Guerrazzi, Francesco Domenico

 

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Scrittore e patriota (Livorno 1804 - Cecina 1873).

Attivo nel movimento democratico risorgimentale, fu membro del governo rivoluzionario in Toscana (1848-49) e deputato dei Parlamenti subalpino e nazionale (1859-70). Tra le sue opere si ricorda il romanzo Battaglia di Benevento (1828).

Vita

Laureatosi a Pisa (1824), fondò l'Indicatore livornese (genn. 1829 - febbr. 1830); impegnato nel movimento democratico risorgimentale, subì più volte persecuzioni e incarceramenti (1829-33). Ebbe gran parte negli avvenimenti toscani del 1848-49; l'8 febbr. 1849 costituì con G. Montanelli e G. Mazzoni il governo provvisorio; il 27 marzo fu eletto dittatore; al ritorno del granduca fu processato e condannato a 15 anni di carcere, commutatigli nell'esilio in Corsica (1853); da qui fuggì a Genova (1859), dove risiedette fino al 1862; deputato del parlamento subalpino, quindi nazionale (1859-70).

Opere

La giovinezza di G. è dominata dall'influenza byroniana (Stanze alla memoria di lord Byron, 1825; La Società, 1824, ma inedito sino al 1899); più tardi (1828) usciva il romanzo già citato Battaglia di Benevento, nel quale già si precisano i caratteri fondamentali di tutta l'opera di G.: passionalità e individualismo che non conoscono limiti nel loro ergersi contro il mondo e la società; un grido di ribellione che si traduce nel convulso stile delle sue opere (Assedio di Firenze, 1836; Veronica Cybo, duchessa di S. Giuliano, 3a ed. 1839; Isabella Orsini, duchessa di Bracciano, 1844).

Quando il verboso patriottismo si spegne in felici e talvolta amare caricature (Serpicina, 1829; Asino, 1857), o un'umana tenerezza attenua la sfrenata esaltazione della propria personalità (Il buco nel muro, 1862), G. raggiunge una rara limpidezza di stile.

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Txt.: L'assedio di Firenze

Txt.: Beatrice Cenci

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DBI

di Zeffiro Ciuffoletti

GUERRAZZI, Francesco Domenico. - Figlio di Francesco Donato, intagliatore in legno, e di Teresa Ramponi, nacque in un quartiere popolare della vecchia Livorno il 12 ag. 1804, proprio quando in città dilagava la febbre gialla. Nelle Note autobiografiche, stese nel 1833, scrisse di essere stato "procreato quasi per svista" e "sotto auspici avversi". Tutti e due i genitori erano, sempre a detta del figlio, irreligiosi: "mio padre, uomo di severe virtù, assai legato al Michelangelo Buonarroti moderno [cioè Filippo Buonarroti], che fu amico del Babeuf, non credeva in Dio". R. Guastalla, il maggior biografo del G., definisce il padre "un poco artista, un po' filosofo, e anche un po' matto". Della madre, che era chiamata "il gallo", il G. scriveva che era "donna di immaginazione caldissima, furiosa, feroce, ardita, qualche volta sublime", tanto che non sapeva se avesse fatto più male "ai suoi figlioli coi suoi furori o nei suoi amori" (Note autobiografiche, a cura di R. Guastalla, Firenze 1899, p. 22). Nelle successive Memorie (Memorie scritte da lui medesimo. A Giuseppe Mazzini intorno all'Assedio di Firenze, ed ai casi della sua vita fino al gennaio 1848, Livorno 1848) il G. ritornò con un rapidissimo cenno alla madre: "me non rallegrarono mai il sorriso né la carezza materna: suprema infelicità".

Al di là del gusto guerrazziano di dilatare la realtà sentimentale, mettendo a nudo sin quasi alla morbosità i propri impulsi e le proprie sofferenze, la sua infanzia non dovette essere facile, specialmente per il rapporto con il padre. Tuttavia le Note autobiografiche presentano molte concessioni alla sensibilità languorosa del suo tempo. Si confessa "repugnante" verso le cose manuali, debole di stomaco, non amante della buona tavola, vendicativo fin da ragazzino per le offese subite, ma anche scettico, di "uno scetticismo formulato con Voltaire, Byron, Goethe" ma alimentato dalla sventura, dalle delusioni che, egli scrive, gli contristarono "troppo presto" la vita e che, unite alle sciagure domestiche, gli inaridirono il cuore. Non c'è dubbio - scrive Sestan - "che le ingiustizie e le angherie subite nel suo tirocinio scolastico contribuirono ad alimentare il suo animo rissoso e vendicativo" (p. 34).

Il G. studiò presso i barnabiti, dove insegnava retorica il famoso padre G.B. Spotorno, classicista e fiero antiromantico, che rispetto agli altri maestri, ignoranti, maneschi e inclini a favorire gli scolari più ricchi, ebbe almeno il merito di avviarlo all'uso "della buona lingua italiana". I suoi studi universitari furono altrettanto burrascosi: nell'aprile 1822 fu allontanato dall'Università di Pisa, dove studiava legge, per motivi politici, e proprio allora cominciò a pensare di espatriare in Inghilterra o negli Stati Uniti d'America, paese che esercitò sempre un grande fascino su di lui. Finalmente nel 1824 il G. riuscì a laurearsi. Intanto proprio a Pisa aveva conosciuto G.G. Byron, che fin dal 1821 vi si era stabilito con la sua amante Teresa Gamba Ghiselli. Tornato a Livorno, il G. gli dedicò le ottave delle Stanze alla memoria di lord Byron (Livorno 1825); e mentre insieme con l'amico T. Bargellini apriva a Livorno uno studio di avvocato, che fino al 1834 fu mandato avanti quasi solo dal collega, sviluppava la sua ricerca letteraria con il dramma I Bianchi e i Neri (ibid. 1827), recensito positivamente da G.E. Benza nell'Indicatore genovese, il periodico diretto da G. Mazzini sul quale lo stesso Benza aveva stretto un nesso tra romanticismo e missione nazionale della letteratura. Nel gennaio 1829 il G. riuscì, d'intesa proprio con il Benza e con C. Bini, a concretizzare con l'Indicatore livornese l'idea di una pubblicazione cui affidare la diffusione del suo acceso patriottismo repubblicano. Ma né il giornalismo né il lavoro di traduttore, intrapreso voltando in italiano per l'Indicatore genovese alcuni brani delle opere di Byron, F. Schiller e W. Goethe, gli diedero la celebrità che ottenne coi quattro volumi del romanzo storico La battaglia di Benevento. Storia del secolo XIII (Livorno 1827-28).

La fama raggiunta come scrittore impegnato sul piano civile gli procurò nel 1830 la nomina di accademico della Labronica, il maggior istituto culturale cittadino. Dopo aver ottenuto l'incarico di commemorare l'auditore F. Salvi, il G. fu prescelto per pronunciare a Firenze l'elogio funebre del pittore F. Sabatelli. Fu in questa occasione che entrò in diretto contatto con G. Capponi, G.B. Niccolini e P. Giordani, "ascoltanti e plaudenti" (F.D. Guerrazzi, Orazioni funebri di illustri italiani, Firenze 1843, p. 18). Ciò non bastò a salvare dalla soppressione l'Indicatore livornese che, attaccato dai reazionari annidati tra gli stessi accademici e fatto oggetto di riserve da parte dei moderati, nel febbraio 1830 cessò le pubblicazioni.

Poco dopo il G. pronunciò, proprio all'interno della Labronica, un acceso elogio di C. Del Fante, che ebbe come conseguenza un confino di sei mesi a Montepulciano: il rigetto della domanda di grazia successivamente sottoposta a Leopoldo II provocò nel G. una crisi di sconforto tale che per un momento pensò di cercare la salvezza nell'esilio. Preferì invece continuare nelle letture, nelle traduzioni (la versione italiana di Lionel Lincoln del romanziere americano J.F. Cooper, che esercitò un'influenza non secondaria su di lui) e nella lettura dei romanzi di M.G. Lewis, di Ann Radcliffe e di Ch. Maturin. Né restò inattivo come autore: risalgono al 1830 l'apologo La Serpicina, il racconto I nuovi tartufi e poi i romanzi Veronica Cybo e Isabella Orsini (tutti compresi nell'edizione Le Monnier degli Scritti, Firenze 1847). Infine, proprio a Montepulciano iniziò a scrivere l'Assedio di Firenze, il romanzo in cui, nel senso di sconfitta e di impotenza che aleggia sulle vicende narrate, sono evidenti le influenze di Cooper, della Radcliffe e di Byron. Dalla Radcliffe, in particolare, il G. riprendeva il gusto per le tinte forti e gli intrecci truculenti, per quell'orrendo che B. Croce avrebbe giudicato "di testa e non di cuore, un'escogitazione di cose terribili non ispirate da reale terrore dell'anima" (p. 29).

Il fallimento della "congiura del Colletta", cioè quel confuso tentativo di spingere Leopoldo II a concedere nel gennaio 1831 la costituzione, accrebbe il senso di sconforto del G. che, ritornato a Livorno al termine del confino, pensò ancora all'esilio e proprio per questo chiese al governatore di Livorno di concedergli il passaporto. Questa volta fu la diffusione coeva delle idee del Mazzini negli ambienti patriottici livornesi a spingere il G. al ripensamento: la sua affiliazione alla Giovine Italia, unitamente con quelle di C. Bini, E. Mayer e P. Bastogi, fece allora di Livorno, col suo porto aperto alle influenze esterne e alla circolazione delle idee, uno dei più importanti centri di irradiazione della Giovine Italia. Nell'estate 1832 la cospirazione repubblicana provocò la prima repressione: arrestato e condannato a un mese di carcere da scontarsi nella Fortezza Vecchia, il G. ne uscì il 21 settembre. Di lì a poco però fu di nuovo arrestato e spedito nelle carceri del Forte della Stella, a Portoferraio, dove continuò la stesura dell'Assedio di Firenze e scrisse le Note autobiografiche.

La detenzione parve spegnere in lui ogni speranza nel movimento democratico. Ritornato in libertà, lasciò la militanza politica e si diede tutto all'avvocatura e soprattutto, come scrive G. Giusti nelle Memorie, "a cumular denaro", ma anche a scrivere romanzi "intessuti di italiani spiriti, di repubblicana ira, di eloquenti blasfemi, di scetticismo disperato". Come avvocato, lavorò per conto dell'industriale Francesco de Larderel, proprietario dei lagoni di acido borico. Con lui, e con l'aiuto di case inglesi, progettò anche di impiantare una società per costruire una linea ferroviaria per collegare Livorno con la Maremma e lo Stato pontificio. Nel 1835, in occasione di una nuova epidemia di colera, morì il fratello Giovanni Gualberto, che lasciò due figli, e nel 1838 si spense anche il padre. Così dopo l'adozione dei due orfani, tutto il peso della famiglia ricadde sulle sue spalle.

Dopo il successo arriso all'Assedio di Firenze, apparso a Parigi nel 1836 con lo pseudonimo di Anselmo Gualandi e impostosi in forza del suo patriottismo sorretto da uno stile narrativo enfatico quanto faticoso, il G. aveva cominciato a pensare di guadagnare con le sue opere, trovando conferma a tale idea nell'incontro con A. Dumas. Del resto le vicende politiche e i fallimenti dei moti mazziniani lo allontanarono sempre più dalla cospirazione. "Pronto sempre a cooperare alla indipendenza del mio paese - scrisse a G. La Cecilia il 30 ott. 1840 - ho deciso di non mai appartenere a congreghe segrete, e di non contare sopra aiuti o proposte di fuorusciti i quali […] non considero punto efficaci per ora alle cose della patria" (G. La Cecilia, Memorie storico-politiche, a cura di R. Moscati, Milano 1946, p. 369). Erano, tuttavia, scelte sempre sofferte che il G. viveva con animo tormentato e inquieto.

In realtà con i suoi libri era nato il romanzo storico risorgimentale, in una miscela di patriottismo e di sconforto, gonfia, come osservò F. De Sanctis già nel 1856, di "pazze e tumide fantasie" (Saggi critici, a cura di L. Russo, II, p. 69). La pressione esercitata dai controlli della polizia e della censura lo angustiò, così come il pericolo delle contraffazioni e delle edizioni clandestine, ma non estinse il suo spirito patriottico: nel 1847, quando la situazione politica si sbloccò, il G. scrisse altre Memorie, pubblicate a Livorno e diffuse con una lettera dedicatoria a G. Mazzini.

Stampate ma non diffuse alla vigilia del suo arresto, il 6 genn. 1848, furono sequestrate dalla polizia, ma subito ripubblicate clandestinamente. La narrazione della sua vita offriva al G. lo spunto per criticare il moderatismo delle prime riforme liberali del 1847 e per proporsi come una sorta di Prometeo incatenato: "A me il destino disse: soffri, combatti e muori; ed io non mancherò per codardia al mandato" (p. 71); si vantava di aver "contribuito a sporgere sopra il nostro emisfero quest'area di libertà" (ibid.) e si difendeva dalla taccia di sovvertitore e di "agitatore di plebe, provocatore di stragi, comunista, murattiano, belva umana, non uomo" (Lettere, a cura di F. Martini, p. 203) sparsa contro di lui dai moderati; ma nello stesso tempo si accreditava come il più radicale ed energico dei novatori, convinto che monarchia e libertà non fossero compatibili; e, distrutti con l'arma dell'ironia i liberali da salotto, si proclamava orgoglioso di aver realizzato con i suoi scritti "l'opera più efficace per la patria che mai potesse farsi per virtù d'inchiostro" (ibid., p. 107).

Il clima convulso dell'estate 1847 riaccese la memoria degli eroismi che il G. e Massimo d'Azeglio avevano evocato nei loro romanzi. A Gavinana un pellegrinaggio di patrioti si concluse con la lettura dei brani dell'Assedio di Firenze. I popoli toscani si affratellarono nel segno dell'Italia e l'8 settembre la "federazione di Livorno", con 40.000 persone giunte da tutta la Toscana, segnò il trionfo del G. fra gli evviva all'unione italiana e alla costituzione e lo sventolio delle bandiere, fra cui molti tricolori. Manifestazioni di analogo effetto seguirono nelle settimane successive consentendo al G. di gettare "in faccia ai moderati un ritratto di sé e della sua vita da eroe plutarchesco ammodernato con i colori, gli accenti, le passioni di un eroe byroniano" (Sestan, p. 47). Il preparatore e anticipatore dei tempi nuovi era, così, pronto a scendere in campo. Della plebe, che nelle Note autobiografiche aveva definito "matta", o del popolo "bove", egli si presentava ora come incitatore e come moderatore.

Nel 1847-48, il G. "è uno dei suscitatori dei moti livornesi, ma sempre a distanza e in modo da apparire ufficialmente estraneo" (Badaloni, p. 75). Tornato sulla scena politica fin dal 1846, era pronto a sfruttare anche la crisi sociale che travagliava i lavoratori del porto (riduzione dei salari e dell'occupazione) e i tumulti che si verificarono a Livorno fra il dicembre 1847 e il gennaio 1848.

Fu allora che Il Corriere livornese, il giornale che aveva dato fin dall'estate 1847 ampio spazio alla discussione sui progetti di miglioramento del porto, divenne oggetto delle mire del G. che, tuttavia, nell'aprile 1848 divenne direttore dellaGazzetta livornese, un foglio che con lui assunse una decisa coloritura democratica e populista, con collaboratori come P. Cironi, S. De Benedetti e G. La Cecilia. Come punto di riferimento di tutti coloro che ormai non credevano più nel metodo delle riforme, il G. aveva criticato l'appena istituita guardia civica perché appariva come una forza repressiva a difesa della proprietà e perché escludeva i braccianti e le più genuine forze popolari, che, invece, il granduca avrebbe dovuto stringere attorno a sé (Al principe e al popolo. Intorno allo stato delle cose in Toscana, Livorno 1847).

Nel gennaio 1848 il G. scese in piazza per chiedere un pronto armamento della guardia civica, ponendo il problema della partecipazione del popolo alla agognata guerra contro "l'austriaco", ma si ritrovò isolato persino dall'Alba, il foglio dei democratici, e finì in galera. Dopo questo episodio, messe da parte le prese di posizione filomazziniane, si fece ancora più prudente, ma sempre coll'idea di battere i moderati, magari prospettando al principe i vantaggi di una alleanza col popolo per entrare a far parte di una confederazione italiana di grandi Stati monarchici costituzionali e per ingrandire i confini territoriali della Toscana (Condizioni italiane, in Il Corriere livornese, 4-20 apr. 1848).

Il progetto da lui proposto al granduca cercava la via del realismo e della moderazione, ma puntava a sostituire i moderati, allora al governo; attaccava il giobertismo, ma riteneva la repubblica prematura. L'idea repubblicana, che in Toscana doveva significare gloria e ricchezza, metteva, invece, paura, perché, a suo dire, non era quella dell'umanissimo G. Washington ma ricordava il terrore della Rivoluzione francese e il nome di J.-P. Marat "belva di uomo". Così anche le ipotesi di socialismo avanzate dai rivoluzionari francesi, con l'idea del lavoro assicurato a tutti dallo Stato, erano controproducenti sia dal lato economico, sia da quello morale poiché il lavoro garantito toglieva ai popoli la paura della miseria, ma anche la speranza e l'ambizione di migliorare. Le ricette del G. per far fronte al problema sociale erano in quel momento assai più concrete: allargamento della piccola proprietà contadina, liberalizzazione del commercio, aiuti all'industria nascente con agevolazioni finanziarie. Rivolgendosi, inoltre, alla piccola e media borghesia, mirava ad allargare le basi dello Stato, guidando e al contempo controllando le masse popolari, cercando di servirsene per combattere i moderati. Dall'angolo di una città come Livorno, con un proletariato e una borghesia commerciale e finanziaria legati agli affari e ai lavori del porto franco, la sua strategia poteva sembrare del tutto realistica, ma il grande corpo della Toscana mezzadrile era saldamente tenuto dalla nobiltà agraria, che guidava la politica moderata.

Del resto, le vicende toscane si legavano sempre più a quelle nazionali e all'andamento della guerra all'Austria. L'accelerazione degli eventi era tale da bruciare una dopo l'altra le proposte politiche della lega dei principi, poi quella federale rilanciata da V. Gioberti, e infine quella della Costituente di Mazzini. Incontratosi nel giugno 1848 con Gioberti, il G. si accostò al programma piemontese: "La canapa per fare la corda della repubblica non è ancora nata, ma la corda per l'Italia, tutta unita sotto Carlo Alberto, forse è nata e filata", scriveva il G. nel Corriere livornese del 6 giugno 1848. Tuttavia non rinunciò nemmeno al tentativo di conciliare le idee di Gioberti con quelle di Mazzini e della Costituente. L'andamento della guerra contro l'Austria, la sconfitta di Custoza (27 luglio 1848), poi l'armistizio Salasco (9 ag. 1848) e la capitolazione di Milano, segnarono il declino della stella di Carlo Alberto.

In Toscana l'opposizione democratica, che aveva portato alla caduta del ministero di C. Ridolfi e alla formazione del governo Capponi (17 ag. 1848), credeva di poter giocare un ruolo decisivo anche sul piano nazionale dal momento che i programmi dei moderati erano falliti. In presenza di un apparato repressivo complessivamente assai debole, fu dunque facile per i democratici far leva proprio sulla forza rivoluzionaria e popolare di Livorno, il che conferì al G. un ruolo decisivo quando, a seguito dell'arresto del barnabita bolognese A. Gavazzi, che con i suoi discorsi aveva infiammato i patrioti livornesi, il 25 ag. 1848 scoppiò in città una sommossa che il debole governo Capponi non riuscì a sedare.

Davanti a questa situazione, un gruppo influente di commercianti livornesi invitò il G., che si trovava a Firenze come deputato al Consiglio generale, a tornare a Livorno per ristabilirvi l'ordine: il G. aderì sollecitamente, ma il governo di Firenze non riconobbe la sua autorità, anzi nominò governatore di Livorno F. Tartini, che, tuttavia, non riuscì nemmeno a entrare in città. A quel punto Capponi, con il consenso dello stesso G., nominò governatore G. Montanelli; tuttavia le agitazioni a Livorno continuarono e si estesero a Lucca, Arezzo, Pistoia, cosicché Capponi fu costretto a dimettersi (13 ottobre). Mentre cresceva la pressione della piazza a favore di un ministero democratico, anche in contrasto con la maggioranza moderata del Consiglio generale, il granduca su suggerimento del ministro inglese sir George Baillie Hamilton decise di affidare il governo allo stesso Montanelli e al G., attribuendo al primo la presidenza e al secondo gli Interni (27 ottobre).

Prima preoccupazione del G. fu di attenuare con il sostegno della borghesia moderata il carattere democratico del programma montanelliano imperniato sul progetto di convocazione della Costituente italiana in cui personalmente non credeva. Il Consiglio generale fu sciolto e si indissero nuove elezioni che si svolsero il 20 novembre con il vecchio sistema elettorale, che il G. avrebbe voluto allargato, e in un clima di violenza e disordini che ai moderati richiamò il ricordo della Francia di Saint-Just. Da parte dei giornali più estremisti si arrivò infatti a plaudire all'assassinio a Roma del ministro Pellegrino Rossi. I risultati elettorali non modificarono però la composizione della Camera e, mentre a Livorno proseguivano i tumulti popolari, il G. si trovò in difficoltà. Alcune misure economiche e fiscali prese dal governo per arginare il dissesto del bilancio statale, come l'emissione di buoni fruttiferi al 6%, il corso forzoso e il prestito coatto e progressivo, scontentarono sia l'alta borghesia finanziaria, sia la media e piccola borghesia commerciale, già spaventate dalle rivendicazioni dei lavoratori, specialmente quelli più organizzati come i facchini e i navicellai livornesi.

All'inizio del 1849 la situazione toscana subì l'influenza delle vicende romane, sulla spinta dei comitati dei circoli democratici che a Firenze chiedevano una legge per l'elezione di rappresentanti da inviare alla Costituente romana. Il ruolo di moderatore svolto dal G. non alleggerì la posizione di Leopoldo II che il 30 gennaio lasciò Firenze per poi raggiungere a Gaeta Pio IX, essendosi rifiutato di firmare la legge sulla Costituente. Sotto la pressione dei democratici, a Firenze si elesse un governo provvisorio, formato dal G., da Montanelli e dal pratese G. Mazzoni, e fu soprattutto il G. che si oppose alla fusione con Roma per timore sia della reazione interna, sia di quella austriaca o piemontese. Nello stesso tempo colpì gli elementi repubblicani e democratici più avanzati, che sembrava tramassero per rovesciarlo.

La sconfitta di Novara e l'abdicazione di Carlo Alberto resero sempre più difficile la situazione toscana: così il 27 marzo, mentre Montanelli era inviato a Parigi in missione diplomatica, il G. assunse la dittatura e la mantenne per quindici giorni, duranti i quali cercò di accordarsi con i moderati (che lo consideravano un demagogo, "il Potta di Toscana", come lo chiamò G. Giusti) e col ministro inglese a Firenze nel tentativo di richiamare il granduca ed evitare l'invasione austriaca. Quando le squadre dei livornesi su cui poggiava il suo potere a Firenze furono assalite e cacciate dalla città dai popolani fiorentini spalleggiati da contadini, il Municipio di Firenze, retto dai moderati, prese il potere in nome del granduca (12 apr. 1849), creando una commissione provvisoria di governo la quale sciolse l'Assemblea convocata frettolosamente dal G. e lo fece rinchiudere in fortezza. L'11 apr. 1849, lo stesso giorno dell'insurrezione fiorentina, veniva deciso l'intervento militare austriaco in Toscana, cui solo Livorno oppose una breve resistenza. Detenuto nel forte di S. Giorgio, il G. non fu consegnato agli Austriaci ma subì un processo e una condanna a quindici anni di carcere commutata nell'esilio in Corsica.

Durante la detenzione nel carcere delle Murate a Firenze, il G. scrisse l'Apologia(Apologia della vita politica di F.D. G. scritta da lui medesimo, edita a Firenze da Le Monnier nel 1851), a cui fece seguire nel 1852 l'Appendice. Erano in tutto 722 pagine di autodifesa dall'imputazione di lesa maestà, sostenute da un notevole talento letterario e piene di sarcasmo e di vis polemica contro i moderati e contro il sistema giudiziario toscano: confutando l'accusa di aver voluto la repubblica, che in effetti egli considerava un ideale auspicabile ma non ancora realizzabile, il G. sosteneva di aver agito per riconsegnare la Toscana alla monarchia costituzionale lorenese: lo stesso obiettivo dei moderati, che però non fidandosi di lui gli avevano strappato l'iniziativa. Quando l'Apologia uscì, L.G. Cambray Digny sostenne che la pubblicazione della stessa era stata incoraggiata dal governo restaurato e dallo stesso ministro di Grazia e Giustizia N. Lami per screditare insieme sia il G. sia i moderati favorevoli alla costituzione.

Mentre era in attesa del processo, il G. fu impegnato anche dalla redazione del romanzo Beatrice Cenci. Storia del sec. XVI (Pisa 1853), sul cui stile effettistico, "vago del mostruoso" ma di un mostruoso puramente esteriore, si sarebbe abbattuto il giudizio severo del De Sanctis. Poi arrivò la condanna a sette anni di "ergastolo", convertita nell'esilio perpetuo in Corsica. Qui trovò ospitalità e ispirazione per nuovi scritti: L'asino. Sogno (Torino 1857); La torre di Nonza(ibid. 1857); Storia di un moscone (ibid. 1858); Pasquale Paoli, ossia La rotta di Pontenuovo. Racconto corso del sec. XVIII (Milano 1860), dedicato a G. Garibaldi e, come i precedenti, ispirato alle lotte di liberazione dei popoli. È stato notato che proprio con La torre di Nonza inizia "una svolta nell'operar letterario di Guerrazzi, nel suo stile, che cerca soluzioni meno corrive, più realistiche e meno esasperate, acquistando un gusto del riso che gli mancava" (Portinari, p. 460): principali esempi di tale svolta sarebbero appunto L'asino e la Storia di un moscone.

Fuggito dall'esilio corso nel 1856, il G. dopo una sosta nell'isola di Capraia, raggiunse Genova, dove soggiornò fino al 1862, rifiutandosi di tornare in Toscana dopo che B. Ricasoli, capo del governo provvisorio dopo la rivoluzione del 27 apr. 1859, gli aveva negato gli onori dovuti accampando il timore di manifestazioni popolari. Nel 1860 fu eletto deputato nel collegio di Rocca San Casciano e più volte attaccò la politica del Cavour sia sulla questione della cessione di Nizza e della Savoia, sia sulla legge per un prestito di 150 milioni, badando bene, però, a non confondersi con l'opposizione antimonarchica: "che i nostri siano avversi al Cavour o meglio alla sua politica - scrisse il 15 dic. 1860 ad A. Brofferio - piacemi; non piacemi siano rossi; perché la monarchia costituzionale per me costituisce quel che più di solido praticamente possa ottenersi adesso" (Martini, p. 100). Alla monarchia costituzionale restò fedele fino a quando rimase in Parlamento e cioè fino al 1870, quando non fu più rieletto.

Deputato nella VII e VIII legislatura (nel 1861 fu eletto anche nel collegio di Melfi in Basilicata), nel 1863 si dimise, ma fu rieletto nella IX e X legislatura a Livorno I, Lecce, Grosseto e Caltanissetta. Optò sempre per Livorno, ma proprio la sua città lo tradì nelle elezioni del 27 nov. 1870 conferendo il mandato al moderato P. Bastogi. Fu una grave delusione per il G. e per i democratici, che tentarono di rimediare presentandolo a Grosseto nel febbraio 1872, ma gli fu preferito un altro candidato. Il 7 febbraio di quell'anno scrisse da Cecina a un suo sostenitore: "Lasciatemi, dunque, ai miei studi, a scrivere la storia di questi tempi infelici".

Nell'ultimo periodo della sua vita, e mentre si distaccava gradualmente dalla politica, il G. mantenne intensa la sua produzione letteraria con opere come Il buco nel muro (Milano-Torino 1862), L'assedio di Roma (2 voll., Livorno 1863-65) e Il secolo che muore, uscito postumo fra il 1875 e il 1885. A un personaggio in particolare, l'Orazio del Buco nel muro, lo scrittore attribuiva vicende, pensieri e sentimenti propri davanti agli uomini e ai fatti di quegli anni, giudicati con scetticismo moralistico. Nella condanna totale della società, tutte le attività professionali erano sottoposte a una critica amara e corrosiva dalla quale si salvavano solo gli agricoltori; Il secolo che muore, che ne costituiva il seguito, si concludeva con la visione ideale di una società rurale collocata nel lontano Texas, proiezione fantastica della fattoria che il G. possedeva nei pressi di Cecina. Lì si ritirò a vivere e lì morì il 23 sett. 1873.