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Maresciallo d'Italia (Pallanza 1850 - Bordighera 1928), figlio di
Raffaele. Nominato capo di stato maggiore nel luglio 1914, impose
all'esercito una dura disciplina militare e fu destituito dopo la
disfatta di Caporetto (nov. 1917). Senatore dal 1913, dopo la guerra
fu collocato a riposo e nominato maresciallo d'Italia (1924).
Vita e attività. Nel luglio 1914 fu chiamato a sostituire il
gen. A. Pollio come capo di stato maggiore, durante i dieci mesi di
neutralità si adoperò a restituire all'esercito
l'efficienza necessaria per partecipare, occorrendo, alla guerra.
Entrata l'Italia in guerra (1915), C., perseguendo una tattica di
logoramento dell'avversario, si pose in difensiva dallo Stelvio al
medio-alto Isonzo e passò all'offensiva nella regione
isontina. I principali successi ottenuti sotto il suo comando
(caratterizzato peraltro da durissima disciplina e da scarsa
considerazione delle esigenze umane del soldato) furono: l'arresto
dell'offensiva austriaca nel Trentino (primavera 1916), la conquista
di Gorizia, dovuta a un'improvvisa azione ad oriente, e la vittoria
alla Bansizza (estate 1917). L'offensiva di Caporetto (ott. 1917)
costrinse C. a ordinare il ripiegamento dello schieramento orientale
dell'esercito dietro il Piave. Lasciato il comando l'8 nov. 1917 in
seguito a questi avvenimenti e sostituito dal gen. A. Diaz, fu
nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato di
Versailles, ma nel febbr. 1918 fu richiamato in Italia, a
disposizione della commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto, e
nel 1919 collocato a riposo. Senatore del Regno dal 1913, nel 1924
fu nominato maresciallo d'Italia.
*
DBI
di Giorgio Rochat
Nato a Pallanza il 4 sett. 1850, unico figlio
maschio del generale Raffaele e di Clementina Zoppi, divenne allievo
a dieci anni del Collegio militare di Milano, a quindici
dell'Accademia militare di Torino; ne uscì nel 1868 primo
classificato e sottotenente nel corpo di Stato Maggiore, e
passò subito alla Scuola di guerra, dove rimase fino alla
promozione a tenente nel 1870. Prestò servizio in un
reggimento di artiglieria da campagna, poi al comando della
divisione di Firenze, tenuto allora dal padre; capitano nel 1875, fu
trasferito a Roma al comando del corpo di Stato Maggiore, dove fu
tra i compilatori di varie monografie sul territorio di confine
austriaco, che percorse a piedi. Maggiore nel 1883, fu per tre anni
comandante di battaglione nel 62º reggimento di fanteria in
Alba, poi fu al comando del corpo d'armata di Verona, agli ordini
del generale Pianell, che molto lo stimava e lo volle ancora presso
di sé come capo di Stato Maggiore della divisione di Verona.
Colonnello nel 1892, il C. comandò per quattro anni il
10º reggimento bersaglieri (a Cremona e poi a Napoli), che egli
definì il suo più bel comando fino alla guerra; fu poi
capo di Stato Maggiore del corpo d'armata di Firenze, dove
prestò servizio sotto Baldissera, il più rinomato dei
generali italiani.
In più edizioni, a partire dal 1898 (ricordiamo quella
definitiva del 1907, stampata a Napoli), diede alle stampe un
libretto sulla tattica e l'istruzione della fanteria, intitolato
appunto Istruzione tattica, che nel suo nucleo centrale risaliva a
un articolo già pubblicato sulla Rivista militare ital.,
XXXIII(1888), pp. 5-22. In queste pagine osservava che un movimento
offensivo si sarebbe sempre risolto in un attacco frontale, reso
costosissimo dalle moderne armi se non ben preparato e condotto;
riteneva però che il coordinamento delle varie armi, lo
sfruttamento del terreno da parte delle catene di tiratori avanzanti
e una fredda determinazione del comandante avrebbero permesso di
effettuare con successo anche un attacco frontale. Erano però
necessari comandanti autorevoli, quadri affiatati, truppe
disciplinate: e appunto all'istruzione dei reparti era dedicata
l'ultima parte, in cui si raccomandavano esercitazioni di quadri a
partiti contrapposti sul terreno e sulla carta. Il libretto fu assai
favorevolmente accolto da esperti ufficiali, fra cui il Baldissera,
che ebbe parole di elogio per l'autore. Nel 1902questi pubblicava
sulla Rivista militare ital.(XLVII, pp. 1783-1835, 1931-1970,
2131-2181)uno studio Da Weissemburg a Sedan nel 1870, in cui veniva
discussa la condotta tattica dei reparti prussiani nella guerra con
la Francia.
Maggiore generale nel 1898, il C. comandò per sette anni la
brigata Pistoia ad Alessandria e poi all'Aquila; tenente generale
nel 1905, ebbe il comando della divisione di Ancona (1905-07) e di
quella di Napoli (1907-09).
Nel 1906-08 siponeva il problema di dare un successore al capo di
Stato Maggiore dell'esercito, gen. Saletta, ormai anziano, e il nome
del C. era fatto da più parti, tra gli altri dal gen.
Baldissera che lo propose per tre volte al re che lo aveva chiamato
a consiglio. Giocava contro di lui la sua fama di energia senza
compromessi e perciò l'8 marzo 1908 il gen. U. Brusati, primo
aiutante di campo generale del re, gli scriveva chiedendogli di
smentire le voci che gli attribuivano l'intenzione di non accettare
controlli di sorta nell'esercizio del comando. Il 9 marzo il C. gli
rispondeva di avere acquisito dal padre la convinzione che
l'unità di comando fosse assolutamente necessaria alla
vittoria; pertanto, poiché il capo di Stato Maggiore era il
comandante responsabile dell'esercito, non doveva tollerare
intromissioni nella preparazione di pace e ancor più nelle
operazioni belliche, pur facendo salva l'autorità formale del
sovrano. Con queste parole egli giocava coscientemente le sue
probabilità di successo, perché gli ambienti di corte
non avrebbero certo rinunciato a ingerirsi negli affari militari.
Poco dopo, infatti, apprendeva la nomina all'alto incarico del gen.
A. Pollio, che peraltro doveva dare ottima prova.
Nel 1910 il C. assumeva il comando del corpo d'armata di Genova e,
due anni più tardi, era designato per il comando della 2a
armata in caso di guerra, con sede sempre in Genova. In questo
periodo egli si dedicò all'approntamento delle fortificazioni
della frontiera con la Francia e allo studio della cooperazione tra
fanteria e artiglieria, che gli appariva necessaria per lo
sfondamento delle difese nemiche. Nel 1913 veniva nominato senatore
del Regno.
Il 6 luglio 1914 una riunione dei comandanti d'armata lo designava
come nuovo capo di Stato Maggiore dell'esercito, al posto del gen.
Pollio, scomparso immaturamente il 28 giugno. Il 27 luglio egli
assumeva l'alto incarico, mentre stava per scatenarsi la successione
delle mobilitazioni generali delle nazioni europee che doveva
segnare l'inizio della guerra mondiale. Il giudizio del nuovo capo
di Stato Maggiore sull'esercito era duro, e in termini ancora
più severi egli si espresse nel dopoguerra, parlando di una
crisi morale che aggravava la scarsezza di materiali e
l'insufficienza dei quadri. Tuttavia egli non esitò a
predisporre le operazioni offensive contro la Francia previste dai
piani vigenti, che il silenzio del governo gli faceva credere sempre
validi. Dopo la dichiarazione di neutralità il C. chiedeva
l'immediata mobilitazione generale, che sola poteva mettere
l'esercito in condizione di farsi valere: ad essa si oppose il
governo, perché tale provvedimento avrebbe quasi
inevitabilmente portato a un prematuro intervento. Non cessando di
chiedere una politica di forza, il C. dava mano ai provvedimenti
più urgenti per l'esercito, ma solo in ottobre, quando
Salandra ebbe reso noto il rinvio dell'intervento a primavera, fu
possibile impostare una organica preparazione su larga scala.
Il programma Cadorna-Zupelli, attuato dall'ottobre 1914 al maggio
1915, prevedeva la ricostituzione dei reparti dislocati in Libia e
in Albania, pari alla forza di circa quattro divisioni, il
completamento dell'equipaggiamento e dell'armamento individuale, la
trasformazione delle batterie da campagna da sei a quattro pezzi,
tutti a deformazione, la creazione di una modesta artiglieria
pesante campale e l'ampliamento del parco d'assedio, la nomina di
nuovi ufficiali con corsi accelerati (cui si presentarono molti tra
gli interventisti). Contemporaneamente il C. chiedeva la
mobilitazione industriale del paese per la guerra, con obiettivi per
il momento modesti, e curava la riedizione del suo libretto di
tattica (pubblicato a Roma), che nel febbraio 1915 fu distribuito a
tutti gli ufficiali, col titolo Attacco frontale ed ammaestramento
tattico:l'opuscolo univa ottimi principi a una visione dei
combattimenti ormai superata, teneva insufficiente conto della
guerra in corso (ma non era sempre facile afferrarne la
novità anche per gli stessi combattenti) e incoraggiava,
oltre le intenzioni dell'autore, un certo schematismo di mosse, che
avrebbe giustificato in ufficiali impreparati l'assunzione a dogma
del principio dell'attacco frontale anche dopo sanguinosi
insuccessi. Il libretto fu molto criticato nel dopoguerra: in
realtà, era tutta la dottrina prebellica che si rivelava
superata dalla guerra di trincea.
Il 24 maggio 1915 il C. iniziava le operazioni contro le truppe
austro-ungariche con trentacinque solide divisioni e un armamento
purtroppo inadeguato alle crescenti esigenze della guerra di
trincea. Nei trenta mesi in cui tenne il comando dell'esercito il
suo comportamento fu rettilineo, ispirato a principî molto
chiari e meditati: la necessità di un'assoluta unità
di comando che non ammetteva deroghe né controlli, un
elevatissimo senso del dovere che tutto sacrificava alla vittoria,
la convinzione che il paese dovesse concorrere allo sforzo bellico
con una totale adesione alle richieste dell'esercito in uomini e
mezzi. L'impostazione strategica della guerra italiana (cui non
contribuirono né il re né il governo, secondo la
prassi) era semplice: impegnare il maggior numero possibile di
divisioni austro-ungariche e distruggerle. Il C. rifiutava
cioè di indirizzare lo sforzo italiano su obiettivi
territoriali e intendeva progredire oltre l'Isonzo e le Alpi Giulie
verso Lubiana, nella direzione più sensibile per il nemico;
concentrò quindi le sue forze nel Friuli, ordinando uno
schieramento difensivo nel Trentino e permettendo offensive locali
nel Cadore e nella Carnia (che però causarono la dispersione
delle scarse artiglierie pesanti). A questo piano si attenne anche
quando fu evidente che i guadagni territoriali erano limitatissimi e
molto costosi e che la guerra si riduceva a logoramento. Egli
indirizzò quindi i suoi sforzi a ottenere nuove truppe e
soprattutto nuovi materiali bellici, per rinnovare le "spallate"
sull'Isonzo (undici battaglie complessive). Né si
lasciò distrarre dall'offensiva austro-ungarica del Trentino
(maggio 1916), da cui fu sostanzialmente sorpreso. Arrestate le
penetrazioni nemiche con truppe tolte alle riserve, ristabilita una
linea italiana, il C. concentrava nuovamente le sue forze
sull'Isonzo e strappava al nemico Gorizia (agosto 1916), con la
vittoria più sentita dall'opinione pubblica. Nel 1917
rinnovava i suoi assalti oltre l'Isonzo, e con truppe più
provviste di mezzi riusciva a ottenere successi considerevoli
(battaglia della Bainsizza, agosto del 1917) che spingevano
l'Austria-Ungheria sull'orlo del collasso.
Assai ampia ed aderente alla situazione era l'impostazione che il C.
dava ai rapporti con gli alleati e i teatri secondari d'operazioni.
In contrasto con il governo, egli avrebbe voluto ridurre le forze
italiane in Libia e Albania e accrescerle in Macedonia, dove
potevano rappresentare un reale pericolo per il nemico. Era pure
favorevole al più stretto coordinamento con gli eserciti
alleati, cercando nel 1915 l'appoggio dei Russi e dei Serbi,
scatenando più di una offensiva concordata con gli
Anglo-francesi, proponendo nel 1917 il concentramento degli sforzi
dell'Intesa contro l'Austria-Ungheria, punto debole della coalizione
nemica. Anche in questi progetti fu osteggiato dal governo, legato a
una concezione più ristretta della guerra.
La guerra di trincea era guerra di logoramento, e il C. la condusse
con un'energia che non ammetteva ostacoli né debolezze, dando
mano a una severa selezione dei quadri (furono esonerati 206
generali e 255 colonnelli) e a un ampliamento dell'esercito senza
precedenti. I 548 battaglioni di fanteria del 1915 diventavano 867
nel 1917, con un armamento immensamente superiore (per es. 3.000
pezzi di medio calibro invece di 246 e 5.000 di piccolo calibro
invece di 1.772).
Tuttavia egli non seppe ottenere il massimo rendimento da questi
nuovi mezzi sul campo di battaglia: le truppe furono addestrate solo
all'attacco frontale in masse compatte, senza conoscere né
avvolgimento né infiltrazione, le grandi unità
insufficientemente amalgamate per i continui scambi di reparti e per
i siluramenti, trasferimenti e promozioni di alti ufficiali, troppi
comandanti giudicati solo sull'energia con cui sapevano ributtare
truppe esauste ad un ennesimo assalto. Inoltre il C. chiuso in una
aristocratica concezione del dovere, non comprendeva tutte le
esigenze molteplici del nuovo esercito formato da milioni di soldati
semimprovvisati; egli aveva del combattente e della sua disciplina
una concezione troppo rigida e astratta, che lo portava a non curare
abbastanza il benessere materiale e morale delle truppe (turni di
riposo, vitto e licenze, propaganda sugli scopi di guerra,
assistenza alle famiglie, ecc.) e a sospettare mene sovversive e
disfattistiche in ogni segno di stanchezza. E così, dinanzi a
casi di ribellione o di cedimento di reparti nel 1917, il C. non si
soffermava sulla tremenda tensione cui gli uomini erano sottoposti,
ma ordinava fucilazioni sommarie e denunciava l'attività dei
partiti contrari alla guerra e la debolezza del governo.In
realtà, egli era tremendamente solo nella condotta della
guerra: il dogma dell'unità di comando lo portava infatti a
non volere intorno a sé collaboratori troppo autorevoli, con
i quali suddividere le responsabilità, e a non accettare
controlli né consigli, neppure quelli assai timidi del re. Al
Comando supremo il gen. Porro, sottocapo di Stato Maggiore, era
confinato in incarichi secondari e tutto il lavoro gravava su di un
pugno di giovani ufficiali, di grande valore, ma privi di
autorità ed esperienza, nessuno dei quali aveva comandato un
reparto in trincea. Ne derivava l'isolamento del C., privo di
contatti con la truppa, non assistito da un adeguato servizio di
informazioni, spesso non in grado di assicurare l'esecuzione dei
suoi ordini. Si noti infatti che alcuni dei più gravi errori
tattici, come la continuazione degli attacchi contro un nemico ormai
rinfrancato, avvenivano contro le intenzioni del C., il quale, non
disponendo di ufficiali di collegamento e di dipendenti più
affiatati, poteva più facilmente esonerare un comandante che
controllarne l'operato. In complesso, egli aveva saputo formare un
esercito immenso, armarlo con relativa ricchezza e guidarlo con
fermezza e fede, ma non comprenderne appieno tutte le debolezze e le
caratteristiche e quindi non valorizzarne tutte le risorse.
I rapporti tra Comando supremo e governo, poi, furono male impostati
e peggio sviluppati. Prima del conflitto si riteneva inevitabile una
netta separazione di responsabilità tra potere politico e
potere militare: a questi principi s'ispirarono il C., Salandra,
Sonnino, Boselli, anche quando l'estensione crescente dello sforzo
bellico ne dimostrava la fallacia. E già si è detto
che il piano di guerra venne elaborato senza ingerenze politiche,
mentre il patto di Londra e le operazioni oltremare furono condotte
senza richiedere né accettare il parere del capo di Stato
Maggiore. Questi si veniva quindi confermando nell'opinione che a
lui solo spettasse segnalare il fabbisogno dell'esercito in uomini e
materiali, e che il governo non dovesse che adeguarvisi; e in
realtà la lentezza con cui gli uomini politici responsabili
afferravano il carattere totale e le nuove esigenze del conflitto
impediva loro di rivendicare l'effettiva direzione della guerra. Nel
vuoto di potere si inserì quindi l'azione decisa del C., che
diede impulso alla sforzo nazionale e alla mobilitazione industriale
esautorando il ministero della Guerra. Contemporaneamente egli
impediva al governo qualsiasi ingerenza nella condotta delle
operazioni e alle sue spalle sviluppava contatti con elementi
politici interventisti, per imprimere più vigoroso ritmo alla
preparazione bellica.
Grandi campagne di stampa ne innalzavano la figura, con
un'esaltazione sempre meno misurata: la sua posizione poteva
così essere travisata al punto che, nell'estate 1917, gli
veniva chiesto di capeggiare un colpo di Stato di estrema destra per
instaurare una dittatura militare capace di portare alla vittoria.
Il C. rifiutava, ma l'episodio non poteva certo migliorare i suoi
rapporti col governo. Si alimentava una incresciosa situazione di
sfiducia reciproca, che trovava espressione nelle lettere con cui il
C. nel giugno-agosto 1917 rigettava sulla debole politica interna di
Orlando la responsabilità degli episodi di indisciplina e
stanchezza verificatisi tra le truppe.
Il 24 ott. 1917 la 14a armata austrotedesca sfondò le linee
italiane, e da Caporetto progredì rapidamente verso la
pianura veneta. L'offensiva non giungeva inattesa al Comando
supremo, che il 18 settembre aveva diramato istruzioni di massima
per il passaggio allo schieramento difensivo; ma assolutamente
imprevista fu la rapidità dell'avanzata nemica, che toglieva
alle lontane e scarse riserve strategiche italiane la
possibilità di un efficace intervento. Senza soffermarsi ad
analizzare le molteplici cause del crollo delle linee italiane (in
gran parte imputabili ai comandi italiani), il C. attribuì la
rotta a uno sciopero militare, a un collasso delle truppe provocato
dalla propaganda neutralista, e il 27 ottobre diramò un
bollettino (fermato dal governo, ma conosciuto all'estero) in cui si
parlava di "mancata resistenza di reparti della 2a armata vilmente
ritiratisi senza combattere ed ignominiosamente arresisi al nemico".
Lo stesso giorno telegrafava al presidente del Consiglio:
"l'esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i
colpi del nemico interno, per combattere il quale ho inviato al
governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta".
Contemporaneamente egli esitava a dare l'ordine di ripiegamento, che
pure la sorpresa strategica rendeva necessario, e diramava gli
ordini relativi solo il 27 mattina. Il ritardo aggravava le
condizioni della ritirata, che si svolgeva in crescente disordine.
In quei giorni furono confermati i difetti di organizzazione del
Comando supremo: il C. si trovò troppo solo, senza
informazioni aggiornate sulla situazione (e quindi continuò a
credere al collasso di tutta la 2a armata) e senza mezzi per
dirigere i movimenti di ritirata (furono perciò possibili
gravi insubordinazioni di comandanti, che concorsero ad aumentare le
perdite). Ancora il 3 novembre scriveva al presidente del Consiglio:
"siamo di fronte ad una insanabile crisi morale"; ma qualche giorno
dopo, raggiunto il Piave con l'esercito dimezzato ma ancora valido,
egli riprendeva fiducia nei soldati e lanciava l'ordine di
resistenza ad oltranza: "nulla è perduto se lo spirito della
riscossa è pronto, se la volontà non piega".
Il suo esonero era però già stato deciso. Il nuovo
governo costituitosi il 30 ottobre (Orlando presidente, Alfieri
ministro della Guerra) aveva già in animo il provvedimento,
più ancora che per la sconfitta (una sostituzione
rappresentava un salto nel buio), per la convinzione che col C. non
fosse possibile instaurare quella intima collaborazione tra governo
e Comando supremo che pareva necessaria. Erano già stati
designati Diaz e Giardino col favore del re, ma ogni decisione era
stata rinviata nel tempo, per attendere la stabilizzazione del
fronte (e quindi il 30 ottobre Orlando telegrafava al C. la sua
fiducia). Ma il 6 novembre nel convegno di Rapallo gli
Anglo-francesi ponevano come condizione della concessione delle loro
truppe la sostituzione immediata del C., cui addebitavano il
disordine della ritirata e il cattivo funzionamento del Comando
supremo. Il 9 novembre il C. era perciò sostituito con Diaz e
nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato con
sede a Versailles. La buona prova del nuovo Comando supremo durante
l'ultimo anno di guerra avrebbe finito di comprovare
l'opportunità dell'esonero. Accanto ai limiti accennati,
è però necessario riconoscere al C. la grandezza della
fede, l'ampiezza della visione strategica, la cognizione delle
necessità della guerra moderna e infine l'energia con cui
condusse due anni e mezzo di sanguinosi combattimenti.
Nel nuovo incarico, accettato solo per senso di dovere, il C. si
adoperò con acutezza e larghezza di idee a promuovere una
direzione unitaria degli alleati, avendo a colleghi i generali Foch,
francese, e Wilson, britannico. Ma il 17 febbr. 1918 fu
improvvisamente richiamato in Italia e collocato a disposizione
della commissione d'inchiesta nominata dal governo Orlando per far
luce sul disastro di Caporetto. Si iniziava così un durissimo
periodo in cui il C. sarebbe stato indicato all'opinione pubblica
come il principale responsabile della sconfitta e di ogni aspetto
doloroso della guerra. Le conclusioni della commissione, apparse a
fine luglio 1919, muovevano al C. severe censure, che acquistavano
ingiusto risalto dal silenzio con cui si coprivano le
responsabilità di altri esponenti militari e politici: e
subito nel paese si scatenevano violentissime polemiche di stampa,
in cui da entrambe le parti si perdeva il senso della realtà,
passando da una vilissima denigrazione dell'ex comandante supremo a
una faziosa esaltazione. Con130 un gesto che implicitamente
sanzionava le accuse, nel settembre 1919 il C., che un anno prima
era passato in posizione ausiliaria per ragioni d'età, fu
collocato a riposo.
Le polemiche non lo indussero a uscire dal suo sdegnoso silenzio,
pur se in manifestazioni private egli esprimeva simpatie per i
movimenti di ex interventisti. La risposta alle accuse fu affidata
ai due volumi di memorie: La guerra alla fronte italiana fino
all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa (Milano 1921), in
cui il C. tracciò con chiarezza e limpido stile la storia del
conflitto come egli l'aveva vissuto, senza concedere nulla alle
polemiche. Alcuni problemi relativamente secondari, concernenti
specialmente i suoi contrasti col governo sui teatri d'oltremare,
furono poi trattati nelle Altre pagine sulla guerra mondiale (Milano
1925); meno interessanti le Pagine polemiche (Milano 1950),
pubblicate postume dai figli, in cui si ribadiva la versione del C.
sulla rotta di Caporetto, facendo risalire pur sempre le maggiori
responsabilità al governo e alle truppe. Ricordiamo ancora
altre opere storiche, come la biografia del padre (Il gen. Raffaele
Cadorna nel Risorgimento italiano, Milano 1922), assai ricca di
documentazione, e l'introduzione a Le più belle pagine di
Raimondo Montecuccoli, da lui raccolte (Milano 1922). Inoltre il
volume di Lettere famigliari (Milano 1967), selezione delle lettere
degli anni di guerra curata dal figlio Raffaele.
Negli anni del dopoguerra, smorzatesi le polemiche nel paese, la
valutazione della figura e dell'opera del C. continuò a
essere contrastata: uno schieramento che andava dai nazionalisti al
Corriere della Sera e al Mondo si batteva per una completa
riabilitazione, mentre fascisti, giolittiani, popolari e le sinistre
concordavano nell'avversare un provvedimento che avrebbe loro
suonato come glorificazione della guerra regia e non di popolo. Il 4
nov. 1924 Mussolini volle troncare le discussioni sulla guerra
nominando il C. e Diaz marescialli d'Italia; poco prima una
sottoscrizione nazionale aveva offerto al C. una villa nella sua
Pallanza. Egli riprese una attività pubblica in Senato (dove
rientrò il 30 marzo 1925 con un discorso contro il ministro
Di Giorgio, che fece riproporre il suo nome per i più alti
comandi), nell'esercito e con viaggi all'estero.
Morì il 21 dic. 1928 in Bordighera: gli fu eretto nel 1932 un
mausoleo a Pallanza.