Cadorna, Luigi

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Maresciallo d'Italia (Pallanza 1850 - Bordighera 1928), figlio di Raffaele. Nominato capo di stato maggiore nel luglio 1914, impose all'esercito una dura disciplina militare e fu destituito dopo la disfatta di Caporetto (nov. 1917). Senatore dal 1913, dopo la guerra fu collocato a riposo e nominato maresciallo d'Italia (1924).

Vita e attività. Nel luglio 1914 fu chiamato a sostituire il gen. A. Pollio come capo di stato maggiore, durante i dieci mesi di neutralità si adoperò a restituire all'esercito l'efficienza necessaria per partecipare, occorrendo, alla guerra. Entrata l'Italia in guerra (1915), C., perseguendo una tattica di logoramento dell'avversario, si pose in difensiva dallo Stelvio al medio-alto Isonzo e passò all'offensiva nella regione isontina. I principali successi ottenuti sotto il suo comando (caratterizzato peraltro da durissima disciplina e da scarsa considerazione delle esigenze umane del soldato) furono: l'arresto dell'offensiva austriaca nel Trentino (primavera 1916), la conquista di Gorizia, dovuta a un'improvvisa azione ad oriente, e la vittoria alla Bansizza (estate 1917). L'offensiva di Caporetto (ott. 1917) costrinse C. a ordinare il ripiegamento dello schieramento orientale dell'esercito dietro il Piave. Lasciato il comando l'8 nov. 1917 in seguito a questi avvenimenti e sostituito dal gen. A. Diaz, fu nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato di Versailles, ma nel febbr. 1918 fu richiamato in Italia, a disposizione della commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto, e nel 1919 collocato a riposo. Senatore del Regno dal 1913, nel 1924 fu nominato maresciallo d'Italia.

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DBI

di Giorgio Rochat

Nato a Pallanza il 4 sett. 1850, unico figlio maschio del generale Raffaele e di Clementina Zoppi, divenne allievo a dieci anni del Collegio militare di Milano, a quindici dell'Accademia militare di Torino; ne uscì nel 1868 primo classificato e sottotenente nel corpo di Stato Maggiore, e passò subito alla Scuola di guerra, dove rimase fino alla promozione a tenente nel 1870. Prestò servizio in un reggimento di artiglieria da campagna, poi al comando della divisione di Firenze, tenuto allora dal padre; capitano nel 1875, fu trasferito a Roma al comando del corpo di Stato Maggiore, dove fu tra i compilatori di varie monografie sul territorio di confine austriaco, che percorse a piedi. Maggiore nel 1883, fu per tre anni comandante di battaglione nel 62º reggimento di fanteria in Alba, poi fu al comando del corpo d'armata di Verona, agli ordini del generale Pianell, che molto lo stimava e lo volle ancora presso di sé come capo di Stato Maggiore della divisione di Verona. Colonnello nel 1892, il C. comandò per quattro anni il 10º reggimento bersaglieri (a Cremona e poi a Napoli), che egli definì il suo più bel comando fino alla guerra; fu poi capo di Stato Maggiore del corpo d'armata di Firenze, dove prestò servizio sotto Baldissera, il più rinomato dei generali italiani.

In più edizioni, a partire dal 1898 (ricordiamo quella definitiva del 1907, stampata a Napoli), diede alle stampe un libretto sulla tattica e l'istruzione della fanteria, intitolato appunto Istruzione tattica, che nel suo nucleo centrale risaliva a un articolo già pubblicato sulla Rivista militare ital., XXXIII(1888), pp. 5-22. In queste pagine osservava che un movimento offensivo si sarebbe sempre risolto in un attacco frontale, reso costosissimo dalle moderne armi se non ben preparato e condotto; riteneva però che il coordinamento delle varie armi, lo sfruttamento del terreno da parte delle catene di tiratori avanzanti e una fredda determinazione del comandante avrebbero permesso di effettuare con successo anche un attacco frontale. Erano però necessari comandanti autorevoli, quadri affiatati, truppe disciplinate: e appunto all'istruzione dei reparti era dedicata l'ultima parte, in cui si raccomandavano esercitazioni di quadri a partiti contrapposti sul terreno e sulla carta. Il libretto fu assai favorevolmente accolto da esperti ufficiali, fra cui il Baldissera, che ebbe parole di elogio per l'autore. Nel 1902questi pubblicava sulla Rivista militare ital.(XLVII, pp. 1783-1835, 1931-1970, 2131-2181)uno studio Da Weissemburg a Sedan nel 1870, in cui veniva discussa la condotta tattica dei reparti prussiani nella guerra con la Francia.

Maggiore generale nel 1898, il C. comandò per sette anni la brigata Pistoia ad Alessandria e poi all'Aquila; tenente generale nel 1905, ebbe il comando della divisione di Ancona (1905-07) e di quella di Napoli (1907-09).

Nel 1906-08 siponeva il problema di dare un successore al capo di Stato Maggiore dell'esercito, gen. Saletta, ormai anziano, e il nome del C. era fatto da più parti, tra gli altri dal gen. Baldissera che lo propose per tre volte al re che lo aveva chiamato a consiglio. Giocava contro di lui la sua fama di energia senza compromessi e perciò l'8 marzo 1908 il gen. U. Brusati, primo aiutante di campo generale del re, gli scriveva chiedendogli di smentire le voci che gli attribuivano l'intenzione di non accettare controlli di sorta nell'esercizio del comando. Il 9 marzo il C. gli rispondeva di avere acquisito dal padre la convinzione che l'unità di comando fosse assolutamente necessaria alla vittoria; pertanto, poiché il capo di Stato Maggiore era il comandante responsabile dell'esercito, non doveva tollerare intromissioni nella preparazione di pace e ancor più nelle operazioni belliche, pur facendo salva l'autorità formale del sovrano. Con queste parole egli giocava coscientemente le sue probabilità di successo, perché gli ambienti di corte non avrebbero certo rinunciato a ingerirsi negli affari militari. Poco dopo, infatti, apprendeva la nomina all'alto incarico del gen. A. Pollio, che peraltro doveva dare ottima prova.

Nel 1910 il C. assumeva il comando del corpo d'armata di Genova e, due anni più tardi, era designato per il comando della 2a armata in caso di guerra, con sede sempre in Genova. In questo periodo egli si dedicò all'approntamento delle fortificazioni della frontiera con la Francia e allo studio della cooperazione tra fanteria e artiglieria, che gli appariva necessaria per lo sfondamento delle difese nemiche. Nel 1913 veniva nominato senatore del Regno.

Il 6 luglio 1914 una riunione dei comandanti d'armata lo designava come nuovo capo di Stato Maggiore dell'esercito, al posto del gen. Pollio, scomparso immaturamente il 28 giugno. Il 27 luglio egli assumeva l'alto incarico, mentre stava per scatenarsi la successione delle mobilitazioni generali delle nazioni europee che doveva segnare l'inizio della guerra mondiale. Il giudizio del nuovo capo di Stato Maggiore sull'esercito era duro, e in termini ancora più severi egli si espresse nel dopoguerra, parlando di una crisi morale che aggravava la scarsezza di materiali e l'insufficienza dei quadri. Tuttavia egli non esitò a predisporre le operazioni offensive contro la Francia previste dai piani vigenti, che il silenzio del governo gli faceva credere sempre validi. Dopo la dichiarazione di neutralità il C. chiedeva l'immediata mobilitazione generale, che sola poteva mettere l'esercito in condizione di farsi valere: ad essa si oppose il governo, perché tale provvedimento avrebbe quasi inevitabilmente portato a un prematuro intervento. Non cessando di chiedere una politica di forza, il C. dava mano ai provvedimenti più urgenti per l'esercito, ma solo in ottobre, quando Salandra ebbe reso noto il rinvio dell'intervento a primavera, fu possibile impostare una organica preparazione su larga scala.

Il programma Cadorna-Zupelli, attuato dall'ottobre 1914 al maggio 1915, prevedeva la ricostituzione dei reparti dislocati in Libia e in Albania, pari alla forza di circa quattro divisioni, il completamento dell'equipaggiamento e dell'armamento individuale, la trasformazione delle batterie da campagna da sei a quattro pezzi, tutti a deformazione, la creazione di una modesta artiglieria pesante campale e l'ampliamento del parco d'assedio, la nomina di nuovi ufficiali con corsi accelerati (cui si presentarono molti tra gli interventisti). Contemporaneamente il C. chiedeva la mobilitazione industriale del paese per la guerra, con obiettivi per il momento modesti, e curava la riedizione del suo libretto di tattica (pubblicato a Roma), che nel febbraio 1915 fu distribuito a tutti gli ufficiali, col titolo Attacco frontale ed ammaestramento tattico:l'opuscolo univa ottimi principi a una visione dei combattimenti ormai superata, teneva insufficiente conto della guerra in corso (ma non era sempre facile afferrarne la novità anche per gli stessi combattenti) e incoraggiava, oltre le intenzioni dell'autore, un certo schematismo di mosse, che avrebbe giustificato in ufficiali impreparati l'assunzione a dogma del principio dell'attacco frontale anche dopo sanguinosi insuccessi. Il libretto fu molto criticato nel dopoguerra: in realtà, era tutta la dottrina prebellica che si rivelava superata dalla guerra di trincea.

Il 24 maggio 1915 il C. iniziava le operazioni contro le truppe austro-ungariche con trentacinque solide divisioni e un armamento purtroppo inadeguato alle crescenti esigenze della guerra di trincea. Nei trenta mesi in cui tenne il comando dell'esercito il suo comportamento fu rettilineo, ispirato a principî molto chiari e meditati: la necessità di un'assoluta unità di comando che non ammetteva deroghe né controlli, un elevatissimo senso del dovere che tutto sacrificava alla vittoria, la convinzione che il paese dovesse concorrere allo sforzo bellico con una totale adesione alle richieste dell'esercito in uomini e mezzi. L'impostazione strategica della guerra italiana (cui non contribuirono né il re né il governo, secondo la prassi) era semplice: impegnare il maggior numero possibile di divisioni austro-ungariche e distruggerle. Il C. rifiutava cioè di indirizzare lo sforzo italiano su obiettivi territoriali e intendeva progredire oltre l'Isonzo e le Alpi Giulie verso Lubiana, nella direzione più sensibile per il nemico; concentrò quindi le sue forze nel Friuli, ordinando uno schieramento difensivo nel Trentino e permettendo offensive locali nel Cadore e nella Carnia (che però causarono la dispersione delle scarse artiglierie pesanti). A questo piano si attenne anche quando fu evidente che i guadagni territoriali erano limitatissimi e molto costosi e che la guerra si riduceva a logoramento. Egli indirizzò quindi i suoi sforzi a ottenere nuove truppe e soprattutto nuovi materiali bellici, per rinnovare le "spallate" sull'Isonzo (undici battaglie complessive). Né si lasciò distrarre dall'offensiva austro-ungarica del Trentino (maggio 1916), da cui fu sostanzialmente sorpreso. Arrestate le penetrazioni nemiche con truppe tolte alle riserve, ristabilita una linea italiana, il C. concentrava nuovamente le sue forze sull'Isonzo e strappava al nemico Gorizia (agosto 1916), con la vittoria più sentita dall'opinione pubblica. Nel 1917 rinnovava i suoi assalti oltre l'Isonzo, e con truppe più provviste di mezzi riusciva a ottenere successi considerevoli (battaglia della Bainsizza, agosto del 1917) che spingevano l'Austria-Ungheria sull'orlo del collasso.

Assai ampia ed aderente alla situazione era l'impostazione che il C. dava ai rapporti con gli alleati e i teatri secondari d'operazioni. In contrasto con il governo, egli avrebbe voluto ridurre le forze italiane in Libia e Albania e accrescerle in Macedonia, dove potevano rappresentare un reale pericolo per il nemico. Era pure favorevole al più stretto coordinamento con gli eserciti alleati, cercando nel 1915 l'appoggio dei Russi e dei Serbi, scatenando più di una offensiva concordata con gli Anglo-francesi, proponendo nel 1917 il concentramento degli sforzi dell'Intesa contro l'Austria-Ungheria, punto debole della coalizione nemica. Anche in questi progetti fu osteggiato dal governo, legato a una concezione più ristretta della guerra.

La guerra di trincea era guerra di logoramento, e il C. la condusse con un'energia che non ammetteva ostacoli né debolezze, dando mano a una severa selezione dei quadri (furono esonerati 206 generali e 255 colonnelli) e a un ampliamento dell'esercito senza precedenti. I 548 battaglioni di fanteria del 1915 diventavano 867 nel 1917, con un armamento immensamente superiore (per es. 3.000 pezzi di medio calibro invece di 246 e 5.000 di piccolo calibro invece di 1.772).

Tuttavia egli non seppe ottenere il massimo rendimento da questi nuovi mezzi sul campo di battaglia: le truppe furono addestrate solo all'attacco frontale in masse compatte, senza conoscere né avvolgimento né infiltrazione, le grandi unità insufficientemente amalgamate per i continui scambi di reparti e per i siluramenti, trasferimenti e promozioni di alti ufficiali, troppi comandanti giudicati solo sull'energia con cui sapevano ributtare truppe esauste ad un ennesimo assalto. Inoltre il C. chiuso in una aristocratica concezione del dovere, non comprendeva tutte le esigenze molteplici del nuovo esercito formato da milioni di soldati semimprovvisati; egli aveva del combattente e della sua disciplina una concezione troppo rigida e astratta, che lo portava a non curare abbastanza il benessere materiale e morale delle truppe (turni di riposo, vitto e licenze, propaganda sugli scopi di guerra, assistenza alle famiglie, ecc.) e a sospettare mene sovversive e disfattistiche in ogni segno di stanchezza. E così, dinanzi a casi di ribellione o di cedimento di reparti nel 1917, il C. non si soffermava sulla tremenda tensione cui gli uomini erano sottoposti, ma ordinava fucilazioni sommarie e denunciava l'attività dei partiti contrari alla guerra e la debolezza del governo.In realtà, egli era tremendamente solo nella condotta della guerra: il dogma dell'unità di comando lo portava infatti a non volere intorno a sé collaboratori troppo autorevoli, con i quali suddividere le responsabilità, e a non accettare controlli né consigli, neppure quelli assai timidi del re. Al Comando supremo il gen. Porro, sottocapo di Stato Maggiore, era confinato in incarichi secondari e tutto il lavoro gravava su di un pugno di giovani ufficiali, di grande valore, ma privi di autorità ed esperienza, nessuno dei quali aveva comandato un reparto in trincea. Ne derivava l'isolamento del C., privo di contatti con la truppa, non assistito da un adeguato servizio di informazioni, spesso non in grado di assicurare l'esecuzione dei suoi ordini. Si noti infatti che alcuni dei più gravi errori tattici, come la continuazione degli attacchi contro un nemico ormai rinfrancato, avvenivano contro le intenzioni del C., il quale, non disponendo di ufficiali di collegamento e di dipendenti più affiatati, poteva più facilmente esonerare un comandante che controllarne l'operato. In complesso, egli aveva saputo formare un esercito immenso, armarlo con relativa ricchezza e guidarlo con fermezza e fede, ma non comprenderne appieno tutte le debolezze e le caratteristiche e quindi non valorizzarne tutte le risorse.

I rapporti tra Comando supremo e governo, poi, furono male impostati e peggio sviluppati. Prima del conflitto si riteneva inevitabile una netta separazione di responsabilità tra potere politico e potere militare: a questi principi s'ispirarono il C., Salandra, Sonnino, Boselli, anche quando l'estensione crescente dello sforzo bellico ne dimostrava la fallacia. E già si è detto che il piano di guerra venne elaborato senza ingerenze politiche, mentre il patto di Londra e le operazioni oltremare furono condotte senza richiedere né accettare il parere del capo di Stato Maggiore. Questi si veniva quindi confermando nell'opinione che a lui solo spettasse segnalare il fabbisogno dell'esercito in uomini e materiali, e che il governo non dovesse che adeguarvisi; e in realtà la lentezza con cui gli uomini politici responsabili afferravano il carattere totale e le nuove esigenze del conflitto impediva loro di rivendicare l'effettiva direzione della guerra. Nel vuoto di potere si inserì quindi l'azione decisa del C., che diede impulso alla sforzo nazionale e alla mobilitazione industriale esautorando il ministero della Guerra. Contemporaneamente egli impediva al governo qualsiasi ingerenza nella condotta delle operazioni e alle sue spalle sviluppava contatti con elementi politici interventisti, per imprimere più vigoroso ritmo alla preparazione bellica.

Grandi campagne di stampa ne innalzavano la figura, con un'esaltazione sempre meno misurata: la sua posizione poteva così essere travisata al punto che, nell'estate 1917, gli veniva chiesto di capeggiare un colpo di Stato di estrema destra per instaurare una dittatura militare capace di portare alla vittoria. Il C. rifiutava, ma l'episodio non poteva certo migliorare i suoi rapporti col governo. Si alimentava una incresciosa situazione di sfiducia reciproca, che trovava espressione nelle lettere con cui il C. nel giugno-agosto 1917 rigettava sulla debole politica interna di Orlando la responsabilità degli episodi di indisciplina e stanchezza verificatisi tra le truppe.

Il 24 ott. 1917 la 14a armata austrotedesca sfondò le linee italiane, e da Caporetto progredì rapidamente verso la pianura veneta. L'offensiva non giungeva inattesa al Comando supremo, che il 18 settembre aveva diramato istruzioni di massima per il passaggio allo schieramento difensivo; ma assolutamente imprevista fu la rapidità dell'avanzata nemica, che toglieva alle lontane e scarse riserve strategiche italiane la possibilità di un efficace intervento. Senza soffermarsi ad analizzare le molteplici cause del crollo delle linee italiane (in gran parte imputabili ai comandi italiani), il C. attribuì la rotta a uno sciopero militare, a un collasso delle truppe provocato dalla propaganda neutralista, e il 27 ottobre diramò un bollettino (fermato dal governo, ma conosciuto all'estero) in cui si parlava di "mancata resistenza di reparti della 2a armata vilmente ritiratisi senza combattere ed ignominiosamente arresisi al nemico". Lo stesso giorno telegrafava al presidente del Consiglio: "l'esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno, per combattere il quale ho inviato al governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta". Contemporaneamente egli esitava a dare l'ordine di ripiegamento, che pure la sorpresa strategica rendeva necessario, e diramava gli ordini relativi solo il 27 mattina. Il ritardo aggravava le condizioni della ritirata, che si svolgeva in crescente disordine. In quei giorni furono confermati i difetti di organizzazione del Comando supremo: il C. si trovò troppo solo, senza informazioni aggiornate sulla situazione (e quindi continuò a credere al collasso di tutta la 2a armata) e senza mezzi per dirigere i movimenti di ritirata (furono perciò possibili gravi insubordinazioni di comandanti, che concorsero ad aumentare le perdite). Ancora il 3 novembre scriveva al presidente del Consiglio: "siamo di fronte ad una insanabile crisi morale"; ma qualche giorno dopo, raggiunto il Piave con l'esercito dimezzato ma ancora valido, egli riprendeva fiducia nei soldati e lanciava l'ordine di resistenza ad oltranza: "nulla è perduto se lo spirito della riscossa è pronto, se la volontà non piega".

Il suo esonero era però già stato deciso. Il nuovo governo costituitosi il 30 ottobre (Orlando presidente, Alfieri ministro della Guerra) aveva già in animo il provvedimento, più ancora che per la sconfitta (una sostituzione rappresentava un salto nel buio), per la convinzione che col C. non fosse possibile instaurare quella intima collaborazione tra governo e Comando supremo che pareva necessaria. Erano già stati designati Diaz e Giardino col favore del re, ma ogni decisione era stata rinviata nel tempo, per attendere la stabilizzazione del fronte (e quindi il 30 ottobre Orlando telegrafava al C. la sua fiducia). Ma il 6 novembre nel convegno di Rapallo gli Anglo-francesi ponevano come condizione della concessione delle loro truppe la sostituzione immediata del C., cui addebitavano il disordine della ritirata e il cattivo funzionamento del Comando supremo. Il 9 novembre il C. era perciò sostituito con Diaz e nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato con sede a Versailles. La buona prova del nuovo Comando supremo durante l'ultimo anno di guerra avrebbe finito di comprovare l'opportunità dell'esonero. Accanto ai limiti accennati, è però necessario riconoscere al C. la grandezza della fede, l'ampiezza della visione strategica, la cognizione delle necessità della guerra moderna e infine l'energia con cui condusse due anni e mezzo di sanguinosi combattimenti.

Nel nuovo incarico, accettato solo per senso di dovere, il C. si adoperò con acutezza e larghezza di idee a promuovere una direzione unitaria degli alleati, avendo a colleghi i generali Foch, francese, e Wilson, britannico. Ma il 17 febbr. 1918 fu improvvisamente richiamato in Italia e collocato a disposizione della commissione d'inchiesta nominata dal governo Orlando per far luce sul disastro di Caporetto. Si iniziava così un durissimo periodo in cui il C. sarebbe stato indicato all'opinione pubblica come il principale responsabile della sconfitta e di ogni aspetto doloroso della guerra. Le conclusioni della commissione, apparse a fine luglio 1919, muovevano al C. severe censure, che acquistavano ingiusto risalto dal silenzio con cui si coprivano le responsabilità di altri esponenti militari e politici: e subito nel paese si scatenevano violentissime polemiche di stampa, in cui da entrambe le parti si perdeva il senso della realtà, passando da una vilissima denigrazione dell'ex comandante supremo a una faziosa esaltazione. Con130 un gesto che implicitamente sanzionava le accuse, nel settembre 1919 il C., che un anno prima era passato in posizione ausiliaria per ragioni d'età, fu collocato a riposo.

Le polemiche non lo indussero a uscire dal suo sdegnoso silenzio, pur se in manifestazioni private egli esprimeva simpatie per i movimenti di ex interventisti. La risposta alle accuse fu affidata ai due volumi di memorie: La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa (Milano 1921), in cui il C. tracciò con chiarezza e limpido stile la storia del conflitto come egli l'aveva vissuto, senza concedere nulla alle polemiche. Alcuni problemi relativamente secondari, concernenti specialmente i suoi contrasti col governo sui teatri d'oltremare, furono poi trattati nelle Altre pagine sulla guerra mondiale (Milano 1925); meno interessanti le Pagine polemiche (Milano 1950), pubblicate postume dai figli, in cui si ribadiva la versione del C. sulla rotta di Caporetto, facendo risalire pur sempre le maggiori responsabilità al governo e alle truppe. Ricordiamo ancora altre opere storiche, come la biografia del padre (Il gen. Raffaele Cadorna nel Risorgimento italiano, Milano 1922), assai ricca di documentazione, e l'introduzione a Le più belle pagine di Raimondo Montecuccoli, da lui raccolte (Milano 1922). Inoltre il volume di Lettere famigliari (Milano 1967), selezione delle lettere degli anni di guerra curata dal figlio Raffaele.

Negli anni del dopoguerra, smorzatesi le polemiche nel paese, la valutazione della figura e dell'opera del C. continuò a essere contrastata: uno schieramento che andava dai nazionalisti al Corriere della Sera e al Mondo si batteva per una completa riabilitazione, mentre fascisti, giolittiani, popolari e le sinistre concordavano nell'avversare un provvedimento che avrebbe loro suonato come glorificazione della guerra regia e non di popolo. Il 4 nov. 1924 Mussolini volle troncare le discussioni sulla guerra nominando il C. e Diaz marescialli d'Italia; poco prima una sottoscrizione nazionale aveva offerto al C. una villa nella sua Pallanza. Egli riprese una attività pubblica in Senato (dove rientrò il 30 marzo 1925 con un discorso contro il ministro Di Giorgio, che fece riproporre il suo nome per i più alti comandi), nell'esercito e con viaggi all'estero.

Morì il 21 dic. 1928 in Bordighera: gli fu eretto nel 1932 un mausoleo a Pallanza.