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di Alessandro Albertazzi
Nacque a Rieti il 25 apr. 1857 dal
marchese Tommaso (1830-1911) - influente personalità del
movimento cattolico bolognese e romagnolo dal 1888, tra l'altro
presidente del consiglio d'amministrazione de L'Avvenire
d'Italia dal 1902 alla morte, dopo avere tenuto la direzione del
quotidiano cattolico per alcuni mesi, nel 1901 - e dalla
contessa bolognese Giovanna Bentivoglio. Conseguita la licenza
ginnasiale a Spoleto e quella liceale a Perugia (1874), studiò
giurisprudenza nelle università di Modena e di Roma - ove ebbe
tra gli altri come professore Ruggero Bonghi - laureandosi nel
1878. Esercitò per alcuni anni la professione forense, che
abbandonò, per dedicarsi al giornalismo con l'aiuto dello zio
Cesare, direttore de L'Osservatore romano, nel 1883. Iniziò la
carriera a Torino, nella redazione dell'Emporio popolare - poi,
col cambio di testata, Corriere nazionale - fondato dal gesuita
p. Enrico Vasco dopo aver collaborato alla Rivista romana di
scienze e lettere e al Journal de Rome. Durante i tre anni di
permanenza a Torino divenne redattore capo del periodico.
Nel 1887 rientrò a Roma, chiamato alla redazione de
L'Osservatore romano, ove rimase fino al 1895. Per cinque anni,
dal 1890, ne fu redattore capo. In seguito, continuò a
collaborarvi. Il ritorno nella capitale diede al C.
l'opportunità di riprendere, con maggiore intensità, il proprio
impegno nell'azione cattolica: socio del Circolo di S. Pietro,
presiedette nel 1892, per alcuni mesi, l'Unione romana per le
elezioni amministrative e, nel 1894, il Circolo romano di studi
sociali S. Sebastiano, del quale era stato fin dal 1880 uno dei
promotori.
Profondamente inserito nel mondo cattolico romano ed
estremamente attento alle linee di sviluppo della politica di
Leone XII, collaborò al mensile La Rassegna italiana
(1881-1887), espressione dei conservatori nazionali, che
sostenne "l'intervento attivo dei cattolici nella società civile
e politica nazionale" (Malgeri), mostrando tuttavia la propria
autonomia di giudizio, con quella affabilità verbale, che
caratterizzò lo stile e determinò il successo delle sue proposte
e delle sue prese di posizione. Tale autonomia fu soprattutto
abilità di riuscire a contemperare, mediandole, le varie spinte
presenti nel mondo cattolico, per tendere senza dubbio ad
affermare una sempre più accentuata presenza cattolica in
Italia, ma nei modi consentiti e secondo le opportunità e le
cautele stabilite di tempo in tempo dagli indirizzi pontifici.
La professione giornalistica - insieme con l'estrazione sociale
- consentì, inoltre, al C. di inserirsi negli ambienti nobiliari
e liberal-conservatori della capitale, dove ebbe la possibilità
di allacciare più ampi rapporti e di ricevere crescenti
attestazioni di stima, specie per la sua cultura, ma anche per
l'attenzione da lui posta ai problemi politici concreti. Questi
atteggiamenti vennero, tuttavia, aspramente criticati dagli
intransigenti "prima maniera" de Il Diritto di Roma, i quali,
nel 1892, ritennero che il C., anziché essere "sincero e
schietto cattolico", quale "membro di una Associazione
avversaria [l'associazione della stampa] ove regna l'ateismo e
la massoneria, non può lealmente dichiararsi difensore della
nostra causa" (Malgeri).
Ma, nonostante queste censure, il C. stava assumendo nel
movimento cattolico intransigente una posizione di rilievo,
imponendosi all'attenzione soprattutto con la pubblicazione de
Il laicato cattolico italiano (Roma 1890).
Nel volume aveva sostenuto che dalla condizione fatta alla
Chiesa dopo la "rivoluzione" erano derivate nuove e impegnative
responsabilità ai laici cattolici, sul terreno civile. E aveva
distinto i cattolici in tre categorie: i "conservatori", che
erano "disposti a venire a patti col liberalismo" (facendo
rientrare qui anche i cattolici liberali) i "codini", che
aspiravano ad una restaurazione legittimista infine, i
"clericali", cioè i "cattolici completi", che, avendo di mira la
difesa degli interessi del Papato, avevano dato vita all'Opera
dei congressi e, con essa, dato sostanza e prospettiva
all'iniziativa cattolica in ogni espressione della vita sociale.
Il C., naturalmente, si collocava tra questi ultimi da un lato,
emarginando come superati, gli altri dall'altro, ponendosi in
una posizione anticipatrice di ulteriori sviluppi dal punto di
vista sociale e politico, senza escluderne alcuno, che non fosse
esplicitamente proibito. In questo modo, il C. lavorava per
costruire, ad un livello più avanzato e composito, una nuova
sintesi del movimento cattolico, recependo tutte le esperienze
utili allo scopo.
Dopo la sua elezione a consigliere comunale di Roma, nel 1893 -
rieletto nel 1895, rimase in Consiglio fino al 1899 - a conferma
della piena maturità professionale raggiunta e dell'udienza
delle sue opinioni nel mondo cattolico e, più ampiamente,
nell'opinione pubblica liberale, nonostante che i suoi principi
in quel momento fossero ritenuti "poco sicuramente ortodossi",
il C., grazie soprattutto all'appoggio del card. Svampa, che lo
conosceva bene, e, ovviamente, del padre, venne chiamato, nel
1896, a dirigere il nuovo quotidiano cattolico delle Romagne,
L'Avvenire.
La sua fu una direzione di prestigio, più nominale che concreta,
ma valse - forse proprio per questo - a dare respiro e
consistenza alla linea del giornale, che corrispose pienamente
alle esigenze di rinnovamento della direzione dell'Opera dei
congressi espresse da G. Grosoli e da G. Acquaderni, e alle
necessità di progressivo allargamento della sua base, al fine di
dare concreti e solidi contenuti programmatici e di rilievo
nazionale alle prospettive dell'intransigentismo. Insomma, negli
anni della sua direzione, durata fino al 1901, il C. interpretò,
conferendo loro dignità culturale e vasta risonanza, le
direttive del Grosoli, riconoscendogli la leadership e
appoggiandolo su un piano di reciproca parità e amicizia.
In particolare, la posizione assunta dal C. il 14 marzo 1897,
con una conferenza su Gli effetti dell'astensione politica dei
cattolici, ebbe vasta risonanza e contribuì a definire la nuova
linea dell'intransigentismo. Con notevole abilità, si preoccupò
di eliminare i dubbi sulla sua persona, mutando collocazione.
Tuttavia, non abbandonò le motivazioni di principio e non mancò
di prospettare quelle aperture, che avrebbero consentito, in
circostanze opportune, di affermare pienamente l'impegno
politico dei cattolici. La parola d'ordine del C. fu:
"astenetevi perché è provvido, non perché è comandato".
Introducendo i contenuti del patriottismo cattolico - in
opposizione al patriottismo liberale "di superficie", questo,
"di profondità", quello - "che va a rintracciare con amore in
ogni più antico passato i segni del genio e della vocazione
italica, come apparve nell'unione provvidenziale tra il Papato e
l'Italia e fiorì nella pietà, nelle armi, nell'economia, nelle
arti", il C. indicò anche il senso e la direzione dell'unità dei
cattolici, che avevano potuto avanzare proprio in forza
dell'astensione, dell'essere rimasti "regionalisti nello
spirito", e, in questo modo, avevano potuto "farsi vivamente
sentire". Perciò, la astensione - osservò - non avrebbe avuto
più ragion d'essere solo quando avesse portato i suoi frutti,
cioè avesse portato alla formazione di un forte partito
cattolico. Dall'analisi sul passato, il C. dedusse poi le
ragioni dell'astensione presente: da un lato, la debolezza del
movimento cattolico nel Meridione dall'altro, la precoce
decadenza del Parlamento. Se i cattolici fossero andati alle
urne - aggiunse - avrebbero loro malgrado, non amando il
Parlamento, dovuto dargli forza, rivivificarlo e cedere alle
richieste di rafforzare il governo dopo tanti anni di mani
nette. Quindi - concluse - in questa fase né eletti né elettori,
per essere domani eletti ed elettori. Le osservazioni del C.,
strettamente connesse alla particolare congiuntura elettorale,
ma ribadite anche in altre occasioni, e meramente tattiche in
relazione allo sviluppo del movimento cattolico, mettono in
luce, tuttavia, alcune delle linee portanti della sua analisi,
che saranno mantenute ferme nella sostanza col mutare delle
stagioni, soltanto adeguandosi, per meglio aderirvi, alle nuove
e diverse situazioni politico-sociali. La natura del
patriottismo cattolico - proposta con efficace sintesi - fondava
l'unità sociale e, in prospettiva, politica dei cattolici
italiani e dipendeva non dall'autonomia delle proposte e dei
programmi, ma dalla tradizione, che indicava nel Papato il
centro di aggregazione delle peculiarità regionali, da assumersi
in positivo. Di qui, la constatazione che il centro del potere
non risiedeva essenzialmente nel Parlamento, incapace di essere
sintesi degli ideali e degli interessi della nazione, ma nel
governo, più consono a garantire al paese uno sviluppo ordinato,
implicante il mantenimento dei ruoli propri di ogni ceto
sociale. Poiché le idealità liberali avevano fallito la prova,
le classi dirigenti responsabili e gli istituti da queste
promossi dovevano essere sostituiti. E la sostituzione, sul
terreno delle scelte politico-sociali cattoliche, non escludeva,
anzi includeva, la sintesi delle alternative possibili: da
quelle più avanzate, tendenti a spingere fino alle ultime
conseguenze la divaricazione tra Parlamento e paese a quelle,
sostanzialmente conservatrici, fondate sul recupero di una quota
consistente della classe dirigente nell'alveo della tradizione.
Infine, per interpretare e realizzare le aspirazioni di tutte le
componenti cattoliche, si rendeva necessaria, nei tempi e nei
modi opportuni, la trasformazione dell'Opera dei congressi in un
partito, capace di essere espressione e strumento della vera
tradizione del paese.
Non è senza significato, in questo contesto, che finiva per
collimare con gli auspici della S. Sede, né il fatto che le
opinioni del C. fossero recepite, proprio nel 1897, da La Nuova
Antologia, né la polemica con don Murri sull'americanismo", del
1899.
In tale anno la personalità del C. ebbe la consacrazione
definitiva con la presidenza del congresso cattolico di Ferrara.
In quella circostanza, sintetizzandone i contenuti nello slogan
"la seduta continua", riuscì a portare in porto un congresso
difficile, che costituì, dopo la crisi del '98, segno probante
della ripresa cattolica coll'indicare, in qualche modo, la
direzione del movimento in una situazione profondamente mutata,
senza dar luogo a sospetti e, specialmente mediando tra gli
"antichi" e i "moderni". Partecipò, infatti, in una posizione di
primo piano all'ultima fase dell'Opera dei congressi, quella
grosoliana, mentre continuò a lavorare nel giornalismo
cattolico, collaborando dal 1901 a vari quotidiani e periodici,
quali IlCittadino di Genova, più tardi Il Momento di Torino e Il
Corriere d'Italia di Roma, Pro Familia, L'Ateneo, La Nuova
Antologia, anche con vari pseudonimi (Romanus, Fran, Fuscolino,
Sabinus per ricordare i più noti). Durante la presidenza Grosoli
guidò il quinto gruppo (arte cristiana) dell'Opera dei
congressi.
Da un decennio l'attività del C. stava esplicandosi in vari
campi ed era conosciuta anche all'estero. Aveva, infatti, preso
parte, nel 1891, quale delegato italiano, alle conferenze
internazionali di Bruxelles sull'antischiavismo era
vicepresidente della lega internazionale contro il duello aveva
tenuto conferenze a Parigi. Dopo il congresso di Bologna (1903),
durante il quale, con la consueta abilità, cercò di smorzare e
di mediare i contrasti dopo le polemiche seguite all'ordine del
giorno Cerutti e il conseguente scioglimento dell'Opera dei
congressi, prendendone atto, tentò di avviare, nell'estate del
1904, insieme con F. Meda, G. Micheli e altri, un'iniziativa a
carattere nazionale - "nata male e morta peggio" -, l'Unione
nazionale fra gli elettori cattolici amministrativi italiani,
riprendendo gran parte delle proposte avanzate da L. Sturzo. Ben
presto, però, riservando a tempi migliori iniziative che
avrebbero potuto sembrare polemiche e, comunque, non erano
gradite, si adeguò alle direttive della S. Sede, favorendo la
costituzione dell'Unione popolare.
Trasferito in quegli anni il centro prevalente della propria
presenza a Torino - il C. aveva la residenza a Demonte (Cuneo) -
fu dal 1906 il leader del gruppo clericale in Consiglio
comunale. Nel 1909 rinunciò a candidarsi "avendo i suoi stessi
amici compreso che sarebbe stato inopportuno di ripresentare la
sua candidatura" "per una frase antipatriottica pronunciata in
consiglio a proposito dei festeggiamenti del cinquantenario
della proclamazione del Regno" (Spadolini, 1974). Continuò,
comunque, ad avere notevole peso, come assiduo collaboratore de
Il Momento, di cui fu dal 1912 consigliere delegato come membro
del comitato generale dell'università popolare come
conferenziere, specie sui temi della moralità pubblica e della
scuola come esponente e, dal 1912, presidente dell'Unione
elettorale cattolica come membro del circolo del "Tüpinet",
luogo di ritrovo della "cosiddetta aristocrazia nera", che aveva
"nelle mani gli strumenti finanziari del movimento" cattolico
(Salvadori).
Non cessò, naturalmente, la sua presenza in campo nazionale.
Anzi, fu via via più cospicua e rappresentativa. Come aveva
fatto per i congressi dell'Opera, diede il suo contributo alle
Settimane sociali, di preferenza con conferenze su temi
culturali e artistici, congeniali, tra l'altro, alla sua carica
di presidente della Società amici dell'arte cristiana. Fu,
soprattutto, presidente dei due congressi nazionali che
riunirono, in quel periodo successivo alla crisi dell'Opera fino
alla guerra mondiale, i cattolici organizzati: quello di Genova,
nel 1908, sulla scuola, che ebbe un accentuato carattere
politico e quello di Modena, nel 1910. A Modena ebbe un ruolo
decisivo venne addirittura indicato come "il messo pontificio ed
egli stesso affermò di essere "il cancelliere del congresso".
L'opera del C. ebbe, del resto, "la incondizionata approvazione
della Santa Sede", per le osservazioni fatte nel discorso
conclusivo, in cui ricordò che "il vero carattere distintivo dei
cattolici italiani sarà il riconoscimento delle altissime
ragioni della Santa Sede alla propria indipendenza".
Dopo essere stato eletto, nel 1912, membro del consiglio
direttivo della Unione elettorale, con l'avvento al pontificato
di Benedetto XV, che gli conferì la commenda di S. Gregorio
Magno, entrò anche nel consiglio direttivo dell'Unione popolare
e in quello della Società per la diffusione della buona stampa.
Non mancò di rimanere solidamente legato alle iniziative del
Grosoli. Tra i fondatori e consigliere della Società editrice
romana, il C. operò per affermare la linea dei giornali del
trust, che nel 1912 vennero riconosciuti non "conformi alle
direttive pontificie", e per superare i difficili rapporti con i
periodici cattolici strettamente ossequienti alle disposizioni
della Santa Sede. Alla vicenda del trust della stampa cattolica
il C. prese parte fino alla sua conclusione. Dopo la
liquidazione della Società editrice romana, nel 1916 venne
eletto presidente dell'Unione editoriale italiana, la società
anonima che la sostituì, mantenendo la carica sino alla fine del
1917, quando anche questa venne messa in liquidazione.
Ripresa la parte di modesto scrittore, che dovette trascurare
alquanto negli ultimi tempi", assunse dopo la guerra,
nell'ottobre 1919, la direzione de Il Cittadino, mantenendola
sino al 1924, ma dal giugno 1923, per la sua posizione politica,
affiancato da Alfredo Rota. Dal 1927 al 1930 diresse Il Momento.
Il C. contribuì alla fondazione e al consolidamento del Partito
popolare italiano, sostenendo inizialmente la direzione del
partito. Durante il congresso di Bologna (1919), in due
interventi, ebbe modo, tuttavia, di chiarire come intendesse la
linea e la centralità del partito e la sua collocazione rispetto
al mondo cattolico.
Nel primo caso, parò "con grande abilità", per incarico della
direzione del partito, la "mossa" da destra di Reggio d'Aci, il
quale, riecheggiando "preoccupazioni vicine alla Civiltà
Cattolica", aveva proposto, "con apposito ordine del giorno",
che il Partito popolare "impostasse nel Paese il dibattito
intorno alla posizione intollerabile fatta alla Santa Sede". Il
C., scelto perché "non poteva essere sospettato di minore
devozione verso la S. Sede", dichiarò "la precisa volontà del
partito a non voler coinvolgere nella propria azione la
responsabilità nettamente distinta dell'autorità ecclesiastica".
Nel secondo caso, prese la parola nella discussione sulla
tattica elettorale (relazione Cavazzoni), non a caso
immediatamente dopo l'intervento di Guido Miglioli, sostenendo
la tendenza media. Ribadita la posizione di principio del
partito "contro qualunque forma di liberalismo" cioè la sua
tradizione intransigente, si preoccupò di chiarire che si doveva
"evitare il linguaggio dei socialisti", con i quali "non abbiamo
comuni ... le finalità". Contrapponendosi all'errata "illusione
dell'on. Miglioli, che il liberalismo sia finito", sottolineò,
con ciò recuperando l'esperienza clerico-moderata, il "glorioso
patrimonio da mantenere", che escludeva l'opportunità "di
prendere atteggiamenti per i quali non sia possibile
differenziarsi dal socialismo". Concluse con una significativa
osservazione sulla natura e sulla funzione del partito popolare:
"la coscienza che noi abbiamo della nostra dignità cristiana dia
alla direzione un senso distinto di condotta e di sistemi.
Partito popolare italiano e non partito popolare cristiano: se
il nostro partito deve restringersi al proletariato cristiano
nessuno di noi qui, oggi, avrebbe il diritto di parlare. Il
partito popolare italiano è il partito di tutte le classi
cristiane, le quali vogliono arrivare alla loro meta senza
cadere negli errori del liberalismo da una parte e del
socialismo dall'altra".
In questo modo, il C. non scelse il terreno dell'autonomia
rispetto agli obiettivi di riforma e di modernizzazione della
società italiana. Solo interessato a tutelare, comunque, gli
interessi immediati della Chiesa, secondo le possibilità e le
convenienze del momento. Finì per attribuire alla nuova
struttura politica una funzione meramente transitoria e
strumentale, anticipando, tra l'altro, posizioni e atteggiamenti
che avrebbe assunto in seguito. Il prestigio e la notorietà da
lui raggiunti, non solo in campo cattolico, ricevettero una
conferma nelle elezioni del 19 nov. 1919. Candidato in due dei
quattro collegi piemontesi, riuscì primo degli eletti a Torino
con una notevole affermazione personale e primo dei non eletti a
Cuneo. Alla Camera, il C. sedette per una sola legislatura: non
ripresentatosi candidato nelle elezioni politiche del maggio
1921, il 16 ott. 1922 venne nominato senatore.
Nel 1923, dopo il congresso di Torino, l'uscita dei popolari dal
governo Mussolini, l'attacco del Corriere d'Italia a don Sturzo
e le successive dimissioni del sacerdote siciliano da segretario
del partito, l'approvazione della legge Acerbo, grazie alla
divisione del gruppo parlamentare popolare, e l'espulsione, tra
gli altri, di Paolo Mattei Gentili, insieme con la "radiazione"
del Corriere d'Italia dagli organi di stampa aderenti al partito
popolare, seguì gli amici della tendenza cattolico-nazionale,
dimettendosi, alla fine di luglio, dal partito con Grosoli,
Santucci e altri senatori. L'uscita del C. e degli altri
contribuì a chiarire che il partito popolare era dalla S. Sede
"considerato come un ostacolo alla tutela degl'interessi
cattolici". Senza dubbio il C. aveva fiutato, intuito, precorso
i desideri, anticipato la loro realizzazione (Jemolo), ma
rappresentava anche interessi diversi da quelli della Chiesa,
garantiti invece dal fascismo. E al fascismo da quel momento
rese segnalati servizi: a cominciare dalla redazione del
manifesto che centocinquanta "personalità cattoliche"
sottoscrissero in vista delle elezioni del 6 apr. 1924 per
appoggiare la lista nazionale. Tuttavia, anche negli anni
successivi, rispondendo alle polemiche e, più, redigendo
numerosi articoli per sostenere la necessità e la possibilità
della conciliazione, il C. riconfermò sostanzialmente la scelta
fatta. Membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione
nel 1923-1924, prese parte attiva ai lavori del Senato. Nella
XXVI legislatura (11 giugno 1921-10 dic. 1923) fece parte,
dall'8 febbr. 1923, dell'ufficio quinto e, dal 23 maggio 1923,
dell'ufficio settimo venne, inoltre, nominato membro della
commissione per l'esame della legge sull'istituzione di una
Cassa di maternità. Nella XXVIII legislatura (29 apr. 1929-19
genn. 1934) fece parte della commissione speciale per l'esame
dei patti lateranensi, presentando l'ordine del giorno di
approvazione, e, dal 7 dic. 1932, della commissione consultiva
"per la determinazione degli enti che possono proporre candidati
alle elezioni politiche". Nella XXX legislatura (23 marzo 1939-5
ag. 1943) fu, fino al 20 genn. 1940, membro supplente della
commissione d'accusa e, dal 17 apr. 1939, membro della
commissione dell'educazione nazionale e della cultura popolare
come tale, relatore del disegno di legge su "Modificazioni alla
costituzione delle commissioni di revisione cinematografica" (5
maggio 1939) e oratore del disegno di legge su ("Modifiche alla
disciplina dei premi letterari" (16 maggio 1940).
Numerosi e spesso incentrati su rilevanti temi politici i suoi
interventi. Essi documentano le contraddizioni e le ambiguità
del C., critico talora del fascismo, ma costantemente in linea
nel sostenere le ragioni del regime. Si possono ricordare
l'intervento dell'8 giugno 1923, sul disegno di legge per
l'esercizio provvisorio, in cui colse l'occasione per dire che
la sua collaborazione col governo doveva intendersi come "un
dovere della propria coscienza", poiché il governo garantiva il
ritorno "al sentimento della tradizione, anche spirituale,
italiana, dopo molti e molti anni in cui il concetto di patria,
anche da coloro che più ardentemente lo professavano era stato
molto ristretto" quello del 13 novembre successivo, per
sostenere la legge Acerbo, al fine "di aiutare il Governo nella
sua grande opera di assestamento e di pacificazione nazionale",
con un provvedimento che, "per la prima volta", portava
all'affermazione dei "diritti di un Governo di fronte ai corpi
elettivi", con un duro colpo alla "storia parlamentare d'Europa"
non senza soddisfazione del C., che concepiva il governo come
"uno dei primi organi legislativi" quello del 25 giugno 1924,
critico con il governo dopo il delitto Matteotti. In questa
occasione, come in seguito negli interventi fatti nel corso
della XXVII legislatura - ben dieci: due nel '25 cinque nel '26
tre nel '28 - insisterà sullo stesso concetto: il governo e il
suo capo godevano la fiducia sua, del Senato e del paese e non
dovevano avere alcun timore nell'affrontare libere elezioni, né
delle future opposizioni, purché assicurassero "in pieno
l'ordine pubblico", cioè tenessero imbrigliato "il partito
fascista che, perdendo il Governo, perderebbe la maggior
disciplina e potrebbe quindi diventare un elemento pericoloso
per il paese". L'appoggio del C., naturalmente, non mancò mai ai
provvedimenti che garantivano, a suo parere, "il restauro della
sincerità del carattere nazionale". È il caso delle misure
repressive contro le società segrete, specie la massoneria è il
caso dei provvedimenti sulla cittadinanza e di quelli per
l'istituzione del podestà e delle consulte municipali.
Nel 1926 il C. definiva Mussolini "il protetto della Divina
Provvidenza", per affermare, in modo veramente infelice, specie
se si considera il contesto, che "Essa [la Divina Provvidenza]
vi ha dimostrato palpabilmente l'amor suo, ed ha così raccolto e
avvalorato l'amor nostro il mezzo di propiziarvela ancora:
quello di seguire le vie sue, le vie della giustizia" a nome
delle "cinquanta e più banche cattoliche d'Italia" esprimeva il
compiacimento per il "sospirato riassetto della moneta"
rifacendosi a Giuseppe Toniolo e alla dottrina
cristiano-sociale, il C. motivava l'approvazione della riforma
della Camera, confermando in polemica con i "parlamenti
discendenti dalla rivoluzione francese", la bontà di una
rappresentanza organica della nazione.
In linea con gli sviluppi del regime e con le facoltà concesse
al Senato, nella legislatura successiva, il C. aveva modo di
intervenire su un tema di rilievo quale quello relativo ai patti
lateranensi, mettendo in luce soprattutto gli aspetti
restauratori che caratterizzavano gli accordi con la S. Sede.
Dopo un intervallo di tre anni, dal 24 maggio 1929, il C.
riprendeva la parola al Senato, ma su temi particolari anche se
non secondari: il 17 maggio 1932, per raccomandare allo Stato
educatore la necessaria armonia del "libro" e del "moschetto" e
dello Stato e della famiglia il 29 marzo 1933, sulla riforma del
regolamento del Senato il 6 giugno 1933, in favore delle
popolazioni dell'alta montagna nella successiva legislatura (la
XXIX), il 4 dic. 1934, sulla costituzione della Giunta centrale
degli studi storici il 17 dic. 1936, sui lavori di conservazione
e restauro della basilica di S. Marco il 23 dic. 1936, per
dichiarare il proprio voto contrario all'apertura del casinò di
Venezia il 10 dic. 1937, per illustrare, in polemica con
analoghi provvedimenti di altri paesi, i caratteri eminentemente
religiosi del contributo del governo all'Associazione per il
soccorso dei missionari italiani istituita dallo Schiaparelli il
15 dic. 1937, sull'istituzione del Centro nazionale di studi
manzoniani di Milano infine, il 20 dic. 1938, per dichiarare il
proprio voto "serenamente" favorevole ai provvedimenti per la
difesa della razza italiana, pur raccomandando molta
ponderazione nell'esecuzione, di scoraggiare gli "zelanti", di
evitare "ogni scalfittura", dei patti lateranensi.
Continuò a scrivere molto: agli articoli su vari quotidiani (Il
Corriere della sera, Il Resto del Carlino, La Stampa, L'Italia)
e riviste, aggiunse, nel corso degli anni Trenta, la
pubblicazione di vari libri di memorie e di saggi.
Tra le sue opere, oltre a quelle direttamente attinenti al
movimento cattolico, si vedano: Poesie, Bologna 1900 Il Duello,
Milano 1900 I cattolici nelle elezioni politiche, Roma 1900
Giosuè Carducci, Pavia 1907 Quistioni vitali. Discorsi, Roma
1908 Don Bosco, Torino 1911 Antonio Fogazzaro. Discorso, Vicenza
1911 Il rinnovamento dell'educazione, Roma 1919 Minuzie
manzoniane, Napoli 1919 Rimpianti, Milano 1922 S. Luigi Gonzaga,
Mantova 1924 Grandi anime. Discorsi commemorativi, Roma 1925 Le
più belle pagine di Antonio Fogazzaro, Milano 1928 Pio IX, Leone
XIII, Pio X, Benedetto XV. Ricordi personali, Milano-Roma 1932
Corone e porpore. Ricordi personali, Milano 1936 Politici,
guerrieri, poeti. Ricordi personali, ibid. 1938 Indagini sopra
il Manzoni, ibid. 1940 Alla scuola di Dante, Firenze 1947
(postumo).
Fu legato da lunga e affettuosa amicizia con Antonio Fogazzaro,
di cui "rivendicò ... la purezza degli intenti", pur dissentendo
"dal vicentino a proposito di talune situazioni sentimentali
rappresentate nei romanzi, capaci di turbare le coscienze e più,
a cagione degli atteggiamenti ultimi a favore del Modernismo"
(Novelli).
Morì a Roma il 2 marzo 1942.