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di Flavio Catenazzi
1. La vita e la scrittura
Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz, 1861-1928), triestino di
nascita, europeo per formazione (sostanzialmente da autodidatta), fu
infaticabile nell’esercizio della penna: uno scribacchiare che
è quasi una misura d’igiene (Palumbo 1976: 18) e trova
riscontro nei segreti cerimoniali di certi suoi personaggi
romanzeschi (Lavagetto 1975: 32).
Vari furono i generi e le forme in cui egli si cimentò:
commedie, abbozzi drammatici, saggi (Svevo, 2004c), diari, articoli
di giornale, favole, apologhi e, soprattutto, prosa narrativa. Su
questo versante, oltre ai racconti che abbracciano tutto il periodo
dell’attività letteraria di Svevo (da Una lotta, 1888, al
frammento de Il vecchione, 1928), si collocano i tre romanzi: Una
vita (1892), Senilità (1898) e, più distanziato nel
tempo, La coscienza di Zeno (1923).
Legati dalla stessa tematica, quella autobiografica, i romanzi di
Svevo condivisero lo stesso destino: l’insuccesso editoriale e di
critica dapprima, il riconoscimento pubblico più tardi. Tra
l’uno e l’altro estremo mezzo secolo e più di vivace
dibattito letterario: tanto occorse perché la querelle
sollevata da chi ravvisava nelle sue pagine una scarsa competenza
linguistica (in quanto egli non era di madrelingua italiana) venisse
risolta e definitivamente archiviata fra i casi più clamorosi
del secolo. Con questo non si vuole dire che non si debbano
riconoscere incertezze e dissonanze grammaticali nella lingua di
Svevo; semmai c’è da precisare che, tutte le volte che si
è toccato questo argomento, lo si è fatto su campioni
saltuariamente prelevati, che non potevano certo dare conto del
sistematico e dell’occasionale, e ancora dell’accettato e del
rifiutato e del trascurato nella frequentazione con scrittori,
grammatici, lessicografi. In anni recenti, l’attenzione rivolta
all’intero corpus narrativo sveviano, al travagliato processo
compositivo ed elaborativo testimoniato dalle carte d’archivio (per
i romanzi, in assenza di manoscritti, dalle edizioni a stampa), ha
contribuito a gettare nuova luce su un aspetto nodale come quello
della lingua (Catenazzi 1994: 7).
L’immagine che ne esce è quella di una prosa essenzialmente
anticlassica, non tanto perché manchi di ricercatezza formale
o perché si avvicini troppo arditamente alla lingua di tutti
i giorni, quanto per la sua mescidazione di toni e registri, per la
sua disinvolta (forse inconsapevole) varietà e libertà
espressiva: «Almeno non si ha da fare con un sistema»,
dice Alfonso, il protagonista di Una vita alla sua (poco
volonterosa) allieva Lucia Lanucci, dopo aver deciso di mettere da
parte Puoti, perché «mortalmente» noioso,
sostituendolo con Tommaseo (Svevo 1985: 83). Né poteva agire
altrimenti uno scrittore come Svevo, attento osservatore dei fatti
linguistici ma alieno da qualsiasi teorizzazione; in definitiva,
«un uomo che si dilettava di scrivere» (Benco 1929: 49),
ma che pure coltivava la speranza (si legge in un suo articolo
apparso nel 1884) di «coricarsi sconosciuti e forse
disprezzati e svegliarsi destati dalla celebrità in
persona».
2. La lingua
Molti dei fenomeni evidenziati, e sempre apparsi ai critici come
stravaganti, soluzioni ibride prodotte da uno scrittore che pensava
ora in tedesco ora (quando gli faceva comodo) in triestino, si
rivelano però assai diffusi nell’italiano tra Ottocento e
inizio Novecento: l’alternanza tra scempie e doppie (ubbriacare e
ubriacare, innoltrare e inoltrare; scempiamento), la i prostetica
davanti a s + consonante (per istrada), l’uscita in -a nella prima
persona singolare dell’imperfetto indicativo, le forme stieno, dieno
e, per i pronomi, desso, niuno (accolte ancora da molte grammatiche
dell’epoca), vi locativo equivalente di «ci», ecc.
La sopravvivenza nelle pagine sveviane di alcune forme (i
monottongati move, core; cui come complemento oggetto), il cui
impiego era fortemente radicato nel linguaggio poetico (Serianni
2009: 58), si spiega con l’assenza per la prosa narrativa di una
tradizione, di una filiera (cfr. Mengaldo 1994: 136), e dunque di un
punto di riferimento forte cui rifarsi.
C’era sì il modello manzoniano (manzonismi), che però
i più rifiutavano perché imponeva la lingua di una
regione, la Toscana, non più sentita come approdo salvifico
in un’Italia ormai variegata e decentralizzata linguisticamente,
dove forte era anche la spinta disgregatrice dei dialetti.
Sull’altro fronte, la lezione dannunziana era troppo alta
perché vi si cimentassero scrittori che avevano come
ambizione quella di conquistare larghe fasce di pubblico, il quale,
restìo ad avvicinarsi alle proposte avanguardistiche della
cultura vociana e rondista, vedeva ancora nel romanzo oltre che
un’occasione di evasione anche quella di acculturarsi.
La grammatica un po’ eclettica di Svevo trova giustificazione in
questa situazione di confusione, di incertezze, e non ha dunque
nulla di eccezionale. Eccezionale è semmai l’alta percentuale
di allotropi e di doppioni colti presenti nelle sue pagine,
assunti senza un preciso programma di scrittura, senza cioè
funzione caratterizzante o mimetica: guatare e guardare, debbo e
devo, egli e lui, ella o essa e lei per la prima serie; alzarsi e
levarsi, portare e recare, mostrare i denti e digrignare i denti,
per la seconda.
La sintassi della preposizione e della reggenzaè di gran
lunga il settore più tormentato della prosa sveviana, quello
più esposto a interferenze dialettali e popolari (scambio di
per da in «fu spaventato dall’effetto»; su con valore
locativo, come in «si trovò sul corridoio»;
costrutti del tipo «gettare in carta [un concetto]» per
«trascriverlo»), o a influsso francese («si
rifiutò a dirlo», «obbligato di trattare»).
Più spesso, però, si tratta della difficoltà di
Svevo ad adeguarsi a usi non ben posseduti, e a volte fluidi
(è il caso degli infiniti soggettivi retti dalla preposizione
di), con possibili sconfinamenti nell’irregolarità:
«Quel giovinotto […] apparteneva evidentemente e a vantaggio
di tutti, nell’ufficio di Guido»; «l’avrebbe pregata di
posare al Balli», cioè di «farsi ritrarre».
A Trieste più che altrove l’attaccamento alla tradizione
letteraria nazionale era forte e ha condizionato le scelte
linguistiche e stilistiche degli scrittori: di qui la consistenza di
quel fenomeno dell’ipercorrettismo (congiuntivo per indicativo,
passato remoto per passato prossimo) che è così
tipico di Svevo come anche di Silvio Benco, e prima ancora (sempre
restando nell’area triestino-veneta) di Ippolito Nievo. Di qui anche
l’abbondanza di termini letterari e toscanismi (ambascia, bruttare,
cribrare, suggere, avviliente, la dimane, nimbo, ecc.), molti dei
quali sono «inerziali» (Mengaldo 1994: 139), attinti per
via libresca secondo un procedimento a quei tempi diffuso e
particolarmente raccomandato a chi volesse appropriarsi della buona
lingua (come Alfonso, che «leggeva e rileggeva, instancabile
un trattatello di retorica contenente una piccola antologia
ragionata di autori classici»). La loro frequenza anche nei
testi teatrali di Svevo (cfr. Trifone 2007: 121), oltre che nei
piani bassi della sua produzione, quella privata delle lettere alla
moglie («Ottavio urge che io cessi di fumare»; Svevo
1966: 548), testimonia allora di un usus scribendi che si affida
spesso e volentieri alle associazioni casuali e istintive, le uniche
(per dire con Zeno) in grado di generare delle idee.
Scrutata da una prospettiva diacronica, la resistenza che la prosa
sveviana oppone ad arcaismi e forme letterarie non è
però uniforme: minima nella produzione giovanile, quella
giornalistica e saggistica del decennio 1880-1890 (quasi certamente
per influsso della lezione dei classici, con i quali lo scrittore
intratteneva quotidiani colloqui nelle ore serali trascorse alla
Biblioteca civica di Trieste), diventa più marcata nella
stagione successiva, in corrispondenza con la stesura dei romanzi
(in queste pagine, infatti, percentualmente inferiori di numero
sono, per es., i casi di uscita in -a all’imperfetto
dell’indicativo). I trent’anni che intercorrono tra la pubblicazione
del primo romanzo e La coscienza di Zeno sembrano invece non
produrre nessuna ‘risciacquatura’ sostanziale. Semmai la
novità si coglie nel progressivo abbassamento del tasso di
ibridismo linguistico, che in Una vita costituiva la marca dominante
e caratterizzante: se si guarda alla tinta dialettale o popolare, si
vede che alcuni fenomeni morfosintattici più significativi
(il settentrionale, e soprattutto veneto, su usato come ‘particella
spaziale’ legata a un verbo, l’uso pleonastico di a davanti
all’infinito in dipendenza da verbi di percezione) spariscono o
vengono attutiti.
Uno sfoltimento non dissimile per intensità si verifica nel
repertorio delle voci attinte ai vari linguaggi specialistici (in
modo particolare quello burocratico-amministrativo, a Svevo molto
familiare essendo egli stato per anni impiegato alla Banca Union di
Trieste), e nel contingente dei francesismi (canapé,
feticismo, gazometro, teletta), la cui presenza nel testo di Una
vita si giustifica con la disinvoltura con cui lo scrittore si era
avvicinato, in gioventù, ai suoi auctores, come Émile
Zola, ma anche, tra i filosofi tedeschi, Arthur Schopenhauer (che
leggeva nella traduzione francese: cfr. Lepschy 1984: 105).
Che il rispetto della langue, dell’istituto linguistico sicuro e
affidabile, non sia mai stato per Svevo un’esigenza primaria
è confermato dalla vicenda delle varie stesure ed
elaborazioni: in Senilità, l’unica opera che fu ripubblicata
(nel 1927) dopo essere stata sottoposta a revisione formale, tutte
le correzioni, dovute in parte a consulenti esterni (il genero
Antonio Fonda Savio e il professor Marino Szombathely), riguardano
in modo particolare l’aspetto grammaticale, come le preposizioni,
nel tentativo di regolarizzarne l’impiego secondo la prassi
più convenzionale, mentre il lessico è toccato nei
suoi anacronismi di origine libresca, e in qualche parola troppo
compromessa con la parlata regionale, come schenale; che era poi
l’unico concreto partito cui Svevo poteva attenersi in risposta al
rilievo di scrivere male («Mi secca un poco di vedermi
continuamente gettati sulla testa Rigutini e Fornaciari»,
scrive a Eugenio Montale nel 1926; Svevo & Montale 1976: 13).
L’impressione che l’operazione fosse dettata da coartazioni esterne
piuttosto che frutto di persuasione profonda dell’autore è
dimostrata dal fatto che essa non viene condotta sistematicamente
né in modo sempre coerente (Sarzana 1977: 361); nemmeno il
maquillage, a volte tortuoso, effettuato sui racconti coevi, come
Vino generoso, sembra aver prodotto effetti rilevanti, se (come si
ricava dalla lettura dell’apparato delle varianti approntato da
Bertoni in Svevo 2004b: 889 segg.) si oscilla vistosamente tra forme
desuete, arcaismi attardati e spinte modernizzatrici.
Per La coscienza di Zeno Svevo si dice disposto ad accettare la
consulenza di Attilio Frescura, scrittore di buona lena ma di
traballante lingua, tant’è vero che sorvola su uno sproposito
come «Non ne parliamone più», corretto invece,
perché considerato un refuso tipografico, nell’edizione
critica del romanzo curata da B. Stasi (Svevo 2008: 280). Non
così remissivo invece pare sia stato nei confronti dei tagli
pure desiderati dall’editore, Licinio Cappelli: questa renitenza a
toccare la struttura stessa della vicenda, le sue sinuose e segrete
linee di sviluppo fa di Svevo uno scrittore fortemente
razionalistico, attento all’incessante ciacolar interiore dei suoi
personaggi, alla loro disposizione alla minuta analisi dei
sentimenti (cfr. Coletti 1993: 322; Testa 1997: 199).
Rivendicando il diritto di scrivere con quello stile che è
suo e di ciò che a lui pareva essenziale e notevole, egli
legittimava, insomma, la sua completa estraneità al culto del
bello e del tornito, che per gli arcadi del tempo appariva ancora
come una necessità della creazione artistica:
«Altrimenti come letterato sono veramente spacciato – confida
in una lettera alla moglie – perché non saprei neppure
esprimere quello che sento. Ho sempre avuto una certa antipatia per
la parola dolce ch’è tanto facile da vergare e che non dice
niente».