le sue parole sull'incapacità degli Ateniesi a serbare l'impero sono riprese da Demostene, Chersoneso, 42 (il che significa che non è del tutto esatta la consolidata veduta secondo cui Tucidide raffigurerebbe Cleone unicamente come un banale demagogo.

I moderni confondono spesso il Cleone di Aristofane con quello tucidideo, che invece ha tratti periclei e sollecita Demostene). Naturalmente, anche quando contiene forti elementi pedagogici e di contrapposizione al demo, la parola pubblica, destinata all'assemblea, è protesa alla ricerca dell'assenso, non può prescindere dagli elementi da 'comizio': il richiamo agli antenati e alla passata grandezza da emulare, l'insistenza sul destino di guida rispetto alle altre città, la polemica strumentale verso altre comunità rivali (Tebe) sono tutti ingredienti che in vario dosaggio rispuntano, mescolati alle formulazioni più impopolari, anche nell'oratoria demostenica, pur capace di sottrarsi alla spirale, tipicamente demagogica, adulazione/consenso. E perciò la critica dell'oratoria, se condotta con spietato rigore come è il caso di Platone, non risparmia nessuno, accomuna tutti nel mucchio dei parlatori ingannevoli.
Aristotele sa invece che quella comunicazione ingannevole è la parola politica: e quindi ne fa oggetto di studio anche teorico, la accetta, non la demonizza, scrive egli stesso tre libri di teoria retorica. Ma l'accomodamento empirico di Aristotele nulla toglie alla pertinente scoperta platonica del carattere intimamente demagogico della parola politica. Parola di persone educate (Pericle, Demostene) che hanno messo a disposizione del demo la loro capacità tecnica (la parola) in nome di un compromesso col popolo su cui si fonda il loro potere. Platone contesta quel compromesso, Aristotele no.

La critica socratica e poi platonica coglie in realtà un punto centrale: l'antitesi tra discorso scientifico e discorso politico (complice del quale è la retorica). E perciò finisce con l'includere nella demagogia (di cui il discorso non scientifico ma seduttivo è lo strumento) l'intera sfera della politica. È difficile sottrarsi a questa critica radicale del discorso politico. Fuori di essa resta l'impossibilità di definire uno statuto teorico della nozione di demagogia, oggetto di accusa reciproca (e reversibile) tra forze che si contendono il consenso.

Non a caso il termine stenta a rinascere dopo l'epoca (Grecia classica) della sua formulazione e originaria diffusione. Non è senza significato che il linguaggio politico romano non lo abbia ricalcato, come ha fatto con altri termini del lessico politico greco. E nella stessa Grecia moderna la rinascita moderna del termine non sembra aver avuto vitalità: la Μεγάλη ῾Ελληνιϰὴ ᾽Εγϰυϰλοπαιδεία, la grande enciclopedia nazionale neogreca, registra, alla voce δημαγωγία, unicamente l'uso e gli esempi (Demostene, Eschine, Iperide, ecc.) e i teorici (Platone, Aristotele) di età classica. Ancora nel Seicento Bossuet (Histoire des variations des Églises protestantes, 1688) esita ad adoperare il termine démagogue per definire i detestati predicatori luterani: "Il povero Melantone - scrive - si considera, nel bel mezzo dei luterani, come circondato da nemici o, per servirmi delle sue parole, tra vespe scatenate (guêpes furieuses)"; "vorrei - seguita Bossuet - che mi fosse consentito adoperare il termine demagogo", e subito spiega: "erano, ad Atene e negli Stati greci retti dal popolo, alcuni oratori che si rendevano onnipotenti sul popolaccio adulandolo" (V, § 18). In Melantone l'immagine delle vespe verrà, probabilmente, dall'omonima commedia aristofanea, dove i vecchi Ateniesi "bravi democratici", maniaci dei processi e devoti di Cleone (come il protagonista della commedia, di nome appunto Filocleone), appaiono in scena travestiti da vespe, perché col pungiglione del voto infilzano coloro che vengono trascinati in giudizio.

Ben si comprende dunque perché, dall'immagine aristofanea di Melantone, Bossuet sia indotto a pensare ai demagoghi ateniesi. Ma la parola (che figura, ovviamente, nella traduzione francese della Politica di Aristotele curata, alla metà del Trecento, da Nicola d'Oresme) gli appare tuttavia un calco sul greco, un impossibile neologismo.Anche Hobbes adopera il termine e subito lo spiega. Ed è interessante osservare che per lui 'demagogo' è senz'altro l'equivalente di "oratore efficace" (powerfull oratour): "Considera, in una democrazia, quanti demagoghi, cioè quanti efficaci oratori, hanno a che fare col popolo" (Philosophical rudiments concerning government and society, London 1651, cap. X, par. 6, traduzione inglese, curata dallo stesso Hobbes, del De cive, 1646, dove la frase si presentava in forma lievemente diversa: "Sed in democratia quot sunt demagogi, id est potentes apud populum oratores [...]").

Che la democrazia sia appunto il regno dei demagoghi, per Hobbes è assodato: ciò corrisponde alla sua più generale veduta secondo cui la duplicazione delle forme politiche codificata da Aristotele non ha senso, e dunque neanche la distinzione tra buona e cattiva democrazia (cioè tra democrazia e demagogia). Nella sua prima opera, la prefazione alla traduzione inglese di Tucidide (1628), Hobbes manifesta il suo entusiasmo per le idee politiche antidemocratiche dello storico ateniese: infatti - osserva - "in più occasioni sottolinea l'emulazione e rivalità tra i demagoghi [the emulation and contention of the demagogues] anche a costo di opporsi l'uno ai pareri dell'altro, con danno del pubblico" (English works, vol. VIII, London 1843, p. XVI). Funzionamento del governo popolare e demagogia, cioè attività degli oratori, sono per lui sinonimi: la democrazia consiste nell'esplicarsi di quella (deleteria) attività oratoria. Ancora nell'autobiografia in versi (postuma) spiega di aver tradotto Tucidide "per mettere in guardia gli Inglesi dagli oratori, quando dovessero affrontare decisioni politiche" (consultaturi rhetoras ut fugerent, in Opera philosophica quae latine scripsit, vol. I, London 1839, p. LXXXVIII).L'identificazione tra demagogo e "leader in a popular State" vale anche per Jonathan Swift: "Demostene e Cicerone sembrano differire l'uno dall'altro [come oratori], sebbene ciascuno dei due fosse a leader (or, as the Greeks called it, a demagogue) in a popular State" (Letter to a young clergyman [in origine: gentleman] lately enter'd into Holy Orders, 1721, in Satires and personal writings, Oxford 1932, p. 277).

Entrambi sono demagoghi, cioè "capi in città democratiche" (il che costituisce - sia detto tra parentesi - un'interessante, soggettiva, interpretazione di Roma come città democratica); la differenza è nel tipo di oratoria: più ragionativa e volta a persuadere l'intelletto quella di Demostene, più patetica perché indirizzata a una "nazione meno colta" quella di Cicerone. Ancora una volta demagogia e tecnica della parola sono elementi strettamente intrecciati. Questo testo di Swift ha avuto una singolare vicenda. Tradotto in tedesco, esso appare a Zurigo, nel 1757, nel volume Moralische Beobachtungen und Urteile, in forma anonima, come epistola di un illustre teologo a un prete: in questa forma esso venne utilizzato da Lessing nel XIII Literatur-Brief (1° febbraio 1759), scritto in polemica con C. Wieland e con la sua esortazione a imitare l'oratoria francese (Bossuet, Massillon, Trublet, ecc.). Lessing segnala di aver appena ricevuto dalla Svizzera quello scritto ma - soggiunge - "ho l'impressione di aver letto già altrove tali pensieri" (forse aveva avuto modo di conoscere lo scritto di Swift, che comunque nella sua prima edizione recava come firma la semplice sigla 'A.B.').

Nell'additare a Wieland il modello dei due grandi demagoghi antichi, Lessing non manca di osservare che la grande oratoria francese del Seicento, proposta da Wieland come modello, si era sviluppata "sotto un governo dispotico" (Gesammelte Werke, vol. IV, Berlin-Weimar 1968, pp. 120-121). Ciò rafforza l'impressione che, per Lessing, la connessione dell'oratoria dei due grandi demagoghi con le forme politiche democratiche delle loro città non costituiva, come invece per Hobbes e forse per lo stesso Swift, un aspetto negativo.È con la Restaurazione e con la persecuzione antigiacobina che 'demagogo' diviene l'epiteto stabile con cui si designano gli sconfitti della Rivoluzione e i loro ostinati seguaci. Jean-Pierre Faye (v., 1978, pp. 523-524) in una recente voce enciclopedica ha richiamato l'attenzione su di uno scritto di modesta rilevanza, risalente al 1825 (cfr. A. Roche, Histoire de la Révolution française, Paris 1825), dove sono, com'era da attendersi, definiti in blocco demagoghi tutti i capi della Rivoluzione, da Mirabeau ai girondini e ai giacobini, e quindi anche Tallien, l'artefice della trama antirobespierrista del 9 termidoro ("il giovane demagogo - scriveva Roche, p. 253 - corse a casa di tutti i nemici di Robespierre incitandoli a scuotere il giogo: Riuniamoci e decidiamo l'arresto di tutti gli anarchici e tiranni!"). In realtà questa terminologia, in quegli anni, non presenta alcuna peculiarità. "Da un secolo - osserva nel 1870 l'appassionato autore della voce Démagogie nel Grand dictionnaire universel du XIXe siècle diretto da Pierre Larousse - i nemici della Rivoluzione hanno talmente abusato [dell'epiteto di demagogo] che non ci si degna più nemmeno di notarlo" (vol. VI, p. 386). Nella prosa giacobina sono demagoghi invece i caporioni delle rivolte sanfediste. Ovviamente, data l'esaltazione delle antiche repubbliche propria dei giacobini, anche la riscrittura della storia antica nell'età della Restaurazione (e dopo) calca la mano sul carattere demagogico della democrazia radicale ateniese (Mitford, Curtius), trovando ampio riscontro e alimento negli antichi critici (Platone soprattutto).


Tanto più perciò si apprezza, contro questo prevalente orientamento, l'originalità contro corrente di un democratico come George Grote, il quale, non senza un intento polemico, riferisce la taccia di demagogia al benpensante e generalmente stimato Cimone (History of Greece, vol. V, London 1849), e si spinge a rivalutare la figura di Cleone, per esempio nella vicenda dell'assedio di Sfacteria (cap. LII) ma anche nella valutazione d'insieme della sua politica estera (cap. LIV) in opposizione alle critiche di Tucidide e ovviamente alla caricatura aristofanea.

Il nesso tra la rinascita del termine demagogia e la demonizzazione postuma della Rivoluzione francese giova a comprendere il diverso trattamento del termine in alcune importanti enciclopedie nazionali. Nell'Encyclopaedia Britannica manca del tutto la voce, vi è solo una sommaria definizione di 'demagogo' come "agitatore senza principî". Il termine non sembra dunque suscitare molto interesse. Nella Brockhaus Encyclopaedie viene riservata speciale attenzione al fenomeno delle "persecuzioni giudiziarie dei demagoghi" (cioè dei gacobini), Demagogen-Verfolgungen, negli Stati tedeschi, con particolare riguardo all'inasprimento di tali persecuzioni dopo l'attentato a Kotzebue (1819).
Al contrario il Grand dictionnaire di Pierre Larousse affronta il termine e il concetto in modo storico-analitico e con notevole approfondimento. Il volume VI, in cui figura la voce, esce nel 1870; con ogni probabilità è stato scritto prima del crollo (settembre) di Napoleone III: peraltro l'orientamento dell'articolista, fervente giacobino, in riferimento agli anni della Grande Révolution non collide con il corredo ideologico-propagandistico bonapartista; ma l'animus antibonapartista che in questa voce non traspare (è latente nei cenni al 1848) diventa chiarissimo nell'amplissima voce dedicata a Napoleone III nel volume XI (1874), dove tutta l'ascesa e presa del potere da parte di Luigi Bonaparte è descritta (e stigmatizzata) come un capolavoro da grande demagogo.

La voce Démagogie si apre dunque con una polemica osservazione sull'uso strumentale del termine: "Ecco un'espressione tipica del linguaggio polemico, che si adopera senza attribuirvi un significato preciso". Vi è poi una sorta di apologia del ruolo del 'demagogo': "Il termine vuol dire semplicemente guida del popolo; orbene, poiché i popoli non sono tuttora capaci di guidarsi da sé, non vediamo cosa ci sia di criminale nell'impegnarsi a dirigerli". Peraltro vi è una tragedia individuale del demagogo: egli "crede di guidare le folle, ma in realtà subisce il movimento piuttosto che imprimerlo: il che è così vero che, generalmente, con demagogia s'intende una situazione in cui il popolo, piuttosto che essere governato, governa". È il caso, vien fatto osservare nell'ultima parte della lunga voce, delle grandi figure della Rivoluzione: "Sono trattati come demagoghi, e tuttora denunciati ogni giorno come tali al giudizio dei posteri, tutti gli uomini di cuore che hanno preso parte alla Rivoluzione: Robespierre, Danton, Vergniaud, Mirabeau e persino Lafayette. Lo furono? Sicuramente. Non si conduce - seguita l'articolista - il popolo all'assalto della Bastiglia, non lo si lancia alle frontiere contro tutta l'Europa coalizzata senza sovreccitare sino al parossismo le sue passioni, le buone come le cattive. Ma una volta dato l'impulso, chi guiderà il movimento, chi lo frenerà, chi lo conterrà nei limiti della giustizia? Nessuno. I più forti vi si infrangeranno. A seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si posero alla testa della Rivoluzione, sembra di vedere dei fanciulli appesi a una locomotiva. Tutti vi si sono stritolati. Ma loro se lo aspettavano né si ripromettevano dai propri figli ingrati una tardiva riabilitazione. Perciò dobbiamo ammirarne la grandezza del sacrificio e l'immensità della dedizione".

Peraltro viene, nello stesso contesto, rifiutata la nozione di una demagogia unicamente 'di sinistra': "Prima di mettere sotto accusa i demagoghi di un'epoca a noi più vicina [rispetto al mondo romano di cui ha prima parlato] gli storici monarchici e clericali dovrebbero rileggersi i loro Annali. Ci furono mai demagoghi più focosi che i nobili e i preti della Vandea o del Midi?".Nonostante le premesse che mettevano in dubbio l'esistenza stessa di un "significato preciso" del termine, nonostante la ritorsione della taccia di demagoghi nei confronti dei preti vandeani, anche l'articolista del Grand dictionnaire paga il suo contributo alla visione tradizionale: e identifica la demagogia con quella "frazione del popolo, la più turbolenta e la più folle, che si arroga il diritto di parlare e di agire a nome di tutti". Il riferimento è alla "minoranza faziosa" che imponeva alla Convenzione la propria volontà, e alla "miserabile frazione [la minoranza socialista] che il 15 maggio 1848 invase l'Assemblea Costituente e ne proclamò la dissoluzione". È allora - conclude - che, contro la demagogia, si incomincia a invocare il dispotismo di un capo. La voce si ferma qui, ma il riferimento a Luigi Bonaparte non potrebbe essere più chiaro: la sua ascesa viene presentata come il frutto dell'eccesso "demagogico" del maggio-giugno 1848.
È la veduta ricorrente: demagogia come 'eccesso' di una fazione popolare (il resto del corpo civico, impaurito, invoca il despota). Essa coesiste con l'altra, non meno diffusa ma che sembra invertire i termini del problema: demagogia è l'azione di aspiranti despoti che strumentalizzano la massa popolare, soprattutto la meno consapevole.