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Costanza Orlandi
La prima parte di questo lavoro è dedicata alla formazione di
Gramsci presso l’Università di Torino. Tra gli insegnamenti e
gli interessi di studio di questi anni cerco di mettere in
luce un filo conduttore rappresentato dall’approccio
storicista. Non si tratta quindi di ripercorre tutte le tappe della
formazione dello studente, tema tra l’altro già affrontato
dalla critica gramsciana, ma piuttosto di sottolineare la
continuità e la relazione tra gli interessi del periodo
giovanile e i Quaderni del carcere.
In passato la questione della lingua e del linguaggio/dei linguaggi
negli studi gramsciani è stata affrontata separatamente, in
modo specialistico da linguisti, quindi spesso al di fuori del
flusso di pensieri delle note carcerarie.
Invece da uno studio trasversale ai vari ambiti del sapere emerge
anche che cosa rimane invariato del pensiero gramsciano, la sua
logica interna. Quello che colpisce è la costante del
riferimento ad un altro da sé, un rimando che compare ad un
livello profondo della formazione dei concetti. Così
nell’analisi degli interessi di studio giovanili mi sono soffermata
su questa loro tendenza “semantica” , che a mio avviso rimane un
tratto distintivo del pensiero gramsciano maturo.
Nella seconda e terza parte del mio saggio passo in rassegna alcuni
passi dei Quaderni del carcere di argomento linguistico,
concentrandomi sul Quaderno 29, sulla cui genesi pongo delle
questioni, che non vogliono tanto aprire
un dibattito filologico sull’ultimo dei Quaderni, quanto
mostrare in che misura esso sia intimamente legato a quelli che
precedono.
Nell’ultima parte mi occupo del rapporto oralità-scrittura,
come un aspetto della riflessione sulla lingua e tema ricorrente, in
forma diversa, nei Quaderni del carcere.
2. Antonio Gramsci studente di
filologia
L'arcangelo destinato a profligare definitivamente i neogrammatici
Antonio Gramsci si era potuto iscrivere per l'anno accademico
1911-12 alla Facoltà di Lettere dell'Università di
Torino, grazie ad una borsa di studio del Collegio Carlo Alberto,
riservata agli studenti provenienti da famiglie poco abbienti delle
province dell'ex Regno di Sardegna. I suoi interessi di studio si
rivolsero in particolare agli insegnamenti di
glottologia del prof. Matteo Bartoli,
il quale gli affidò ben presto
l'incarico di curare una dispensa[1] per gli studenti degli anni
successi ed era solito consultarlo per questioni relative ai
dialetti sardi.[2]
Gramsci, come noto, non concluse
gli studi. Lo studente sostenne
il suo ultimo esame, Letteratura italiana, nel 1915 e in
seguito fu assorbito a tempo pieno dall'attività
giornalistica, resa più intensa
con l'entrata in guerra dell'Italia
e la conseguente difficoltà a reperire redattori.
Tuttavia, fino al 1918 Gramsci pensava ancora di poter riprendere
gli studi e di laurearsi in glottologia.
Nella lettera del 19 marzo 1927 a Tania, per spiegare alla cognata
la scelta di volersi occupare di uno studio di linguistica
comparata, Gramsci confessa di provare rimorso per aver abbandonato
gli studi, soprattutto per "il dolore profondo" procurato al
maestro che avrebbe visto nel giovane studente "l'arcangelo
destinato a profligare definitivamente i neogrammatici". Il passo ha
un tono chiaramente ironico, ma è indubbio che l'esperienza
umana e intellettuale degli anni universitari era ancora viva nel
carcerato.[3]
In contrasto con la visione dei neogrammatici, i quali intendevano
lo studio della lingua come una ricerca dell'origine del vocabolo o
del suono, Matteo Bartoli, fondatore della scuola
neolinguista credeva nell'utilità di un
approccio storico alla lingua, essendo tra l'altro il
traduttore della Grammatica storica della lingua italiana di
Meyer-Luebke [4].
Vorrei qui solo ricordare che nella prefazione all'edizione italiana
del linguista svizzero si trova una dichiarazione di riconoscenza
intellettuale nei confronti di Isaia Ascoli, un autore che, come
sappiamo, occupa un posto importante nella formazione linguistica
gramsciana. Esiste una direttrice che passa attraverso
Ascoli, Meyer-Luebke, Bartoli, Croce,
Bréal[5], autori molto diversi tra
loro, ma che in comune hanno un atteggiamento storicista nello
studio della lingua. La neolinguistica di Bartoli, detta anche linguistica
areale o spaziale, era caratterizzata da un
originale approccio relazionale ai fenomeni
linguistici, basato sulle seguenti quattro norme areali o
spaziali:
"1 Norma dell’area meno esposta alle comunicazioni: se di due
‘fasi’ una si trova in un’area che sia o sia stata meno esposta alle
comunicazioni che l’area dell’altra fase, la fase dell’area meno
esposta è di norma la più antica.
2. Norma delle aree laterali:
se di due ‘fasi’ cronologiche una si trova – oppure si è
trovata – in aree laterali, e l’altra in aree intermedie ad esse, la
fase delle aree laterali è di norma la più antica.
Più brevemente: inter hoc, ergo post hoc. Di norma, non
sempre. È da eccettuare, soprattutto, il caso che le aree
intermedie siano meno esposte alle comunicazioni che le aree
laterali (cfr. norma 1).
3. Norma dell’area maggiore: se
di due aree l’una è – oppure è stata – molto maggiore,
cioè molto più estesa, che l’altra, la fase diffusa
nell’area maggiore è di norma la più antica. Di norma,
non sempre. Sono eccettuati soprattutto due casi distinti. L’uno
è che l’area minore sia meno esposta alle comunicazioni che
non l’area maggiore (cfr. norma 1). E l’altro, che l’area minore
consti della somma di due o più aree laterali (cfr. norma 2).
4. Norma dell’area seriore: di
due ‘fasi’ esistite un tempo nell’area anteriore (madre patria) di
cui l’una sopravviva in questa, e l’altra nell’area seriore
(colonie, propaggine linguistica), quella conservata nell’area seriore è di norma
la fase seriore.” [6]
Le norme areali di Bartoli furono ideate per stabilire con una
relativa certezza il rapporto di anteriorità/posteriorità di diversi fasi linguistiche in mancanza di dati
documentabili, ma conobbero un'applicazione anche negli studi
demologici, inizialmente per merito di Giuseppe Vidossi[7], il quale
se ne avvalse nell'osservazione di riti
folclorici comuni a diversi gruppi
culturali, più o meno distanti
geograficamente. La caratteristica dell’approccio di Bartoli
è l’attenzione alla relazione tra le fasi di sviluppo di una
lingua (o di un particolare fenomeno culturale, nella variante
etnologica). In altre parole si va alla ricerca di una datazione
relativa, non assoluta delle fasi di sviluppo attraverso la
creazione di figure similari, di un esemplificazione grafica che
mostri il rapporto tra le diverse aree geografiche.[8]
La “relatività” delle norme nasce anche dal fatto che le
conclusioni a cui si può arrivare con questo metodo sono di
tipo probabilistico e l’applicazione di una norma piuttosto che di
un’altra dipende da una valutazione soggettiva, da considerare caso
per caso. Anche per questo Bartoli non parlava di "regole” , ma
appunto di "norme” , di cui per loro natura si possono sempre
presupporre delle eccezioni. La teoria spaziale era alla base delle
nuove discipline di geografia e cartografia linguistica a cui essa
contribuiva con la definizione delle isoglosse. Il loro studio
comparato ad altri tipi di indicazioni geografiche era fondamentale
per un'analisi della lingua di tipo "diffusionista", tipico della
scuola neolinguista. Secondo questo approccio, i mutamenti
lessicali, morfologici e fonetici delle parti del discorso non
avvengono in maniera simultanea e omogenea, ma si diffondono a
partire da un centro per irradiazione. La dimensione spaziale di cui
rende immediatamente conto la carta linguistica è connessa ad
un elemento cronologico, cioè il tempo di diffusione di un
dato mutamento dal centro alla periferia.
La questione della lingua unica
Nella lettera a Tania del 17 novembre 1930 Gramsci ricorda come
dieci anni prima avesse scritto un saggio sulla questione della
lingua secondo il Manzoni[9] e come in quell'occasione si fosse
occupato della storia della cultura italiana, del distacco tra
lingua scritta e lingua parlata, conseguente alla caduta dell'impero
romano, e della nascita dei dialetti. Come ha esaurientemente
mostrato Lo Piparo[10] esiste una forte continuità tra le
tematiche linguistiche manzoniane e la riflessione
carceraria sul nesso oralità-scrittura e
popolo-intellettuali, nonché sulla mancanza di una
letteratura popolare italiana.
Come noto, nel dibattito
sull'unificazione della lingua
in Italia, Gramsci non appoggiava la
posizione di Manzoni, bensì quella di Ascoli.[11] La
distanza con l'autore de I promessi sposi nasceva dall'assenza
nella sua teoria linguistica di un aspetto dinamico relativo alla
formazione culturale della lingua e ai suoi rapporti verticali ed
orizzontali con altri idiomi. In altre parole per Manzoni il
parlante usava e diffondeva una lingua, non la produceva: da qui
l'inevitabile presa di distanza di Gramsci che pensa la lingua in un
rapporto di interscambio con la visione del mondo, cioè con
una cultura.
Sulla simpatia di Gramsci per la posizione ascoliana non mi dilungo,
visto che anche questo argomento è stato trattato da Lo
Piparo[12] il quale, testi alla mano, mostra le contaminazioni
ascoliane nei Quaderni del carcere.
Gli elementi più facilmente riconoscibili di vicinanza
alle teorie del linguista ottocentesco sono la già
citata prospettiva storica nello studio della formazione di una
lingua e il riferimento non al singolo, ma ad una comunità di
parlanti, composta da popolo e intellettuali. Vicino al sentire
gramsciano è in generale l'idea ascoliana che l'unità
linguistica debba nascere da un processo, da uno scambio culturale
sia tra parlanti di regioni diverse che tra lingua nazionale e
dialetti. La questione della lingua deve quindi da questo punto di
vista essere messa in relazione con un più ampio programma di
organizzazione della cultura e non può essere risolta in modo
a-storico o artificiale.[13] I riflessi del dibattito
sull'unificazione della lingua in Italia si ritrovano anche nella
polemica verso la proposta esperantista.[14]
Bartoli aveva conosciuto una "fase crociana" direttamente
conseguente alla pubblicazione dell'Estetica, nel 1902, anche se in
seguito egli si allontanò dalle posizioni del filosofo
napoletano. Possiamo dire che una sorte analoga toccò al suo
allievo, il giovane studente Antonio Gramsci, il quale partendo da
posizioni vicine al pensiero di Croce, nel suo percorso politico ed
intellettuale tese sempre più ad allontanarsene. Rispetto
alla questione della lingua la posizione di Croce, pur partendo da
premesse filosofiche originali, si inseriva nel filone della critica
alla posizione manzoniana e ad una visione puramente strumentale
della lingua.
"La questione dell'unità della lingua torna sempre in
campo, perché, così com'è
posta, è insolubile, essendo fondata sopra un falso concetto
di ciò che sia la lingua. La quale non è arsenale di
armi belle e fatte, e non è il vocabolario, raccolta di
astrazioni ossia cimitero di cadaveri più o meno
imbalsamati."[15]
L'immagine è ripresa fedelmente da Gramsci non a caso in un
corsivo in cui si occupa di opere artistiche, affermando
che
"non bisogna confondere vocabolario con linguaggio. Il vocabolario
è un museo di cadaveri imbalsamati, il linguaggio è
l'intuizione vitale che a questi cadaveri dà nuova forma,
nuova vita in quanto crea nuovi rapporti, nuovi periodi nei quali le
singole parole riacquistano un significato proprio e attuale."[16]
È questa prima fase della linguistica crociana verso cui
Gramsci prova simpatia e che lo porta ad esprimersi negli articoli
giovanili in termini in cui è facile riconoscere l'influsso
della teoria estetica di Croce. Scrive ad esempio
Gramsci in un articolo dell'Avanti!, edizione milanese
del 1918:
"La lingua non è solo mezzo di comunicazione: è prima
di tutto opera d'arte, è bellezza, e che tale sia anche
per i più umili strati sociali si vede dal riso che suscita
chi non si esprime bene in una lingua o in un dialetto che gli
è estraneo abitualmente."[17]
Questa iniziale varietà teorica della formazione
giovanile attinge contemporaneamente sia ad una posizione
estetizzante della lingua come quella di Croce che ad una che
potremmo definire sociologica come quella di Ascoli. Da un punto di
vista filosofico le due posizioni appaiono ancora
più inconciliabili, se si pensa che Gramsci
in questo momento subisce l'influsso da una parte dell'Idealismo di
Croce e dall'altra del Positivismo di Ascoli.
È ancora di chiara filiazione crociana l'utilizzo del termine
"vocabolario" che fa Gramsci in un articolo di "Sotto la Mole",
polemizzando con la vacuità e la falsità di alcuni
opinionisti, che parlano per frasi fatte, che utilizzano cioè
una lingua che riferisce solo a se stessa, astratta dalla
realtà sociale dei lettori.
"Bella invenzione il vocabolario per chi non ha niente da dire e
deve tuttavia scrivere qualcosa ogni giorno. Esso diventa cuore,
diventa cervello, diventa logica, diventa uno scrittore magnifico.
Le parole si drizzano su dei trampoli grammaticali e sintattici e se
ne vanno a spasso come le persone vive, a farsi ammirare nei mercati
della provincia per la spruzzatina di rossetto che sostituisce
così bene il sorriso lusingatore."[18]
A partire da questo fondamentale contributo del pensiero di
Benedetto Croce per la riflessione linguistica gramsciana, che come
abbiamo visto connota anche l'uso di alcuni concetti che ritroveremo
inalterati nei Quaderni del carcere, nei prossimi capitoli vedremo
come parallelamente a quanto accade per la riflessione filosofica,
anche quella linguistica si evolve all'interno delle note carcerarie
in una direzione anticrociana.
Il saggio di semantica di Michel Bréal
Nel 1897 il linguista francese Michel Bréal dette alle stampe
un suo Saggio di semantica, inaugurando così una nuova
disciplina, la semantica appunto, intesa come lo studio dei
significati. Nel capitolo introduttivo "Idea dell'opera",
Bréal scriveva del suo approccio innovativo, rispetto agli
studi tradizionali di linguistica:
"Se ci si limita allo studio dei mutamenti vocalici e consonantici,
si finisce col ridurre questo studio alle dimensioni di una branca
secondaria della fisiologia; se ci si contenta di enumerare le
perdite subite dal meccanismo grammaticale, si fornisce l'immagine
illusoria di un edificio che sta andando in rovina; se infine ci si
trincera dietro astratte teorie sull'origine del linguaggio, si
corre il rischio di aggiungere un ennesimo capitolo alla storia
già lunga dei vari sistemi teorici. Mi sembra, invece, che vi
sia ben altro da fare. Quel che occorre mettere in luce, quel che ho
cercato di fare in questo libro, è far emergere dalla
linguistica tutto quanto possa proporsi come stimolo alla
riflessione, ed anche – e non ho timore di aggiungerlo – come regola
del nostro stesso linguaggio, in quanto ciascuno dà il
proprio contributo all'evoluzione della parola umana"[19]
Bréal rappresenta una fonte importante nella formazione di
Gramsci e non è difficile riconoscere nella riflessione
carceraria degli elementi di vicinanza brealiana. Detto questo
è bene però ricordare come l'introduzione di parti o
di terminologie di teorie altrui nei Quaderni del carcere avvenga
sempre in modo "dialogico". Gramsci cioè non si limita ad
assumere elementi teorici esterni, ma li "rimette in circolazione",
li inserisce in un nuovo contesto per certi versi eteroclito,
stabilendo così un diverso collegamento tra parola e
denotazione, in cui il vecchio significato non viene perduto, ma si
arricchisce di nuovi riflessi che nascono dalla relazione tra
diversi contesti teorici e tematici.
Come già alcuni studiosi hanno mostrato[20], la parola nei
Quaderni del carcere assume in alcuni casi una portata metaforica.
Non solo nelle note ci sono solo metafore stilistiche prese
dall'ambito semantico della musica, della rifrazione di luce o della
biologia[21], ma proprio la capacità a cui ho appena
accennato di costruire rimandi tra concetti presi da universi del
discorso diversi crea continue metafore concettuali.
Da questo punto di vista possiamo dire che più che un rimando
teorico alla teoria brealiana, nei Quaderni c'è una
continuità pratica, visto che per Bréal nelle lingue
indoeuropee la metaforicità sarebbe
necessaria alla creazione di concetti:
da espediente stilistico il discorso metaforico può
acquistare una valenza gnoseologica. Venendo invece alle
affinità teoriche vorrei evidenziarne di seguito alcuni
momenti. Sull'idea che la lingua debba
essere studiata all'interno di un
contesto storico e culturale non mi dilungo,
perché credo che sia già
abbastanza chiaro da quanto emerso fino ad ora.
Vorrei invece soffermarmi sul ricorso al concetto di popolo e di
spirito popolare. Gramsci utilizzava l'espressione di
"spirito popolare creativo" per definire
l'elemento comune alle manifestazioni
culturali (in senso lato) di cui
intendeva occuparsi nel suo primo abbozzo di un piano di
studio.[22] Bréal parla di "spirito popolare"
oppure di "intelligenza popolare” , come una sorta di
soggettività diffusa, depositaria di una conoscenza della
lingua – dei significati delle parole - che viene
dall’uso. C’è in questa
concezione l'idea di una
legittimità di fatto nella conoscenza della
lingua che viene dal basso che si contrappone al purismo e allo
studio erudito della grammatica. Come in Bréal, così
in Gramsci il momento "basso" della conoscenza – l'intuito, il
sentire – non viene proposto come alternativa al livello
scientifico-erudito[23], piuttosto entrambi i pensatori studiano i
fenomeni linguistici e culturali tenendo presente le relazioni tra i
vari gruppi sociali. Scrive Bréal:
"Nella nostra società moderna, il senso delle parole si
modifica più rapidamente di quanto non sia avvenuto
nell'antichità, ed anche nelle generazioni che ci hanno
immediatamente preceduto. In ciò bisogna riconoscere
l'effetto d'un incrocio tra le classi, della lotta tra opinioni e
interessi contrapposti, della guerra trai partiti, della
diversità nelle aspirazioni e nei gusti"[24]
Credo che sia difficile non avvertire in questo passo una certa
assonanza gramsciana, soprattutto per questa idea comune di fondo
che la comunicazione non solo tra individui, ma anche tra classi o
gruppi sociali ha un effetto produttivo in senso quantitativo e
qualitativo sulla formazione della lingua e quindi della
cultura.[25] L'esistenza di un gruppo sociale/ culturale distinto
genera un linguaggio, una cultura che si connota attraverso le
diversità specifiche di quel gruppo. In definitiva, se ci
riflettiamo, sia Bréal che Gramsci ci
dicono che la diversità (sociale/nazionale/culturale) genera cultura, la quale a sua volta si esprime
attraverso il linguaggio tipico del gruppo (sociale/ nazionale/
culturale) di appartenenza.
La fortuna del "Gramsci linguista"
Lo studio che ha più contribuito ad una lettura di Gramsci a
partire dalla su a formazione di linguista è stato Lingua intellettuali egemonia in
Gramsci di Franco Lo Piparo. Convinto che le fonti
dell’originalità del pensiero gramsciano fossero da ricercare
al di fuori della tradizione marxista, l’autore si propone di
mostrare il rapporto tra gli studi di filologia e la formazione dei
principali concetti gramsciani, quali
"nazional-popolare"[26], intellettuali,
folklore, egemonia,
società politica, società civile,
consenso. Di particolare interesse lo studio sulla formazione del
concetto di "egemonia" in
Gramsci, che Lo Piparo fa risalire a quello di "fascino-prestigio" utilizzato da
Graziadio Isaia Ascoli[27] e adottato da Bartoli per spiegare i
processi di influenza tra lingue e culture diverse.
Il saggio di Lo Piparo non è stato il primo a trattare degli
interessi linguistici del giovane Gramsci e a mostrarne le relazioni
con la riflessione carceraria.[28] Piuttosto il lavoro dello
studioso siciliano ha il merito di aver indicato una strada in
seguito almeno in Italia assai poco battuta[29], cioè quella
della presa in considerazione di tutta la formazione intellettuale
di Gramsci che vede nella riflessione sulla lingua un momento
imprescindibile. Parallelamente, il limite dello studio di Lo Piparo
è quello di voler presentare la
formazione linguistica di Gramsci in
una posizione di
"concorrenza" rispetto alla tradizione marxista. Questo suo intento
già presente nella pubblicazione del ‘79
si accentua nel suo intervento
Studio del linguaggio e teoria
gramsciana.[30]
Lo Piparo mette giustamente in risalto il parallelismo tra il
rifiuto delle teorie meccanicistiche del linguaggio e della
comunicazione e quello delle interpretazioni meccanicistiche del
marxismo tipiche della Seconda Internazionale, ma forza a mio avviso
le conclusioni quando intende sostenere la posizione
dell’antistatalismo, del sostanziale liberalismo di Gramsci. Egli
mostrerebbe cioè di avere un’idea "liberale" della
linguistica, perché nel dibattito Manzoni-Ascoli difende la
posizione ascoliana secondo la quale la lingua non può essere
imposta istituzionalmente. Se il riferimento alla questione della
lingua nazionale è importante per collocare Gramsci
all’interno di una tradizione storicista della linguistica che
dall’Ascoli passa per il Bartoli, da questo però non è
giustificabile postulare un rifiuto dell’autore dei Quaderni per
ogni tipo di istituzione. Il "liberalismo etico del giovane
Gramsci" sarebbe inconfutabilmente provato dall’" insistenza quasi
ossessiva con cui Gramsci tiene a precisare la natura ‘cosiddetta’
privata e liberale degli apparati della società civile" .[31]
L’analisi di Lo Piparo, o forse anche solo il suo uso politico,
sebbene si fondi su premesse originali e indubbiamente molto
produttive, è stato recepito da una buona parte della critica
gramsciana come uno dei tanti tentativi di dimostrare la lontananza
di Gramsci dal marxismo, la preferenza accordata al momento della
società civile rispetto alla società politica[32],
nonché la sua accettazione del liberismo.[33] Questo elemento
non ha facilitato la nascita di un dibattito sul contenuto di
novità dell'opera di Lo Piparo e magari un suo
approfondimento, quanto mai utile. L'origine linguistica di alcuni
concetti gramsciani potrebbe forse essere ulteriormente studiato,
contribuendo così all'interpretazione di lemmi che pongono
ancora problemi agli studiosi, uno per tutti il già citato
concetto di popolo e di conseguenza di molte espressioni ad esso
legate, ad esempio quelle di cultura e letteratura popolare.
Credo che le difficoltà che si incontrano nel proporre questo
tipo di percorso di lettura siano ancora un
retaggio degli studi condotti sulla edizione tematica dei Quaderni
che proponevano una separazione disciplinare delle note gramsciane,
distinte tra letteratura, filosofia, teoria politica. Sebbene non
sia facile slegarsi dall’idea specialistica del sapere tipica della
nostra cultura, credo che sia indispensabile operare un tentativo in
questo senso quando ci si avvicini alla lettura dei Quaderni, per
seguirne il corso delle riflessioni che raramente sono
circoscrivibili all’interno di una sola disciplina. Separare o
raggruppare arbitrariamente le note carcerarie ha anche
l'inconveniente di spezzare la catena del riferimento. L’uso del
linguaggio, la scelta dei vocaboli,
come già ricordato, ha spesso
in Gramsci un
portata metaforica, di rimando ad
altro, ad un'altra teoria[34] oppure
ad un altro passo dei Quaderni. A questo proposito
Valentino Gerratana ricordava la caratteristica di Gramsci di "narrare" i concetti.[35] Questo saper "stare in bilico"
tra discipline, linguaggi, stili diversi ci riporta a due importanti
aspetti della personalità intellettuale dell’autore dei
Quaderni: per prima cosa il coraggio e l’umiltà di utilizzare
tutti gli strumenti che si dimostrino utili all’approfondimento
della ricerca e della riflessione; poi la mentalità
dialogica[36], antidogmatica, che prevede la presenza dell’altro.
Nell’interpretazione di Gramsci non si può prescindere da un
approccio linguistico, ma questo non perché, come ha tentato
di dimostrare Lo Piparo, la componente linguistica sia
predominante rispetto a quella
filosofica. Come spero che diverrà
chiaro nel corso della mia
trattazione, individuare le premesse
della riflessione linguistica nei Quaderni è
sicuramente un'operazione necessaria, ma fatto
questo bisogna ancora descrivere e analizzare quale sia il percorso
originale che i concetti, provenienti da ambiti
disciplinari diversi, compiono nelle
note carcerarie. Non si tratta quindi di decidere
all’interno di quale disciplina catalogare i Quaderni del carcere.
Il ricorso e il riferimento allo studio della lingua mi sembra
fondamentale per cogliere la centralità della riflessione
sulla parola, sul rapporto tra linguaggio e soggettività, sul
valore antropologico e politico del dialogo. Gramsci
è cosciente della "versatilità" della
parola, quale elemento presente alle diverse modalità umane
di espressione, produzione, organizzazione. In
altre parole, egli si
allontana dal "pregiudizio positivista" secondo
cui l’uso del metodo scientifico razionalizzabile, schematizzabile
sia in grado di far avvicinare alla conoscenza della realtà
più di quanto non possa fare l’approccio metaforico tipico
dell’espressione artistica. La motivazione e la libertà di
forma, consentita paradossalmente dalla condizione di carcerato, con
cui Gramsci si dedica alla ricerca lo
spinge a percorrere tutte le
strade possibili, a mettere in relazione
campi del sapere e dell’esperienza quotidiana. Gramsci utilizza
modalità linguistiche diverse ed è in
grado di passare dall’una all’altra, di
intrecciare l’una all’altra con naturalezza: la parola come
strumento di introspezione psicologica, di dialogo
interiore nelle Lettere o dei
passaggi autobiografici dei Quaderni; come
espressione artistica (discorso sulle forme letterarie, ma gli
stessi Quaderni sono a loro volta un’opera
letteraria); come mezzo di indagine
filosofica, storica (momento scientifico,
sistematico). A questi momenti si
aggiunge e si intreccia (livello
0 e metalivello) la riflessione sulla lingua (studi di
linguistica), come espressione umana che possiede una
molteplicità di impiego, allo stesso modo della conoscenza
che può utilizzare gli strumenti tipici dell’ambito
artistico-creativo o di quello scientifico.
3. La riflessione carceraria
La riflessione sulla lingua attraverso i Quaderni
Nelle prossime pagine vorrei descrivere e commentare alcune note dei
Quaderni del carcere di argomento linguistico, con una precisazione:
non intendo occuparmi qui di tutti i passi in cui si parla del tema
della lingua, del linguaggio o di altri argomenti riconducibili
a questo, perché il lavoro sarebbe molto
più complesso. Anzi da un certo punto di vista, ci sarebbe da
considerare l'intera produzione carceraria, visto che – e questa
è proprio la conclusione a cui vorrei arrivare nel mio lavoro
– tutto il discorso gramsciano è profondamente legato alla
questione della lingua nei suoi più vari aspetti. Si pensi
solo a filoni di indagine come il giornalismo, gli intellettuali, la
cultura popolare, il rapporto fra le varie culture nazionali, la
produzione letteraria, la formazione dell'ideologia, per citarne
solo alcuni. Alla base di tutti questi grandi temi c'è
un'attenta riflessione sul concetto di lingua, intesa sotto diverse
accezioni. Scorrendo le note carcerarie se ne possono riconoscere
almeno tre:
- come una particolare lingua
nazionale (ambito più strettamente linguistico e
storico-linguistico);
- come forma di comunicazione
umana (ambito linguistico-antropologico);[37]
- come linguaggio, usato anche
come sinonimo di "tecnica” (si pensi alla riflessione sul
linguaggio artistico, sul saper fare, e naturalmente al grande tema
della produzione).
Piuttosto vorrei far notare un'anomalia almeno apparente, per cui,
sebbene un studio di linguistica comparata fosse addirittura uno dei
quattro temi annunciati da Gramsci nel suo primo piano di studio[38]
di fatto poi le note di argomento linguistico nei Quaderni sono
poche e, a parte quelle raccolte nel Quaderno 29 di cui ci
occuperemo alla fine del presente capitolo, i testi A e B non vanno
oltre il Quaderno 7. Inoltre i testi a stesura unica sono la
maggioranza e "Linguistica" come titolo di rubrica compare solo due
volte.[39] Da tutto questo emerge una difficoltà ad occuparsi
di un
tema che era però sicuramente nelle intenzioni del carcerato
trattare, come dimostra il fatto che Gramsci lo inserisce anche nei
titoletti di rubrica. Se poi passiamo a considerare le Lettere, il 3
ottobre 1927, quindi due anni prima di cominciare
la stesura dei Quaderni, Gramsci prega la cognata di fargli avere
tra gli altri due libri, a cui sembra tenere particolarmente.
"Ancora, desidero avere il Manualetto di linguistica di Giulio
Bertoni e Matteo Giulio Bartoli, stampato a Modena nel 25 o nel 26.
Avevo comandato alla libreria Sperling e Kupfer (Via Larga, 23) un
libretto del Finck; siccome non ricordavo il titolo, invece del
libro voluto, me ne hanno inviato uno abbastanza interessante per
chi vuole studiare il cinese, il lappone, il turco, il georgiano, il
samoano e il dialetto dei negri dello Zambesi, ma non ancora
interessante per me, che non mi sono ancora deciso a così
ardue fatiche. Quello desiderato si intitola precisamente
così: F.N. Finck, Die Sprachstämme des Erdkreises,
Edizione Teubner di Lipsia, nella collezione «Aus Natur und
Geisteswelt». È una classificazione di tutte le lingue
del mondo, ma l’oggetto del libro è solo la classificazione e
non lo studio delle lingue separatamente."
Successivamente Gramsci si dedicherà alla traduzione del
testo del Finck.[40]
Il 12 dicembre dello stesso anno, egli si lamenta con Tania di
non aver ancora ricevuto il Manualetto di linguistica.
"Se è difficile da procurare, si può lasciar correre,
perché ormai ho abbandonato il disegno di scrivere (per forza
maggiore, data l’impossibilità di ottenere la
disponibilità del materiale scrittorio) una dissertazione sul
tema e dal titolo: «Questa tavola rotonda è
quadrata», che penso, sarebbe diventata un modello per lavori
intellettuali carcerari presenti e futuri. La quistione, purtroppo,
rimarrà insoluta per un pezzo ancora e ciò mi procura
un certo dispiacere. Ma ti assicuro che la quistione esiste ed
è già stata discussa e trattata in qualche centinaio
di memorie accademiche e opuscoli polemici. E non è una
piccola quistione, se pensi che essa significa: «Che cosa
è la grammatica?» e che ogni anno, in tutti i paesi del
mondo, milioni e milioni di grammatiche vengono
avidamente divorate da milioni e
milioni di esemplari della razza umana, senza che
gli infelici abbiano una coscienza esatta dell’oggetto che
divorano."[41]
La linguistica è un tema presente a Gramsci durante tutto il
periodo carcerario, anche se come accennato, esso non verrà
svolto a sufficienza, rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare
dalle dichiarazioni di intenti dell'autore. Il primo accenno[42] a
questioni linguistiche si trova nella nota § 73 del Q 1, in un
contesto che ben rappresenta il nesso tematico entro cui si
inserisce la riflessione sulla lingua, che passa attraverso le note
di letteratura, il rapporto tra cultura alta e cultura popolare e
tra oralità e scrittura
La nota è riportata con poche modifiche,
soprattutto ampliamenti e miglioramenti della
forma nella nota § 40 - Bellonci e Crémieux – del Q 23,
il quaderno speciale che raccoglie le note di critica letteraria. Le
uniche elaborazioni concettuali del testo riguardano due passi.
La prima compare a proposito di Ascoli
"che, storicista, non crede alle egemonie linguistiche per decreto
legge, senza la struttura economico-culturale".[43]
Nel testo C, lo stesso passo viene modificato in:
"che, più storicista, non crede alle egemonie [culturali] per
decreto, non sorrette cioè da una funzione nazionale
più profonda e necessaria".[44]
Gramsci rinuncia qui al concetto di “struttura” , ormai messo in
crisi dai quattro anni circa di riflessione carceraria[45] a favore
di quello di “funzione” che, a quanto sembra, dovrebbe
riferirsi al blocco storico nazionale-popolare. Altra modifica degna
di nota è l'allargamento di prospettiva generato dalla
sostituzione di "egemonie linguistiche" con "egemonie culturali", a
sottolineare la prospettiva storico-culturale in cui si muove la
riflessione linguistica gramsciana e ancor prima quella ascoliana.
La seconda modifica che vorrei brevemente considerare riguarda
l'ultimo passaggio, che nel testo C viene ampliato in un modo molto
significativo. Per dire che Bellonci non capisce di questioni
linguistiche, Gramsci lo accusa di ragionare per "categorie
libresche", come lingua, dialetto, "varietà" ecc.". Notiamo
qui un uso dell'aggettivo "libresco" che è frequente nei
Quaderni e attraverso il quale si può ricostruire il
collegamento tra diversi livelli del discorso. Il nesso più
immediato è alle rubriche dal titoletto "I nipotini di padre
Bresciani" e rimanda alla ben nota riflessione di politica culturale
che attraversa le note carcerarie. Non a caso nel passo precedente,
la nota § 72, compare proprio questo titoletto.
La nota successiva, § 74, dal titolo "Stracittà e
strapaese", riporta il commento ad un articolo della stessa rivista[46], quindi presumibilmente è
stata scritta contestualmente alla § 73. Qui l'attenzione di
Gramsci cade sul provincialismo e l'arretratezza di certa cultura
italiana impermeabile alla contaminazione. Non a caso questa nota
verrà inserita nel Q 22, in cui, come noto, Gramsci si
interroga sugli effetti dell'influsso dell'americanismo sulla
cultura europea. Seguendo il flusso degli appunti anche solo di
queste tre note si intravede quale sia il quadro in cui si inserisce
nei Quaderni la tematica linguistica.
Il problema posto nella nota § 73 è la mancanza in
Italia di una lingua moderna che accomuni classe colta e popolo. La
"lingua viva", cioè quella più aderente alla
realtà materiale è solo il dialetto parlato non solo
dal popolo, ma anche dagli intellettuali in contesti familiari. Il
risultato è che la lingua scritta diventa astratta, proprio
perché le manca il rapporto con la realtà, oppure al
contrario risente troppo della chiusura provincializzante delle
espressioni dialettali a cui deve ricorrere in
alcuni casi. In breve questa nota condensa in poche
righe la riflessione tra cultura alta e cultura popolare che si
svolge attraverso i Quaderni: la mancanza di un blocco storico, di
una cultura nazionale-popolare, fa precipitare la cultura alta
nell'astrattezza (si veda la polemica contro il lorianismo e i
nipotini di padre Bresciani) e la cultura bassa nel folclore,
cioè in un tipo di espressione linguistica o culturale non
traducibile in altre lingue della stessa epoca storica.
Nella nota § 13 del terzo quaderno, dal titolo di rubrica "I
nipotini di padre Bresciani", Gramsci critica Alfredo Panzini, un
personaggio di cui avremo di nuovo modo di parlare
riguardo al Q 29.[47] Commentando
una risposta del Panzini al direttore del "Resto del Carlino", il quale aveva definito "cosa
leggera" una sua fatica dal titolo Vita di Cavour, proprio per la
caratteristica "linguaiola" di utilizzare la lingua scritta, scrive
Gramsci:
"è, il suo, un puro gioco di parole, che sotto un'ironia di
maniera fa credere di contenere chissà quali
profondità: in realtà non c'è nulla oltre le
parole: è un nuovo stenterellismo che si dà l'aria di
machiavellismo."[48]
Nella rielaborazione dello stesso passo nel Q 23, nota § 32,
Gramsci rincara la dose:
"il suo scrivere è un puro e infantile gioco di parole,
ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe far credere
all'esistenza di chissà mai quali profondità, come
quelle che certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di
parlare. Bertoldo storico! In realtà è una forma di
stenterellismo che si dà l'aria del Machiavelli in maniche di
camicia e non in abito curiale."[49]
La nota contiene altre colorite osservazioni sulla banalità
dello scritto del Panzini, ma mi interessava soffermarmi su questa
invettiva proprio per il richiamo, mantenuto in entrambe le
varianti, al concetto di "stenterellismo", un riferimento diretto
alle questioni legate al dibattito sulla lingua italiana
Manzoni-Ascoli, di cui Gramsci si era occupato anni prima.[50]
Nel Q 3, alle note § 74 e § 76 troviamo due testi a
stesura unica di argomento linguistico. La prima, dal titolo "Giulio
Bertoni e la linguistica", accenna ai temi che saranno ripresi
soltanto nel Q 29. Bertoni aveva collaborato con Bartoli alla
stesura del Breviario di neolinguistica. Dopo questo lavoro comune
era venuta a galla una distanza intellettuale tra i due studiosi,
tanto che in seguito Bartoli preferirà riferirsi alla sua
teoria chiamandola "linguistica spaziale" o "areale", lasciando
cioè da parte la definizione di "neolinguistica", al fine
di prendere le distanze da Bertoni.
Fedele alla linea del maestro, la stroncatura di Gramsci è
senza appello:
"Mi pare si possa dimostrare che il Bertoni né è
riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal
Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in
che cosa consistano queste innovazioni e quale sia la loro
importanza pratica e teorica."[51]
A parte la polemica con Bertoni, che ci mostra quanto l'interesse di
Gramsci per le "vecchie" questioni relative agli studi di
linguistica non fosse scemato nel periodo carcerario, la nota
contiene anche un importante accenno al rapporto tra Bartoli e
Croce. Come detto, il linguista aveva mostrato una grande
ammirazione per Croce al momento della pubblicazione dell'Estetica,
prendendo in seguito le distanze dal filosofo napoletano.
Gramsci spiega così questo atteggiamento apparentemente
ambiguo:
"A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia
nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo
storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo.
L’innovazione del Bartoli è appunto questa, che dalla
linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto
una scienza storica, le cui radici sono da cercare ‘nello spazio e
nel tempo’ e non nell’apparato vocale fisiologicamente inteso "[52]
Il secondo periodo verrà ricopiato esattamente nel Q 29.[53]
In altre parole Gramsci sta dicendo che l'avvicinamento delle teorie
di Bartoli e Croce è possibile solo quando queste si
contrappongano all'insegnamento dei neogrammatici. In un
secondo momento però l'impostazione idealistica
crociana non trova nessun riscontro nella
prospettiva teorica del Bartoli.
La nota § 76 del terzo Quaderno è contrassegnata dal
titoletto "La quistione della lingua e le classi intellettuali
italiane" e descrive molto chiaramente anche se in modo schematico,
il rapporto tra lingua, cultura/ e e storia. A mo' di appunto da
riprendere in un secondo tempo Gramsci scrive:
"I rapporti tra gli intellettuali e il popolo-nazione studiati sotto
l'aspetto della lingua scritta dagli intellettuali e usata nei loro
rapporti e sotto l'aspetto della funzione avuta dagli intellettuali
italiani nella Cosmopoli medievale per il fatto che il Papato aveva
sede in Italia (l'uso del latino come lingua dotta è legato
al cosmopolitismo cattolico)."[54]
L'interesse di Gramsci si concentra in questa nota sul fenomeno del
"mediolatino", che riprende da un articolo di Filippo
Ermini[55], e sulla nascita dei volgari. Con mediolatino ci si
riferisce a quella fase di sviluppo che conosce il latino
classico letterario nel corso del medioevo, detta anche latino
cristiano. È il latino del clero e degli intellettuali, un
idioma distinto dalla lingua parlata "storicamente vivente" del
popolo, la quale evolverà più velocemente nel volgare,
fino ad arrivare alle lingue romanze moderne. Malgrado il
mediolatino non possa essere definito "lingua viva", esso non
è però nemmeno una lingua a-storica o artificiale come
ad esempio l'esperanto. Questa precisazione è importante per
capire su quale base le due lingue che hanno entrambe la loro
origine nel latino ad un certo punto si distinguano. Sono tutte e
due lingue storiche e la differenza non è riconducibile
semplicemente ad una modalità orale o scritta, perché
i volgari ad un certo punto verranno scritti, cioè
acquisteranno pian piano valore di lingua ufficiale. Da parte sua il
mediolatino non viene solo scritto, ma è utilizzato nelle
conversazioni dei dotti. La differenza sta nella cultura di
appartenenza, anche se non si tratta di una cultura definita in
termini nazionali, ma rispetto al rapporto cultura dominante e
subalterna.
Nella sua ricostruzione della storia della lingua,
Gramsci mostra che è sempre la lingua del gruppo dominante
che passa allo status di lingua scritta. Infatti se nell'Alto
medioevo la lingua scritta è ricalcata sul mediolatino, la
nascita dei Comuni stimola lo sviluppo della lingua scritta in
volgare e l’egemonia intellettuale del Comune di Firenze attribuisce
una particolare “nobiltà” ad un dialetto particolare, il
fiorentino, “volgare illustre” , che “è il fiorentino di
vocabolario e di fonetica, ma è latino di sintassi” . Si
tratta cioè ancora di una produzione intellettuale,
originaria della classe intellettuale tradizionale. Con la caduta
dei Comuni e la nascita della Signoria, cioè allorché
si forma una “casta di governo staccata dal popolo” , la lingua si
cristallizza (non è più “lingua viva” ) e svolge di
fatto la stessa funzione che aveva in passato il latino letterario:
“l’italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei
dotti, non della nazione” . Di queste due lingue dotte - italiano e
latino – la prima diventerà egemone della cultura laica nel
XIX secolo, mentre gli intellettuali ecclesiastici continueranno a
scrivere in latino.
Rimane però la frattura tra popolo e cultura: la funzione che
nel Basso medioevo era svolta dal latino, in seguito passa
all'italiano (volgare illustre). Per Gramsci questo fenomeno non ha
un'orgine puramente linguistica, ma storico-politica:
"Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui
c'è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi
popolari (borghesi) c'è un riassorbimento della funzione
intellettuale nella casta tradizionale, in cui i singoli sono di
origine popolare, ma in cui prevale in essi il carattere di casta
sull'origine. Non è cioè tutto uno strato della
popolazione che arrivando al potere crea i suoi intellettuali
(ciò che è avvenuto nel Trecento) ma è un
organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri
singoli individui (l'esempio tipico di ciò è dato
dall'organizzazione ecclesiastica."[56]
Tale tipo di approccio sarebbe necessario secondo Gramsci per
studiare la storia della lingua, che come risulta chiaro anche da
questo singolo passo deve essere messa in relazione con la storia
della cultura, dei rapporti di potere interni ed internazionali,
come dimostra anche la breve nota § 79 Q 3, ispirata da un
articolo tratto dallo stesso numero della rivista che considera il
rapporto tra romanesco e latino nella storia di Roma.
Con la nota § 86 dello stesso Quaderno Gramsci dà inizio
ad una serie, da riportare sotto la rubrica di "Lorianismo", che
prende di mira Alfredo Trombetti, il quale rientrerebbe di diritto
nella categoria per lo "squilibrio tra la
«logicità» e il contenuto concreto dei suoi
studi". Tra le scoperte scientifiche ascritte a Trombetti
comparivano la dimostrazione della monogenesi del linguaggio e
conseguentemente dell'umanità, discendente da Adamo ed Eva[57] e la presunta decifrazione dell'Etrusco
"Ha il Trombetti trovato un nuovo metodo? Questa è la
quistione. Questo nuovo metodo fa progredire la scienza più
del vecchio, interpreta meglio ecc.? Niente di tutto ciò.
Anche qui appare come il nazionalismo introduca deviazioni dannose
nella valutazione scientifica e quindi nelle condizioni pratiche del
lavoro scientifico. Il Bartoli ha trovato un nuovo metodo, ma esso
non può far chiasso interpretando l’etrusco: il Trombetti
invece afferma di aver decifrato l’etrusco, quindi risolto uno
dei più grandi e appassionanti
enigmi della storia: applausi,
popolarità, aiuti economici ecc."[58]
La polemica continua alla nota §156 Q 3 e nella nota § 36
del Quaderno 6. Non è il caso di addentrarci sui particolari,
ma è utile segnalare come Gramsci, prendendo spunto dalle
critiche mosse dal glottologo Pisani a Trombetti, si occupi in
queste note di questioni puramente linguistiche, come la ricerca
etimologica e confronti le posizioni definite "antiscientifiche" del
Trombetti con un tipo di
approccio storico che studia il lessico e i fenomeni fonetici
all'interno di un contesto storico-geografico, come quello di Pareti
(Q 6 § 36).
Nella nota § 20 del Quaderno 6, Gramsci torna ad occuparsi di
Giulio Bertoni, la cui nuova teoria linguistica, acclamata come
originale dai crociani, rappresenterebbe in realtà un ritorno
ad una vecchia concezione della linguistica "per cui si dividono le
parole in «brutte» e «belle», in poetiche e
non poetiche o antipoetiche ecc., così come si erano
similmente divise le lingue in belle e brutte, civili o barbariche,
poetiche e prosastiche ecc." Nella teoria linguistica del Bertoni,
in cui si considerano le parole prese singolarmente, mancherebbe il
riferimento ad un contesto, "come se il vocabolo più
«frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella
concreta opera d’arte tutta la sua freschezza e ingenuità
primitiva". A ben vedere quindi oggetto
della critica gramsciana è sempre un tipo di atteggiamento
"puramente sintattico" o "macchinale" sia negli studi glottologici
che più in generale come approccio alla conoscenza.
Nel caso di questa nota la posizione gramsciana è molto
esplicita e viene formulata attraverso domande dirette.
"Cosa sono le parole avulse e astratte dall’opera letteraria? Non
più elemento estetico, ma elemento di storia della cultura e
come tali il linguista le studia. E cos’è la giustificazione
che il Bertoni fa dell’«esame naturalistico delle
lingue, come fatto fisico e come fatto sociale»?
Come fatto fisico? Cosa significa? Che anche l’uomo, oltre che
elemento della storia politica deve essere studiato come fatto
biologico? Che di una pittura si deve fare anche l’analisi
chimica? ecc.? Che sarebbe utile esaminare quanto sforzo meccanico
sia costato a Michelangelo lo scolpire il Mosè?"[59]
Nella nota § 71 Q 6, una delle due con titolo di rubrica
"Linguistica", Gramsci si occupa di un testo del 1930, Sommario di
linguistica arioeuropea di Antonio Pagliaro. La nota è
piuttosto disordinata, segno che Gramsci stava cercando di prendere
appunti veloci su questo argomento, di delineare sinteticamente un
possibile corso della riflessione. La questione è quella
della individuazione dell'ambito disciplinare
all'interno del quale inserire gli studi linguistici. Il punto di
partenza rimane l'Estetica crociana e l'identificazione di lingua e
arte, ma poi il discorso si apre in una prospettiva molto più
complessa. La distinzione tra arte da un lato e lingua come
"materiale" dell'arte, "in quanto prodotto sociale, in quanto
espressione culturale di un dato popolo" dall'altro sarà
ampiamente trattata nei Quaderni in tutte quelle note in cui Gramsci
si pone la questione di come suddividere l'umanità per gruppi
culturali.[60] Altri temi, appena accennati in questa nota ma
decisivi nell'impianto teorico gramsciano, sono l'unità di
lingua e cultura, il rapporto tra lingua nazionale e dialetto e tra
individuo e cultura nazionale.[61] Siamo a questa altezza con ogni
probabilità nel 1932, nel cuore della riflessione carceraria.
"Anche nella lingua non c’è partenogenesi, cioè la
lingua che produce altra lingua, ma c’è innovazione per
interferenze di culture diverse ecc., ciò che
avviene in modi molto diversi e ancora avviene per
intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per
esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico
delle Gallie, e ha invece influenzato il germanico
«molecolarmente», cioè imprestandogli singole
parole o forme ecc.).
L’interferenza e l’influenza
«molecolare» può avvenire nello stesso seno di
una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che diventa
dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri
ecc. cioè delle società particolari, innovano
molecolarmente. "[62]
Rischiando forse di far perdere il filo del discorso, con questa
analisi delle note di argomento "puramente" linguistico mi premeva
dimostrare come il dato apparente che il tema non abbia avuto
fortuna nel corso dei Quaderni, cioè che di fatto esistano
pochissime note con il titolo "Linguistica" o qualcosa di simile,
deve essere rivisto tenendo conto del fatto che Gramsci in
definitiva non smette mai di parlare di
lingua. Piuttosto nei Quaderni rispetto alla riflessione giovanile
il concetto di lingua per così dire si amplifica. "Lingua"
è cioè uno dei tanti lemmi che attraverso la
riflessione dei Quaderni subiscono uno slittamento semantico, senza
però perdere il loro significato originario: il risultato
è un termine che diventa metafora di se stesso. Un eccellente
esempio di questo fenomeno si trova proprio nella già citata
nota § 132 del Quaderno 9, in cui Gramsci crea un gioco di
rimandi, fatto di virgolettature e parentesi, con la parola
"lingua".
"La lingua e le lingue. Ogni espressione ha una «lingua»
storicamente determinata, ogni attività intellettuale e
morale: questa lingua è ciò che si chiama anche
«tecnica» e anche struttura. Se un letterato si mettesse
a scrivere in un linguaggio personalmente arbitrario (cioè
diventasse un «neolalico» nel senso patologico della
parola) e fosse imitato da altri, si parlerebbe di
«Babele» delle lingue. La stessa impressione non si
prova per il linguaggio (tecnica) musicale, pittorico, plastico
ecc."[63]
Un altro momento di grande interesse per lo studio
dell'evoluzione dei significati nella lingua gramsciana
è l'ultimo dei Quaderni del carcere.
Il Quaderno 29
Scritto nel 1935, raccoglie nove note a cui Gramsci ha dato il
titolo di "Note per una introduzione allo studio della grammatica”
. L’ultima nota del Quaderno è di un rigo soltanto: "Il
titolo dello studio potrebbe essere ‘Lingua nazionale e grammatica’”
. Non è solo il quaderno che chiude la serie: dopo questo,
scritto attorno all’aprile 1935, Antonio Gramsci apporterà
solo poche ulteriori variazioni a note già prese da tempo.
Notoriamente la particolarità del quaderno 29 consiste
nell’essere composto da soli testi B[64], di stesura unica, mentre
dalle ricostruzioni del metodo e delle fasi di produzione delle note carcerarie sappiamo che dall’agosto 1933
all'agosto del 1935, durante cioè l’ultimo periodo di
produzione dei Quaderni, Gramsci si era dedicato soprattutto alla
rielaborazione di note già scritte e al loro accorpamento nei
quaderni speciali.
Il 24 agosto del 1935 Gramsci viene trasferito alla clinica
Quisisana di Roma ed in questa data la stesura dei Quaderni viene
materialmente interrotta, ma il lavoro aveva già
da tempo subito un rallentamento,
in conseguenza del peggioramento delle
condizioni di salute del detenuto, sopravvenuto in seguito alla
crisi del 7 marzo 1933. La diminuzione dell’attività di
scrittura è riscontrabile anche nella progressione delle
lettere. In tutto il 1934 Gramsci scrive una sola
lettera, l’otto marzo, per fare gli auguri alla madre, che
crede o si autoillude di credere ancora viva, in occasione del
vicino onomastico. Poi un buco di più di un anno. Tra l’8
aprile e il 14 dicembre 1935 le lettere sono sei. Due, indirizzate a
Tatiana, riguardano problemi di carattere pratico e
di urgente soluzione, ma lo
scriverle costa fatica. Le rimanenti
sono destinate due alla moglie Julca e una a testa, molto brevi, ai
figli Delio e Giuliano. Ricapitolando: nel 1935 Gramsci è
ormai stremato da circa sei anni di detenzione in un carcere
fascista più due nella clinica di Formia; trova
difficoltà persino a scrivere ai familiari, nonché a
Tania, che è stata la sua corrispondente privilegiata per
tutto il periodo della solitudine. Non si fa grandi illusioni sulla
sua sorte, ma trova ancora la lucidità e l’energia per un
ultimo sforzo creativo: un’ultima serie di note, altre dieci pagine
di appunti nuovi di argomento linguistico. Lo Piparo ha osservato
che così si chiude il cerchio: Gramsci inizia e finisce come
linguista. Di immagini suggestive per descrivere la vita di Antonio
Gramsci se ne possono trovare molte, ma anche con la dovuta dose di
pragmatismo credo che abbia ragione chi afferma che al Quaderno 29
è stata dedicata fino ad ora in effetti troppo poca
attenzione.[65]
Renzo Martinelli ha mostrato in un articolo del 1989 apparso su
"Belfagor"[66] l'importanza della Guida alla grammatica italiana di
Panzini per la stesura di questo ultimo Quaderno. Grazie al tardivo
reperimento di un volume della Guida con le annotazioni di
Gramsci, di cui si era persa traccia per quasi quarant'anni, lo
studioso è riuscito a formulare un’ipotesi sulla la nascita
del Quaderno 29. Gramsci ricevette il volume di Panzini quando si
trovava già a Formia[67] e prima la lettura, poi l'analisi
dettagliata di questo testo, così come riprodotto da
Martinelli, potrebbero aver indotto Gramsci a scrivere l'ultimo
Quaderno.[68]
Il Q 29 si apre con una critica al saggio di Croce "Questa tavola
rotonda è quadrata"[69], alla sua visione "meccanica" della
grammatica che permetterebbe di stabilire una volta per tutte che
cosa sia "grammaticalmente esatto" . La grammatica invece è
"storia" , ricorda Gramsci, è "documento storico" , "fotografia" di un particolare momento dello sviluppo di una lingua
nazionale. Ogni espressione linguistica deve essere valutata nel suo
contesto, così come un'immagine può essere compresa
solo nell'insieme di un quadro.
"Quante forme di grammatica possono esistere?" è il
titoletto della nota sulla distinzione tra grammatica normativa e
immanente o spontanea. La grammatica normativa si sviluppa in uno "spazio" e in un "tempo" determinati, è costituita dal
controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla cesura
reciproca [corsivi miei]" . Gramsci insiste volutamente su questi
punti, sulla reciprocità, che prevede l’azione di due (o
più) soggetti e sulla contestualità della grammatica
rispetto ad un gruppo nazionale/storico, muovendosi così
all’interno di una visione semantica del linguaggio.
"Il numero delle ‘grammatiche spontanee o immanenti’ è
incalcolabile e teoricamente si può dire che ognuno ha una
sua grammatica. Tuttavia, accanto a questa ‘disgregazione’ di fatto
sono da rilevare i movimenti unificatori, di maggiore o minore
ampiezza sia come area territoriale, sia come ‘volume linguistico’
per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che
d’altronde pone in un piano più alto l’ ‘individualismo’
espressivo, perché crea uno scheletro più robusto e
omogeneo all’organismo linguistico nazionale di cui ogni individuo
è il riflesso e l’interprete. (Sistema Taylor e
autodidattismo)" [70]
La comunità linguistica si fortifica grazie alla presenza del
singolo che fa sua (interpreta) la lingua e la riflette, si fa
riconoscere quale appartenente ad una determinata cultura e la
riproduce. Allo stesso tempo il singolo si arricchisce (è
posto in un piano più alto) attraverso la sua partecipazione
al dialogo interno alla comunità linguistica. La
sua particolare scelta lessicale, il
suo stile, il suo dialetto (il
suo "individualismo" espressivo) non lo isola, non lo rende un
"vero" individualista, perché la sua particolarità
attraverso il dialogo con le altre particolarità è
fonte di "irrobustimento" per l’“organismo linguistico nazionale" . Il
dialogo è reso possibile dal riflesso, dall’emanazione della
coscienza visibile dall’esterno. Due soggetti si riconoscono
reciprocamente ed entrano in relazione.
Per quanto
riguarda l'analogia
tra lingua e
tecnica, già considerato
precedentemente[71], è utile soffermarsi sul parallelo tra
sistema Taylor e autodidattismo, anche se è appena accennato.
Probabilmente Gramsci lo annota velocemente, per riprendere il
discorso sui diversi tipi di grammatica, che infatti ricomincia
subito dopo, ma non per questo si può ignorare. Il metodo di
produzione taylorista è la negazione del rapporto
intersoggettivo, perché prevede solamente rapporti del tipo
soggetto-oggetto, in cui il secondo termine se non è una cosa
è una coscienza reificata. Il mondo taylorista non conosce la
dialogicità del rapporto pedagogico. Lo strumento di
conoscenza che più gli si addice è l’autodidattismo,
capace solo di uno studio puramente sintattico della grammatica.
L’autodidattismo è quanto di più lontano ci si possa
attendere da uno studio che si avvalga del contributo della
reciprocità, uno studio cioè calato in un contesto
storico, semantico. Non esiste un rapporto con l’alterità, di
cui l’identità ha bisogno per porsi in dialogo. La grammatica
non può essere tolta dal suo contesto storico/
semantico, astratta dalla storia delle lotte sociali interne
ad una nazione e dalla storia mondiale. Non si può capire
profondamente un soggetto, una coscienza (la lingua è
portatrice della soggettività nazionale) al di fuori delle
sue relazioni. "La grammatica storica non può non essere
comparativa [...] le storie particolari vivono solo nel quadro della
storia mondiale" [72] Oltre al rapporto tra nazione e mondo esiste
anche quella "paritetica" tra singole nazioni. Le lingue si
contaminano a vicenda, "influiscono per vie innumerevoli e spesso
difficili da controllare" (es. emigrati rimpatriati, traduttori,
viaggiatori, ecc.).
Lo studio della grammatica non può limitarsi al suo aspetto
puramente tecnico, sintattico, ma non può nemmeno prescindere
da esso. Gramsci prende spunto da una polemica con gli idealisti
gentiliani, i quali affermavano che non si dovesse più
insegnare nessun tipo di grammatica nelle scuole, perché
è sufficiente impararla dal vivo, nel vivo della lingua.
Gramsci accusa gli idealisti di estremismo teorico e di
liberalismo. La polemica serve da
spunto per tornare a discutere
del ruolo della tecnica.
"Si deve apprendere ‘sistematicamente’ la tecnica? È successo
che alla tecnica di Ford si contrapponga quella dell’artigiano del
villaggio. In quanti modi si apprende la ‘tecnica industriale’:
artigiano, durante lo stesso lavoro di fabbrica, osservando come
lavorano gli altri (e quindi con maggior perdita di tempo e di
fatica e solo parzialmente); con le scuole professionali (in cui si
impara sistematicamente tutto il mestiere, anche se alcune nozioni
apprese dovranno servire poche volte in tutta la vita e anche mai);
con le combinazioni di vari modi, col sistema Taylor-Ford che crea
un nuovo tipo di qualifica e di mestiere ristretto a determinate
fabbriche, e anche macchine o momenti del processo produttivo." [73]
Nelle righe successive Gramsci istituisce un parallelo tra i modi in
cui si può imparare la tecnica produttiva e la grammatica. La
tecnica non è uno strumento neutrale,
quindi la questione della tecnica non può essere risolto su
un piano puramente sintattico-formale. Il progetto gentiliano
è più politico di quanto non sembri. Non
insegnare la grammatica a scuola significa di fatto impedire alle
massa popolare nazionale di conoscere le forme corrette della
lingua.
Ho cercato di evidenziare e commentare qui alcuni passi a mio
giudizio molto significativi dell'andamento
del discorso gramsciano
nell'ultimo Quaderno, per rendere conto
almeno in parte della densità metaforica della lingua.[74]
Scorrendo le note del Q 29 ci accorgiamo che non compaiono argomenti
nuovi. In altre parole, sebbene il Quaderno sia composto di note di
prima stesura, non mi sembra corretto assimilare questi passi agli
appunti di spoglio di riviste o ad altri passi più "grezzi".
Questo ultimo Quaderno è intimamente legato agli altri, sia
per gli argomenti trattati che per l'uso della lingua, densa di
rimandi interni alle note già scritte. Non sappiamo se e
quali pagine di altri quaderni Gramsci stesse scorrendo mentre
compilava queste note. Il Quaderno 3 è stato ripreso in
mano[75], per gli altri possiamo solo fare delle ipotesi. Certo
è che ad esempio i passi sul rapporto tra lingua e tecnica
ricordano molto da vicino – se non per le frasi usate, quanto per
contenuto – la nota § 132 del Quaderno, ripresa alla nota
§ 7 del Quaderno 23, in cui non a caso si parla anche di
"vocabolario" come un aspetto del linguaggio individuale. La
definizione di "immanente" attribuita alla grammatica e tra l'altro
messa tra virgolette risuona del passo sul Saggio di Bucharin[76] in
cui Gramsci si era occupato della metaforicità della lingua,
ripensando tra l'altro all'insegnamento di Bréal. Potremmo
pensare anche in questo caso che Gramsci avesse ripreso in mano la
nota del Quaderno 7 oppure la sua rielaborazione nel Quaderno 11. Lo
stesso si può dire di altri passi, si guardi ad esempio l’uso
del temine “molecolare” (o molecolarmente e altri derivati )
già incontrato nella nota § 71 del Quaderno 6,
cioè proprio in una delle due note che porta i titolo di “Linguistica” . C’è poi chiaramente il riferimento al fordismo
o alla questione della lingua unica, ma al di là della
ripresa di alcuni importanti temi, quello che colpisce di più
di queste ultime note è la continuità semantica
nell'uso dei termini ripresi da contesti precedenti, tanto che si
potrebbe parlare di una sorta di “seconda stesura a senso” .
Oralità e scrittura
Vorrei qui riprendere più approfonditamente un nesso
tematico che si è più volte affacciato nel discorso
della riflessione sulla lingua. Mi riferisco al rapporto tra
oralità e scrittura che attraversa i Quaderni del carcere e
che ci è utile per capire appieno quello che Gramsci
intendesse, quando, presentando alla cognata il suo progetto di
studio in quattro punti tra cui "uno studio di linguistica
comparata” [77], lo mettesse in relazione allo "spirito popolare
creativo".
Gramsci si occupa del tema oralità/scrittura già nel
Primo Quaderno, in due note distinte §122 e §153 che
prendono le mosse da un articolo di Macaulay sulla funzione
dell’oralità nell’educazione degli antichi greci. [78] Le due
note verranno poi ricucite in un’unica nel Quaderno 16, §21,
con il titolo: “Oratoria, conversazione, cultura” . Questo non
è l’unico punto dei Quaderni in cui Gramsci si occupa di
oralità: si veda ad esempio tutta la riflessione sulla “lingua viva” o sulla funzione dei “dialetti” . Mi sembra utile
però soffermarci su questa nota – prima e seconda stesura non
presentano differenze particolarmente interessanti – perché
questa tratta non solo di oralità, ma del rapporto tra
oralità e scrittura, cioè tra due diversi livelli di
espressione, la prima potenzialmente più vicina alla cultura
popolare, la seconda alla sfera intellettuale. Il problema di
partenza, riassunto da Gramsci, è questo:
“L’abitudine della conversazione e dell’oratoria genera una certa
facoltà di trovare con grande prontezza argomenti di una
qualche apparenza brillante che chiudono momentaneamente la bocca
all’avversario e lasciano sbalordito l’ascoltatore.” [79]
Gramsci, anche dalla sua prospettiva per noi oggi "limitata”
di uomo degli anni ’20-‘30 in carcere, si rendeva
già conto dell’importanza della questione, in relazione alla
diffusione delle idee in una società di comunicazione di
massa.
“Anche oggi la comunicazione parlata è un mezzo di diffusione
ideologica che ha una rapidità, un’area d’azione e una
simultaneità emotiva enormemente più vaste della
comunicazione scritta (il teatro, il cinematografo e la radio, con
la diffusione di altoparlanti nelle piazze, battono tutte le forme
di comunicazione scritta, dal libro, alla rivista, al giornale, al
giornale murale) ma in superficie, non in profondità.” [80]
Il discorso si ricollega quindi a quello del giornalismo e non solo
perché il giornale o la rivista si avvicinano più di
altre forme di scrittura alla lingua parlata, alla "lingua viva” :
Gramsci critica una certa "cultura” giornalistica, soprattutto
italiana, che produce articoli "affrettati” , "improvvisati” ,
simili a "discorsi da comizio” , cioè superficiali ma di
grande impatto emotivo.
Fin qui l’analisi della situazione presente. È una costante
gramsciana però la capacità di studiare i problemi
ponendosi nella prospettiva del rapporto tra presente e futuro,
cioè da un punto di vista dinamico, ovvero la formazione
di un nuovo tipo di cultura. In questo caso
si parte da una riflessione sulla storia della filosofia,
apparentemente distante dai temi appena trattati: lo studio della
logica formale portato avanti dalla Scolastica rappresenta secondo
Gramsci una reazione contro i metodi di educazione e insegnamento
tradizionali, basati sull’oratoria. Da qui il discorso si apre su
una direzione che dovrebbe mettere in guardia dalla tentazione di
interpretare le osservazioni di Gramsci schiacciando la prospettiva
sul giudizio rispetto alla cultura popolare. Per Gramsci infatti “gli errori di logica formale sono specialmente comuni
nell’argomentazione parlata” [81], quindi soprattutto nel discorso “popolare” , cioè del popolo e diretto al popolo. Ecco dove
nasce il problema politico per Gramsci. Il “blocco
intellettuale tradizionale” ha più
confidenza con i principi della logica formale, li riproduce con
meno fatica, proprio come accade che i figli delle classi colte,
abituati fin da piccoli a parlare "secondo grammatica” abbiano meno
difficoltà a parlare correttamente la lingua nazionale
rispetto ai ragazzi che in casa sentono parlare il dialetto. Che
cosa potrebbe accadere allora nel “creare una nuova cultura su una
nuova base sociale” ? Se non si istruiscono i ragazzi nelle scuole,
se non si fa un lavoro di educazione di massa che comprenda il “tirocinio” con la logica formale non c’è possibilità
di successo. La logica formale deve divenire quindi non il fine
dello studio, come proponevano gli Scolastici, ma una premessa.
Anche la riflessione sulla scuola e sull’istruzione si
inserisce all’interno di questo panorama politico-dinamico.
L’analisi della scuola e dell’università nel presente, in
poche parole, è svolta in funzione del rapporto tra presente
e futuro, o detto altrimenti, della “visione” del futuro a partire
dal presente.
I figli delle “classi strumentali” frequentano gli istituti
tecnico-professionali, in cui si studiano
fondamentalmente materie scientifiche
applicate. I figli
dei borghesi frequentano invece il liceo. Che cosa
succede? Che quando vanno al Politecnico[82] i secondi risultano
più preparati dei primi. L’apparente paradosso viene spiegato
da Gramsci nel seguente modo.
“La matematica si basa essenzialmente sulla serie numerica,
cioè su un’infinita serie di uguaglianze (1 = 1) che possono
essere combinate in modi infiniti. La logica formale tende a far lo
stesso, ma solo fino a un certo punto: la sua astrattezza si
mantiene solo all’inizio dell’apprendimento, nella formulazione
immediata nuda e cruda dei suoi principii,
ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui la formulazione
astratta viene fatta.” [83]
È un passo di non facile interpretazione. Il nocciolo del
problema mi sembra stia in quel “si attua concretamente” del resto
ripreso dalla prima stesura, rispetto alla quale ci sono due
modifiche degne di nota. La prima è che “tende” era tra
virgolette: la logica non è un soggetto e quindi non
può chiaramente tendere a fare qualcosa. In seconda stesura
l’allusione è stata per così dire "riassorbita” nel
testo. La seconda modifica riguarda la fine del passo citato che
riporta:
“ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui questa stessa
formulazione astratta si compie.” [84]
Credo che qui Gramsci intenda
qualcosa di molto simile alla
differenza tra “grammatica normativa” e “grammatica storica”
di cui si occuperà nel Quaderno 29, che sono interdipendenti,
anche se distinte. A questo ordine di problemi è connesso il
fenomeno della non perfetta traducibilità tra le
lingue, a cui Gramsci accenna subito dopo, o
degli slittamenti semantici e sintattici di una parola all’interno
dell’evoluzione storica di una stessa lingua.
Nel Quaderno 5, in un testo a stesura unica[85], Gramsci si occupa
di una particolare espressione del rapporto tra oralità e
scrittura, quello della cultura cinese, in cui il distacco tra
cultura alta e cultura popolare ha una base materiale, pratica: il
sistema di scrittura ideografica limita ancora più che in
Europa l’avvicinamento delle grandi masse alla cultura alta,
che si trasforma in una sorta di casta sacerdotale. Non solo il
sistema di scrittura è in sé oggettivamente molto
più complesso, perché il senso di ogni ideogramma
dipende anche dalla sua posizione all’interno di un contesto, ma la
capacità di interpretazione si affina con l’esperienza, per
cui “chi più legge, più sa” . La cultura popolare non
si può sviluppare e rimane confinata nell’oralità. La
conversazione è l’unica forma di diffusione della cultura. In
queste condizioni, naturalmente il distacco tra intellettuali e
popolo è estremo ed è interessante come Gramsci
sottolinei il fatto che la cultura e la filosofia cinese siano
strettamente legate alle tre scuole religiose di Confucianesimo,
Taoismo e Buddismo osservando che questo ci può aiutare
a capire di che tipo di intellettuali si tratta. C’è qui
naturalmente un riferimento diretto alla definizione degli
intellettuali italiani come casta o sacerdozio.[86]
Il carattere comparativo di questa nota[87], in cui Gramsci sembra
voler verificare la validità di alcuni principi, proprio
nell’estrema diversità delle culture, si esprime nel nesso
livello cosmopolitico-livello nazionale, che, come sappiamo,
è alla base della sua riflessione sulla formazione degli
intellettuali italiani. Il sistema di scrittura ideografico serve
infatti ad una serie di lingue nazionali, ha un valore per
così dire “esperantistico” . L’impossibilità delle
culture popolari di svilupparsi per raggiungere un livello di
organizzazione intellettuale produce una mancanza di culture
nazionali (nazionali-popolari). L’ideografia nella cultura cinese
svolge, osserva Gramsci, la stessa funzione del mediolatino nella
cultura cosmopolita cattolica e quindi nella
storia della formazione degli intellettuali italiani.
Il tema del rapporto tra oralità e scrittura ritorna nella
nota § 19 (a stesura unica) del Quaderno 14, in cui Gramsci se
la prende ancora una volta con il gusto melodrammatico caro al
popolo italiano che in poesia si traduce nel “fracasso” della rima
e degli accenti prosodici e nella scelta di un
vocabolario barocco. Gramsci spiega che la formazione di
un tale gusto è da imputare al fatto che il popolo è a
contatto più con le forme artistiche orali che con quelle
scritte. Il “popolano” non è avvezzo alla lettura e alla “meditazione intima e individuale della poesia e dell’arte” ma il suo
gusto si è formato “nella manifestazioni collettive,
oratorie e teatrali” . Esempi di oratorie sono i comizi
popolari, i discorsi funebri e le arringhe in tribunale,
che Gramsci disegna con questa immagine:
“queste manifestazioni hanno tutte un pubblico di ‘tifosi’ di
carattere popolare, e un pubblico costituito (per i tribunali) da
quelli che attendono il proprio turno, testimoni ecc.” [88]
Il quadro è molto vicino a quello di un teatro spontaneo,
anzi per la componente del pubblico che diventa attore si potrebbero
individuare anche degli elementi carnevaleschi. Anche il “gusto”
è un elemento culturalmente connotante di un gruppo
sociale, in senso sia attivo che passivo. Il gruppo cioè si
esprime e si riconosce attraverso un particolare modello estetico.
Lavorare per costruire un nuovo tipo di cultura significa quindi
anche "combattere” contro il gusto melodrammatico, attraverso la
critica e la diffusione di altri modelli poetici ed artistici.
Troviamo una correzione di rotta e allo stesso tempo un aumento di
complessità rispetto alle note dei primi Quaderni nella nota
§ 44 del Quaderno 9, ripresa nel Quaderno 16: è vero che
all’espressione orale è connaturata una “intima debolezza” ,
dice Gramsci, ma è anche vero che “per diffondere
organicamente una forma culturale” è necessario affidarsi
alla “parola parlata” .[89] Da qui si pongono una serie di problemi
formali che bisogna saper risolvere perché sia appunto
possibile la circolazione della cultura. Come potrà esserci
un dialogo tra intellettuali (tecnici) e non specialisti? Questa
situazione si ripropone nell’insegnamento a tutti i livelli,
nonché nella divulgazione giornalistica. In un discorso tra
tecnici si dà per scontata una base comune di conoscenze e si
può passare a discutere dei particolari. Un tale tipo di
discussione non sarebbe però riproducibile con un
non-specialista. In questo caso “occorre creare preventivamente un
terreno comune, con un linguaggio comune, modi
comuni di ragionare tra persone che non sono intellettuali
professionali, che non hanno ancora acquisito l’abito e la
disciplina mentale necessaria per connettere rapidamente concetti
apparentemente disparati, come viceversa per analizzare rapidamente,
scomporre, intuire, scoprire differenze essenziali tra concetti
apparentemente simili.” [90]
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Note
[1]
Al fine di ricostruire i legami tra la formazione linguistica e la
riflessione matura dei Quaderni, sarebbe interessante
studiare questo documento. Le uniche citazioni che conosco tratte
dalla dispensa curata da Gramsci per i corsi del prof.
Bartoli sono quelle di Franco Lo Piparo, il quale ne riporta un
interessante stralcio - in Lo Piparo (1979), p. 24 - sull'importanza
del Giuramento di Strasburgo per la storia delle lingue moderne
europee, in cui si ritrovano alcuni temi di quella che
diverrà la trattazione carceraria sul rapporto tra lingua
orale e scritta. Inoltre, proprio durante questo convegno, Derek
Boothman ha presentato un intervento dal titolo “Spazio e lingua:
gli appunti universitari di glottologia e i Quaderni“, nel quale
alcuni passi della vecchia dispensa torinese vengono analizzati e
messi in relazione con note del periodo carcerario.
[2]
Nel quadro della teoria linguistica spaziale di Bartoli, i dialetti
sardi costituivano una fonte significativa per la verifica
lessicale o fonetica di un'area "meno esposta" (si veda più
avanti), grazie al relativo isolamento della Sardegna, in
particolare di alcune sue zone, dal continente italiano. Gramsci
costituiva una fonte molto utile, considerato che parlava
perfettamente il sardo e che in facoltà non c'erano molti
studenti originari della Sardegna. All'epoca del loro incontro,
Bartoli si era già occupato dei dialetti sardi in un articolo
pubblicato otto anni prima. Cfr. Bartoli (1903).
[3]
La polemica contro le posizioni dei neogrammatici è presente
anche nei corsivi di Gramsci, cioè nel periodo del suo
impegno politico e giornalistico. Non è difficile infatti
notare la continuità tra un certo uso razzista delle teorie
funzionalistiche in campo linguistico e il nazionalismo politico. Ad
esempio, riducendo le trasformazioni fonetiche alla fisiologia, non
era difficile per Goidàinich, esponente della scuola
neogrammatica italiana, istituire una gerarchia tra popoli che erano
più o meno capaci di modulare i suoni. Naturalmente all'apice
della gerarchia si trovava per Goidàinich il popolo italico
che era riuscito più di altri a conservare l'antico latino.
In un corsivo apparso su "Il grido del popolo" del 19 gennaio 1918
Gramsci si esprime così nei confronti dell'articolo
Perché i
bergamaschi triplicano e i veneziani scempiano di Achille Loria:
"Lo studio del Loria […] ricercava, coi lumi del più pedreste
e volgare materialismo storico, le ragioni per cui nei dialetti di
montagna del Veneto si sono conservate le consonanti lunghe del
latino (per il Loria le consonanti sono tre), mentre nei dialetti di
pianura queste consonanti si sono abbreviate (scempiate nel gergo
degli studiosi). Il Loria stabilisce questa teoria: in montagna si
gode la salute, in montagna si è ammalati. Chi è sano
triplica le consonanti, chi è ammalato le scempia, e a
riprova del fenomeno cita il suo caso personale. Quando Loria
è ammalato, domanda una taza di brodo alla cameriera, quando
è sano gliene domanda invece una tazzza."
[4]
Cfr. Meyer-Luebke (1979).
[5]
Si veda più avanti.
[6]
Bartoli (1953) pp. 484-490.
[7]
Cfr. Vidossi (1934).
[8]
Per fare un esempio, una semplice figura similare, riportata in
Bartoli (1942) è quella che ricostruisce l'alternanza delle
derivazioni da magis o plus nelle lingue neolatine.
Spagna – Francia e Italia – Romania
Lat.
magis
plus
plus magis
mas
plus
più mai
La figura individua un'area centrale (Italia e Francia) e due aree
laterali (Spagna ad Ovest e Romania ad Est). Per la seconda norma
spaziale, le forme mas e magis sono anteriori.
[9]
Secondo Antonio Santucci, curatore delle Lettere nell'edizione
Sellerio - cfr. Gramsci (1996) p. 366 - Gramsci alluderebbe
qui ad un saggio non portato a termine, a cui egli avrebbe lavorato
attorno al 1918 e che avrebbe dovuto far parte di una raccolta di
scritti su Manzoni della collana "Collezione di classici italiani"
della UTET.
[10]
Cfr. Lo Piparo (1979) p. 18 e ss.
[11]
Come noto, nel 1868 Alessandro Manzoni aveva esposto la sua teoria
di una unificazione della lingua italiana attraverso
l'accoglimento e la diffusione del fiorentino colto nella sua
relazione dal titolo "Dell'unità della lingua e dei mezzi per
diffonderla" indirizzata al ministro Broglio. Quattro anni dopo,
Graziadio Isaia Ascoli rispondeva con una posizione critica rispetto
all'ipotesi manzoniana dalle pagine del Proemio all'"Archivio
glottologico italiano".
[12]
Cfr. Lo Piparo (1979) p. 34 e ss.
[13]
Un concetto importante della teoria ascoliana è quello di
"sostrato" o di "reazione etnica", con cui si spiegavano i
cambiamenti o le nuove formazioni linguistiche. Ascoli rifiutava
l'idea che le lingue si trasformassero "per partenogenesi",
cioè attraverso meccanismi interni al singolo idioma e
ricercava l'origine dell'evoluzione delle lingue nella storia degli
incontri etnico-culturali dei diversi popoli. Secondo la concezione
ascoliana, con "lingua sostrato" – concetto passato nel frattempo
nel vocabolario degli studi linguistici – si intendeva l'idioma
preesistente di un popolo che in seguito ad annessione o conquista
adottava una nuova lingua e con "azione di sostrato" l'influsso che
tale idioma originario esercitava sulla lingua di
acquisizione. Secondo questa teoria ad esempio le differenze
nell'evoluzione delle lingue romanze o la formazione dei dialetti
vanno ricercate nel rapporto tra il latino e gli idiomi preesistenti
e quindi in definitiva nel rapporto tra le diverse culture. La
storia della lingua rientra cioè nel quadro della storia
politica, culturale e sociale. Ogni nuova lingua è il frutto
di una contaminazione: anche la lingua che si afferma sulle altre, a
causa del contatto si trasforma. Da questo punto di vista è
chiaro come la proposta di Manzoni di "sostituire" il fiorentino
agli altri dialetti per Ascoli fosse priva di fondamento, in quanto
le lingue non possono sostituirsi ad altre così come sono, ma
possono solo affermarsi grazie al loro "prestigio" sulle altre, dopo
un periodo di contatto che prevede un influsso reciproco fra lingua
dominante e "subalterna". Il risultato di questo processo
sarà quindi di fatto una nuova lingua.
[14]
Gramsci critica l'esperanto come esempio di lingua artificiale,
a-storica e quindi inservibile alla comunicazione negli
scritti giovanili, dapprima sulle pagine dell'"Avanti!" E poi su "Il
Grido del popolo". Si vedano: Contro un pregiudizio, in: "Avanti!",
24 gennaio 1918, Teoria e pratica. Ancora intorno all'esperanto, in:
"Avanti!", 29 gennaio 1918, "La lingua unica e l'Esperanto, in: "Il
grido del popolo", 16 febbraio 1918, l'articolo conclusivo della
serie. Nei Quaderni si trovano accenni alla polemica
anti-esperantista. In una nota del Quaderno 7 (Q 855), rielaborata
nel Quaderno 11 § 45 con il titolo "Esperanto filosofico e
scientifico", Gramsci fa un uso metaforico del termine "esperanto",
che denota un atteggiamento a-storico nell'indagine filosofica e
scientifica. Si noti che nella trascrizione del titolo della nota
dal Quaderno 7 al Quaderno 11 si perdono le virgolette, aumentando
la portata metaforica delle parole. Di questo fenomeno, osservato da
Raul Mordenti (cfr. Mordenti 1996) ci occuperemo più
diffusamente nel capitolo dedicato alle metafore nei Quaderni del
carcere.
[15]
Croce (1945), p. 164.
[16]
Si veda: Sull'esposizione al circolo degli artisti, in "Avanti!", 4
gennaio 1917.
[17]
Contro un pregiudizio, in: "Avanti!", 24 gennaio 1918.
[18]
I meriti di Carneade, in: "Avanti!", 17 dicembre1916, rubrica "Sotto
la Mole"
[19]
Bréal (1990), p. 3.
[20]
Penso ad esempio a Medici (2000), Piazza (1995) e a Mordenti (1996),
sull’aumento progressivo della metaforicità del
discorso nei Quaderni del carcere.
[21]
Riguardo a quest'ultime si veda Piazza (1995).
[22]
Mi riferisco al noto passo della lettera del 19 marzo 1927 a
Tatiana. Dopo aver individuato i quattro argomeni
di studio, su cui avvrebbe voluto concentrarsi (1. storia degli
intellettuali italiani, 2. studio di linguistica comparata, 3.
il teatro di Pirandello, 4. letteratura popolare) Gramsci
afferma: “In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti
esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue
diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi in
misura uguale.”
[23]
"Ma è bene non affidare all'intuito popolare la risoluzione
di problemi troppo complessi" si legge in Bréal (1990), p. 47
oppure "La memoria popolare è corta" qualche riga più
avanti. In Gramsci si rammenti tutta la riflessione sulla cultura
popolare che rischia di cadere al livello di folklore, una volta che
il popolo sia isolato e non riesca più a "tradurre" il suo
linguaggio in quello di un'altra cultura contemporanea.
[24]
Bréal (1990), p. 66.
[25]
Nei Quaderni Bréal è citato nella nota § 36 del Q
7 dal titolo "Saggio popolare. La metafora e il linguaggio",
rielaborata
e ampliata nel Q 11, alla nota § 24 con i titolo "Il linguaggio
e le metafore". In entrambi i contesti Gramsci si occupa
dell'affermazione contenuta nel testo di Bucharin per cui Marx
avrebbe usato i termini di "immanenza" e "immanente in senso
metaforico. Nel Saggio popolare, non c'è un'adeguata
trattazione di questo fenomeno, mentre secondo Gramsci la questione
del rapporto tra linguaggio e metafora meriterebbe un
approfondimento, visto che "il linguaggio attuale è
metaforico per rispetto ai significati e al contenuto ideologico che
le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà".
Più avanti si legge ancora:
"Ma è possibile togliere al linguaggio i suoi significati
metaforici ed estensivi? È impossibile. Il linguaggio si
trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per
l'affiorare di nuove classi alla coltura, per l'egemonia esercitata
da una lingua nazionale sulle altre ecc., e precisamente assume
metaforicamente le parole delle civiltà e culture
precedenti." Entrambe le citazioni sono riportate dal testo C.
[26]
Cfr. Lo Piparo (1979) ad esempio pag. 11. Lo Piparo utilizza
erroneamente il termine nazional-popolare che non
appartiene a Gramsci, il quale ha sempre utilizzato l'aggettivo
composto nazionale-popolare, ma alla cosiddetta vulgata gramsciana
inaugurata dalla presentazione di Togliatti. La differenza, per
quanto possa sembrare pedantesca, ha invece delle conseguenze sia in
ambito politico – da qui il chiaro intento interpretativo di
Togliatti – sia per quanto riguarda la riflessione gramsciana sulla
difficile definizione di "popolo" e "popolare" in un'epoca storica
che si colloca tra il mito nazionale ottocentesco e la nascita di
una cultura di massa.
[27]
Accanto alla tradizione ascoliana, altre importanti fonti sarebbero
le teorie linguistiche "socioculturali e geografiche" dei
francesi Gilliéron e Meillet. Queste derivazioni sono
documentate nel saggio di Lo Piparo (in particolare in "Dal
prestigio all’egemonia" pagg. 103-145), il quale ricorda come anche
la critica all’esperanto condotta da Gramsci sull’ "Avanti!" e su
"Il grido del popolo" riproponesse argomentazioni di questi
linguisti.
[28]
Luigi Rosiello (1959 e 1970) aveva già osservato, tra
l'altro, come la distinzione tra grammatica "normativa" e "immanente" inserisse Gramsci all'interno di quel corso di
riflessione sulla lingua che dalle intuizioni di Bréal
porta alla ricerca strutturalista di Saussurre e alla sua
classificazione di "langue" e "parole". Si vedano anche Amodio
(1965) e Carrannante (1973).
[29]
Un' autorevole eccezione è rappresentata dai lavori di Tullio
De Mauro (1979) e (1999).
[30]
Lo Piparo (1987).
[31]
Ibid.
[32]
Ricordo la famosa definizione di Norberto Bobbio di Gramsci come
"teorico delle superstrutture" che tanta fortuna ha
avuto, proprio per la sua facilità di utilizzo in un tipo di
discorso su Gramsci che allontani per quanto possibile il pensatore
sardo dalla tradizione marxista o tra i sostenitori di un Gramsci
idealista.
[33]
Un tentativo di ricomposizione, quello che potremmo chiamare un
approccio globale a Gramsci, viene proposta invece
nella Prefazione al testo di Lo Piparo da parte di Tullio De Mauro
che si domanda quale sia stata l'importanza del rapporto tra parola
e azione per lo sviluppo della riflessione linguistica in Gramsci e
in particolare quale ruolo abbia svolto la sua esperienza di
dirigente politico.
[34]
Si pensi ad esempio al particolare uso dei concetti importati dal
marxismo o da altri ambiti che, una volta importati
all'interno delle note carcerarie, acquistano un riferimento nuovo,
senza però perdere quello originario, creando così un
rapporto dialogico di rimando tra l'apparato concettuale dei
Quaderni del carcere e l'altro sistema interpretativo. Si vedano a
questo proposito i due saggi di Cospito sulla coppia concettuale di
struttura e sovrastrutture, in cui lo studioso mostra, attraverso
un'analisi diacronica dei Quaderni, come Gramsci metta in
discussione progressivamente la connotazione di questi termini,
creando così una nuova estensione di significati che va al di
là, supera dialetticamente la tradizione marxista, da cui i
termini erano stati presi.
[35]
In Problemi di metodo.
[36]
Anche questa è un’espressione usata da Gerratana.
[37]
Su questo punto si veda l’ultimo capitolo di questo questo lavoro
dedicato al rapporto tra forma scritta e orale.
[38]
Si veda Introduzione ai Quaderni del carcere.
[39]
Più precisamente, portano il titoletto di "Linguistica", le
note § 151 del Q 5 e § 71 del Q 6. In più ci sono
altre due note,
§ 74 del Q 3 e § 20 del Q 6, rispettivamente con il titolo
di rubrica "Giulio Bertoni e la linguistica" e "Quistioni di
linguistica. Giulio Bertoni".
[40]
Si vedano i Quaderni di traduzioni.
[41]
La questione sarà poi affrontata nel Quaderno 29, come
vedremo più avanti.
[42]
Da questa analisi sono per ora esclusi i quaderni di
traduzioni.
[43]
(Q 82).
[44]
(Q 2237).
[45]
Cfr. Cospito (2000) e (2004).
[46]
Si tratta della "Fiera letteraria" del 15 gennaio 1928.
[47]
Questo è solo uno dei tanti riferimenti a Panzini nel corso
dei Quaderni.
[48]
(Q 299).
[49]
(Q 2218-2219).
[50]
Il concetto di "stenterellismo" si ritrova anche in altri passi dei
Quaderni – mi premeva citarne almeno uno – e allude
alla vacuità di una particolare forma di stile retorico.
Proprio come Manzoni e i manzoniani pensavano di poter "colorare" di
toscanismi l'italiano parlato per farne una lingua nazionale. Questo
semplice e ironico riferimento alla maschera toscana cela una
critica al distacco tra forma e contenuto nella lingua.
[51]
(Q 351).
[52]
(Q 352).
[53]
A questo proposito si veda la nota 68.
[54]
(Q 353).
[55]
Articolo contenuto nella rivista "Nuova Antologia" del 16 maggio
1928.
[56]
(Q 355).
[57]
In queste affermazioni gramsciane non è difficile riconoscere
la polemica contro i neogrammatici e lo studio dell'origine
della lingua.
[58]
(Q 366).
[59]
(Q 700).
[60]
Penso ad esempio alla riflessione su lingua, lingue e linguaggi
svolta nella nota § 132 del Quaderno 9, dove Gramsci
scrive: "L’espressione «verbale» ha un carattere
strettamente nazionale-popolare-culturale; una poesia di Goethe,
nell’originale, può essere capita e rivissuta solo da un
tedesco; Dante può essere capito e rivissuto solo da un
italiano colto ecc. Una statua di Michelangelo, un brano
musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc.
può essere capito quasi immediatamente da qualsiasi cittadino
del mondo, anche non cosmopolita, anche se non ha superato l’angusta
cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia questo
è così solo in apparenza, superficialmente. L’emozione
artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a un quadro
di Raffaello o ascoltando un brano di Verdi è una emozione
artistica; lo stesso giapponese o lappone non potrebbe non restare
insensibile e sordo se ascoltasse recitare una poesia di Dante, di
Goethe, di Shelley; c’è quindi una profonda differenza tra
l’espressione «verbale» e quelle delle arti figurative,
della musica ecc. Tuttavia, l’emozione artistica del giapponese o
del lappone dinanzi a un quadro di Raffaello o ad un brano musicale
di Verdi non sarà della stessa intensità e calore
dell’emozione artistica di un italiano medio e tanto meno di un
italiano colto. Cioè accanto o meglio al di sotto
dell’espressione di carattere «cosmopolita» del
linguaggio musicale, pittorico ecc., «internazionale»,
c’è una più profonda sostanza culturale più
ristretta, più «nazionale-popolare»."
[61]
Su quest'ultimo tema si veda oltre nella trattazione del Quaderno
29.
[62]
(Q 739).
[63]
(Q 1193).
[64]
Ma a questo proposito si veda la nota 68.
[65]
Cfr. i lavori di De Mauro e Lo Piparo. Quest’ultimo lo definisce „il
meno letto“. Secondo Lo Piparo i Quaderni del
carcere andrebbero riletti a partire da questo quaderno.
[66]
Cfr. Martinelli (1989).
[67]
Martinelli arriva a questa conclusione mettendo insieme una serie di
dati. Prima di tutto la Guida, pubblicata la prima
volta nel 1932, conobbe due ristampe l'anno seguente e in seguito
una nel 1934, una nel 1935 ed infine una nel 1937. La copia
posseduta da Gramsci fa parte della prima ristampa del 1933. Dal
momento che questa, come i "Quaderni di Formia" è priva dei
contrassegni carcerari, se ne deduce che Gramsci deve averla
ricevuta proprio in quel periodo, cioè tra il 1933 e il 1935.
[68]
Le note del Q 29 sono classificate nell'edizione critica di
Gerratana come testi B, cioè di stesura unica. Questo
è vero ad
esclusione delle tre righe che si riferiscono a Bartoli
(“L’innovazione del Bartoli è appunto questa, che dalla
linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto
una scienza storica, le cui radici sono da cercare ‘nello spazio e
nel tempo’ e non nell’apparato vocale fisiologicamente inteso”) che
più precisamente sarebbero un testo A nel Q 3 e un testo
C nel Q 29. L'osservazione al limite della pedanteria
filologica può portarci a riflettere sul fatto che durante la
stesura dell'ultimo quaderno, redatto a diversi anni di
distanza da quelli del primo gruppo e spesso considerato il
più isolato dagli altri, Gramsci sia comunque ricorso ad una
nota del Q 3, contestualmente alla definizione del suo professore di
glottologia. Ma se Gramsci ha dovuto materialmente riprendere
in mano il Q 3, allora anche il riferimento all'articolo di Croce
Questa tavola rotonda è quadrata contenuto nell'apertura del
Q 29 è possibile che sia stato ripreso da questa nota, anzi
è possibile che Gramsci sia proprio andato a ricercare
questa nota B (A) per iniziare a scrivere il Q 29 e in
quell'occasione abbia ripreso la descrizione di Bartoli. Se
questo fosse vero, l'ipotesi di Martinelli potrebbe essere messa in
discussione almeno in parte, perché la sollecitazione per la
redazione del Q 29 non sarebbe esclusivamente esterna, cioè
non arriverebbe solo con la lettura della Grammatica del Panzini, ma
conoscerebbe anche uno sviluppo interno ai Quaderni. Si può
cioè formulare un’ipotesi alternativa, in cui Gramsci avrebbe
riletto la nota § 74 del Q 3 e avrebbe deciso di iniziare un
nuovo quaderno con la nota sull'articolo di Croce.
Contemporaneamente o addirittura in un secondo momento (anche solo
logico, se non temporale), avrebbe inserito le osservazioni su
Panzini.
[69]
Cfr. quanto detto sopra a proposito della lettera a Tania del 12
dicembre 1927.
[70]
(Q 2343).
[71]
Ricordo che "Grammatica e tecnica" sarà anche il titolo della
nota § 6.
[72]
(Q 2343).
[73]
(Q 2349).
[74]
Oltre all’impiego di metafore pittoriche e musicali, si veda anche
il fenomeno dell’assorbimento delle virgolette, come
indicato in Mordenti (1996).
[75]
Cfr. Nota 68.
[76]
Vedi sopra quanto detto a proposito della nota § 36 del Q 7.
[77]
Gli altri, lo ricordo, erano “una ricerca sulla formazione dello
spirito pubblico in Italia nel secolo scorso", “uno studio sul
teatro di Pirandello" e “un saggio sui romanzi di appendice e il
gusto popolare in letteratura”.
[78]
Cfr. (Q. 113).
[79]
(Q 1889).
[80]
(Q 1891).
[81]
A Gramsci non sfugge l’opportunità di criticare anche in
questo passo il Saggio popolare di sociologia, di cui auspica
un’analisi delle singole affermazioni sulla base dei principi della
logica formale.
[82]
Cfr. (Q 1892).
[83]
(Q 1893).
[84]
(Q 136).
[85]
Cfr. (Q 557).
[86]
Da notare che come soluzione alla difficoltà delle classi
popolari ad avvicinarsi al sistema di scrittura ideografico,
Gramsci propone l’introduzione di un sistema parallelo su base
sillabica. Sappiamo invece che la storia della cultura cinese ha
seguito un altro corso, non creando una nuova forma di scrittura
facilitato, il che avrebbe forse permesso una comunicazione tra
cultura alta e cultura popolare, almeno per gli scritti destinati ad
una più larga diffusione, ma semplificando il sistema
già esistente, cioè abbassando la complessità
della cultura alta.
[87]
Nelle intenzioni di Gramsci la trattazione della cultura cinese non
avrebbe dovuto avere solo questa funzione
comparativa. Egli aveva in mente di scrivere una storia degli
intellettuali cinesi che sarebbe dovuta diventare un capitolo
della più generale trattazione sulla storia degli
intellettuali. Alcune note più sotto (§ 50) Gramsci
butta giù i primi appunti di quello che sarebbe dovuto
divenire un altro capitolo analogo, sulla storia degli intellettuali
giapponesi. Anche in questo caso c’è un tentativo di
comparazione tra Europa e Giapppone per quanto riguarda il rapporto
tra religioni e culture nazionali.
[88]
(Q 1677).
[89]
(Q 1902).
[90]
(Q 1901-1902).
*
www.treccani.it
Questione della lingua
di Claudio Marazzini
1. Definizione, origine e limiti
Per contrastare l’interpretazione riduttiva della questione della
lingua, considerata come un dibattito sulle varie denominazioni
fiorentino, toscano, lingua comune o italiano, cioè
equiparata a un’oziosa disputa nominalistica, si può
ricordare il parere di Antonio Gramsci:
Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della
lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi:
la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la
necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri
tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di
riorganizzare l’egemonia culturale (Quaderni del carcere, Quaderno
29, § 3)
Gramsci, in questa riflessione, si riferiva soprattutto alle tesi
di Alessandro Manzoni, che collegava al dibattito della prima
metà del Novecento. Poco oltre affermava (ibid.: § 7)
che il De vulgari eloquentia di Dante era da intendere come un
atto di politica culturale-nazionale (pur nel senso che la parola
nazionale aveva al tempo di Dante), e che «un aspetto della
lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la
quistione della lingua’che da questo punto di vista diventa
interessante da studiare». Essa, nell’interpretazione di
Gramsci, era consistita nella «reazione degli intellettuali
allo sfacelo dell’unità politica» e «alla
disintegrazione delle classi economiche e politiche», al fine
di «conservare e anzi rafforzare un ceto intellettuale
unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel
Settecento e Ottocento (nel Risorgimento)».
Collocandosi a mezza strada tra l’affascinante interpretazione
integralmente ‘politica’ di Gramsci e quella nominalistica
riduttiva, è possibile affermare che la questione della
lingua è in sostanza il lungo dibattito attorno alla norma e
all’identità dell’italiano, quale si è concretizzato
nella trattatistica, da Dante in poi (in questa forma la materia
è stata trattata in Vitale 1978, che è il riferimento
specifico più autorevole; si veda anche Marazzini 2009), e
quale ancora si svolge non di rado anche oggi, quando si riapre in
qualunque modo la discussione su temi come: i destini dell’italiano,
i suoi caratteri costitutivi, il suo ruolo di lingua ufficiale o
nazionale, la lingua nella scuola, i rapporti con i dialetti, con le
lingue di minoranza o con le lingue straniere. Vi rientrano le
relazioni tra italiano e fiorentino, la definizione della
norma linguistica (anche le questioni di grafia e i tentativi di
riforma ortografica; ortografia), la distanza maggiore o
minore che si vuole interporre tra scritto e parlato ( lingua
parlata; lingua scritta), l’uso della lingua antica o la
preferenza per la modernità, l’adozione o il rifiuto di
novità lessicali ( neologismi), il rapporto tra uso
letterario e uso corrente della lingua ( storia della lingua).
Le ragioni di un dibattito così ampio stanno in parte nella
natura stessa della lingua, al di là della specificità
italiana, perché sempre e dovunque esistono differenze tra
scritto e parlato, ed è normale che il livello elevato,
letterario e colto, si contrapponga all’uso corrente. Tuttavia,
alcune ragioni del dibattito sono da ricondurre alle caratteristiche
specifiche della storia d’Italia, paese in cui la lingua si è
splendidamente sviluppata in assenza di uno Stato politico, come
strumento pressoché esclusivo di una comunità di dotti
e di letterati. I rapporti con il popolo, nella sua complessa
stratificazione sociale, si sono resi necessari solo quando
già esisteva una possente tradizione letteraria. Da
ciò emerge quanto possa essere vasta la questione della
lingua, intesa nella sua valenza letteraria e sociale, e come possa
costituire parte rilevante dell’intera storia nazionale (non solo di
quella linguistica), in riferimento alle idee sulla lingua, alla
politica scolastica, oltre che alle scelte di intellettuali e
scrittori messe in atto per fini d’arte. In gran parte, comunque, la
definizione di questione della lingua si applica a un dibattito
teorico, e potrebbe essere rimpiazzata dall’espressione teorie sulla
lingua italiana (cfr. Marazzini 1993; storia della linguistica
italiana).
Va precisato, infine, che la questione della lingua non è
esclusiva dell’Italia. Basti pensare alla Francia, dove prese corpo
nel Cinquecento il tentativo di vantare la (supposta) vicinanza del
francese al greco, dove l’Académie française assunse
la funzione di istituto garante e custode della lingua, dove si
identificò la buona lingua nel miglior uso della corte reale,
e dove poi alcune teorie settecentesche attribuirono alla
costruzione sintattica del francese il primato universale della
razionalità logica, dunque il primato sulle altre lingue. La
Francia fu anche il paese in cui si crearono le basi del cosiddetto
giacobinismo linguistico, avverso alle parlate locali.
Un altro confronto interessante può essere istituito con la
Grecia, un paese costretto a fare i conti, a partire
dall’indipendenza ottenuta nell’Ottocento, con una grande
tradizione: qui la questione della lingua si è sviluppata nel
confronto tra la katharèvousa, la lingua «pura»,
arcaica, simile al greco antico, e la lingua popolare, la
dimotikì, esito normale della koinè ellenistica. Lo
scontro tra i fautori delle due diverse soluzioni è stato
talora molto forte, fino al prevalere della lingua popolare, per
decisione politica, nel 1976, al momento della proclamazione della
nuova Repubblica.
Dunque, anche in altre nazioni si è discusso di lingua.
Tuttavia in Italia il dibattito si è caratterizzato per la
maggior durata e per la speciale vitalità, almeno a partire
dal Cinquecento. Quanto alla data di inizio, può esser
giudicato discutibile l’inserimento nella questione della lingua
delle teorie di Dante esposte nel De vulgari eloquentia, non per la
pertinenza dei contenuti, innegabile, ma per la semplice ragione che
l’opera non suscitò un dibattito, in quanto non risulta abbia
avuto interlocutori, almeno fino al XVI secolo. Quanto alle
discussioni tra umanisti a proposito dell’origine del volgare e
delle sue eventuali possibilità di miglioramento qualitativo
( Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), esse possono forse essere
assunte come punto di avvio della questione della lingua,
perché vertono sul confronto tra italiano e latino, quindi
segnano la prima definizione delle qualità che si richiedono
al volgare per raggiungere la perfezione. Anche Dante aveva
confrontato volgare e latino, soppesando i vantaggi dell’uno e
dell’altro, ma, come si è detto, la sua posizione è
quella di un gigante solitario, mentre la questione della lingua,
per essere tale, richiede un dibattito, la cui pienezza si raggiunse
appunto nel primo Cinquecento, secolo che, assieme all’Ottocento,
rappresenta il momento culminante di queste discussioni.
2. La questione della lingua nel Cinquecento
Le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, pubblicate nel
1525, sono il libro in cui meglio si valuta il confronto fra le
diverse teorie linguistiche che allora si fronteggiavano.
Occorre tuttavia premettere che la discussione sulla ‘lingua
migliore’ aveva investito in precedenza il latino, e ciò
costituisce una fondamentale premessa. Già nel Quattrocento,
Paolo Cortese aveva avuto una disputa con il Poliziano,
fautore di un modello stilistico eclettico che attingeva ad autori
latini di varie epoche. Cortese, per contro, fissò alcuni
punti della teoria dell’imitazione dello stile ciceroniano. Pietro
Bembo, prima di essere protagonista della questione della lingua per
l’italiano, discusse con Giovanni Pico della Mirandola sul modello
da adottare per la lingua latina. Pico, allievo del Poliziano, era
sostenitore di uno stile eclettico; Bembo, per contro, indicava due
modelli a cui attenersi in maniera sostanziale, se non proprio
esclusiva: Cicerone e Virgilio, l’uno per la prosa, l’altro per la
poesia.
Veniva proposta insomma, in riferimento alla lingua latina, la
cosiddetta teoria dell’imitazione, poi applicata da Bembo al
volgare, indicando come modelli Francesco Petrarca per la
poesia e Giovanni Boccaccio per la prosa. Al terzo modello,
cioè a Dante, Bembo rimproverava l’uso di un lessico basso,
ovvero la caduta stilistica, che in Petrarca non si era verificata
mai. Anche Boccaccio aveva adoperato, in certe parti del Decameron
(per es. quelle dialogiche) un linguaggio meno elevato, ma Bembo
invitava a considerare non i passi in cui c’era il rischio della
mimesi di parlato, ma quelli in cui lo stile era più alto,
come la cornice della raccolta. Inoltre ammetteva che la prosa
potesse tollerare la varietà linguistica meglio della poesia.
Indubitabile è la propensione di Bembo per quello che oggi
definiremmo il monolinguismo petrarchesco, e questa preferenza
determinò una concezione classicistica e arcaicizzante della
lingua, contraria a ogni contaminazione col parlato e
l’espressività popolare. Di fronte all’obiezione che in
questo modo, staccandosi dalla contemporaneità e facendo
riferimento al Trecento, si rischiava di parlare la «lingua
dei morti», Bembo, per bocca del fratello Carlo (il quale,
nelle Prose, è portavoce delle idee dell’autore), rispondeva
che parlava con i morti chi si affidava alla lingua contemporanea,
di per sé effimera, mentre la perfezione dei modelli antichi
garantiva la comunicazione con i posteri, cioè la lunga
durata temporale. Parlare, in questa accezione, significava
trasmettere un messaggio letterario, secondo una rigida e austera
concezione classicistica della lingua, per la quale la letteratura
‘alta’ è l’unico momento che meriti davvero attenzione e
rispetto. Questa è la sostanza più profonda della
teoria arcaicizzante di Bembo, fondata sul primato dell’imitazione
del canone trecentesco delle Tre Corone.
Di per sé, l’identificazione dei modelli nelle Tre Corone non
era un fatto inusitato. Il primo grammatico dell’italiano, Giovanni
Francesco Fortunio, aveva composto le proprie Regole (1516)
utilizzando gli stessi modelli, seppure mostrando la massima
disponibilità nei confronti di Dante. Quanto all’idea che la
letteratura avesse in sé la capacità di nobilitare la
lingua, riscattandola da eventuali difetti di origine, un’analoga
concezione era stata esposta nel Quattrocento da Leon Battista
Alberti, e anche dal Poliziano, nell’Epistola aragonese (
grammatica). Nelle Prose di Bembo, però, la teoria
linguistica è collocata nel contesto di un’esposizione
sistematica molto più completa e rigorosa. Inoltre nelle
Prose venivano passate accuratamente in rassegna tutte le teorie
linguistiche dell’epoca, per quanto con spirito di parte, allo scopo
di far emergere come vincente la tesi fiorentinista arcaicizzante
nella quale l’autore riponeva la massima fiducia. Le teorie con le
quali si misurava erano tre: (a) quella della superiorità del
latino; (b) quella detta cortigiana ( cortigiana, lingua); (c) la
fiorentinista o toscanista dell’uso vivente.
Di esse, la prima era la meno difficile da avversare, perché
nel 1525, data di pubblicazione delle Prose, essa aveva ormai perso
mordente, visto che il volgare progrediva e otteneva successi.
Quanto alla teoria cortigiana, buona parte delle notizie che abbiamo
su di essa vengono proprio da Bembo, cioè sono trasmesse da
un avversario. Tale teoria, infatti, era stata sostenuta da Vincenzo
Calmeta in un’opera che non ci è giunta. La teoria cortigiana
è stata definita perciò un fantasma. Più di
recente, ben due libri hanno cercato di eliminare la designazione,
ormai consolidata, di teoria fantasma (cfr. Drusi 1995 e Giovanardi
1998). Senza dubbio la teoria cortigiana trovava rispondenza
nell’uso linguistico di koinè delle corti tra
Quattrocento e Cinquecento, che era dettato però da esigenze
pratiche, senza pretese di coerenza e senza obbedire a una teoria
sistematica.
Di recente è stato ritrovato un sunto del perduto libro di
Vincenzo Colli detto il Calmeta, Della volgar poesia, stilato da
Ludovico Castelvetro, il quale aveva contestato il modo con cui
Bembo aveva esposto le tesi del Calmeta. Nella sintesi di
Castelvetro, la teoria cortigiana pare meno antitetica rispetto alle
teorie di Bembo, perché anche in essa ha parte l’imitazione
delle Tre Corone. Il Calmeta aveva fatto speciale riferimento
all’uso della corte di Roma, il cui carattere cosmopolitico dava
luogo a una realtà linguistica non provinciale. Aveva parlato
della corte di Roma anche Mario Equicola, un altro sostenitore della
teoria cortigiana, mentre Baldassarre Castiglione, nel
Cortegiano, aveva propugnato una lingua non solo toscana, ma comune,
lontana dall’affettazione di arcaismi, non limitata all’imitazione
di Petrarca e Boccaccio, anche se non ostile ad accogliere i
toscanismi accettati dalla tradizione. Si può dunque
ammettere che Bembo, nella propria esposizione, radicalizzasse
alcuni aspetti della teoria cortigiana a scopo polemico e
dialettico. Bembo aveva interpretato la teoria del Calmeta come
riferimento all’uso dei cortigiani romani, non certo a quello del
popolo della città, ma aveva condannato questa lingua, in
quanto, per suo status naturale, gli pareva priva di
omogeneità, nata da «mescolamento», mancante di
«certa e ferma regola» proprio a causa della
varietà degli usi, oltre che per la varietà delle
corti. Per quanto gli studiosi di oggi si siano impegnati a mostrare
la rispondenza tra lingua cortigiana e lingua di koinè, e per
quanto la lingua di koinè adottasse soluzioni in parte
omogenee anche in luoghi geografici diversi, non è difficile
riconoscere la distanza abissale rispetto al rigore della soluzione
bembiana, che non accettava di far riferimento a un uso localizzato,
a un ambiente reale di conversazione quale era la corte, né
poteva ridurre l’imitazione delle Tre Corone a un fatto casuale e
non sistematico. Oltre al resto, Bembo non amava i crudi latinismi
grafici e lessicali di cui la lingua cortigiana faceva largo uso. Di
fatto, la teoria cortigiana, fantasma o no, fu spazzata via dalle
tesi bembiane.
Cosa diversa dalla teoria cortigiana è quella della lingua
comune italiana, esposta da Gian Giorgio Trissino. Contro di
lui non vi è polemica nelle Prose di Bembo, perché le
opere di Trissino sulla questione della lingua furono pubblicate
più tardi, attorno al 1529: sia il dialogo Il castellano (che
prende il nome dal fatto che nel dialogo compare, come portavoce
delle idee dell’autore, Giovanni Rucellai, comandante di Castel
Sant’Angelo, fortezza papale in Roma), sia la traduzione del De
vulgari eloquentia di Dante. In larga parte la teoria di Trissino si
fondava sul libro di Dante, nel quale quasi tutti i volgari italiani
erano condannati, in particolare il toscano, e in cui si auspicava
la formazione di una lingua italiana sovraregionale. Nella
trattazione di Trissino, svolta discendendo dal generale al
particolare, con un procedere logico di matrice aristotelica, ha
sicuramente parte un certo nominalismo, perché la discussione
si concentra proprio sul nome della lingua, prima ancora che sui
suoi caratteri, ma si riesce a cogliere anche la sostanza della
discussione, perché Trissino ritiene inaccettabili toscanismi
come testé, costì, costinci, cotesto, guata, allotta,
suto, e non si fonda affatto, a differenza di Bembo, su una rigida
teoria dell’imitazione. Inoltre la teoria di Trissino apre la strada
ai sostenitori della legittimità del contributo regionale al
lessico, cioè a coloro che avrebbero voluto aprire la lingua
letteraria a parole non toscane (come il grammatico piemontese
Matteo di San Martino). La teoria italianista di Trissino è
comunque cosa diversa da quella cortigiana con cui si misurò
Bembo, la quale traeva le sue ragioni dalla situazione delle corti
tra Quattrocento e Cinquecento.
L’altra tesi con cui si confrontò Bembo è quella
secondo la quale i fiorentini sarebbero stati i naturali portatori
della lingua più «vaga e gentile». La
confutazione del primato fiorentino palesa il contenuto marcatamente
classicistico della tesi bembiana, perché la maggior
naturalezza della parlata dei fiorentini era un fatto talmente
evidente da non poter essere messo in discussione. Tuttavia Bembo
obiettò che proprio la maggior naturalezza nascondeva il
rischio di una contaminazione con gli elementi popolari della
lingua, rischio da cui i non toscani erano più facilmente
immuni, visto che studiavano il volgare come un idioma artificiale.
La tesi può sconcertare noi moderni, ma è
assolutamente coerente con il pensiero di Bembo, e anzi ci aiuta a
metterne a fuoco la splendida inattualità rispetto alle
nostre concezioni.
Per molto tempo le posizioni bembiane, ovunque trionfanti
(influenzarono persino la Chiesa; Chiesa e lingua), destarono
solo reazioni negative a Firenze, dove pareva inammissibile che un
forestiero (Bembo era un patrizio veneziano) si fosse permesso di
dare le regole del volgare toscano. Si tenga presente che la
posizione dominante a Firenze (a parte alcuni isolati consensi alla
teoria di Trissino) accordava assoluta fiducia al primato locale,
così come appare nel Discorso o Dialogo di
Niccolò Machiavelli (opera che però rimase inedita), o
come mostra Carlo Lenzoni nella Difesa della lingua fiorentina (cfr.
Pozzi 1988: 369-371), là dove introduce Machiavelli a
spiegare a certo Messer Maffio, un interlocutore veneto, quanto sia
ridicola la pretesa dei non fiorentini di insegnare il toscano ai
toscani, così come sarebbe stato altrettanto ridicolo che un
toscano, avendo appreso il veneziano per via libresca, avesse
preteso di insegnarlo ai veneziani.
La conciliazione tra le idee di Bembo e il punto di vista fiorentino
si ebbe solo con l’Ercolano di Benedetto Varchi (pubblicato
postumo nel 1570), ampio trattato in cui la questione della lingua
è svolta nel contesto di una concezione totale della lingua,
della sua storia, del suo funzionamento. Varchi seppe riportare
l’attenzione sulla vivacità e dignità del parlato,
evidenziando le qualità del fiorentino vivo e vanificando
allo stesso tempo l’austero rigore delle Prose. L’Ercolano, pur
tributando a Bembo il massimo elogio, ne tradì abilmente
l’insegnamento, sancendo il principio dell’autorità
‘popolare’ (seppure mai troppo bassa, ma piuttosto di tono medio) la
quale doveva affiancare con vantaggio i grandi scrittori. Firenze
poté così candidarsi nuovamente alla guida e al
controllo della lingua, dopo che il successo della teoria bembiana
le aveva tolto il primato. Successivamente, la cultura linguistica
fiorentina, con Lionardo Salviati, proseguì
nell’operazione di snaturamento della teoria bembiana. A lui si deve
l’ideazio-ne del canone che portò nel 1612 al vocabolario
della Crusca ( accademie nella storia della lingua). Salviati
collocò, accanto ai tre grandi del Trecento, una serie di
autori minori e minimi, spesso di livello popolare, modestissimi per
qualità d’arte, trasformando completamente la teoria di
Bembo, la quale non era fondata sul pregio dell’arcaismo in
sé e per sé, cioè sul mito dell’antico, ma
sull’oggettiva constatazione del valore letterario. Tra le due
posizioni passa la differenza che distingue il classicismo
dal purismo, che è invece fondato sulla nostalgia del
passato linguistico, al quale viene attribuita la perfezione. Con
Salviati e con la Crusca, tuttavia, furono superate le posizioni
simili a quelle di Giovan Battista Gelli, esposte nel dialogo
pubblicato assieme alla grammatica di Pierfrancesco Giambullari, nel
1551: in questo dialogo si indicava la difficoltà di dare
regole a una lingua vivente quale il fiorentino, in perenne
evoluzione. Gelli aveva attribuito gran valore all’uso, ma in questo
modo diventava impossibile la creazione di strumenti normativi
affidabili, quali il pubblico italiano desiderava possedere e dei
quali aveva necessità. Anche per questo la teoria
fiorentinista modernista aveva avuto difficoltà ad imporsi,
mentre il bembismo aveva potuto trionfare.
3. Dal Seicento a Manzoni
La Crusca, con l’autorevole vocabolario del 1612, ristampato due
volte nel XVII secolo e un’altra nel XVIII ( lessicografia),
invertì la tendenza: Firenze riebbe la piena autorità
normativa; a conferma di ciò, vediamo realizzata a Firenze
nel XVII secolo una delle più complete grammatiche, quella di
Benedetto Buonmattei.
La questione della lingua, dopo la pubblicazione del Vocabolario
degli Accademici della Crusca, finì per gravitare
essenzialmente attorno al dibattito pro o contro il vocabolario.
L’autorità di Firenze fu in sostanza la questione principale
su cui si discusse di lì in poi. Lo si fece non solo
contrapponendo al fiorentinismo le posizioni italianiste o
cortigiane che già abbiamo visto nel Cinquecento, sovente
collegate al ricordo delle varietà del greco antico, ma
talora anche avversando il primato fiorentino in nome di un
più generico toscanismo, o vantando i meriti di un’altra
città toscana, Siena.
Siena aveva una propria tradizione di lingua e di studi linguistici,
già avviata da Claudio Tolomei nel Cinquecento, continuata
nel Seicento da Celso Cittadini. All’inizio del Settecento, Gerolamo
Gigli (che fu anche curatore degli scritti di Cittadini)
preparò un Dizionario cateriniano (un lessico delle parole di
santa Caterina da Siena) in cui diede libero sfogo a dissacranti
sbeffeggiamenti contro la Crusca e contro la lingua fiorentina, i
cui difetti erano emblematicamente rappresentati dal fenomeno
della gorgia toscana (a Siena molto più tenue),
anch’essa abilmente ridicolizzata. Lo stesso Granduca di Toscana
chiese allora che Gigli fosse punito: fu in effetti bandito da Roma,
dove si trovava; costretto alla pubblica ritrattazione, si ridusse
in miseria. Nel 1717 il Dizionario cateriniano, non ancora giunto
alla fine della stampa (si era alla lettera R), fu bruciato in
piazza: è il caso più celebre in Italia di repressione
nei confronti di un vocabolario, e di uno strumento linguistico in
particolare. Mai la questione della lingua aveva avuto effetti
così severi.
Senza dubbio molti tra i più illuminati e celebri letterati
italiani del Seicento ( età barocca, lingua dell’) e del
Settecento ( Settecento, lingua del) furono avversi al fiorentino e
alle idee della Crusca, la quale, fra l’altro, si era resa
responsabile dell’esclusione dal novero degli autori spogliati
di Torquato Tasso, accolto solo nella terza edizione. Tra
costoro, si possono citare Paolo Beni, Giambattista Marino, Emanuele
Tesauro, Alessandro Tassoni, padre Daniello Bartoli, quest’ultimo
molto attento a verificare le ragioni pretestuose che stanno a volte
dietro i perentori divieti dei grammatici, dietro i loro recisi ma
infondati ‘non si può’. Con il passare del tempo, le
posizioni della Crusca apparvero via via più anacronistiche,
senza che tuttavia si allestissero strumenti normativi diversi. Il
Vocabolario della Crusca, con il suo rigido fiorentinismo e la sua
impostazione arcaicizzante, continuò a fare testo, seppure
ampliato nelle successive edizioni. Nessuno riuscì a
rimpiazzarlo, anche quando il nizzardo Alberti di Villanova
stampò tra il 1797 e il 1805 un dizionario ideato con spirito
illuministico, attento alla terminologia delle arti e dei mestieri
ben più di quanto fosse stata la Crusca, la quale aveva
sempre voluto tenersi distante dal rischio del cosiddetto
nomenclatore, come chiamava il repertorio del lessico tecnico. La
rivoluzione, o meglio la liberazione dai canoni cruscanti, non
poté dirsi allora compiuta. Ad Alberti fu impedito di dare
alle stampe la sua opera a Firenze, come avrebbe voluto: dovette
ripiegare su Lucca. Inoltre Alberti aveva certamente arricchito il
vocabolario, ma la base restava pur sempre il repertorio della
Crusca.
Nel dibattito teorico (se ne vedano i principali documenti in Puppo
196611), molti illuministi furono particolarmente aggressivi verso
la Crusca: così Carlo Denina (che aveva finito per voltare le
spalle alla lingua italiana), così i redattori della rivista
milanese «Il Caffè», e in particolare Alessandro
Verri, autore di una provocatoria e sarcastica Rinunzia avanti
notaio al Vocabolario della Crusca. Ma la migliore, più
completa e più meditata presa di posizione settecentesca
nella questione della lingua, estranea al radicalismo un po’
superficiale di Verri, è senz’altro quella di
Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue, che si
conclude con la proposta di un Consiglio nazionale della lingua da
istituire a Firenze al posto della Crusca, con l’apporto di
intellettuali di tutte le regioni italiane. Cesarotti era aperto non
solo all’accrescimento del lessico tecnico, ma anche ai dialetti,
oltre che ai prestiti forestieri.
Il Saggio di Cesarotti, così disponibile alle novità e
così equilibrato, cadde in un contesto assai sfavorevole, che
ne vanificò il possibile effetto benefico sulla cultura
italiana. Infatti l’invadente primato politico-militare francese
degli anni rivoluzionari e napoleonici ebbe come conseguenza una
diffusa ostilità nei confronti di ogni apertura verso il
prestito dalle lingue straniere e verso la lingua francese in
particolare (si pensi al misogallismo di Vittorio Alfieri o al
trattato di Gian Francesco Galeani Napione Dell’uso e dei pregi
della lingua italiana, che, puntando alla definitiva
italianizzazione del Piemonte, vantava i pregi dell’italiano
rispetto al francese). Si affermò sempre di più
un’affezione fanatica per la tradizione italiana. In mancanza di
unità politica, ci si abbarbicò alla gloriosa lingua
antica, carica di valore simbolico, e ciò determinò un
rinnovato amore per il Trecento. Fiorì allora la stagione
del purismo, ben rappresentato al Sud da Basilio Puoti (che fu
ottimo maestro di allievi famosi, come Francesco De Sanctis), al
Nord dal padre Antonio Cesari e dalla sua Crusca Veronese,
realizzata a Verona, ma più intensamente cruscante della
stessa Crusca fiorentina, quest’ultima già variamente
riproposta nel corso del Settecento in molte ristampe non ufficiali,
in particolare a Venezia e a Napoli. Padre Cesari, con la
Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana,
divulgò il culto del Trecento, epoca in cui tutti (a suo
parere) avevano avuto il merito di scrivere bene, colti o ignoranti
che fossero.
I romantici si occuparono di lingua facendo proprie alcune posizioni
del Settecento illuminista e sensista (così Ludovico di
Breme), ma con vivacità minore rispetto ai classicisti. Si
sviluppò anche, tra romantici e classicisti, una polemica sui
dialetti, nella quale non tutti gli argomenti dei classicisti sono
da considerare reazionari: Carlo Porta attaccò in una serie
di poesie Pietro Giordani, il quale riconosceva nei dialetti un
ostacolo alla comune circolazione delle idee (la polemica aveva un
precedente settecentesco nella disputa tra Giuseppe Parini e padre
Paolo Onofrio Branda). Quanto al purismo, il vero fustigatore di
questa dottrina, «così debolmente e sgraziatamente
presentata e così vigorosamente combattuta», eppure
destinata a «così lunga fortuna in Italia»
(Dionisotti 1971: 121), fu il classicista Vincenzo Monti,
all’apice della celebrità, il quale si dedicò alla
direzione e al coordinamento di quella grande impresa, pubblicata in
molti volumi, che va sotto il titolo di Proposta di correzioni e
aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1826), conclusione della
sua lunga attività di letterato. In questa impresa furono
coinvolti altri studiosi: Giulio Perticari, Giuseppe Grassi, Amedeo
Peyron. La polemica contro Cesari (definito privatamente da Monti
come il «grammuffastronzolo di Verona»), poi estesa al
Vocabolario della Crusca, raggiunge negli scritti di Monti
un’intensità inusitata, talora con toni comico-satirici che
richiamano le più vivaci dispute cinquecentesche, ad es.
quella tra Annibale Caro e Ludovico Castelvetro.
4. Dall’Unità alla metà del Novecento
Il purismo fu combattuto non solo dai classicisti, ma anche da
Alessandro Manzoni, le cui teorie rappresentano il risultato
più profondo della riflessione linguistica dei romantici, con
un esito che il primo Romanticismo non avrebbe fatto supporre. Nel
1825-1827 Manzoni diede alle stampe la prima edizione dei Promessi
sposi, nel 1840-1842 la seconda, rivista nella forma linguistica per
renderla aderente al fiorentino vivo, nel quale giunse a riporre
tutta la propria fiducia. In mezzo sta il soggiorno a Firenze, che
gli consentì di consultare con larghezza parlanti nativi
toscani.
Si noti che Manzoni, a differenza di altri cultori della parlata
toscana, non guardava al fiorentino rurale, conservativo e arcaico,
ma alla parlata della classe colta della città di Firenze: la
sua propensione per l’ambiente urbano è significativa, e lo
differenzia, per es., da Niccolò Tommaseo o da padre
Giambattista Giuliani. Alcuni scritti teorici danno conto della
posizione finale assunta da Manzoni, per es. la lettera al
lessicografo Giacinto Carena del 1847. Ma l’occasione della svolta
per il dibattito sulla questione della lingua fu l’incarico affidato
a Manzoni nel 1868 dal ministro Emilio Broglio perché
presiedesse la doppia commissione (milanese e fiorentina) incaricata
di «ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi
quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli
ordini di popolo la notizia della buona lingua e della buona
pronunzia» ( scuola e lingua). La commissione non raggiunse
l’accordo perché la sottocommissione fiorentina non
aderì alle tesi di Manzoni: questi pubblicò la propria
Relazione sull’unità della lingua nello stesso 1868. Questa
volta la richiesta di intervento era venuta da un ministro dello
Stato unitario, e il dibattito non riguardava le scelte di un
singolo scrittore o di un gruppo di letterati, ma il popolo
dell’intera nazione da poco unificata. La Relazione del 1868
provocò un dibattito vivace, perché proponeva
l’adozione del fiorentino vivo come lingua da divulgare attraverso
l’insegnamento scolastico. Le obiezioni richiamavano le annose
polemiche sul tema: chi difendeva i diritti della lingua letteraria,
chi voleva estendere la funzione di lingua nazionale al toscano
(andando oltre al solo fiorentino). Si noti che Firenze era allora
capitale provvisoria, in attesa di Roma, ancora sotto i papi. Anche
la questione romana si legò alla questione della lingua,
perché v’era motivo di supporre che la nuova capitale, una
volta divenuta italiana, avrebbe influito sullo sviluppo della
lingua nazionale.
Questa era anche l’opinione di Graziadio Isaia Ascoli, il
fondatore della scienza glottologica italiana, il quale intervenne
contro la soluzione manzoniana nel Proemio al primo fascicolo
dell’«Archivio Glottologico Italiano», la rivista che
aveva appena fondato. Il Proemio, scritto nel 1872 e pubblicato nel
1873, fu la più forte risposta alle teorie di Manzoni. La via
indicata da Ascoli si differenziava da tutte le altre, perché
non presupponeva una lingua-modello a cui fare riferimento, non
contrapponeva al toscano di Manzoni un’altra lingua, anche se
considerava favorevolmente il contributo delle regioni al comune
idioma nazionale. Ascoli riteneva che lo sviluppo culturale e
sociale della nazione avrebbe portato in modo naturale
all’unificazione linguistica (anche Luigi Settembrini aveva scritto
che «il pensiero fa la lingua, non la lingua fa il
pensiero», e aveva concluso: «Se volete una buona
lingua, dovete prima fare una buona Italia»; cfr. Marazzini
1977: 62-65). Al modello centralistico di Manzoni (che si era
ispirato alla funzione di Parigi e di Roma antica) veniva
contrapposto un modello policentrico, e la lingua non era
considerata una premessa, bensì una conseguenza dello
sviluppo politico-sociale. Il salto era notevole, e non può
essere attenuato da interpretazioni edulcorate del pensiero
ascoliano (come quella di Francesco D’Ovidio). La tesi di Ascoli, in
ogni modo, non fu mai popolare. Semmai la popolarità maggiore
toccò a interpretazioni facilitate del manzonismo, come
quella di Edmondo De Amicis nell’Idioma gentile (1905), libro che
divulgò la terminologia domestica toscana e diffuse
largamente l’apostolato toscanista anche tra gli educatori. A sua
volta, l’Idioma gentile fu soggetto alla severa critica di
Benedetto Croce, che respinse ogni idea di lingua-modello in nome
della libera espressività individuale.
Toscanismo e fiorentinismo continuarono a essere operanti anche
nella prima metà del Novecento, nonostante il prestigio del
pensiero crociano e l’autorità di Ascoli. Successivamente
all’unificazione italiana, si manifestarono novità nella
politica linguistica, che ora assumeva il carattere di politica
culturale nazionale, con qualche punta autoritaria. Si
profilò una certa avversione ai dialetti e alle lingue di
minoranza, anche prima che il fascismo accentuasse queste tendenze (
fascismo, lingua del). Nello stesso tempo, però, i dialetti
venivano anche utilizzati come strumento di accesso alla lingua
italiana, almeno in alcuni esperimenti ai quali non erano estranei i
suggerimenti forniti da Ascoli, fin dal 1874, al IX congresso
pedagogico italiano.
Si è accennato alla ‘parte di Roma’ nella questione della
lingua. Il ruolo della capitale aveva destato aspettative e
risvegliato gli animi negli anni attorno al 1870 (cfr. Marazzini
1978). La situazione dell’italiano, ora lingua di una nazione
organizzata e moderna, è rivelata anche dal rinnovato
interesse per la pronuncia. Nel 1939, Giulio Bertoni e Francesco
Alessandro Ugolini affrontarono il tema dell’ortoepia nel Prontuario
di pronunzia e di ortografia destinato a diventare strumento
ufficiale dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato ( radio e
lingua; pronuncia). In questa occasione la variante romana,
divergente da quella di Firenze (nei casi di apertura vocalica
diversa, come fedèle/fedéle,
léttera/lèttera, ecc.), fu registrata e proposta come
la pronuncia ‘dell’avvenire’ (più tardi, nel 1945, sul tema
intervenne anche Bruno Migliorini, con il libretto Pronunzia
fiorentina o pronunzia romana?, che conteneva un dialogo e una
rassegna delle divergenze tra Firenze e Roma, con vari riferimenti
all’uso di altre città toscane; neopurismo).
Durante il fascismo ( politica linguistica), la lingua italiana
sembrava avviata a un destino imperiale, con una forte espansione
all’estero, prima di tutto nelle colonie. In quel periodo si
accentuò la politica di contenimento dei dialetti e si
andarono radicalizzando atteggiamenti di natura esterofoba, fino
all’intervento contro i forestierismi attuato dall’Accademia
d’Italia. In tale contesto si inserisce anche la campagna contro
l’uso del lei a vantaggio del tu e del voi ( allocutivi, pronomi).
La caduta del fascismo e la perdita dell’Impero cancellarono le
velleità autoritarie e i sogni di grandezza.
5. Dagli anni Sessanta a oggi
La questione della lingua, a lungo silente, ebbe un fortunato
rilancio nel 1964-1965 con una serie di interventi dello
scrittore Pier Paolo Pasolini che presero l’avvio con una
conferenza, poi pubblicata su «Rinascita» (26 dicembre
1964), intitolata Nuove questioni linguistiche.
Pasolini, che prendeva le mosse dal rapporto tra gli scrittori del
Novecento e la lingua italiana, passava a discorrere della fase in
cui si trovava l’italiano del suo tempo, sostenendo che il centro
irradiatore delle novità linguistiche si era spostato: non
era più a Firenze o a Roma, nei centri umanistici, ma nel
cosiddetto triangolo industriale del Nord. Nel Nord si veniva
formando una nuova lingua, l’italiano tecnologico, legato al fiorire
della nuova classe egemone capitalistica, un italiano brutto,
comunicativo ma non espressivo. Nelle tesi di Pasolini, uomo dalle
molte letture, si mescolava il concetto di egemonia di Gramsci con
concetti stilistici e linguistici ricavati da Gianfranco Contini, da
Charles Bally e da Ferdinand de Saussure. Attorno a questa tesi si
avviò un dibattito molto vivace (cfr. Parlangeli 1971). Le
posizioni di Pasolini furono giudicate in maniera riduttiva, mentre
in realtà il suo innegabile ma geniale dilettantismo legava
la personale concezione di stile ad alcune intuizioni profetiche,
con una sensibilità verso i cambiamenti ben maggiore di
quanto immaginassero molti dei suoi critici. Questo è stato
forse il momento più notevole della questione della lingua
nel Novecento, e ha riguardato la valutazione dello stato della
lingua e del suo destino nella società tecnologica e
industriale.
Negli anni successivi si sono avute altre polemiche notevoli, per
es. quelle connesse con un lungamente discusso progetto di legge
sulla definizione e tutela delle minoranze, infine approvato nel
1999 (legge 482; minoranze linguistiche; legislazione
linguistica), dopo che si era arenato nel 1991 (Tullio De Mauro
stigmatizzò la perplessità manifestata da vari celebri
intellettuali di fronte a questa legge; ma anche quella del 1999
suscitò non poche reazioni negative). Spesso si è
discusso della crisi dell’italiano nella scuola, individuando un
processo di decadimento comunicativo che un fascicolo monografico
della rivista «Sigma» (1-2 del 1985) ha definito come il
trionfo della «lingua selvaggia».
Sta di fatto che molte parole comuni dell’italiano colto sono ormai
ignote o fraintese, soprattutto dai giovani, tanto che il dizionario
Zingarelli 2010 prevede una serie di ‘parole da salvare’
contrassegnate con apposito fiorellino, allusivo a una sorta di
ecologia della lingua.
Quanto ai dialetti, sui quali la polemica ritorna ciclicamente, poco
prima di morire, nel 1975, Pasolini aveva affermato che erano
l’ultima possibilità di difesa dall’omologazione linguistica
(in precedenza aveva mostrato di giudicare severamente l’italiano
diffuso tra le masse proletarie ormai non più dialettofone, e
per questo prive di vitalità e creatività
linguistica). Nell’estate del 2009 si discusse
dell’opportunità di introdurre nelle scuole l’insegnamento
del dialetto (cfr. Pinello 2009). Le discussioni su singole norme
dell’italiano trovano voce in rubriche di alcuni giornali, ma
soprattutto negli spazi dedicati dall’Accademia della Crusca alla
discussione e alla divulgazione. Sono state invocate regole rigide
per ottenere una lingua ‘politicamente corretta’ ( politically
correct), depurata dei pregiudizi legati agli stereotipi e non
sessista (esistono, a proposito del sessismo, le Raccomandazioni
della Commissione nazionale per la realizzazione della parità
tra uomo e donna, pubblicate nel 1986; genere e lingua).
Inoltre si è oggi più sensibili, anche da parte dei
governi, all’esigenza di chiarezza comunicativa negli atti della
pubblica amministrazione (esistono apposite raccolte di
suggerimenti, utili per la formazione dei pubblici funzionari).
Una vivace discussione fu infine suscitata dalla proposta di
istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana (2001),
tema al quale fu dedicato l’editoriale del primo fascicolo della
rivista «Lingua italiana d’oggi» (2004). Temi come
quelli elencati provocano talora discussioni accese, senza
però che il dibattito sulla questione della lingua ritrovi
l’importanza che ebbe nei secoli passati.
da
http://www.edizioniconoscenza.it/articolo.asp?id=1133&eid=134
La faticosa nascita di una lingua
Una delle tante freddure di questa rovente estate ha sollevato una
questione seria. Esame di dialetto ai professori che vogliono
insegnare in una regione diversa da quella d’origine.
Potremmo avere professori interrogati in dialetto, chissà da
chi, poi – rappresentanti della società civile, genitori,
eruditi locali inseriti d’ufficio nei prossimi consigli di istituto,
dialettologi di chiara fama stanati dalle università e messi
al servizio di una politica linguistica –; e su che cosa: lingua e
letteratura lombarda, Manzoni a parte? Grammatica e analisi
testuale? Comprensione e produzione di testi orali e scritti?
E le altre materie, matematica, fisica, storia, filosofia… “mi parli
della critica della ragion pura”… e religione? Bella questa, fra le
altre: religione cattolica, cioè universale, declinata in
bergamasco! Forse sarebbe la giusta risposta al ricominciare a dir
messa in latino, di cui il papa tedesco pare che non potesse proprio
fare a meno; e magari anche all’idea di insegnare in inglese una o
più materie del curricolo, come si prevede nella gelminiana
revisione della formazione iniziale degli insegnanti.
La solita polemica estiva, dunque, roba da ombrelloni, sotto i quali
chiunque può dire quello che vuole, tanto poi l’ombrellone si
chiude e via. Ma siccome sembra che sia allo studio un disegno di
legge (sempre meglio, comunque, che un decreto legge) forse è
il caso di fermarsi un po’ sulla questione, magari per dare qualche
spunto ai legislatori…
La lingua come problema politico
In effetti il problema sollevato da Bossi e C. meriterebbe molta
più attenzione – e sui giornali, un po’ a rilento in
verità (per colpa delle ferie estive?) qualcuno gliela ha
data, anche senza crederci molto (cfr. ad es. la Repubblica del 30/7
e 6/9 2009). E invece si dovrebbe cominciare col ricordare che ogni
volta che “affiora” la questione della lingua – scriveva il troppo
dimenticato Gramsci – vuol dire che ci si trova di fronte a una
serie di questioni, alle quali il problema della lingua va
ricondotto. “La formazione e l’allargamento della classe dirigente,
la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri
tra gruppi dirigenti e la massa popolare nazionale, cioè di
riorganizzare l’egemonia culturale”; al punto che “un aspetto della
lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata la
questione della lingua” (cfr. Quaderni del carcere, ed. critica, a
cura di V. Gerratana, Torino 1975, vol.III, pp. 2345/6). Andrebbero
rilette quelle pagine, assieme ad altre più specifiche
relative alla storia della lingua italiana, e quindi alla storia
sociale degli italiani (e magari al saggio su Alcuni temi della
questione meridionale). Scopriremmo che in fondo Bossi, quando
solleva il problema del dialetto, non solo non fa nulla di
eccezionale, ma senza volerlo coglie un aspetto culturale e politico
di grande importanza.
Se non fosse che a lui del dialetto non importa un fico secco, come
non gli importa della lingua italiana o dell’inglese o, più
in generale, della scuola. È evidente infatti che i suoi sono
solo interessi di natura politica generale, cioè di potere,
indifferente alle questioni specifiche di cui strumentalmente, per
motivi di tattica, si avvale di volta in volta: si tratti della
bandiera regionale, dell’inno di Mameli, delle gabbie salariali,
delle badanti, degli immigrati o, appunto, dei dialetti. A proposito
delle quali, è appena il caso di notare ancora alcuni curiosi
capovolgimenti e curiose contraddizioni: i discendenti di chi impose
– o comunque conseguì – l’unità d’Italia (sconfiggendo
anche il disegno federalista) ora vogliono affossarla; mentre i
discendenti di chi la subì, la rivendicano come un’ancora di
salvezza, con toni patriottici che sanno di retorico lontano un
miglio, e per farlo preparano un “partito del sud” – tra i promotori
del quale, ironia della storia, c’è uno che si chiama
Lombardo! –; d’altra parte, ai “Fratelli” si contrappone il “Va
pensiero”, il cui autore aveva un nome che, preceduto da un
entusiastico “viva”, serviva da acrostico per inneggiare a Vittorio
Emanuele Re d’Italia… Cose che farebbero ridere, se in mezzo non ci
fosse proprio la contraddittoria storia italiana dell’ultimo secolo
e mezzo (di cui sembra che nessuno abbia tanta voglia di parlare,
come ci insegna la vicenda delle celebrazioni del 150°
anniversario).
Ed è così anche per il rapporto tra lingua e dialetti:
forse si è dimenticato che proprio il prevalere del
manzonismo, inteso come modello letterario e come teoria
linguistica, sta alla radice della considerazione dei dialetti come
“malerba”… Curioso, insomma, che per mandare avanti la propria
polemica antitaliana la lega sia costretta a negare le proprie
radici culturali regionali, che sono profondamente patriottiche… Ma
forse non lo fa apposta…
Il ministro e Manzoni
Proviamo a riordinare le cose. Correva l’anno 1868… Un lontano
conterraneo di Bossi, tal don Lisander, autor d’un romanzetto dove
si parla di promessi sposi, fu interpellato dall’allora ministro
della Pubblica Istruzione del neonato regno d’Italia, Broglio. Fatta
l’Italia, tra le altre cose che occorrevano per fare gli italiani
c’era la lingua (oltre che una scuola, ovvero un luogo in cui
insegnarla): ma qual era, questa lingua? Dove trovarla? e
soprattutto, come fare per diffonderla?
Per chi non lo ricordasse può essere utile richiamare la
sostanza delle proposte manzoniane per diffondere l’italiano –
cioè quello che lui riteneva fosse l’italiano – nelle scuole
e quindi nel paese.
Manzoni, considerato il massimo scrittore italiano di quel periodo,
che per quarant’anni aveva continuato il suo lavorìo sulla
lingua del romanzo che l’aveva reso celebre, nella relazione
presentata al ministro affermò con sicurezza quello che
molti, ma non tutti, sembravano disposti ad accettare – e che lui
aveva tentato di mostrare praticamente –, e cioè che
l’italiano parlato, di fatto inesistente se non per una percentuale
minima della popolazione, era da identificarsi col fiorentino
parlato (cioè con un dialetto), sia pure nella variante
colta, consolidata dalla tradizione letteraria, ma mondata dagli
eccessi del purismo e vivificata dall’uso quotidiano; e pensò
che la soluzione potesse articolarsi in poche e (a dirsi) semplici
mosse: mandare gli insegnanti toscani a insegnare l’alfabeto nelle
varie regioni d’Italia e gli insegnanti delle altre regioni a
insegnare l’alfabeto in Toscana e in regioni diverse da quella
d’origine, così che potessero anche loro, se non “sciacquare”
il proprio patrimonio lessicale alla fonte, quanto meno praticare
quell’italiano scritto di cui avevano notizia solo dai libri,
parlandolo. Naturalmente, a loro disposizione sarebbe stato messo un
agile ed economico vocabolarietto da utilizzare e da diffondere
nelle scuole. Una sorta di Comenius ante litteram.
Inguaribile illuminista! Pensava che una lingua si potesse
diffondere semplicemente insegnandola nelle scuole.
Non se ne fece nulla, ovviamente, ma l’idea, per quanto discutibile,
era significativa se non altro del clima e dell’afflato
risorgimentale: avere finalmente una vera lingua comune per
cementare quel processo di unificazione che Machiavelli – e tanti
prima e dopo di lui – aveva auspicato e che era arrivato a
compimento politico.
Lingua e società
Altre sarebbero state le vie lungo le quali questa lingua avrebbe
camminato, come argomentò con efficacia, nel corso del
dibattito seguito alle proposte di Manzoni e dei manzoniani,
Graziadio Isaia Ascoli, glottologo e storico della lingua, il quale
spiegò ai manzoniani che – udite udite – “Firenze non
è Parigi”, per dire che una lingua non si crea a tavolino,
né sui banchi di scuola, né inventando una capitale,
negando la storia…: la lingua è del popolo che la usa e solo
i fenomeni sociali, le trasformazioni politiche, economiche e
culturali complessive comportano mutamenti significativi di lingua:
all’Italia era sempre mancata – e mancava ancora in quel momento
–una capitale, ossia il luogo reale e simbolico in cui risiede una
testa politica capace di guidare i mutamenti; mancava un mercato,
un’economia forte, una rete di uffici, di strutture e di
infrastrutture, una cultura materiale condivisa ecc. Solo grazie a
questi elementi sarebbe nata quella lingua comune che, per il
momento, continuava a restare una lingua per colti, una lingua
“solo” letteraria, che i non fiorentini (e i non romani per motivi
diversi…) potevano apprendere solo dai libri. E infatti, circa l’80%
dei regnicoli – come risultava dal primo censimento effettuato – con
buona pace di Manzoni e del suo vocabolario, era assieme analfabeta
e dialettofona. Malerba, sì, i dialetti; ma pur sempre unica
erba capace di nutrire i discorsi del popolo. Quanto agli
intellettuali, potevano ben usare tutti i registri linguistici,
incluso il dialetto materno, per produrre opere che nel momento
stesso in cui venivano scritte diventavano patrimonio culturale
esclusivo degli alfabetizzati più colti.
Dai dialetti all’italiano popolare
La questione sociale sottostante, che Gramsci aveva ben presente,
è indubbiamente quella del non risolto problema tra nord e
sud d’Italia, di una “questione meridionale” rimasta aperta da 150
anni, ossia da quando gli avi di Bossi riuscirono nel tentativo di
annettersi i territori del regno borbonico dando inizio a uno
sfruttamento diretto di risorse e di manodopera. Le migrazioni
interne dal sud a nord del paese furono il volano dello sviluppo
industriale delle regioni settentrionali; ma furono anche un
fenomeno decisivo – assieme a quelle dalle campagne verso le
città e a quelle verso l’estero – per avviare il lento
rimescolamento linguistico che seguì al processo di
unificazione nazionale, indebolendo le basi dialettali non per
diktat politico di qualcuno (le politiche linguistiche dirigistiche
lasciano sempre il tempo che trovano, quale che sia la lingua che si
vorrebbe imporre…), ma per i cambiamenti materiali indotti nella
base dei parlanti: scambi sempre più intensi tra dialettofoni
diversi, avrebbero prodotto un lento riequilibrio, fino alla nascita
di idiomi diversi rispetto alle lingue d’origine, su base regionale
e su base nazionale, senza cancellare mai del tutto le lingue di
partenza, ma certo modificandole in base alle esigenze di
comunicazione dei soggetti che le usavano.
Assieme a fenomeni che gli storici della lingua hanno ben descritto
(emigrazioni verso l’estero, conseguenti rimesse in denaro, lento
potenziamento del sistema di istruzione, nascita di un sistema
burocratico e di un mercato interno, servizio militare obbligatorio,
primi vagiti della pubblicità, di un sistema informativo e di
produzione culturale su scala nazionale…), i cambiamenti e quindi la
lenta erosione dei dialetti fanno parte del quadro che portò
tra la fine del secolo XIX e gli inizi del successivo a scorgere i
tratti salienti di una nuova lingua, mai esistita prima di quel
momento in Italia: una lingua parlata veramente dal popolo, che con
fondatezza di giudizio, è stata definita dagli studiosi
“italiano popolare unitario”. Se ne trovano tracce significative
nelle lettere dei prigionieri della prima guerra mondiale che furono
raccolte e analizzate dallo studioso e critico letterario Leo
Spitzer, il quale esercitava all’epoca il poco divertente compito di
censore in uno dei campi austriaci in cui erano tenuti prigionieri i
soldati italiani catturati nei feroci assalti che costellavano la
terribile guerra di trincea.
Espressioni dialettali, regole grammaticali e ortografia
dell’italiano letterario malamente apprese in pochi anni di scuola
elementare, semplificazioni sintattiche ecc. fanno assomigliare
queste lettere ai lontani placiti cassinesi (sao ke kelle terre per
kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte sancti
benedicti) che segnalano, alle soglie dell’anno mille, il passaggio
ormai avvenuto dal latino ai volgari, i nonni dei dialetti…
“amattissimo mia Peppine Viscrive questa letera per farvi sapere la
mie notizie e per oro unotima salute bene e così spere
divoio…poi mia mata sposa miavete mandante addire che volete sapere
una cosa di tutto da qui io non Vipozo farvi sapere una sane cose di
niente”
(indirizzata a Montefalcone, Benevento)
“miacara moglie vidolemie buonenotizie io fino algiordoggi coteuna
perfetta salude” (indirizzata a Poli d’Aquila)
“tu midici che ieri ai visto O. e che la ga un altro fio de cinque
giorni dio ge dagi magari ogni 6 mesi uno cussi non manchera mai
omini” (a Trieste)
“me car socis. It mandi sto strasc at carta par fat save che mi sto
ben at’ salut” (a Novara)
(cfr. L.Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani
1915-1918, Boringhieri, Torino 1976, presentazione di L. Renzi).
Espressioni che tornano nei canti di guerra, in cui al patriottismo
di facciata subentra il dolore individuale e concreto di un popolo
che sta diventando tale nel fuoco di una grande tragedia, che
produce parole e ritmi nuovi, uguali per tutti:
“cara moglie che tu non mi senti/raccomando ai compagni vicini/ di
tenermi da conto i bambini/ che io muoio col tuo nome nel cuor”
(“Gorizia tu sei maledetta”)
Sgrammaticati, fuori da ogni stilema letterario, ma comprensibili e
cantabili da tutti, non come “l’elmo di Scipio” di cui “s’è
cinta la testa” un’Italia “desta” ma ancora distante, anche
perché parla una lingua letteraria, da intellettuali o
comunque da ceti ben scolarizzati, alla quale il bifolco poteva
contrapporre solo il suo dialetto, cioè una lingua adatta a
esprimere sentimenti ed emozioni, bisogni e rabbia, ma non concetti
astratti, poesie e canti, ma non informazioni e analisi economiche,
politiche, culturali, scientifiche ecc.; ma alla quale, dai primi
del ’900 può cominciare a rispondere anche in termini nuovi,
non più limitati da un localismo di breve respiro,
politicamente e umanamente chiuso, ma comprensibili da “ogni uomo
che sente coscienza” – come recitano ancora i versi del canto
“Gorizia, tu sei maledetta” –. Termini e periodi sconnessi quanto si
vuole, ma che annunciano un nuovo sentire, una coscienza unitaria
che non a caso trova una radice profonda proprio nel rifiuto della
guerra; quello stesso rifiuto che dopo la sbornia fascista e la
seconda, tragica guerra, avrebbe prodotto, nel giro di trent’anni
circa, il nitido “l’Italia ripudia la guerra”, che segna e informa
di sé la Costituzione Repubblicana; capolavoro, a suo modo,
di chiarezza linguistica e perciò anche fondativa
dell’unità democratica di un popolo…
L’italiano che nasce – o che ri-nasce – agli inizi del ’900 non
è più dunque una lingua “morta che giace morta nei
libri”, è una lingua usata da un numero crescente di persone
in ogni città e in ogni provincia del Regno, quindi
tendenzialmente nazionale, ma è anche una lingua che esprime,
con la sua stessa esistenza, una sorta di riconciliazione profonda
con l’istruzione e la scuola, se non ancora con l’alta cultura
scientifica e filosofica. Quante lettere di emigranti invitano, in
un italiano stentato ancora pieno di dialettismi, i figli rimasti a
casa a frequentare la scuola, a istruirsi, con sforzo e sacrificio,
per costruirsi un avvenire migliore, quell’avvenire a cui loro
avevano dovuto rinunciare, condannati dalla miseria e dallo
sfruttamento, che sono tutt’uno con l’analfabetismo e il povero
dialetto in cui sono condannati a restare chiusi?
Una lingua che cerca di affrancarsi dai dialetti e dai suoi limitati
orizzonti culturali e che è tutt’altra cosa sia dall’italiano
letterario, sia dai raffinati versi in dialetto prodotti da
intellettuali bilingui come Porta, Belli o Giusti… che spesso
tradiscono, al contrario, un atteggiamento ambiguo, comunque
separato dal popolo-plebe, di cui usano la calda koiné,
mutuano stilemi, ma presentano anche i pesanti retaggi culturali, a
cominciare dal disprezzo e la diffidenza per l’istruzione, la
scuola, la cultura in generale. Si ricorderà il Belli:
“da ste penne e sti libbri maledetti/ ce vo’ tanto a ccapì
ccosa ne naschi?/ grilli in testa, e un diluvio de bbijjetti”
(Er legge e scrive, 27 agosto 1835)
La storia dunque, e non le intenzioni del Manzoni, ha prodotto
questa lingua unitaria e l’ha imposta sui dialetti, e la stessa
storia ha ridotto i dialetti ad essere solo un utile serbatoio
lessicale e uno strumento di comunicazione essenzialmente orale,
valido solo in ambito familiare, ricco quanto si vuole di
espressività e di colore, ma certo privo di uno statuto che
lo renda “insegnabile” in modo formale. A meno di farne oggetto di
studio specialistico. Che altro sono i tanti repertori e le tante
grammatiche descrittive dei dialetti italiani? Che cosa le
monumentali grammatiche storiche della lingua italiana, a partire da
quella di Gerhard Rolfhs?
Sarebbe un grave errore dare l’impressione, ad esempio, che
l’insegnamento/apprendimento del dialetto sia qualcosa di naturale e
di spontaneo, come è apparso in certe dichiarazioni che
sembravano alludere a una sorta di rivalsa plebea, più che
democratica, contro Roma e i professori: mettiamo sotto torchio i
soloni, costringendoli a scendere sul “nostro” terreno, sul terreno
della “nostra” lingua: dialettofoni puri incontrerebbero le stesse
difficoltà di chiunque altro quando tentassero di insegnare
“il” dialetto “in” dialetto… Per non parlare del fatto che gli
immigrati tanto temuti dai leghisti imparano subito proprio il
dialetto dei paesi in cui vivono: e sarebbe il colmo – e forse il
giusto contrappasso – se a insegnare il bergamasco fossero proprio i
tanti, temuti neo-terroni che continuano a “invadere” (e a far
funzionare) il nord d’Italia, e non solo…