FERRI, Enrico

 

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Nacque a San Benedetto Po, in provincia di Mantova, il 25 febbr. 1856 da Eraclio e da Colomba Amadei. Frequentò il liceo classico "Virgilio" di Mantova, dove ebbe come insegnante R. Ardigò, massimo esponente del positivismo italiano, che esercitò grande influenza sulla formazione del giovane Ferri. Anche presso l'università di Bologna, dove il F. studiò giurisprudenza, visse in un ambiente ricettivo alle tendenze positivistiche. Laureatosi nel 1877 con una tesi su La teorica dell'imputabilità e la negazione del libero arbitrio (Bologna 1878), frequentò un corso di perfezionamento in diritto penale all'università di Pisa sotto il magistero del noto criminalista F. Carrara.

Nel 1879 il F. si trasferì a Parigi per un ulteriore approfondimento dei suoi studi presso la Sorbona; da questo soggiorno scaturì il volume Studi sulla criminalità in Francia dal 1825 al 1878 (Roma 1881). Al ritorno in Italia iniziò per lui una prestigiosa carriera universitaria, che lo vide docente di diritto penale a Bologna, Siena, Pisa e Roma, e un'altrettanto brillante carriera professionale, che lo vide protagonista di famosi processi. Fu proprio per il ruolo avuto nel processo, svoltosi a Venezia dal 19 febbraio sino al 27 marzo 1886, contro gli animatori del moto contadino de "La boje", che il F. assurse a notorietà nazionale. I contadini mantovani, da lui difesi, vennero assolti ed egli, oltre all'apprezzamento degli ambienti democratici, si guadagnò la fama di "socialista", grazie alla quale venne candidato al Parlamento dalla Società democratica radicale mantovana con il sostegno di un ampio schieramento politico.

Chi, a quel punto, si attendeva dal F. un'esplicita adesione al socialismo dovette tuttavia rimanere deluso davanti all'affermazione con cui egli si autodefiniva "sociologo evoluzionista"; "sociologo - spiegò nel suo primo discorso elettorale - perché io non solo come scienziato, ma soprattutto come uomo politico studio la società, organismo naturale, che ha le sue leggi di sviluppo naturale... Evoluzionista, perché io credo che la legge di evoluzione graduale domini sovrana così nell'ordine scientifico come nell'ordine politico" (La Nuova Mantova, 20 maggio 1886).

In aperto contrasto con il principio socialista della lotta di classe affermava inoltre di perseguire "l'ideale della concordia tra tutte le classi sociali" (ibid.). Queste affermazioni traducevano del resto i concetti espressi dal F. in Socialismo e criminalità (Torino 1883), un saggio in cui si evidenziava la stretta connessione tra la sfera scientifica e quella politica. Nonostante ciò, il forte ascendente che la personalità del F. esercitava indusse gli ambienti socialisti a ritenere quelle posizioni non inconciliabili con il socialismo e a sperare comunque in una positiva chiarificazione, in tempi ravvicinati, da parte dello stesso Ferri.

Alla luce di quanto detto, il F. di questo periodo può, a ragione, essere annoverato "fra i democratici legalitari e timidamente riformatori e progressisti" (Cavazzoli, p. 22), considerando poi che, entrato alla Camera, egli volle aderire a quel gruppo di radicali non ostili alla monarchia (egli considerò sempre di scarso rilievo la questione istituzionale) e alla proprietà privata. Convinto che le questioni sociali fossero preminenti rispetto alla politica, auspicava un riformismo a piccole dosi, attraverso il quale sarebbero migliorate le condizioni del popolo.

Sulla scena politica il F. non vedeva allora alcun partito in grado di perseguire un programma in sintonia con i suoi convincimenti: "Egli sogna "un nuovo partito radicale", un partito (così egli dice) "positivista" ancora di là da venire. Nell'attesa si colloca in una posizione equidistante dall'Estrema e dalla Sinistra; e "non potendo naturalmente trovar[si] colla pentarchia" si rassegna, per il momento, a restarsene "isolato". Già par di intravedere, in questo "radicale con riserve", un atteggiamento ondeggiante e un po' confusionario, e una disponibilità ai voltafaccia politici, della quale darà ripetute prove nel corso della sua lunga carriera" (Galante Garrone, p. 221). In vista del congresso democratico, dal quale uscì il patto di Roma del 13 maggio 1890, il F. si impegnò affinché nel programma radicale avesse una maggiore accentuazione la parte sociale, intervenendo in tal senso su F. Cavallotti, che accolse le sue sollecitazioni.

Nello stesso periodo diede un contributo importate alla crescita organizzativa del movimento contadino e cooperativo nel Mantovano. Dopo che nel 1892 era stato costituito il Partito dei lavoratori italiani (dal 1893 Partito socialista italiano: PSI) anche le organizzazioni dei lavoratori mantovani furono chiamate a decidere sull'adesione al nuovo partito. Nel corso di un'assemblea, appositamente convocata a Mantova alla fine del luglio 1893, il F. si pronunciò contro l'adesione, non condividendo il metodo della lotta di classe.

La federazione mantovana decise di entrare a far parte del campo socialista, mentre il F., trovatosi scavalcato dalla propria base elettorale, fece trascorrere qualche tempo prima di approdare alla medesima scelta. Nel settembre 1893, in occasione del congresso di Reggio Emilia, il F., dichiarando di accettare il collettivismo e la lotta di classe, annunciò la propria adesione al PSI. Nel suo intervento, riconfermò tuttavia la propria predilezione per il "metodo graduale" e si espresse a favore di alleanze elettorali con altre forze democratiche.

In modo più argomentato il F. intese motivare la sua scelta politica in un saggio, dove affermava che il socialismo marxista rappresentava "il completamento pratico e fecondo, nella vita sociale, di quella moderna rivoluzione scientifica che, predisposta, nei secoli scorsi, dalla italiana rinnovazione del metodo sperimentale in ogni ramo dello scibile umano, fu ai nostri giorni decisa e disciplinata dalle opere di Carlo Darwin e di Erberto Spencer" (E. Ferri, Socialismo e scienza positiva, Roma 1894, p. 9).

Questo intreccio tra la biologia darwiniana, la sociologia spenceriana e il marxismo apparve a molti contemporanei, da A. Labriola ad A. Gramsci, un tentativo tanto ardito quanto equivoco; in ogni caso "tutti i marxisti, i genuini come gli stessi revisionisti, a qualunque scuola appartenessero, si rifiutarono di riconoscere Enrico Ferri come uno di loro" (Michels, p. 149). Non meno severo sarà, in epoche successive, il giudizio di studiosi che nella concezione ferriana coglieranno i segni evidenti di una confusione ideologica ed anche le radici di un itinerario politico oscillante conclusosi con l'avvicinamento del F. al fascismo. Eppure, nonostante le diffidenze che suscitava, egli riuscì subito ad imporsi come uno dei più autorevoli esponenti del PSI. I motivi della popolarità del F. vanno ricercati, oltre che nel grande prestigio di studioso e avvocato, nelle sue doti oratorie e in alcuni aspetti esteriori della sua personalità: "La estrema bellezza dell'uomo, la magnifica capigliatura ricciuta, lo sguardo penetrante, il naso d'aquila, la voce portentosa con un suo timbro caldo e insinuante, sono altrettanti coefficienti atti a predestinarlo addirittura agli strepitosi successi avvocateschi, professionali, popolari" (ibid., p. 147). Va altresì richiamato il suo ascendente presso numerosi giovani cultori di scienze giuridiche e antropologiche e seguaci del positivismo, che procurò al socialismo italiano nuovi e qualificati proseliti.

Ad appena tre mesi dalla sua adesione al PSI, intervenendo alla Camera in occasione della presentazione del governo Crispi, si mise in luce come una presenza di spicco del gruppo parlamentare socialista. In quella occasione polemizzò con i suoi ex compagni di fede, Cavallotti e A. Fortis, rimproverando loro di continuare a combattere per questioni superficiali, estranee ai reali bisogni del paese. Il F. maturò quindi nuove convinzioni e, da fautore di un riformismo graduale, divenne sostenitore dell'intransigenza. Al congresso socialista di Firenze del 1896 presentò un ordine del giorno contrario alle alleanze elettorali con le forze borghesi che venne approvato con 171 voti contro 71. L'anno successivo, al congresso di Bologna, fu ancora il campione dell'intransigentismo riuscendo a prevalere (96 voti contro 50) nei confronti della posizione transigente di F. Turati.

La crisi di fine secolo con l'ondata repressiva che colpì i socialisti lo vide protagonista di clamorose battaglie politiche e parlamentari. Allorché nel 1898 il direttore dell'Avanti!,L. Bissolati, venne arrestato, fu il F. ad assumere temporaneamente la direzione del quotidiano, assicurandone la pubblicazione in un momento particolarmente difficile e malgrado i sequestri. Quando nel maggio 1899 vennero presentati alla Camera i provvedimenti "liberticidi" predisposti dal governo Pelloux e i deputati socialisti attuarono l'ostruzionismo, le doti oratorie del F. trovarono un'occasione quanto mai propizia per esaltarsi (i suoi discorsi duravano dalle tre alle cinque ore e riuscivano a mantenersi attinenti al tema in discussione).

Nella seduta del 7 giugno il F. parlò per circa cinque ore sul diritto di associazione e tale fu l'impressione prodotta dal suo discorso che, al termine della seduta, S. Sonnino presentò una proposta di modifica del regolamento per rendere impraticabile l'ostruzionismo. Poiché il tentativo d'introdurre un nuovo regolamento s'infranse a sua volta contro il tenace ostruzionismo, a Pelloux non restò che sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Il F. si presentava al giudizio delle urne forte di un prestigio e di una notorietà che pochi altri potevano vantare, al punto che il PSI pensò bene di candidarlo, oltre che nel suo tradizionale collegio mantovano di Gonzaga (dove era stato rieletto nel 1895 e nel 1897), anche in quelli di Ravenna e Roma. Il responso elettorale, lusinghiero per i socialisti, fu particolarmente brillante per il F., che risultò eletto sia a Gonzaga sia a Ravenna (optò per il collegio ravennate) e raccolse molti più voti del previsto a Roma. Nella nuova legislatura il F. venne chiamato a far parte della commissione incaricata di redigere il nuovo regolamento della Camera.

Al VI congresso socialista, svoltosi a Roma dall'8 all'11 sett. 1900, si battè ancora per l'intransigenza, ma questa posizione risultava obiettivamente indebolita dal fatto che la vittoria elettorale era stata ottenuta stringendo alleanze con i partiti affini. Con l'approvazione dell'ordine del giorno Treves-Modigliani-Prampolini, che concedeva alle organizzazioni regionali del partito piena autonomia in fatto di alleanze, veniva ribaltata la posizione socialista sulla tattica elettorale. Non rassegnato, il F. s'impegnò subito a porre le condizioni per riconquistare la maggioranza attraverso la formazione di una corrente intransigente-rivoluzionaria.

Il tradizionale contrasto tra le varie tendenze socialiste assumeva proprio allora contenuti nuovi e più pregnanti di fronte alle concrete possibilità di collaborazione che la politica giolittiana offriva al PSI. Nel febbraio 1901 era stato proprio il F. ad esprimere la disponibilità socialista nei confronti di un governo che avesse garantito la propria neutralità tra capitale e lavoro.

Nel settembre di quello stesso anno la tendenza intransigente - che, oltre al F., annoverava tra i principali esponenti A. Labriola, E. Leone, E. C. Longobardi e C. Lazzari - conquistò la maggioranza nell'importante federazione di Milano e acquisì il controllo del settimanale Azione socialista. Nel febbraio 1902 gli intransigenti diedero vita a Roma al quindicinale Il Socialismo, diretto dal F., e poi alla rivista Avanguardia socialista. Questi giornali imbastirono una dura polemica contro i fautori del cosiddetto "ministerialismo", mentre il F., ad onta del suo citato discorso, dava ora battaglia in seno al gruppo parlamentare alle posizioni riformiste. Al congresso di Imola, nel settembre 1902, Si ebbe per la prima volta lo scontro tra due correnti organizzate, quella riformista di Bonomi, Treves e Turati e quella intransigente-rivoluzionaria di Rigola, Labriola e Ferri. Prevalse ancora una volta la linea riformista, ma l'approvazione dell'ordine del giorno Bonomi, in cui si affermava che "l'azione del partito è riformista perché rivoluzionaria, è rivoluzionaria perché riformista", consentì al F. di mascherare la propria sconfitta.

Mai sopito, il contrasto tra le due "anime" del PSI riesplose intorno all'Avanti!,la cui linea riformista impressa da L. Bissolati venne vivacemente contestata. Dimessosi da direttore Bissolati, il 1º apr. 1903 venne nominato, al suo posto, il Ferri. Questi informò il quotidiano socialista al proprio temperamento, trasformandolo in un foglio battagliero che agitava i temi della polemica antiborghese e anticlericale con non poche concessioni alla demagogia. Alcune campagne di grande risonanza, come quella contro il ministro della Marina G. Bettolo, accusato di aver favorito le acciaierie di Terni, conferirono all'Avanti! una vasta notorietà e ne aumentarono la diffusione. Di questo successo si giovò in primo luogo il F., che poteva ormai considerarsi l'esponente più in vista della corrente rivoluzionaria, se non dell'intero partito, nel momento in cui le posizioni riformiste stavano progressivamente perdendo terreno.

La popolarità del F. e l'efficacia dei suoi metodi di lotta politica non poggiavano tuttavia su solide basi teoriche né lasciavano intravedere una coerente strategia. Mentre un ben più importante ruolo, sul piano teorico e strategico, avrebbero avuto i giovani rivoluzionari meridionali raccolti intorno al Labriola, il "sinistrismo ferriano" si sarebbe rivelato "privo di contenuti alternativi e incapace di una propria elaborazione" (Cortesi, p. 169). Il giudizio degli storici appare in proposito concorde: ad A. Riosa (p. 125), che rileva la "pochezza ideologica" del F., fa riscontro la pesante valutazione di G. Arfè (1965, p. 114), secondo cui le affermazioni del F. in quel periodo sarebbero "uno sconcertante campionario di banalità, frammiste ad autentiche insulsaggini". Scarsa considerazione e diffidenza nei confronti di quello che definiva "l'intruglio positivisticomercantilistico del F." nutriva anche il Labriola (così in una sua lettera del 17 dic. 1903 a E. C. Longobardi, citata in Riosa, p. 98).

Mentre Labriola si andava convincendo dell'opportunismo del F., questi diede un'ulteriore prova della sua abilità manovriera all'VIII congresso del PSI, svoltosi a Bologna dall'8 all'11 apr. 1904. A Bologna venne infatti rovesciata la situazione di Imola e il F. riuscì a prevalere proprio grazie alla convergenza sul suo ordine del giorno della corrente sindacalista rivoluzionaria di Labriola, dopo aver tentato di proporsi come salvatore dell'unità socialista ed elemento di raccordo tra riformisti e rivoluzionari. Il F. teorizzava infatti una sorta di divisione del lavoro tra le due tendenze, assegnando ai rivoluzionari la missione di educare politicamente il proletariato e ai riformisti il compito di strappare migliori condizioni per i lavoratori. L'alleanza tra il F. e i sindacalisti rivoluzionari entrò presto in crisi e nel corso del 1905 si dissolse. Egli rivelò allora "la sua propensione riformista ammantandola però con la contrapposizione delle "grandi riforme" da ottenere nel campo tributario, amministrativo, legislativo, elettorale, ecc., alle "piccole riforme", ottenute negli anni precedenti" (Candeloro, p. 210). Convinto della necessità di rinnovare la prassi politica e parlamentare il F. diede ancora una volta prova di spregiudicatezza tattica. Nel 1906, contro il parere di Turati, riuscì a far approvare dal gruppo parlamentare socialista un ordine del giorno con cui, premesso che il proletariato non poteva "aver fiducia in nessun governo della borghesia", veniva deciso l'appoggio al governo Sonnino per poi giudicarlo "alla prova dei fatti" (Avanguardia socialista, 10 marzo 1906).

All'IX congresso socialista, svoltosi in ottobre a Roma, il F. rappresentò insieme a O. Morgari la corrente detta integralista, che si proponeva come punto di sintesi di tutte le tendenze. Il F. riuscì a prevalere questa volta con il sostegno dei riformisti, mentre i sindacalisti rivoluzionari venivano relegati all'opposizione. Quella tra il F. e i riformisti era però solo un'occasionale convergenza tattica, destinata a non durare, l'ultimo espediente che consentì al F. di procrastinare l'inevitabile declino. Bruciati i ponti con i sindacalisti e sotto l'incalzare dell'iniziativa riformista le posizioni del F. vedevano ridursi il loro spazio, anche perché i troppo disinvolti cambiamenti di fronte avevano ormai intaccato il suo prestigio. Nel gennaio 1908 si dimise da direttore dell'Avanti! per imbarcarsi alla volta dell'America Latina, dove era stato invitato a tenere un ciclo di conferenze. Quando, alla fine dell'anno, egli fece ritorno in Italia la sua influenza nel partito era molto marginale. Non per questo, data la notorietà del personaggio, le prese di posizione del F. cessarono di essere al centro di polemiche. Nel marzo 1909 egli si pronunciò a favore dell'alleanza tra socialisti e democratici e, a settembre, affermò che era "venuto il momento di un governo riformatore e democratico, composto da elementi di estrema sinistra e di sinistra" (La Provincia di Mantova, 11 sett. 1909). Ai parlamentari socialisti che lo dichiararono estraneo al loro gruppo e alle accuse di opportunismo e di tradimento che gli vennero rivolte il F. rispose con veemenza, puntando l'indice contro le "serpi del riformismo italiano".

Nel febbraio 1911 il F. aderì alla Democrazia rurale, una formazione costituita nel 1910 nel Mantovano da G. Gatti, "rivolta ad interpretare le esigenze dei ceti medi agricoli e richiedente un allontanamento dalla lotta di classe e la collaborazione tra tutti gli elementi della produzione" (Salvadori, 1956, p. 296). Dopo avere espresso il proprio consenso alla guerra di Libia, con accenti di tipo nazionalistico, il F. si collocava ormai fuori dal PSI. Presentò quindi le dimissioni da deputato, che nel marzo 1912 vennero accettate. Il F. venne allora ricandidato nel collegio di Gonzaga come "socialista indipendente" e fu rieletto con 4.577 voti su 4.883 votanti, raccogliendo i consensi della Democrazia rurale ed anche di alcuni cattolici, mentre i socialisti scelsero di astenersi. Dopo l'espulsione dei riformisti di destra dal PSI e la costituzione del Partito socialista riformista italiano, il F., pur dichiarando di non voler aderire al nuovo partito, invitò i propri sostenitori a farlo. Nelle elezioni generali del 26 ott. 1913 ebbe la sanzione del voto espresso l'anno prima, ma ottenendo questa volta 6.764 voti contro i 2.774 andati a Prampolini e i 4.357 al candidato conservatore.

Alla vigilia della guerra mondiale il F. manifestò un progressivo disinteresse per la politica attiva anche perché "la sua opera non [aveva] più efficacia sul socialismo italiano e il suo prestigio nel mantovano si [era] molto logorato (ibid., p. 305). Non mancò tuttavia di prendere posizione sull'intervento in guerra e lo fece in maniera non proprio lineare: da una parte si professò neutralista e dall'altra manifestò simpatia per Francia, Inghilterra e Belgio e ammirazione per quei giovani che, come i suoi figli, partivano volontari.

Espresse il desiderio di dedicarsi con assiduità allo studio della riforma giudiziaria e carceraria. Anche per il suo contributo alla dottrina penalistica con l'opera La teoria dell'imputabilità e la negazione del libero arbitrio (Firenze 1878) gli anni creativi erano alle spalle da più di un decennio. Capofila dei principi della "scuole positive", il F. pubblicò nel 1881 Inuovi orizzonti del diritto e della procedura penale (Bologna), seguiti da una seconda edizione nel 1884 completamente rifatta e da una terza stesura annessa aggiornata e pubblicata con il titolo Sociologia criminale (Torino 1892); da quest'ultima, che subirà diversi rifacimenti nel 1900 e nel 1929 (con annotazioni di A. Santoro), è possibile ricostruire, con le altre, l'intero percorso del pensiero giuridico del Ferri. Nel 1893 tornava a dirigere la rivista La Scuola positiva nella giurisprudenza penale, di cui era stato fondatore con G. Fioretti nel 1891.

Nel dopoguerra il F. cessò di essere un protagonista della vita politica italiana. Non si candidò alle elezioni del 1919. Di fronte all'insorgere della violenza fascista ripropose la sua interpretazione dei fenomeni sociali e politici secondo gli schemi della teoria evoluzionistica.

Poiché, secondo il F., era "utopistico il credere di cancellare il movimento socialista" facendo ricorso a "colpi di bastone o di rivoltella", il proletariato avrebbe dovuto attendere il volgere degli eventi con "il coraggio della pazienza" (LaNuovaTerra, 29 apr. 1921). Per il F. "il mondo inesorabilmente cammina[va] dall'individualismo verso il socialismo" indipendentemente da "qualunque cosa fac[essero] gli avversari" (ibid.).

Nel maggio 1921 il F. tornò a sedere in Parlamento, rieletto nel suo collegio mantovano, e nel 1922 aderì al Partito socialista unitario. Nel 1921, in un discorso alla Camera, aveva delineato una prima interpretazione del fascismo come fenomeno di difesa della classe dominante nei confronti della ribellione delle masse operaie. Nel febbraio 1923 tentò di convincere i socialisti unitari ad assumere una posizione di aperta collaborazione nei confronti di B. Mussolini e, dopo essere stato da questo ricevuto, manifestò il proprio consenso al fascismo pur senza aderirvi formalmente.

Sopite anche le polemiche che a fine secolo alcune più radicali prese di posizione del F. avevano sollevato, come quelle a favore della reintroduzione della pena di morte (Controcorrente, Napoli 1888), e con esse anche le ambigue ideologizzazioni di Socialismo e criminalità (Torino 1883), col dopoguerra sarebbe venuta anzi l'epoca della recezione legislativa della dottrina "positiva". Il F. era stato nominato nel 1919 presidente della commissione per la riforma del codice penale, istituita dal ministro della Giustizia Ludovico Mortara. Ne uscirà più tardi il Progetto preliminare di codice penale italiano per i delitti (Milano 1921), corredato da una Relazione, da lui stesso dettata, che si limitava alla parte generale del codice, rispetto al quale i postulati della scuola positiva erano tutti vigorosamente affermati. In esso veniva detronizzato il criterio dell'imputabilità, con la soppressione della distinzione tra imputabili e non imputabili e il reato valutato essenzialmente sulla base della pericolosità del suo autore. Dal punto di vista del sistema delle sanzioni la sostituzione della nozione di pena-castigo con quello di prevenzione individuale del delitto comportò un inasprimento delle misure coercitive previste. La commisurazione della pena alla pericolosità tendeva in molti casi al principio della durata indeterminata della detenzione, finché non fosse cessato il rischio di recidiva, dal momento che la pena non incontra concettualmente un suo limite naturale nell'avvenuta espiazione del delitto connesso. Ancora in base al principio della pericolosità del soggetto, il F. sosteneva la necessità di omologare i reati abolendo la distinzione che il codice Zanardelli aveva introdotto tra delitto tentato e delitto mancato. Nuovi erano poi i criteri del concorso, con previsione di responsabilità uguale per tutti i compartecipi, e nuova la disciplina delle circostanze, tutte commisurate alla pericolosità dell'agente.

Il F. partecipò anche ai lavori della commissione nominata dal guardasigilli Alfredo Rocco per esaminare il progetto del codice penale. In quest'ultimo i postulati della scuola positiva sono meno centrali che nel precedente tentativo di codificazione, tuttavia improntano di sé l'introduzione del tutto nuova del titolo VIII del libro I, Delle misure amministrative di sicurezza, nel quale veniva raggruppata la materia che nel progetto del 1921, pur avendo notevole ampiezza, non aveva però unitarietà di disciplina. Il principio del valore sintomatico del reato e della pericolosità dell'agente era riscontrabile nella nuova disciplina del tentativo,della responsabilità soggettiva, del concorso e della sussistenzadell'imputabilità anche in stato di ubriachezza. La materia delle misure di sicurezza si prestò poi, più di altri istituti del codice, alla giustapposizione tra principi del positivismo giuridico e le accentuate esigenze repressive del regime totalitario, soprattutto nella previsione dell'indeterminatezza della durata massima della decorrenza. L'eclettismo dei codificatori del 1930 caratterizzava altre parti del codice: l'istituto della misura detentiva da applicarsi dopo l'esecuzione della pena a carico dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza, rappresentò una saldatura meccanica tra il postulato positivistico della sanzione come difesa e prevenzione e quello classico della pena come espiazione. Anche in tema di determinazione della pena, dandosi al giudice l'onere di valutare la gravità del reato in rapporto alla personalità del reo, si determinava un'ambigua commistione di principi che si discostava comunque dal postulato centrale della scuola positiva in materia, cioè della gravità oggettiva del fatto criminoso.

Ricorrendo ai consueti modelli concettuali della scienza positiva, il F. considerava ora il fascismo come espressione di un vasto disegno di rinnovamento politico ed economico e addirittura come una filiazione del socialismo. Il fascismo secondo lui era "soprattutto l'affermazione della supremazia dello Stato di fronte all'individualismo liberale ed anche libertario" (E. Ferri, Il fascismo in Italia e l'opera di B. Mussolini, Mantova 1927, p. 85) e rappresentava "una soluzione integrale e sistematica" del conflitto di classe (ibid., p. 87). Il F. dimostrava in sostanza "una sorta di accettazione acritica del fascismo che matura[va] dalla verifica dell'incapacità, palesata dai tradizionali partiti politici, di gestire lo stato in modo disciplinato e produttivo" (Cavazzoli, p. 95).

Nel marzo 1927 il F. tornò agli onori delle cronache come difensore dell'attentatrice di Mussolini, Violet Gibson, nel processo che si concluse con l'assoluzione dell'imputata per infermità mentale. Nello stesso mese tenne una conferenza sul tema Mussolini, uomo di Stato (Mantova 1927), nella quale, prendendosi "la soddisfazione di esaminare anche un po' antropologicamente" il duce, ne mise in risalto "l'espressione superiore del pensiero e dell'azione politica", nonché qualche "dettaglio lombrosiano" come una "tiroide eccezionale" e una "mascella a falce". Da "tale impalcatura biologica" risultava un "uomo nuovo", "un accumulatore elettrico", un capo carismatico che interpretava le aspirazioni della gente (ibid., pp. 98 ss.). Queste affermazioni sancivano la conclusione della parabola politica del Ferri. Nel marzo 1929 il fascismo lo volle gratificare con la nomina a senatore, ma non poté essere insediato.

Il F. morì infatti a Roma, prima della cerimonia d'investitura, il 12 apr. 1929.

Oltre a quelle già citate si vedano le seguenti opere del F.: Socialismo, psicologia e statistica nel diritto criminale: rassegnacritica, Torino 1883; Discordie positivistiche sul socialismo (F. contro Garofalo), Palermo 1895; Le socialisme en Italie, Bruxelles 1895; La tattica del Partito socialista italiano, Firenze 1896; Primo maggio e suffragio universale. Conferenza tenuta a Parma il 1ºmaggio 1897, Parma 1897; Battaglie parlamentari. (Una campagna ostruzionista), Milano 1899; Sociologia criminale, Torino 1900; I socialisti e i delinquenti, Milano 1900 Associazioni operaie e socialismo. Il conto dello scozzese, Roma 1901; Studi sullacriminalità ed altri saggi, Torino 1901; Guerra e lavoro, Milano 1902; Autobiografia, Milano 1903; Sfruttamento e parassitismo, Firenze 1904; I socialisti nazionali e il governo fascista, Roma 1923.