BELTRAMELLI Antonio

 

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Scrittore italiano (Forlì 1879-Roma 1930). Subì la suggestione del dannunzianesimo, innestando i miti eroici del nazionalismo nella descrizione dell'ambiente romagnolo, e divenne uno dei maggiori esponenti della cultura protetta dal fascismo. Nel 1929 fu nominato accademico d'Italia.

Giornalista e critico, Beltramelli scrisse anche libri di viaggio e per ragazzi.

Tra le sue numerose opere narrative si ricordano: Anna Perenna (1904), Gli uomini rossi (1904), Il cavalier Mostardo (1921), Il passo dell'ignota (1927).

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DBI

di Renato Bertacchini

Nacque a Forlì l'11 genn. 1879 da Francesco e da Zenobia Zampa. Diplomato in ragioneria nel 1895 a Forlì, studiò all'Istituto di scienze sociali di Firenze, conseguendovi il diploma in scienze sociali il 23 marzo 1899. Cominciò la sua attività pubblicistica collaborando a periodici romagnoli come Il Presente, fra il 1895 e il 19o5, Critica cittadina, fra il 1904 e il 1909, La Difesa, fra il 1909 e il 1912, e a periodici letterari regionali, quali La Romagna nel 1910, Il Plaustro, fra il 1911 e il 1914, La Piè, della quale fu all'inizio condirettore (1920-1924). I suoi esordi come narratore comprendono un ciclo di tre volumi di novelle, L'antica madre (Rocca San Casciano 1902), Anna Perenna (Milano 1904) e I Primogeniti (ibid. 1905).

Anna Perenna rimane una delle opere giovanili più significative del Beltramelli. La scelta del tema, cioè la Romagna, descritta con passione epico-lirica, poteva sembrare puramente regionalistica e tale da collocarsi sul piano di ritardate esperienze verghiane e dannunziane; sennonché proprio queste due suggestioni, dannunzianesimo e regionalismo, aspetti abbastanza tipici e caratterizzanti di quegli anni, venivano integrate con il gusto realistico di una tematica campestre e plebea, che andava oltre gli stessi presupposti folcloristici, per diventare piuttosto liricamente soggettiva e mitologica.

Così, dietro la guida di una antica ninfa o dea latina, Anna Perenna, nella raccolta omonima di novelle, il B. conduce l'esplorazione di una Romagna riarsa dal sole, come perduta in certo stupore panico e naturalistico, arrivando a scoprire costumanze primitive e grandiose: la sacra festa dell'agosto e l'incontro gioioso e taumaturgico con l'Adriatico (nella rustica avventura de Le figlie di Judèc); il rito vindice che ancora vige nei paesi vegliati dalle montagne e vuole spenti i traditori e le spie (e vede consumarsi la tragedia di Biarù in La spia); con figure di pastori e pescatori che nella loro selvatica rudezza assumono volto e proporzioni da semidei (nel gioco di una dionisiaca e magica trasfigurazione che investe Il dio degli uomini rudi, Il Fauno, Il vecchio della landa, Il campo delle biscie); con vampate di passione, irruenze elementari e tremende che animano i personaggi, dalla vendetta di Ardì pescatore in La nave rossa alla foga d'amore dei tre fratelli per la bellissima Anzula nei Ciechi; dalla breve e mortale dolcezza di Arabella in La cerbiatta a quella sensibilità così scoperta e acuta che uccide Azurèn, il piccolo cantore di La tribù.

Ancora ambienti e gente di Romagna entrano nel primo romanzo del B., Gli uomini rossi (Milano 1904), contemporaneo di Anna Perenna.

Sennonché anche qui si tratta di un regionalismo particolare. Quanto di acceso, di turgido, di folcloristico (mercati, fiere e banchetti romagnoli come cronaca dominante), quanto di mitico può ancora girare intorno alla facile trama di due giovani, l'uno clericale, Manso Liturgico, e l'altra, Europa, figlia del sindaco repubblicano, il matrimonio dei quali viene contrastato dalle opposte fazioni, risulta riscattato dalla vena briosa, dalla ironica e pure cordiale simpatia, con cui sono visti i repubblicani in terra di Romagna, gli "uomini rossi" appunto.

Del 19o5, edita a Bergamo, è l'inchiesta Da Comacchio ad Artegna. Le lagune e le bocche del Po, che centra il problema della pesca di contrabbando e mette a fuoco il contrasto di due categorie, quella delle "guardie vallive" e quella dei "fiocinini". Su dati di ambientazione simili si costruisce il romanzo Il Cantico (Milano 1906), specie nella prima parte, che tratteggia la vicenda di Duccio della Bella, il quale abbandona il misero impiego di avvilito travet, per il mestiere rischioso e libero del "fiocinino", del pescatore di frodo nelle valli di Comacchio.

In questa prima parte del Cantico, così diversa dalla seconda, sullo sfondo di una Roma corrotta, biblicamente maledetta, che ricalca il peggiore estetismo dannunziano, il paesaggio nebbioso della laguna, tra le ombre sinistre delle "casone" e i canali, al tempo delle prime burrasche novembrine, risulta per molte pagine tradotto direttamente e giornalisticamente dal vero.

Le prime prove del B. giornalista e narratore, se registrarono un buon successo di pubblico, lasciarono in gran parte diffidente o almeno perplessa la critica. Tanto che, ancora nel 19o8, dopo l'avvenuta pubblicazione di Anna Perenna, di Gli uomini rossi e del Cantico, Renato Serra in un saggio famoso poteva rimproverare al B. l'esuberanza descrittiva e lo pseudorealismo, compromesso per di più da uno stile volontaristico e inadeguato.

Il fervore avventuroso che lo spingeva, in qualità di giornalista e di inviato speciale, a lunghi viaggi europei ed extraeuropei (come redattore viaggiante del Corriere della sera pubblicò dal 1907 al 1910 corrispondenze dalla Norvegia, dalla Grecia, dal Nord Africa, che costituiscono il materiale di alcuni suoi libri, da L'ombra del mandorlo a Fior d'uliva), la molteplicità sempre entusiastica delle esperienze che lo faceva rivolgere contemporaneamente alla poesia (con i Canti di Faunus, Firenze 19o8, e Solicchio, Milano 1913) e al teatro (con Le vie del Signore, ibid. 1926) contribuirono a farne un convinto interventista alla vigilia della guerra mondiale e quindi, scoppiato il conflitto, ufficiale e valoroso combattente.

Finita la guerra del 1915-1918, il B., che aveva già partecipato a quella libica come corrispondente e che condivideva le aspirazioni nazionalistiche, aderì al fascismo, prima ancora che ne avvenisse la fusione col partito nazionalista in considerazione di quelle tendenze repubblicane, anarchiche e democraticheggianti che credeva di scorgere nelle sue prime manifestazioni. Neppure in seguito, del resto, l'impegno nazionalistico, offeso per la cosiddetta vittoria mutilata, avrebbe indotto il B. a un cambiamento di rotta, a una presa di posizione critica nei riguardi del falso ed equivoco programma nazional-popolare del fascismo. Nella sua partecipazione alle polemiche del dopoguerra, il B., che rifiutava la "politica dei castrati montoni, da Depretis a Giolitti", si sentiva, nel suo culto per la "patria grande", di fronte "al dilagare del carnevale democratico", quale continuatore di Oriani. Sennonché, mentre Oriani, nel suo fondo più genuino, era davvero legato alla tradizione della sinistra democratica mazziniana, la passione fascista del B. trovava un avallo e una investitura predominante nella solidarietà, nella complicità romagnola e campanilistica con Mussolini.

Due opere in questo senso restano significative e pertinenti: il romanzo Il Cavalier Mostardo (Milano 1922), come prosecuzione del giovanile Gli uomini rossi, e il volume liricamente biografico su Mussolini, dal titolo L'uomo nuovo (ibid. 1923). Per quest'ultimo, per il profilo evocativo del "duce", né migliore né peggiore di tante altre monografie su Mussolini destinate poi a moltiplicarsi nel ventennio, e del quale la stampa del regime sopravvalutò la portata, basterà ricordare il giudizio osannante e clamoroso di V. Piccoli, che, nel leggerla, ripensava "di pagina in pagina a Tiziano o a fra' Galgario", e per la violenza di certe espressioni credeva di dover ricordare la "somma potenza espressiva del Buonarroti".

Quanto al Cavalier Mostardo, come personaggio, come repubblicano "puro sangue", solido e irruente, era già vivo nel precedente Uomini rossi. Lì, anzi, era riuscito a stipulare un regolare contratto di nozze tra i due adolescenti, Manso ed Europa, contribuendo al felice trionfo de "La Ripoblica". Nel nuovo romanzo, gli avversari dell'"uomo rosso" Cavalier Mostardo non sono i clericali, ma i "gialli", i socialisti delle prime leghe operaie, che attentano, nelle campagne, ad uno dei "migliori istituti" d'Italia, la mezzadria, avvantaggiati da una parte dal neutralismo di Giolitti e del governo e dall'altra dalla connivenza del liberale Luzzatti. E se non fosse la facile requisitoria di certi pseudo giudizi su Turati e Treves, su Marx e Stirner, su plusvalore, mezzadria e fatti economici, con l'aggravante di una maniera impulsiva e definitoria, mutuata dal malcostume dei fogli nazionalisti e fascisti, avremmo una cronaca romagnola, densa e vivace, avremmo la lotta di classe trasferita nel novero degli interessi e delle vendette paesane.

Per Il Cavalier Mostardo e L'uomo nuovo non mancò al B. il riconoscimento e il plauso di Mussolini. Militante nei ranghi del partito fascista, console della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, firmatario nel 1925 del manifesto degli intellettuali fascisti promosso da G. Gentile, il B. diventò uno dei maggiori e più qualificati rappresentanti della cultura protetta dal regime. Anche se una sincera passione per l'arte gli salvarono certa dignità e indipendenza letteraria, unitamente a un senso pessimistico della vita, sofferto e irriducibile.

Romagnolo fu il temperamento dell'uomo, romagnola la sua personalità. Tipicamente romagnola anche la sua prediletta dimora quella celebre "Sisa", una vasta costruzione a mezza strada tra Forlì e Ravenna, in frazione Coccolìa, che poteva sembrare una specie di Capponcina dannunziana, per certi abbellimenti, certe rifiniture e arredi bizzarri, in stile tra romagnolo e nipponico, ma rimaneva in realtà una robusta e vecchia casona della piana, schiettamente romagnola, con gli epigrammi, i distici, i motti dipinti dal faentino Luigi Emiliani.

Tra il 1922 e il 1925 i suoi soggiorni alla "Sisa" si fecero più frequenti. Qui, nei suoi possedimenti romagnoli, lo scrittore "fascista" viveva mesi di solitudine, con un sincero compiacimento per il suo ruolo di gentiluomo-agricoltore; e alla "Sisa", nel 1925, portò Yoshiko-San, una giapponese che diventò sua moglie.

Il quinquennio che precede la morte del B. è un periodo di intensa attività. Direttore de La rivolta ideale (1925-1926), organo ufficiale della "Gioventù universitaria", fondatore e condirettore de Il raduno (1927-1928), settimanale dei sindacati fascisti degli autori e scrittori, redattore ordinario per le lettere del Popolo d'Italia, il B. scrisse tra l'altro due nuovi romanzi diversamente importanti, e che valgono a definirne ulteriormente la fisionomia: Fior d'uliva (Milano 1926) e Gli Antuni. Il passo dell'Ignota (Milano 1927).

In Fior d'uliva, come del resto nel precedente L'ombra del mandorlo (ibid. 1923), fa le sue prove estreme un B. di maniera, distratto dietro situazioni preziosamente estenuate, amori viziati da uno pseudo-estetismo languido e corrotto; il tutto complicato da un insopportabile commentare e ricommentare episodi, gesti e figure, nella pretesa di sublimarli come fatti eccezionalmente riservati ed eletti. Diverso e senz'altro migliore è Il passo dell'Ignota. Ancora un romanzo a sfondo politico, che riprende la polemica contro il socialismo dilagante nelle campagne. Qui la cronaca diventa più viva, i personaggi e gli ambienti sono meglio delineati. Certo, i socialisti delle leghe sono sempre presentati dalla parte dei "cattivi", ma le loro gesta precipitano nella narrazione diretta di alcuni forti e realistici episodi.

Questo è il migliore B., che tratteggia figure vigorose e patriarcali di uomini romagnoli, che sa abbandonarsi alla figurazione gentile di fanciulle e di bimbi. Il B., dietro la nostalgia di un sogno perenne, riesce a placarsi, a redimersi in una sorta di limpida castità espressiva. Questo si può dire anche per tutto un gruppo di libri nati dai suoi interessi per la letteratura infantile (da ricordare anche in questo senso, la fondazione e direzione del Romanzo dei piccoli, 1913-15, e del Giro giro tondo, 1921-24); libri delicatissimi e schietti dedicati ai fanciulli, da L'albero delle fiabe (Firenze 1910), al Piccolo Pomi (ibid. 1915), da Le gaie farandole (ibid. 1921) a La Signorina Zesi (ibid. 1921).

Nominato accademico d'Italia per la sezione lettere il 18 marzo 1929, morì a Roma l'anno successivo, il 15 marzo 1930.