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ALFREDO PANZINI
Viaggio di un
povero letterato
MILANO
Fratelli Treves, Editori
INDICE.
Prefazione
I. In attesa del treno
II. Luci nella notte
III. Il mattino a Vicenza
IV. Quattordicimila morti!
V. Bologna di notte
VI. Kara-kiri
VII. Che cosa voleva Mimì
VIII. Le due milionàrie
IX. Magister elegantiarum
X. Effetti di Scaricalàsino
XI. Il sogno della gardènia
XII. Battistero, chiesa, cimitero
XIII. La pupa, il prete e la guerra
XIV. Pècore e uòmini
XV. Venèzia e il trippàjo
XVI. Pax, tibi, Marce, Evangelista meus
XVII. Pìccoli penati
XVIII. Il rèduce dalla guerra
XIX. La festa della mamma
XX. Dunque ròndini, addio!
XXI. L'alloro ed il cipresso
A Titì,
Creatura mia, quando tu sarai grande e leggerai queste pagine, forse
ti verrà desiderio di me.
Ottobre 1916.
A. P.
PREFAZIONE.
Questo libro nàcque senza l'intenzione di diventare un libro.
In orìgine èrano note, o segnalazioni, le quali - in
questo mio viàggio nel lùglio del 1913 -
battèvano con tanta insistenza nell'apparècchio del
cervello, che fui costretto a trovare un lapis e un taccuino.
E come i quìndici giorni del viàggio finìrono,
mi distraevo a Bellària nello sviluppare quei segni ed
appunti.
Capitava allora, assai spesso, su la bicicletta, nel gran sole del
mezzodì, l'alta figura bianca di Renato Serra; e ricordo che
gli lessi quel capìtolo che comìncia: Pisa,
Battistero, Chiesa e Cimitero e poi il campanile che suona o suonava
una volta.
Ricordo che poi volle lèggere lui, e lesse, e segnava le pose
con quella sua voce pacata e pura, che era sua singolare maniera di
lèggere, quasi attendesse un'eco di risposta interiore. Disse
che vi trovava alcun nòbile ritmo.
E così l'anno seguente, che fu il 1914, mandai il manoscritto
all'amico Giovanni Cena, che dirigeva - morto anche lui! - la Nuova
Antologia.
Cena mi consigliò molti tagli o mutilazioni per quelle
ragioni di scrùpolo, che, dal più al meno, si
impòngono ai direttori delle Riviste, in generale; poi, in
particolare, mi consigliò di smèttere con le
impressioni dei miei vagabondaggi.
Così, in proporzioni ridotte, il libro uscì nei
nùmeri del gennaio e del febbraio 1915 della Nuova Antologia.
Ma un po' per la Guerra, un po' per quelle parole di Cena, io non
pensavo più a questo mio lavoro, quando nel 1916 mi sorprese
un «artìcolo»1 di Giovanni Papini - , che allora
non conoscevo di persona - , dove mostrava di essersi accorto di
questo mio Viàggio, anzi diceva al pùblico:
«Come? non vi siete accorti?». Confesso che le parole di
Papini fècero sussultare le ùltime corde del
pianoforte della vanità: che non è mai fracassato
abbastanza sì che non mandi alcun guizzo. E infatti
rileggendo poi me stesso come se altro io fossi stato, mi parve che
in questo libro, scritto prima della Guerra, si contenesse qualcosa
che presentiva la Guerra, e qualcosa anche che meritava di
vìvere anche dopo la Guerra. «Ma perchè
stamparlo se gli ànimi e i corpi dovranno cadere sotto il
tetro materialismo germànico?» Io vissi questi anni in
questo ìncubo; e tutt'al più pensavo a questo libro
come a una tomba per seppellirvi con onore certe gentilezze che la
vittòria germànica avrebbe raso al suolo, come fece
nel suo passàggio di tutte le cose belle.
Ora lo spaventoso ìncubo va dileguando e la vita sembra aver
ragione su quella tetra morte germànica. Perciò il
libro vede la luce.
Certo è che dopo questa Guerra, se veramente desideriamo che
la Germània non vinca, anche se vinta, è
necessària un'altra vittòria: quella su noi stessi.
Ma per ciò che riguarda questo libro, voglio ora sperare che
Giovanni Papini, il quale fu principale cagione della stampa, non se
ne debba pentire.
Roma, ottobre 1918.
Capìtolo Primo.
IN ATTESA DEL TRENO.
- Provi a viaggiare - mi disse il professor A*** direttore del
Manicòmio di M***, il quale mi onora della sua benevolenza.
- Ah, sì, signore, il viaggiare sento che mi farà
più bene che andare alla seconda cantoniera dello
Stèlvio, come mi fu suggerito da altri.
*
«Pensa - dissi a me stesso - che le strade sono tutte tue.
È una grande proprietà! Esse si stèndono
bianche, notte e giorno, e fàsciano il mondo: non rimane che
andare e camminare. Va, dunque, e cammina.» Ma per me ci
vorrebbe un'automòbile. Essa va veloce e spezza il pensiero.
Ma io non ho automòbile.
Io potrei anche salpare per l'Amèrica, come il mio amico
poeta, Gigino. L'esportazione di un poeta italiano in
Amèrica, mi è sembrato un gran fatto.
Ma io non mi posso allontanare troppo.
V'è alcuna cosa (che potrebbe èssere una
pìccola testa bionda di fantolina) che non me lo permette; e
quando mi sono dilungato cento, duecento chilòmetri, ecco, mi
pare che io sia attaccato ad un filo di gomma; e torno addietro.
Approfittiamo allora del treno. Questo gran mezzo di locomozione
può fornire notèvoli illusioni e benefici.
Sdraiato sopra un comodo cuscino, e lanciato ad ottanta chilometri
all'ora, sentirò spezzarmi il pensiero, come in
automòbile; e niente mi vieta di crèdere che tutti
quegli omarini in posizione di attenti al passàggio del treno
sìano i miei servitori; e che quella carrozza imbottita di
velluto sia la mia; e che tutti quei lumi nella notte
rimàngano accesi per me; e che tutti quei superbi
capistazione vèglino per la mia incolumità personale.
Nè io avrò bisogno di comandare. Oh, cosa
bellìssima! Èssere servito e non dover comandare!
Parere proprietàrio e non èssere censito!
Nulla possedendo, io sono padrone di tutto.
Per tutti i detti motivi, ecco dunque: abbonamento di prima classe,
serie IV, durata 15 giorni.
Gran lusso la prima classe, lo so; ma era apposta per facilitare la
illusione. In prima classe, poi, si rimane spesso padroni dello
scompartimento, e c'è più spàzio fra sedile e
sedile. E quando si deve urtare con i nostri stinchi contro gli
stinchi del nostro pròssimo, allora soltanto si capisce la
complicazione di quella legge evangèlica che pare così
sèmplice: Ama il tuo pròssimo come te stesso.
*
Oltre alla tèssera di prima classe, io ero munito di un
cappello quasi pànama; di calze quasi di seta; di scarpe
nuove di un giallo abbagliante, che mi fùrono garantite come
l'ùltima espressione della moda.
Ho preferito poi l'abbonamento anche per evitare la fatica del
decìdere. Per me era del tutto indifferente andare verso
oriente o verso occidente, vedere Pisa piuttosto che Venèzia.
Qualunque rotàia, compresa nell'abbonamento, andava bene per
me. L'importante per me era di abolire un pochino me stesso. E
appena ebbi la tèssera, pensai con riconoscenza a quella
persona sconosciuta, ma certamente piena di càlcoli, che
aveva combinato gli orari e a cui io mi potevo affidare docilmente,
anzi piacevolmente.
L'abbonamento cominciava col giorno 2 lùglio (1913). Era
questione di sapere quale fosse il primo treno in partenza dopo la
mezzanotte.
L'orario che mi offrì un elegante cameriere di un
caffè sotto la Galleria, a Milano, diceva che il primo treno
che parte dopo la mezzanotte, è un diretto per
Venèzia: ore zero e venti. «Andiamo in tale caso a
Venèzia» - dissi a me stesso: - cioè montiamo su
quel treno, e poi decideremo. Io potrò, se mi piace,
scèndere a mezza via, quando sentirò chiamare una
stazione il cui nome mi suoni grazioso.
*
Erano già le ore dieci e tre quarti e tanto valeva
attèndere a quel tavolino di caffè l'ora della
partenza.
- Signor cameriere - dissi al cameriere - mi favorisca una birra e
qualche sandwich.
I miei pensieri io non ricordo più quali fòssero in
quell'ora in cui alternavo delicati sandwiches a fresca birra: ma
certamente èrano come in un'atmosfera in cui è calmato
il vento. Ed ecco levarsi il tùrbine del vento, perchè
passàvano donne, donne, donne con protervi pennacchi e
vestite così impudicamente che io sarei stato in diritto di
domandare un risarcimento.
Mi affrettai, per ragioni di prudenza, verso la stazione.
Però che disgràzia accòrgersi così tardi
che il pudore delle donne è un'invenzione degli
uòmini.
Capìtolo II.
LUCI NELLA NOTTE.
Io devo aver dormito, forse, su quel rosso e servizièvole
cuscino di prima classe. Però ad una certa ora mi sono
interamente svegliato: vedevo un bagliore vermìglio, quasi
un'enorme pupilla, inseguire la strìscia nera del treno, che
fuggiva, scrosciava nella placidità delle cose ancora
dormienti, e come evanescenti.
La stella di Marte?
Ma era un più grande, e più vivo bagliore. Ed esso
veniva dalla terra, non dal cielo.
Ad un tratto quella luce scattò, e fu un altro bagliore
verde: e sùbito dopo una gran bianchezza si diffuse per la
diafaneità della prima ora del giorno, come quando la stella
Diana appare al mattino. E le tre luci scattàvano alterne,
violente, contìnue. Ma il bagliore purpùreo era
più dominante. Oh, quale faro bizzarro arde laggiù!
Siamo arrivati forse già in riva al mare? Allora ricordai:
È il faro tricolore su la torre bianca di San Martino.
Mi risovvenni di aver già visto qualche anno addietro quelle
tre luci alterne. Era sul far della sera, una dolce
incantèvole sera di màggio, ed io mi trovavo
all'estremità del lungo molo nella penisoletta di
Sìrmio.
Non molto discosti da me, alcuni teutònici, col mantello e il
cappellino tirolese, attendèvano, come io pure attendevo,
l'arrivo del piròscafo dalla riviera di Salò. Essi
parlàvano, bonariamente fra loro, assentendo coi loro, ja!
ja! in cadenza, e ogni tanto interrompèvano con grosse risa,
che parèano singhiozzi. Quando ecco, d'un tratto, dinanzi a
noi, su le acque, còrsero come fulmìnei i fasci delle
tre luci: bianco, rosso e verde. Quei fasci si sollevàvano,
ricadèvano giù dal cielo, si alternàvano
sì che parèvano tre enormi catapulte di luce:
parèvano volersi addentrare fra i monti tenebrosi, là
verso Riva di Trento. Allora le pupille di quei tèutoni si
scòssero. Cercàrono donde venìssero quelle
luci, che cosa significàssero. Capìrono in fine.
Parlàrono ancora i grossi tèutoni; ma non
rìsero più.
Quando una stella si accende nel cielo d'Itàlia, le fronti
teutòniche si fanno cupe, e le loro parole si còlmano
di irònica amarezza.
*
Ora, in quel mattino, in breve tempo le tre luci (fuggiva il treno)
rimàsero addietro. Però la torre su l'alto di San
Martino già si distingueva biancheggiare nel giorno nascente.
«A ben considerare - pensai - si tratta anche qui di un faro e
noi qui siamo presso un mare; il mare delle genti teutòniche,
che batte contro quei monti che corònano il Garda,
laggiù. Ma noi vogliamo èssere ragionèvoli e
buoni fratelli in Cristo. Voi, bravi tèutoni, ricordate il
millenàrio vostro impero quando, a cominciare da Carlo Magno,
la spada teutònica pesò sopra di noi: noi abbiamo
altra ìndole e non ricordiamo. Noi non ricordiamo quasi
più che, qui presso, sta un'altra antica torre, più
giù: la torre di Solferino. Lì veramente, il 24 di
giugno 1859, Napoleone III spezzò quella vostra spada
teutònica che ancora gravava su noi. Ma nessun faro vi
splende, nessun segno votivo!»
Ecco, corriamo adesso lungo i begli spaldi di Verona. Brìvidi
di luce còrrono già per la campagna. Così
doveva essere nell'estate del 1859, quando il grosso prìncipe
Plon-plon, a fùria, nella berlina stemmata con
l'àquila di Frància, entra in Verona
«fedele»: le sentinelle austrìache
guàrdano attònite ai colori di Frància. Appare
in tùnica celestina l'èsile sire d'Absburgo, l'erede
di Carlo V. Si duole assai il giòvane sire, che non
rivedrà più la Madonnina del Duomo di Milano,
retàggio di Carlo V. Non la vedrà più! Ben
sperava di rivederla la mattina del 24 giugno! Ora non più.
Mai più!
Sèmbrano vicende d'altri sècoli. Ma il sire di
Absburgo è ancora vivo, e noi lo chiamiamo, con dimestichezza
obliosa, Cecco Beppe; ma il mare delle genti teutòniche
è laggiù, in fondo al Garda; ma il mare delle genti
croate e slave batte ad oriente. Hanno rude ànima e
bellìgera mano quelle genti. Essi non prègiano la
nostra gentilezza latina: e forse questo dolce mattino
geòrgico non li inèbria della santità della
pace.
Quali pàgine del futuro sono scritte nel quaderno che sta su
le ginòcchia di Giove?
*
Io andavo su è giù pel corridòio, io ero il
padrone del treno. Non c'era nessuno. Il treno pareva fuggire
pazzamente per conto suo, ed io guardavo con la curiosità di
un bambino la campagna dai finestrini aperti.
Già albeggiava. Che puro, che ridente mattino! Quali verdure
profonde, allineate, ordinate! e qua e là, ampi
rettàngoli gialli, formati dalle stòppie del grano,
reciso pur ieri. I covoni del grano d'oro si allineàvano a
pèrdita d'òcchio; e la bianchezza dei buoi si moveva
già per ròmpere le stòppie, nella frescura
dell'alba. Dolce mattino geòrgico! oh palpitare del lago di
Virgìlio!
Quanti sècoli sono, o inesàusta terra d'Itàlia,
che tu in lùglio dài tuoi belli esami, combatti le tue
buone battàglie!
*
Il signore chiuso. Ad un tratto - andavo su e giù pel
corridòio - sento disperatamente picchiare sui vetri, dietro
di me. Mi volto. Vedo dietro il cristallo un signore che gestisce
così comicamente che quasi mi viene da rìdere. Ho
capito. È un viaggiatore che è rimasto chiuso dentro
lo scompartimento. Mi prega, a cenni, perchè chiami qualche
guàrdia, che venga a liberarlo. Percorro il treno. È
deserto. Giungo, infine, al bagagliàio, e lì trovo le
guàrdie dormienti nelle disperate attitùdini dei
custodi del Santo Sepolcro. Svèglio i dormienti nella notte.
Il signore chiuso viene liberato: mi stringe la mano con effusione.
Si era fatto chiùdere apposta per dormire con più
sicurezza di non essere disturbato; ma la guàrdia si era
addormentata alla sua volta.
«Non deve mica essere diffìcile assassinare uno in
treno!»
Perchè formai questo pensiero?
*
Quali dolci colli si profìlano in lontananza? Dove siamo? A
Vicenza?
Mi sta in mente che debba èssere una città soavemente
idìllica, Vicenza. Pallàdio mi fa rima con
Arcàdia, e Fogazzaro con Sannazzaro; e l'abate Zanella, che
fu di certo un nòbile ingegno, mi richiama in mente gli
antichi abati incipriati e galanti del Settecento. Ma la colpa di
queste deformazioni è dovuta al ricordo di un caro signore,
che io conosco e rivedo ogni estate, e si chiama signor colonnello.
Ora vive in dolce pace nella sua villa, e si ricorda della vita
militare e della guerra come di un'altra vita. Egli, al mattino,
mette in òrdine i sassolini, i vasetti dei fiori, le statuine
pei vialetti della sua villa; poi tutto lindo e bianco come le sue
statuine, va su e giù pei vialetti leggendo un libriccino di
poesie, le poesie dello Zanella. Mi augura il buon dì e - fra
l'altro - mi dice:
«Leopardi, Fòscolo, Carducci e compagnia bella,
riverisco, riconosco, ammiro, ma non sono per me. L'Astichello,
questi pensierini soavi, tèneri, religiosi, queste belle
armonie, creda mi fanno bene. Quanta pace....»
Ed ecco perchè lo Zanella mi diventò un poeta del
Settecento: e Vicenza con l'Astichello una cittadina
arcàdica.
Sopra Vicenza c'è' Asiago, i sette comuni di Asiago:
«Colònia linguìstica straniera nel
territòrio linguìstico», come è spiegato
in un manuale di letteratura italiana. Ma che bàrbaro
italiano.
E allora mi tornò alla mente un mio compagno di
collègio al Marco Foscarini di Venèzia, il quale era
di Asiago, parlava tedesco e si vantava di èssere discendente
dei Cimbri. Gherardo era il suo nome, ed anche nell'aspetto era
quasi cimbro: massìccio, alto, occhi freddi, cèruli,
capelli irti di un biondo pàllido. In quei tempi in cui nelle
nostre scuole tutto era tedesco, dalle edizioni Taübner al
bastone Jäger, quel mio compagno Gherardo era molto stimato dai
professori. Egli poi aveva instituito in collègio una
spècie di Santa Vehme o tribunale secreto, da cui io subii
molte condanne. Le mie tènere spalle prèsero molti e
segreti pugni: mai però volli riconòscere
l'autorità della Santa Vehme.
Mi sorrise allora l'idea di vedere Asiago che è in alto su
l'alpe; ed altresì di strìngere la mano al mio
compagno Gherardo. «Di Sante Vehme - diceva fra me - ne ho
conosciute poi tante che non è il caso di serbar rancore per
quella che tu fondasti in collègio. Qua, dunque, la mano,
amico, e beviamo insieme.»
Così gli volevo dire, rivedèndolo ad Asiago.
La ferrovia, a rotaia dentata, che conduce ad Asiago, dìcono
che sia molto interessante; e anche questo costituiva un motivo per
discèndere alla prima fermata.
- Scende o non scende? - mi disse bruscamente la guàrdia a
Vicenza.
- Sissignore, scendo.
- Allora fàccia presto perchè il treno parte
sùbito.
Scesi: ma appena il diretto si fu dilungato via, quasi ne ebbi
pentimento. Tutto chiuso, buio, tutto addormentato ancora alla
stazione di Vicenza.
Capìtolo III.
IL MATTINO A VICENZA.
Vicenza: circa ore cinque del mattino.
Esco dalla stazione: oh, che bel piazzale verde, solenne, boscoso
dietro la stazione! Esso è compiutamente deserto. Mi siedo
sopra una banchina. Di contro, da un'enorme parete verde di
altissime piante, ecco perfora la incandescenza del sole nascente.
Apro la valìgia: sturo la bottiglietta, contenente vero
caffè, caffè con la caffeina; sturo e libo lentamente
di contro al sole.
Delizioso! il caffè, la caffeina, il sole, il mattino di
lùglio; la solitùdine del luogo, deliziosa. Fa male il
caffè con la caffeina? bisogna disarmare il caffè,
come scrive il dottor Ry? bisogna disarmare il vino? Altre cose
più feroci, piuttosto, bisognerebbe2 disarmare! Ah, ma noi
siamo gente pacìfica, e disarmiamo il caffè e il vino
innocenti.
Lodo la mia saggezza e la mia previdenza di avere condotto meco
così opportunamente quella bottiglietta di caffè: lodo
anche la mia personale abilità nel preparare il caffè;
sopratutto lodo il tappo, il quale nel percorso Milano-Vicenza ha
tenuto fermo: il caffè non l'hanno bevuto le camìcie e
i fazzoletti; ma lo bevo io, ed è assai buono. Questa volta
sono molto fortunato. Di sòlito i tappi che io metto non
tèngono mai; ovvero calco troppo, e si rompe il vetro:
così che in un modo o nell'altro tutti bèvono
all'infuori di me. Ma questa volta bevo io.
È un frescolino gentile ed il cielo è di una
purità incantèvole, quasi ingènua. È
l'ora che il buon Dio fa la toilette al mondo quando gli
uòmini dòrmono? Nessuno mi proibisce di pensare al
buon Dio; e nemmeno mi è proibito di crèdere che
questo bellìssimo sole apra la sua enorme palpèbra, e
sorrida, fra il fogliame, tutto per me. Accendo un mezzo toscano ed
elevo il suo incenso contro il sole. Anche il toscano è
buono, e il mio pensiero va con riconoscenza verso la anònima
sigaràia che lavorò onestamente, e non lasciò
cadere capelli dalla cuffietta.
Facciamo un breve esame di coscienza; ciò terrà le
veci di una preghiera mattutina: io ora guardo con giòia il
sole.
Io posso ancora gustare il piacere di un òttimo caffè.
Io posso ancora fumare un mezzo toscano; e fra poche ore sarò
in grado di fare un'òttima colazione. Dunque
accontentiàmoci.
Sì, è vero: molte volte ho desiderato di «non
èssere»; ma questa mattina sono di opinione
contrària, e desìdero di rinnovare il contratto di
locazione su la superfìcie del mondo.
Io godevo appena di questo pensiero, quando un'ombra mi passò
davanti, e mi sovvenni di quelli che vivèvano un tempo nel
sole, su la superfìcie del mondo, e sono adesso nell'ombra; e
mi sèmbrano darsi la mano, e gli ùltimi scomparsi sono
più vicini, vicini a me, ed io sento ancora il contatto delle
gèlide e care loro mani. I più lontani scomparsi mi
affèrrano e dìcono: «non ti scordare di
noi!». E più tormentoso è un senso penosamente
oscillante, che mi fa dubitare se la morte sia interamente la morte
o se la vita sia la morte. Certo lui non è più. Ma
perchè così cupa è l'imàgine tua, caro
fanciullo? Fosti così ridente nei dieci anni della tua breve
vita! Ed anche la madre mia non è più. Ella, invece,
non è cupa imàgine: talvolta mi sorride, non so
perchè; mi sorregge ancora, mi par di sentire queste parole:
«Su, coràggio!».
Certo però quei capelli grigi sono voluti andar dietro a quei
mòrbidi rìccioli biondi. Ah, sole, sole, tu non le
essiccherai facilmente queste lagrime!
La vòglia di salire ad Asiago era tutta scomparsa.
Non c'era nessun treno allora in partenza; perchè quando
insorge questo spàsimo convulso del dolore, sento una
necessità di fuggire, fuggire.
Ma ecco per ventura giunge un carrozzone giallo, vuoto, del tram
elèttrico.
Salgo. - Dove va questo tram?
- Il tram attraversa Vicenza - mi si risponde - e poi ritorna ancora
alla stazione.
*
Oh, dolce Vicenza! me ne sta tuttavia la visione nel cuore. La
città dormiva ancora, e il tram mi faceva passare davanti
agli occhi un'armonia di case, casette antiche, istoriate, scure,
adorne di bìfore ed archi; e infra mezzo festoni di verdura,
e tronchi schietti sorgenti, con la pompa delle chiome verdi su nel
gran sereno; e poi acque verdi correnti; e gerani, gerani, fiammanti
gerani, come una giovinezza della natura che sorride sui neri
balconi. Tutti balconi fioriti. Una giovinezza e una decrepitezza in
caro abbracciamento. E stando il tram fermo per qualche minuto, mi
affissai nella chioma tonda di un pino che campeggiava nel cielo: e
insensibilmente mi parve che si movesse per ritmo di danza, come una
fèmina. Eppure l'ària era senza vento.
Sorrisi di letìzia naturale. Oh, Itàlia! Vicenza, cara
città itàlica! Ma per capire la ragione di questa mia
letìzia, bisogna considerare come io avessi lasciato poche
ore prima Milano: Milano enorme, pesante di cemento, con le vie
nuove alla tedesca.
Ma già la città si destava, qualche negozio era
aperto: svelto, barcollando sotto il peso del
«bigòl», passàvano le contadine col loro
cappellùccio: odor di maggiorana; vasi di rame lucenti, colmi
di latte; e un cinguettar di richiami, di saluti cadenzati:
«Buon dì, ciciricì!».
Ad un tratto stupii: davanti ai miei occhi dilatò una piazza
con palagi regali, eccelsi: cùpole, domi, logge si
incendiàvano ai raggi del sole. Ricordai: lì era stata
Venèzia, la Serenìssima. Gente togata e guerriera
sporgeva fantasticamente da quei palagi.
- Com'è quel brulichio scuro lì nella piazza? -
domandai.
- Oggi è mercato.
Il tram mi riportò onestamente alla stazione. Sono le sei e
mezzo. I colli Bèrici rilùcono ora di una verdura
profonda; le chiome, o tonde, o cuspidate degli alberi (pini,
cipressi), dentèllano il cielo, che adesso è di una
purità di cobalto intenso. C'è una villa lassù?
Una villa settecentesca, con logge e colonne, affrescata dal
Tièpolo? Socchiudo gli occhi: vedo tutti i personaggi del
Fogazzaro: le dame in tupè bianco: i signori xe tuti
lustrìssimi, con bei panciotti a fiorami: sièdono
presso una bella fontana, fra quella verdura. Si dòlgono si
pèntono di lor dolci peccati, e se li accarèzzano: si
scàmbiano motti leggiadri in francese e in italiano
venezièvole.
Ma Franco e Luisa del Pìccolo Mondo Antico non sono
lì. Essi stanno in disparte ed immoti: i loro occhi
tranquilli e tetri si vòlgono verso la terra, dove siede di
per sè, immèmore, la pìccola Ombretta:
Ombretta sdegnosa del Missisipì.
Ella porta le pòvere scarpette, cucite da sua madre; ella
giuoca immèmore con una sua pòvera bàmbola.
Perchè lagrimai allora in quel mattino? Perchè vidi
anche la barba nera, il volto tèrreo di Giovanni Segantini
che dipingeva con sacri segni quel quadro, dove sopra un cimitero
due àngioli sostèngono verso il cielo una
pìccola creatura?
Capìtolo IV.
QUATTORDICIMILA MORTI!
Per andare ad Asiago si prende il treno che va a Schio. Ma si scende
prima: a Thiene. Poi altro treno sino a.... Non ricordo più
il nome. Poi altro piccolo treno, con ruote dentate che
salirà l'alpe.
La pianura si stende ubertosa, ben coltivata, sino ai piè
delle Alpi, le quali fanno l'effetto di balzar di colpo minacciose
su dalla lìnea dolce del piano. Asiago si nasconde
lassù fra quei monti: si trova in una conca verde fra quei
monti. Così mi dice la gente. Io ho l'impressione di andare
al confine d'Itàlia.
Questo tratto di lìnea non è compreso
nell'abbonamento. Salgo perciò in terza classe. Mi sta di
fronte un alpino in montura grìgia: è un fanciullo
imberbe, ròseo, sano: ma che mani, ma che piedi! o almeno che
scarpe! Ha lo zàino affardellato che ricorda la
sàrcina dell'antico legionàrio. I suoi occhi celesti
vàgano senza l'ombra di un pensiero. Parla vèneto.
Parliamo. Ora va in montagna a raggiùngere il suo reggimento,
poi verosimilmente andrà in Lìbia. Certo bisogna
sostituire quelli della leva del 1891. Andrà dove lo
manderanno, farà quello che gli comanderanno. Molti non sono
tornati. Lo sa. Ma i suoi occhi celesti non hanno l'ombra di un
pensiero. Ora su le Alpi la vita è faticosa; ma l'acqua
è buona, i suoi superiori sono buoni. Per mangiare, essi, i
soldati, si fanno la minestra in gruppi di quattro o sei, e la
cuòciono con la legna dei boschi; e la minestra è
buona.
Alla stazione di Thiene grìdano i giornali del mattino.
È scoppiata ancora la guerra nella penìsola
balcànica! I giornali ne parlàvano come di cosa
probàbile nei giorni addietro. Ma come era possìbile
crèderci dopo sei mesi di guerra! E che orrìbile
guerra! Allora Bulgaria, Grècia, Montenegro come belve feroci
contro quell'altra antica feròcia, che è la Turchia. E
adesso Grècia e Sèrbia contro la Bulgària? Gli
alleati di ieri sono diventati i nemici di oggi?
Comunque sia, le prime notìzie dei giornali sono
impressionanti. Leggo: I Greci alla riscossa. Istip distrutta dalle
artiglierie serbe. Quattordicimila morti nella prima battaglia. Ma
le grandi Potenze ne sono indignate. Dunque la guerra è
scoppiata contro la volontà delle grandi Potenze!
Perchè è scoppiata questa seconda guerra? Compro, apro
tutti i giornali: tutti i giornali sono confusi ed indignati al pari
delle grandi Potenze. Bisogna supporre che un re o più re,
dinanzi ai quali i popoli dìcono, «Evviva,
Zìvio, Hurrà, Hoch!», si siano incontrati, e
invece di dire: Pace! come fanno di sòlito quando si
incòntrano, àbbiano detto: Guerra! No, non pare che
sia così. Pare che la guerra sia scoppiata di per sè,
per accumulamento di matèria umana esplosiva. Gli
uòmini esplòdono dunque anche senza i re? Se fosse
vero, sarebbe un fatto molto grave, perchè non basterebbe
più abolire i re, come molti consìgliano. Una cosa
però è certa: Quattordicimila morti nella prima
battàglia. E allora occorreranno quattordicimila casse da
morto! Non so perchè guardo in su e vedo la piràmide
di quattordicimila casse da morto.
È orrìbile! Ma la gente nella luminosa carrozza di
terza classe, è tranquilla. Guardo il mio dolce alpino
davanti a me. È tranquillo. Guardo nei campi le tranquille
òpere geòrgiche; i falciatori recìdono con le
falci l'altìssimo fieno. Eppure, ora, in un campo del mondo,
esìstono quattordicimila morti; una piràmide di
quattordicimila morti! occhi spenti, membra inerti! No! no! Io non
vòglio lasciarmi vìncere dalla pietà. In natura
non esiste pietà. Perchè allora deve esìstere
in me? Ma certo è una visione macabra, quattordicimila morti!
Per fortuna sono lontani. Via questa brutta visione di
quattordicimila morti. Non vuole andar via. Pensiamo allora
così: i turchi sono bàrbari, i serbi sono più
bàrbari; i bùlgari sono barbarìssimi; i greci
sono una mera denominazione e non hanno più nulla a che fare
con l'amico Sòcrate.... La visione macabra non va via. Se ne
sovrappone un'altra, anzi. Se vi sono quattordicimila morti,
logicamente vi sono o vi sono state quattordicimila madri. Esse
all'incirca venti o venticinque anni fa, alimentàvano con le
loro mammelle quei morti, che allora èrano pìccoli
bambini, èrano tènere carni. Molte di quelle madri
avranno trepidato e chiamato il mèdico per una pìccola
febbre dei loro piccini. Ebbene, valeva la pena di tutto questo
lavoro? Questo, niente altro che questo è l'idea fissa, qui.
Anche qui nel treno sento che ognuno ha, che ognuno parla del suo
pìccolo, del suo grande, del suo dolce, o del suo greve
lavoro. Lavora il trenino che ànsima, lavòrano
laggiù i falciatori, lavora il sole lassù.
Perchè? Io piego il capo sul bràccio: mòrmoro
questo nome solo consolatore: Cristo, Cristo, Cristo!
*
Il trenino che monta ad Asiago è molto pieno di gente: esso
si arràmpica un poco con le sue gambe, cioè con le
ruote, ma poi domanda l'aiuto e va per mezzo di una ruota dentata.
Naturalmente va su quasi a passo di uomo. È un interessante
spettàcolo perchè la pianura sembra sprofondare. E
dopo un'ora e più di salita, ecco si apre un immenso pianoro
ondulato, una conca di colore come vivo smeraldo, con zone e
fàscie lucenti di verde assai più scuro ai confini del
cielo: sono i grandi boschi. Ecco appare qualche chalet elegante,
qualche stazione climàtica lungo la via, a ridosso dei neri
boschi. Qua e là, nello smeraldo intenso dei prati, ecco un
rosseggiare di tetti e di ville, e case sparse per quel gran verde.
Costruzioni bizzarre! Ecco Roana, Rotzo, Asiago. Tutto bello, tutto
ben pettinato; ma v'è un barbàglio di ària
troppo lùcida; troppo vibrante; e poi qualcosa di
esòtico. Ciò mi irrita. Ho anche la sensazione di quel
mare vicino delle genti germàniche; ed anche ciò mi
irrita. Asiago è l'ùltima stazione. Tutti
scèndono. È quasi mezzodì. Il sole scagliava un
biancicore abbagliante per le vie, su le pareti intonacate,
imbellettate di fresco. Anche ad Asiago attèndono i
villeggianti. Gran via vai di alpini giganteschi e di artiglieri
enormi, polverosi: sono quassù per gli esercizi di tiro.
Ebbene; con tutta la mia avversione per la guerra, adesso i colori
delle assise e delle armi italiane a questo confine mi dànno
un brìvido di piacere.
Sentivo il bisogno di rifugiarmi in qualche luogo, fuori da quella
luce accecante, da quella vibrazione fresca e incresciosa di
azzurro. Una contradizione quella luce e quella frescura! Io non
appartengo alla spècie della gente villeggiante, e quegli
ingressi di alberghi inverniciati coi portieri inverniciati, che
attèndono i villeggianti, mi ripugnàvano. Cercai nelle
vie interne della vècchia Asiago qualche rifùgio
più confacente ai miei gusti. Un alberghetto semideserto, con
grosse tovàglie di bucato, pareti di legno, mi offrì
più che non cercavo: stanza di luce opaca, un brodo, uno
spezzatino di vitello.
- Con tegoline?
Oh, cara parola veneziana, che mi ricorda la giovinezza!
- Sì. Tegoline e vino bianco di Soave, squisitamente soave.
Ma non parlate voi - domandai - cimbro o tedesco?
- Una volta! Ora tutti si parla veneto.
Come si beve bene nei paesi degli ùltimi confini del vino, di
contro ai paesi della fredda birra! Mi sembrò cosa
patriòttica bere molto vino. Domandai notìzie del mio
compagno di collègio, Gherardo. La sua famìglia era
ragguardèvole e ben nota lassù, ma lui era morto.
Morto, ben morto, sicuramente morto, tanti anni fa. Un suo parente
venne, e mi narrò anzi la strana istòria di lui: morto
come muore l'aereonàuta per mancanza di pressione
dell'ària, o, piuttosto, per un sovèrchio di
pressione, cioè come uno muore in fondo al mare:
vòglio dir questo: che la libertà respirata da lui
tutta in una volta, dopo sette anni di collègio, lo aveva
ucciso.
Il vino di Soave stava producendo in me il più
benèfico effetto che suole il vino, quello di dormire; quando
sobbalzai: pensai che il mio compagno Gherardo era morto, ben morto
ed era morto per tutti quegli anni durante i quali io avevo
seguitato a bere vino, a bere acqua; a fare insomma, tutte quelle
cose che fanno i vivi. In che deplorevole stato dovevi èssere
adesso, Gherardo, dagli occhi azzurri! Eppure per sette anni abbiamo
portato la stessa montura, abbiamo mangiato alla stessa lunga mensa
del collègio, ci siamo nutriti dello stesso òdio; lui
dell'òdio sicuro di capo della Santa Vehme; e che aveva i
pugni che pesàvano molti chili.
Quante cose vane!
Lasciai Asiago nell'ora più calda del pomerìggio. Il
trenino di ritorno ora affollato di alpini e artiglieri; essi
parèvano anche più titànici dentro il
minùscolo scompartimento. Ròsei, felici, chiassosi.
Prima che partisse il treno, venne un tenente d'artiglieria,
elegante elegante, e li interpellò bonariamente con la parola
«ragazzi!». Strana parola, ai miei orecchi.
Perchè «ragazzi» vuol dire: «chiamati a
vivere»; ma nella mia fantasia voleva dire: «chiamati a
morire!».
Ma in fondo a che cosa siamo chiamati?
Capìtolo V.
BOLOGNA DI NOTTE.
Arrivo a Bologna da Verona; ore dodici e dieci minuti dopo la
mezzanotte. L'Hôtel Moderne, o Hôtel Bologna, o Bologna
meublé, o comunque si chiama, è tutto occupato.
- Aspetti bene una mezz'ora, - mi dice un personàggio tutto
stilizzato, tutto esòtico, ma con un accento così
bolognese che era impossìbile rèndere esòtico.
- C'è un signore in partenza, e le fàccio
sùbito mèttere in òrdine la càmera.
- Merci, monsieur le concierge; e nel frattempo andremo a bere una
birra.
Cara, vècchia Bologna, me ne congràtulo per te, e mi
dispiace per me. Ti vai stilizzando troppo, e ogni anno di
più, ogni anno più esòtica, più Milano;
ed io non ti riconosco più. Sei volata via, vècchia
Bologna! Vècchia torre degli Asinelli, se hai
giudìzio, va là, cadi giù: e anche voi,
vècchie torri, cosa ci state più a fare
costassù ritte? Dolce San Michele in Bosco, e tu, colle
dell'Osservanza! Odor di viole in marzo; in autunno, odor di gaggie.
Voi, gente del pòpolo che dicevate: «Torsoà,
servitor suus!»; e voi cittadina gente cortese che dicevate,
al più lieve urto: «Ehi, ch'al scusa! scusi
bene!», dove siete voi? Tagliatelle, che parèvano avere
odore di carne dolce di donna, dove si màngiano più?
Siete andate via, dolcezza della vita?... O sono andato via io?
Sei andata via tu, vècchia Bologna, o sono andato via io?
Questo era il problema che io meditavo andando a bere la birra.
Ma il vècchio caffè dell'Arena del Sole c'era ancora
come ai bei tempi. Probabilmente da allora ad oggi non si era mai
chiuso, anche per la ragione che manca di porte. Anche
l'abitùdine gaudiosa di mangiare tra l'una e le due dopo
mezzanotte, era rimasta. Però la vècchia sàpida
birra Ronzani non si vende più.
- Spiessbraü! - mi avvertì il cameriere, stilizzato
anche lui.
- Quella acquosa amaritùdine tedesca, che si fàbbrica
in quella città?... No, io non la berrò! Un gelato,
allora! Ma sapeva di melassa, quel gelato.
Guardavo attorno. Giovanotti eleganti, uòmini grigi e
bianchi, teste chiomate e crani pelati, frammisti a donnine galanti
ed eleganti, sotto la luce bianca delle làmpade
elèttriche, presso la gran distesa delle tàvole
imbandite, sedèvano, si movèvano, conversàvano
con amàbile tranquillità. Ma è notte!
«Fàcere de nocte diem, far del giorno la notte - mi
disse il dottor Balanzone - bononiense est, è cosa bolognese.
E poi non vedi? È finito da poco lo spettàcolo, qui
presso, all'Arena del Sole.»
Probabilmente sono andato via io.
«Non ti ricordi - dissi a me stesso - la gran passione che
avevi anche tu pei drammi su la scena!»
Chiusi gli occhi e la rividi ancora la Arena del Sole, data agli
spettàcoli diurni, in un pulvìscolo d'oro e di
pòrpora. Tutte le gradinate gremite di donne in pepli
bianchi. Intensi silenzi, grida per l'anfiteatro alla passione del
dramma. Ma poi, calato il sipàrio, negli intervalli, era
tutto un rosicchiar tranquillo di brustolini. Ma allora io non
sentivo il cricchiare dei brustolini; e i pepli bianchi non
èrano altro che i corpetti delle lavandàie. Allora io
ero un fanciullo come è il pòpolo, il quale non sente
il dramma se non lo vede su la scena.
Oh, mio stupore, allora, per l'attrice Teresina Mariani! Era ella
un'adolescente bionda che recitava la parte di Ofèlia e Fuoco
al Convento, con un'ingenuità deliziosa.
Ricordo che mi fermai una volta a rimirarla lì, ad una
tàvola del vicino caffè, mentre mangiava.
«Màngia! La pàllida Ofèlia
màngia!»
«Sì, idiota, le pàllide Ofèlie
màngiano, e qualche volta màngiano anche gli
uòmini vivi.»
Poi Teresina Mariani impinguò; faceva su la scena le parti
spudorate di cocotte. Poi, morta!
E perchè, dopo Teresina Mariani, mi balenò davanti la
testa chiomata di Quìrico Filopanti?
Perchè dietro il Caffè dell'Arena, c'è la
Piazza dell'otto Agosto, dove nel 1849 furono scacciati gli
austrìaci. Quìrico Filopanti ogni anno, arringava il
pòpolo. Rivedo una folla di pòpolo e, sopra la folla,
l'àbito nero e la tuba di Quìrico Filopanti. La sua
misèria era spettrale: ma àbito nero e tuba. Doveva
èssere ancora l'àbito che indossò quando fu
deputato della Costituente della Repùblica Romana nel 1849.
Ma non importa: àbito nero e tuba! «Pàtria,
onore, eroi, repùblica clàssica,» èrano
le sue parole. E poi «le stelle», perchè
Quìrico Filopanti si occupava anche di Dio e delle stelle.
Tutte cose che non ùsano più.
Sentii allora una grande compassione anche per Garibaldi.
Perchè?
Perchè sopra quell'esposizione di tàvole imbandite
all'aperto, si vedeva sòrgere il monumento a Garibaldi.
Pòvero Garibaldi, costretto, nella sua immobilità di
bronzo, su quel cavallo lungo da scuderia inglese, a guardare
lì, tutte le notti, istrioni e cocottine, gaudenti e
impenitenti.... Ti senti la vòglia di dar di sprone al tuo
cavallo? Prima di te c'era lì il monumento di quell'altro
pòvero eroe, col bràccio teso: Ugo Bassi. E poi hanno
messo te, Garibaldi! Va là, va via, Garibaldi! Ah, triste
sorte degli eroi! Triste sorte anche delle piante! Vògliono
dormire e non pòssono. La luce elèttrica le acceca e
le brùcia tutte, le pòvere piante....
Quante donnine van girellando per queste tàvole! Chi saranno?
Vècchie attrici che hanno navigato; artiste erranti che
navigheranno; fanciulle senza famìglia, senza focolare, con
un pìccolo bagàglio qua e là, un amante qua e
là. Tutta un'amàbile promiscuità.
Qualcuna parla un po' forte, e in realtà ha la voce flautata
e profonda del palcoscènico. Qualche piccina discute in
grande stile. Qualche bocca a cuore ride con perversa intelligenza.
Un sospiro, un giudìzio d'arte teatrale, intercalato con il
vocale badinage bolognese: «Mo che nervous tutt'incò!
Offrìtemi una gita in automòbile».
Ròmpono lo sbadìglio mutando tàvola; si
accòstano all'uno e all'altro; màngiano con
gràzia pìccole cosine: un banano, un fritto dolce,
taiadlein con l'odore caldo del ragù. Una, pàllida,
immota, pare fissa nella punta della sua scarpetta. Mi manda il fumo
oppiato di una sigaretta. Un giovinetto le deve aver detto:
«t'amo», perchè colei risponde forte:
«t'amo, t'adoro come la salsa di pomidoro». Riprende a
fumare con le labbra sprezzantemente cascanti.
Capìtolo VI.
KARA-KIRI.
Mi scosse una tènue ombra nera che intercettò la luce;
mi scosse una tènue voce che mi chiamò per nome
gioiosamente, con un: - Voi qui?
Guardai con immenso stupore.
Era la signora X***. Ma io dirò semplicemente Mimì: un
nome che mi gravò per molto tempo sul cuore e lo fece
sobbalzare.
Risposi infine anch'io:
- Voi qui? - Il cuore mi aveva dato un sobbalzo.
- È il nostro mese di riposo - ella disse. - Ma voi cosa fate
qui a Bologna?
- Cosa faccio io qui? È ben quello che non so. Aspetto il
giorno che verrà per partire.
Mi guardò stranamente, quasi con una spècie di
compassione. Poi disse:
- Sentite - e mi chiamò ancora con dolcezza per nome - ; ho
bisogno di voi. Non me lo negate questo favore....
- Io rimango, signora, qui a Bologna, sino a mezzodì di
domani, anzi di oggi - risposi guardando il quadrante
dell'orològio. - Se in questo tempo vi posso èssere
ùtile, ben volentieri.
- Caro (e ripetè il mio nome), io so che adesso voi siete
letterato....
- Chi vi ha detto queste cose?
- Non avete voi scritto dei libri?
- Ma sì, qualcosa del gènere, ma per combinazione. Voi
dicevate, Mimì, che avete bisogno di me?
- Ah, sì! Allora venite domattina, verso le dieci, a casa
mia....
- Verso le dieci? A casa vostra? Bene. Voi dove state di casa?
- Come, non ricordate più? Via Avesella.
- Sempre lì?
- Sempre lì.
- Allora alle dieci....
Ella disse:
- Io vi trovo abbastanza bene.
Ed anch'io di rimando le dissi: - Io vi trovo bene: - ma
automaticamente, come si dice di lùglio: «quest'oggi
è caldo», o di gennaio: «quest'oggi è
freddo».
Ella mi voleva presentare alla sua compagnia, ma la pregai di
dispensarmi.
- Cosa credete di farmi un onore presentàndomi come
letterato, un letterato vostro amico? Voi vi sbagliate.
Dopo di che lei tornò al suo tàvolo, fra la sua
compagnia. Io assaggiai di nuovo il gelato ed anche il mio cuore.
Qualche pulsazione irregolare e nulla più. Ma probabilmente
esse provenìvano dallo stupore di sentirmi ancora chiamare
col sèmplice mio nome di battèsimo, e così
dolcemente. Ohimè, è da due anni che il mio nome di
battèsimo io non lo sento più ripètere; e,
forse, non sarà più ripetuto.
E sollevando ogni tanto gli occhi, vedevo, presso il tàvolo
di fronte, il visetto di Mimì: esso sorgeva da una collarina
bianca, sopra una sèmplice veste nera; ed una cuffietta
moderna lo incorniciava con molta gràzia. Quel visetto era, o
mi pareva, press'a poco uguale come l'ùltima volta che lo
aveva veduto, molti anni fa. È colei Mimì, o è
l'ombra di Mimì? E se è lei, che cosa vorrà da
me? Pensare che per molti anni il ricordo di Mimì mi diede
palpitazioni violente. Ora tutto era quieto.
*
Non c'è dùbbio, pensavo al mattino seguente
vestèndomi, che l'indivìduo che è riflesso in
questo spècchio, è la continuazione di me stesso,
cioè di un ùnico indivìduo, vivente ora e
vissuto anche molti anni addietro. Eppure io sono un pìccolo
cimitero.... in attività di servìzio. La
pìccola Mimì giaceva in una delle arche del mio cuore:
io la credevo ben morta. Essa è risuscitata, perchè
è un fatto che la donna la quale ieri sera mi salutò
così dolcemente per nome, è proprio Mimì.
Pensare tanti anni fa, quando io avevo vent'anni! Io ero
òrfano di babbo, e vivevo così poveramente che spesso
era necessàrio saltare la colazione; la mia pòvera
mamma, i miei fratelli piccini.... Ebbene, io volevo sposarla,
Mimì, sposarla col sìndaco, col prete, col
còdice, con tutti i più lùgubri utensili del
matrimònio.
Questa cosa, a pensarci bene, depone in favore della mia precoce
imbecillità, ma può èssere istruttiva, e
perciò parlo di me. Io esprimevo tutto il mio amore
decretando di fare kara-kiri. Non potendo farle omàggio di
una collana di brillanti, le facevo omàggio di me stesso, mi
immergevo nel ventre il jatagan del matrimònio; mi sposavo,
in una parola, e tutto ciò con la impassibilità con
cui i Samurai fanno kara-kiri in onore del loro Mikado. Certo non
dissi allora: «Mimì, io fàccio kara-kiri per
te!» perchè queste cose avvenìvano molti anni
prima della guerra russo-giapponese, e il Giappone non era molto
conosciuto. Ma dissi a Mimì: «Ti sposo!»
cioè ti faccio omàggio di me stesso. È un modo
di manifestare l'amore sui venti anni, e ciò è
accaduto anche a persone meno imbecillite di me.
Senonchè Mimì rimase così turbata di trovarsi
coinvolta in un fatto di tanta gravità, che rifiutò.
Un'onesta fanciulla, in fondo: una onesta, una non comune fanciulla.
Ella era, allora, una pìccola pàllida sartina,
precoce, venuta al mondo con due enormi tondi occhi colmi di
curiosità, un nasetto impertinente, belle labbra sane a
cuore, e gusti eccezionali. Le compagne la chiamàvano
marchesa Stracciolini. Ah, se io, a quegli anni, avessi fatto
qualche scàndalo, Mimì mi cadeva bell'e cotta sul
piatto. Ma io ero un sàggio giovanetto e le offrivo il
matrimònio.
Però che màggio allora in Bologna! Tutte le sue torri
èrano rosse, tutte sventolàvano orifiammi e gonfaloni;
ed i versi di Guido bolognese (si spiegàvano allora in
iscuola) dove dice di madonna Lucia che portava così bene in
testa un cappellino di vajo:
Chi vedesse Lucia un var cappuzzo
In co' portare, e come le sta gente,
mi dàvano la nostalgia dell'amore in tutti i sècoli.
Mimì portava un berrettino di lapin bianco! Come le stava
gentilmente tuttavia! Mimì a me pareva come la regina di
Bologna, e il visetto suo bianco mi pareva dealbato col misterioso
issopo. Era forse un po' di volgare paciulì. Quella
Mimì bolognese che sapeva di paciulì! Ella non era
nè più nè meno di tante altre; eppure io non la
potei più scompagnare da quella cosa innebriante che è
la giovinezza.
Poi ella si diede all'arte drammàtica; reginetta di
palcoscènico; giacchè era pur destino che ella finisse
regina di qualche cosa: io diventai travet, e poi andai a far
kara-kiri altrove.
Ma confessiàmoci senza vergogna: quante volte di poi, fra la
gente, cercai quel pìccolo volto stellante ed il cuore
balzò ogni volta che scoprii un nasetto all'insù fra
due occhi tondi, che rassomigliàssero a lei. Quante volte mi
aggirai per le tue vie più vècchie, o Bologna; e nel
lamento dei tuoi organetti, nella fisonomia dei tuoi pòrtici,
nel suono del tuo dialetto, cercai l'ombra di un sogno.
Ohimè, le tue torri èrano diventate tutte grige, non
c'èrano più gonfaloni; il tuo dialetto già
così soave al mio cuore, mi suonava come uno sguaiato
dialetto; i tuoi orbini che suonàno gli organetti,
èrano lùridi; le tue pastine dolci (una cosa che
Mimì accettava) sapèvano al mio palato di melassa e di
stucchèvole vanìglia, come quel gelato della sera
prima.
«Tuttavia converrà andare - pensavo - , giacchè
ho promesso. Ma quale che sia la cagione perchè tu hai
bisogno di me, non mi offrirai mica un bàcio, Mimì!
nè io lo offrirò a te. Due mezzi sècoli, quasi,
che si bàciano. Oibò.»
E così andando verso la casa di lei, e passando per la
vècchia via delle Belle Arti, mi sorprese quella rovina
superba che è il palazzo cinquecentesco dei
Bentivòglio. Uno sgretolato sedile marmòreo corre in
basso. Sostai come ad un misterioso richiamo; guardai in su le due
file delle finestre, fatte per una dimora di re, adesso senza
più imposte, vuote come occhiàie di un morto; poi
ancora mi fissai a guardare il sedile giù in basso. Mi si
disegnò nella mente il ricordo di una gèlida notte di
febbraio. Avevo ottenuto il favore di accompagnare Mimì al
veglione del Comunale. Le carni di lei tremàvano pel freddo e
per l'ira della lunga lite che era avvenuta fra noi, mentre ella si
abbigliava. Ci fermammo - ben ricordo - lì: cioè io,
dopo lungo silènzio, arrestai il passo di lei saltellante,
lì, a quell'àngolo deserto e buio del palazzo
Bentivòglio.
- Tu non ballerai con....
- Io ballerò con chi mi pare.
- Io ti strozzerò.
- Va ben là! chè non hai il coràggio.
Allacciàtemi piuttosto la scarpetta.
Tutta eròica (ah, è il vero!), era Mimì; e le
sue scarpette, anche. Allora non usàvano le American shoes da
trenta lire il paio3, che ogni modesta ragazza possiede ai dì
nostri. Eròiche, vagabonde scarpette! Ma a fùria
d'ago, di copale, e di due gran nastri, reggèvano alteramente
alle profonde ferite.
Ora, in quel luminoso mattino di lùglio io ero fermo ancora
lì, davanti al palazzo Bentivòglio; ed ho riveduto me
stesso, tanti anni fa, in quella notte, che, invece di strozzare
Mimì, le allacciava fremendo i lunghi nastri delle
eròiche scarpette.
Capìtolo VII.
CHE COSA VOLEVA MIMÌ.
Mimì abitava ancora il vècchio appartamento della sua
vècchia madre, in una casa diroccata, che dovette
èssere un antico monastero. Ma salendo le scale, un lezzo di
stantio mi si avventava alle nari. «In verità - pensai
- questo nauseabondo fortore era, forse, preesistente. Ma chi se ne
accorgeva allora? Era tutto paciulì.»
Riconobbi ancora l'antica porta, l'antico cordone del campanello.
Mimì venne ad aprire in fresco àbito da mattina,
visetto incipriato, riccioletti attorno alla fronte: gioiosamente.
Mi introdusse in una stanzetta, che guarda sui tetti: era ancora
l'ùmile stanzetta con il pìccolo lettùccio da
ragazza.
Ma le memòrie del teatro e della vita sua errante; cose
bizzarre, ritratti, fiori, libri, avèvano finito per coprire
le pareti e i mòbili. Il cristallo della toilette era
ingombro di tutte quelle delicate suppellèttili che
sèguono la donna come gli zeri alla destra di una cifra.
- Che cosa guardate, che cosa guardate? Piuttosto dìtemi,
come mi trovate?
- Come vi trovo? Ve l'ho detto ier sera: bene.
- Ah, non è più la Mimì di una volta.
- Sinceramente, siete un prodìgio di conservazione.
Sorrise un po': - Sapeste (e mi chiamò per nome), che paura
ho di morire! Pensate; dover morire....
- Mah! È una cosa che càpita.
- Non lo dite per carità.
- E allora non diciàmolo. Ma, se io mal non ricordo, voi,
Mimì, una volta, avete tentato il suicìdio.
- Una volta...!
Lei era piccina e ci stava a suo àgio nella stanzetta. Io?
Non so perchè, soffocavo. Guardavo i ritratti.
- Chi è quello lì? - domandai.
- Il pòvero, grande Garavàglia!
- E quello?
- -Il pòvero Alfredo Cappelli, il grande tràgico! ed
un nòbile cuore, sapete!
- Sarà.
- Come «sarà»? È!
- In fondo sono istrioni, - dissi io.
- Oh, - fece Mimì scandalizzata - la più nòbile
delle arti.
- Come volete voi: allora diciamo: «la più
nòbile delle arti».
Del resto può darsi che tutti e due avèssimo ragione:
io guardavo gli istrioni della vita e ne avevo l'ànima amara;
lei guardava gli istrioni del palcoscènico, che dopo lo
spettàcolo si làvano e vanno piacevolmente a cena, e
ne aveva l'ànima dolce.
- E quello là, coi baffi spioventi in giù? Oh, ma
quello non è un istrione. Quello, se non mi sbàglio,
è Quìrico Filopanti, poveretto.
- Come «poveretto»? - esclamò Mimì
sdegnata. - Un eroe, un santo!
Ora ben ricordavo: la gran passione di Mimì, giovanetta, per
gli uòmini in qualsiasi modo straordinari....
- Ma quello è il ritratto di Giòsue Carducci! Avete
conosciuto anche il Carducci? - domandai stupefatto.
- Voi non ricordate più nulla - esclamò Mimì
con profondo stupore dei suoi occhi tondi.
«In verità, Mimì, avete ragione: le pareti
mèglio affrescate sbiadìscono, quando la
gràndine troppo le batte.» Ma non dissi nulla ed ella
seguitò:
- Non ricordate? C'eravate anche voi, quella sera, da Sabatino,
quando gli fui presentata. Tutti voi avevate una gran paura che io
commettessi qualche gaffe madornale. Ma io me la cavai
benìssimo. Non ricordate che bel complimento gli feci?
- Quale?
- Gli dissi: «Professore, lei ha le mani da duchessa!» e
lui fece come un ruggito di compiacimento. Sapete? Tutte le volte
che sono andata, poi, nei serragli - è una mia passione - a
vedere i leoni, con quella testa sconfortata che hanno, mi è
venuto sempre in mente il Carducci.
Tacemmo un po'.
- Ma quello lì, quello lì - dissi indicando un
ritratto sbiadito dal tempo, - è lo Spad....
- Eròico! - fece Mimì con compunzione.
Mi vi fissai a lungo. Era un profilo di giòvane imberbe,
dalla lìnea indefinibilmente aristòcratica, con un non
so che di spiritato nelle pupille. Dalla fronte, per le
finìssime chiome, pareva vaporare il misterioso ardore della
sua giovinezza.
Nel tempo che Bologna fioriva di bizzarrie e gentilezza, Spad....
ebbe per qualche anno gran nome. Lo rividi vivo col pensiero:
pàllido, supremamente elegante e sprezzante, signorile e
plebeo. Si uccise a trent'anni. Lo Spad.... era stato il mio
formidàbile rivale, non perchè egli amasse
Mimì, o conoscesse me, mìsero studente; ma
perchè lei era pazza per lui.
- Eròico? - risposi. - Uno squilibrato, un ubriaco di
assènzio e di paradossi, che scambiò il pòrtico
del Pavaglione e l'àngolo delle Spaderie col vasto mondo. Se
avesse pensato seriamente che quei due colpi di doppietta contro la
sua testa costituìvano l'ùltima sua réclame,
non lo avrebbe fatto.
- Voi non capite niente - disse Mimì. - La sua era un'altra
morale; e voi siete rimasto pìccolo borghese.
- Pìccolo borghese? Credete di offèndermi? Ma no!
È una delle poche cose buone che rimàngano
all'Itàlia. Certo quando penso che voi vi siete prodigata
agli eroi; mi dispiace di èssere stato pìccolo
borghese. Lo Spad..., del resto, non vi amava....
- Questo lo dite voi - scattò Mimì. - A suo modo, sono
stata amata da lui. Certo col senso della bellezza che egli aveva,
preferiva le donne tizianesche, i grandi corpi statuari. E me lo
confessava con la sua divina brutalità.
- E voi eravate sotto misura....
- Impertinente! - disse Mimì facendo anche più tondi i
suoi occhioni e scoprendo i suoi denti così deliziosamente
che mi parve di rivìvere per un àttimo della mia
giovinezza.
- Ah, cara Mimì, - esclamai - se io avessi supposto in voi
questo nòbile e così raro culto pei morti, vi avrei
offerto anch'io, come costui, il mio cadàvere imbalsamato.
Era, allora, una cosa discreta: magro, biondo.... Converrete almeno,
che io, invece, vi ho amata moltìssimo.
- Voi? Voi non sapete amare; voi non avete veduto in me che un poco
di fèmmina, condita bene, che vi stuzzicava l'appetito.
- E non ne parliamo più - dissi.
Io mi ero alfine seduto. Ella si stava in piedi davanti a me e le
sue mani èrano ancora le sue belle mani, i suoi occhi
èrano ancora i suoi begli occhi tondi, i suoi denti
èrano ancora quei pìccoli aguzzi denti che ella
scopriva in modo delizioso.
Però il condimento non c'era più! Il feroce tempo, o
Mimì, ti aveva ravvolto i polpastrelli della sua
invisìbile mano attorno al collo. È lì, vedi,
Mimì, dove il tempo prende le donne e stringe il dolce stelo
della loro bellezza. Esso, sì, strozza, e non si scherza
allora più, come tu con me quella sera d'inverno sotto il
palazzo Bentivòglio, Mimì. «Ah, io non ho veduto
in voi che un poco di fèmmina condita bene? - dissi fra me. -
Io ho veduto l'inferno, il purgatòrio: e il paradiso me lo
avete fatto sospirare. Del resto può darsi che voi abbiate
ragione. Mercè vostra, o pìccola Mimì, il mondo
era allora per me tutta una appetitosa vivanda ed io non domandavo a
Dio che una gran bocca per farne un ùnico boccone, voi
compresa, Mimì. Ma oggi soffro di nàusee.»
- Cara signora - dissi, - cambiamo argomento. Voi avete detto ieri
sera che avevate bisogno di me.
Esitò alquanto. Disse:
- Io volevo lèggervi alcune mie cose; o le leggete voi, se vi
pare; ma lèggere con amore, ve ne sùpplico - e
pronunciò il mio nome di battèsimo
melodrammaticamente.
- Figuràtevi! Lèggere è il mio mestiere.
Saranno, suppongo, memòrie della vostra vita. Non è
vero?
- No! Sono poesie!
- Poesie? Ma questo è un volume completo di poesie! -
esclamai sfogliando il manoscritto che Mimì mi aveva messo
innanzi delicatamente.
Come rimase male, pòvera Mimì, alla mia esclamazione
dolorosa.
- Ma non siete anche voi poeta? - domandò.
- Una volta, Mimì! Ma da quando mi sono accorto che i nostri
servizi pùblici vanno male perchè vi sono troppi
poeti, ho smesso di èssere poeta. Ma che peccato,
Mimì, che voi non foste poetessa nel tempo che anch'io
cantavo come un merlo! Voi, invece, come avete fatto a diventare
poetessa?
Pòvera Mimì, lei credeva quella mattina di
ricèvere da me le più sentite congratulazioni
letteràrie, ed io dissi quelle parole con la voce accorata
come avessi detto: «come avete fatto ad ammalarvi?».
Mimì disse con santa semplicità: - Vi sono adesso
tante donne che scrìvono, tante poetesse! poetessa A***,
poetessa B***, poetessa C***....
Era arrivata alla G***, all'N***, alla V***.
- Ci posso stare anche io.
«Capisco - dissi fra me - , è un caso di
infezione»: ma volevo dirvi questo: che avrei preferito
lèggere le memòrie della vostra vita. Per
esèmpio, la stòria di quando mi avete fatto ballare
sopra un quattrino, passare dal bagno russo alla dòccia
fredda. Sapete che sarebbe riuscita una stòria
interessantìssima?
- Come siete cattivo! Sapevate bene che in quegli anni ho avuto il
tifo, che mi sono caduti i capelli....
- Ah, si chiama «tifo» quel servire un pòvero
ragazzo ora cotto arrosto, ora in salsa rifredda? Si chiama tifo?
[In fondo, sì! Mimì aveva ragione, si chiama
«tifo», che alla lettera vuol dire
«instupidimento». Che colpa aveva Mimì se un
ragazzo di vent'anni, tenuto alla catena in collègio per
sette anni, dove aveva mangiato tutte le romanticherie
possìbili, un bel giorno va a bàttere il naso contro
la sottanella di una sartina, la quale, indubbiamente, odorava forte
di paciulì? E chi le può fare rimpròvero se per
qualche tempo lei si è divertita nel vedere gli strani
effetti che su di me produceva il suo inestinguìbile odore di
paciulì? A Milano, in fatti, per significare
«innamorarsi sul sèrio», dìcono:
«fare il tifo».
Quel mio compagno di Asiago, il tremendo teutònico, che
durante i sette anni di catena in collègio pareva non
pensasse ad altro che alla filologia comparata ed alla Santa Vehme,
appena fu lìbero, andò anche lui a sbàttere, ma
con tanta violenza, contro una sottanella profumata che gli venne
come un furore: e allora giù liquori per rinfrescarsi! E in
pochi anni, fra sottanelle e liquori, la sua fibra di cimbro fu
spezzata come un fuscello. Egli fece kara-kiri in altro modo.]
- Veniamo a noi, signora. Quale è l'argomento delle vostre
poesie? È fàcile supporre: l'amore.
Mimì fece cenno di no, l'amore non era il tema prevalente
delle sue poesie.
- Questa è una cosa grave - dissi io.
- Non esìstono forse altre cose che l'amore? - disse
Mimì.
- Quali?
- Ma la bontà, la pietà per gli infelici, l'eroismo -
disse Mimì con entusiasmo - , la fratellanza umana, il
progresso umano, e poi le bellezze del creato. Non esìstono
forse tutte queste cose?
- Se voi ci credete, esìstono.
- Voi non ci credete, forse? - domandò Mimì.
- Sì, ma così e così. Questo vi volevo dire,
Mimì, che oggi il mondo è un così fragoroso
macchinàrio che non si sèntono più le voci
delle tombe. Della qual cosa è prova il fatto che molti poeti
si sono messi a celebrare il frastuono dei motori e dei macchinari.
- Che cosa dite?
- Niente, Mimì. -
I riccioletti del mattino si scòssero a queste mie parole
attorno al visetto glabro e incipriato di Mimì; i suoi occhi
tondi e superficiali si fècero più tondi.
Mimì veniva da una lunga tournée nell'Amèrica
del sud, e perciò ignorava i più recenti prodotti
della poesia nazionale.
- Niente, Mimì; ma per cantare le bellezze e anche le
bruttezze del creato, occòrrono volti terrìbili e
facce barbute. Voi donne siete invece capellute sì bene, ma
senza barba e con quei visetti graziosi....
- Ma la poetessa G***, la poetessa V***, la poetessa N*** sono
celebri, eppure non hanno barba, non hanno volti
spaventèvoli: càntano nei loro versi le bellezze del
creato, i fiori, le stelle, la luna, Iddio, il cielo, il mare....
- Questo che voi dite, è vero, Mimì; ma vi prego di
osservare come tutte le volte che una poetessa canta i fiori, le
stelle, la luna, ecc., ecc., sotto i fiori, le stelle, ecc., se ci
si guarda bene, si vede un uomo, cioè l'amore per un uomo o
per più uòmini. Ciò senza dùbbio
è cosa interessante, ma un po' monòtona. Molto
più interessante, invece, è quando la donna si denuda
sinceramente, apre quasi le sue carni e pare che dica:
«Guarda, o uomo, come amore òpera dentro le nostre
vìscere». Questa è la vostra maggiore
originalità; o almeno qui l'uomo non vi può fare
concorrenza.
- Mi denudo anch'io - disse Mimì.
- Bene, allora sentiamo.... (benchè quest'operazione - pensai
- sarebbe riuscita più interessante venti anni fa).
Cominciai a lèggere.
Qui Mimì mi interruppe.
- Ma non fate mica quella fàccia scura, sapete! Non pigliate
mica quell'ària da professore! Voi dovete giudicare soltanto
dal sentimento....
- Impossìbile, signora!
- Ma perchè «impossìbile»? - chiese
Mimì con doloroso stupore.
- Perchè il sentimento è bensì una parte della
poesia, ma non è la poesia.
- Voi siete un uomo oramai congelato - sentenziò Mimì.
- Sia pure! Ma io vi dico: conoscete voi la dinamite, quella cosa
spaventosa che fa saltare monti, case, ponti, uòmini? Ebbene,
essa non è altro che la combinazione di due elementi
innòcui quando sono separati: la glicerina (èccola
lì! su la vostra toilette) e un poco d'àcido
nìtrico.... La glicerina è il sentimento:
l'àcido nìtrico è l'arte....
Mimì mi guardava con molta pietà.
- Vedo che voi non sapete di chìmica - dissi. - Allora un
altro paragone fàcile: voi volete fare due uova col burro.
Evidentemente occorre il burro e le due uova; ma se rompiamo le uova
e poi sopra vi buttiamo il burro, sono due pèssime uova col
burro; se poi volete fare quello che i francesi chiàmano una
omelette soufflée, l'affare si presenta bene altrimenti
complicato....
- Dio, come siete diventato volgare! - esclamò Mimì. -
Ma in quale orrìbile ambiente siete vissuto?
Ella coprì delle sue belle manine i suoi manoscritti, con il
pàvido affetto con cui una mamma sottrae il suo piccino da un
contatto profano.
- Bene, bene! Per voi farò un'eccezione: leggerò solo
col sentimento.
Èrano strofette e rime di altri tempi; e ne vaporava un
profumo di stantio come da un salotto di trent'anni fa. Mimì
non sapeva fare le uova col burro alla maniera nostrana, e ignorava
la omelette soufflée alla francese.
Il momento era delicato: con tutte le mie buone intenzioni, la mia
voce cadeva.
Mimì mi indicava le più belle poesie, ma io non
riuscivo a dar vibrazioni alla voce. Allora dissi: - Mimì, mi
congràtulo: avete conservata la vostra verginità
morale.
- Leggete questa: Le belle mani.
- Sono le vostre, Mimì?
- Sì.
- Voi del resto avete avuto sempre belle mani, anche quando non
usàvano le manicure per tagliar le pipite. «Le belle
mani!» Ecco un tìtolo squisitamente femminile. Un uomo
sarebbe grottesco a intitolare così una sua poesia; mentre
una donna può dire benìssimo, le belle mani, i bei
fianchi, il bel ventre, e altre cose del gènere. Vedete la
differenza tra il poeta e la poetessa? Mi piace: leggiamo.
La poesia cominciava:
Che belle mani avete;
Mi dite spesse volte.
- Chi dice così? È l'amante, vero, che dice
così?
- Certo.
- Quale amante?
- Ma l'amante ideale. Andiamo, seguitate a lèggere.
Dunque seguitai a lèggere quei versìculi. Essi
costituìvano tutta una litania delle opere benèfiche e
caritatèvoli delle sue mani. La poesia concludeva
così:
Le mani, o mio gentile,
Che mi lodate tanto,
Belle non sono soltanto,
Son buone mani ancora.
Gli occhi di Mimì - mentre io leggevo, si velàrono sul
sèrio di un sottil strato di làgrime. - Ma sapete che
sono molto buona, io? - esclamò. - La mia pòvera
mamma, la mia vecchierella la ho mantenuta sempre io! Ho guadagnato
anche abbastanza: ma da parte, vi giuro, che non ho un soldo.
«Mimì qua, Mimì là», e poi sapeste
quante misèrie segrete....
Veniva da piàngere anche a me: ma per altra ragione.
Pòvera Mimì! Lei credeva ancora nella missione
evangèlica delle mani.
Mimì aveva conservato anche la sua verginità
intellettuale. Ella ignorava anche che oggi sono di moda le lodi
alla belluinità.
- Bellìssima poesia - dissi - , ma forse oggi sarebbe di
più effetto la stòria delle mani feroci, perverse.
Quando, per esèmpio, mi facevate ballare come un
burattino.... - E dicendo queste parole, rimasi anch'io sorpreso
dall'insistenza con cui ritornavo su l'antico argomento.
- Ma sapete - disse Mimì quasi con doloroso stupore - che voi
dovete èssere ben ammalato?
- Può darsi, mia cara: anzi vi dirò che viàggio
per cura - e mi alzai. - Avete una sigaretta?
Guardai l'orològio: quasi mezzodì.
- Venite fuori - dissi - a far colazione con me?
- No, no! E poi la mia mamma è ammalata.
Mi profersi di andarla a salutare.
- Inùtile. È completamente sorda.
Mimì socchiuse un ùscio: disse:
- Guardàtela là!
I miei occhi guardàrono di sfuggita in un'altra
càmera: vidi una testa immòbile, scarna, in un enorme
letto ex-matrimoniale, col capo ravvolto in un fazzoletto bianco,
lungo come una mìtria.
- Se è sorda, non sente. Mettètevi il cappello, e
andiamo a far colazione.
- No.
- Perchè?
- Prima perchè siete lùgubre, ed io non voglio sentire
discorsi lùgubri.
- E poi?
- Come siete curioso. E poi perchè aspetto qualcuno.
- Chi? Un vostro amante forse?
- Cosa vi interessa di sapere chi aspetto?
Io ero stupito lì in mezzo alla cameretta.
- Ma il giorno in cui non potrò più amare - disse
allora Mimì - , Mimì sarà morta.
- Addio! - dissi, ed ella mi guidava verso la porta.
Così ci lasciammo, e la porta si chiuse. Mi fermai un po'
lì fuori. Guardai a lungo, lì di fuori, il cordone
verde, unto del campanello. Forse era ancor quello di tanti anni fa.
Sopra v'era scritto in relazione alla sordità della vecchia:
«suonate forte».
Quel vècchio cordone di campanello! Quante volte lo scossi!
Squillava sùbito, ed al pìccolo squillo rispondeva un
tuffo nel mio cuore. Veniva ad aprire la vècchia, che allora
non era sorda. A i ho bell'e capè! Anca vo a zercà
dlà Mimì. Mo se an so gnanca me duv l'è, sta
vagabonda! Andè bein là, el mi cinein!
E l'ùscio si rinserrava.
*
Rimasi lì per quella sùdicia via, che un tempo a me
pareva la più bella via di Bologna. «L'amore?
Probabilmente come una funzione digestiva: una mensa con belli
allettamenti. E da giòvani si crede chi sa a che cosa!»
Mi scosse un colpo di cannone.
Era il cannone del mezzodì. E allora fu un correr di
pòpolo che smette il lavoro e un gridare gioioso:
«L'è Filopanti, Filopanti!».
- Perchè! Perchè dite Filopanti?
Ma il pòpolo aveva fretta per andare a mangiare.
Ho poi saputo che il pòpolo di Bologna chiama col nome di
Filopanti il colpo di cannone del mezzodì.
Capìtolo VIII.
LE DUE MILIONÀRIE.
La vìsita a quell'amore defunto era stata assai
melancònica, come contemplare se stesso defunto.
Mi ero anche sopracaricato di letteratura, ed anche ciò era
melancònico. Avevo fatto l'uomo superiore con quella
pòvera Mimì: avevo detto male delle poetesse; ma
riconoscevo di aver torto. Divine poetesse, api d'oro! Qualcuna di
voi va corrusca e fiammante nel sole, qualche altra batte l'ala
ferita. Ma almeno si sa quello che voi domandate, in fine: il
paradiso!
Divine poetesse, api d'oro! come le api d'oro voi avete libato
questo disgraziato uomo; e l'uno valeva l'altro! Perchè Giove
padre non creò per vostra satisfazione, o api d'oro, tutto un
paradiso fiorito di inesaurìbili eroi! Ma l'uomo! L'uomo
è incontentàbile e senza pace.
E quel suo atteggiamento di nume in terra è
intolleràbile.
Io mi trovavo immerso in queste idee quando, gràzie a Dio, mi
sorse un'idea cretina. Essa mi venne suggerita da un enorme
fragoroso carrozzone automòbile, che rotolava sui sassi della
vècchia via Galliera e portava scritto: Bologna, Monghidoro,
San Pietro a Sieve.
Monghidoro? Ma Monghidoro è il nome moderno di un antico
nome, superbo e plebeo: Scaricalàsino! E v'è chi
nomina Scaricalàsino come fosse un paese fantàstico!
È un paese rupestre, a poche mìglia da Bologna. E
l'idea esilarante e cretina era appunto nel ravvicinamento della
dottorale Bologna, dove nei tempi antichi venìvano di Spagna
e di Lamagna a caricarsi di dottrina; e poi Scaricalàsino,
dove le schiere degli àsini scaricàvano le some loro,
e facèvano beatamente: «Ih! oh!». Oh,
giòia di scaricarsi dalla soma della dottrina! Inoltre quel
giorno era caldìssimo, e allora pensai anche che, dopo
Scaricalàsino, veniva l'alpestre passo della Futa; e il
Mugello; e le ginestre; e i grandi vèrtici dei monti. E
questa era un'idea rinfrescante. L'automòbile risale la valle
bellìssima della Savena; làscia giù la bassa
landa, corre su verso la freschezza dell'Appennino.... È
deciso. Andiamo a Scaricalàsino. Respireremo l'ària
fresca, berremo le àcque purìssime di
Scaricalàsino. Ma bisognerà attèndere l'alba
del dimani. L'automòbile làscia Bologna al primo
mattino. Tanto mèglio! Bello è viaggiare al mattino.
*
Il desiderio di vìvere un'ora a Scaricalàsino era
così grande che alle tre del mattino mi trovavo già
desto per il letto. Perciò levàtomi e tolto meco un
mantelletto ed un forte bastone, mi recai ad attèndere l'ora
della partenza in quel caffè che mai non chiude le porte.
L'alba non era ancora apparsa; ed il cielo sembrava di
cènere: eppure il giorno doveva èsser sereno!
Da via Indipendenza, intanto, col lento moto delle scope, avanzava
in un polverone una schiera di spazzini. Il loro gesto era
silenzioso e solenne. «Voi siete sacerdotali ministri, voi che
togliete la sozzura notturna.» E quasi mi venne vòglia
di salutarli quei dispregiati spazzini.
Ma la sozzura degli uòmini e della notte era ben palese
nell'elegante caffè che mai non chiude le porte. Su la lastra
di marmo di un tàvolo, sotto l'ùnica làmpada
accesa, una mano non inesperta aveva tracciato alcuni disegni
mostruosi. Tristi uòmini, tristi donne che vivete nella
notte! Le tènebre della notte sono demonìache, ed i
corpi ne sono polluti. Perchè al discèndere delle
tènebre non recitiamo più compieta? Non supplichiamo
ancora ne polluàntur còrpora?
Come si vede, io era pieno di purità: dunque, honny soit qui
mal y pense!
Io ero solo in quel caffè: l'ùltimo nottàmbulo
se ne era andato: io ero il primo avventore mattutino. Con l'aiuto
di una pìccola cartina geogràfica, risalivo il corso
della Savena; pregustavo il viàggio, sorbendo un ben
sciagurato caffè. «Ecco - dicevo in pura letìzia
di spìrito - l'incantèsimo dell'aurora fra poco
distesa per il cielo; ecco le pure àcque giù dai
monti; ecco si àprono i fiori; ecco càntano le
ròndini! Tutto puro.» Dunque, honny soit qui mal y
pense!
Perchè, d'improvviso, un'automòbile rombò,
sostò davanti al caffè; partì sùbito con
un miagolio rabbioso; ed io avevo appena levati gli occhi, che due
donne sbattèrono la portina a vetri, irrùppero nel
mezzo della sala. Parèvano le padrone del caffè, della
notte, dell'universo. Ondeggiàvano enormi stravaganti
pennacchi. Una di esse comandò imperiosamente, battendo con
le nocche inanellate sul marmo: - Botega! cafè e late! - e
poi alla compagna disse: - Sentèmose qua. E mi sentii
profondare poi sollevare sul sofà. Ella si era seduta presso
di me. Un acuto profumo mi investì.
Costei era veramente una figura notèvole: due occhi chiari,
freddi, imperiosi in un volto olivigno, dalle linee forti: bel
rictus meretrìcio. Una larga tònaca nera di seta,
trascinata con grande sprezzo, lasciava intravedere gli
ondeggiamenti di un grande corpo. Un senso di angòscia mi
sorprese.
L'altra era più giovane, più èsile: una
figurina esòtica; ma sbattuta, sciupata, sgualcita. Si
liberò come dolorosamente delle grandi piume: apparve un
volto triangolare come d'una serpe: volto senza fronte, tutto
avvolto in treccine bionde; due immoti occhi di turchese, dilatati,
paralleli; un tàglio carmino di bocca; un mento plasmato come
da un bizzarro artèfice. Costei sbadigliò liberamente,
risbadigliò, rialzando i gòmiti e
inturgidèndosi tutta. Allora parve accòrgersi che nel
caffè non era sola, lei e la compagna. Parve con un sorriso
stancamente dirmi: «Pardon!». E quasi a mèglio
spiegare, rivolta alla compagna, disse: - Go sono!
Sorbìrono un po' di caffè e latte; poi la bruna
sbattè sul marmo una borsa a màglie d'oro: trasse
dalla borsetta un astùccio d'oro; dall'astùccio una
sigaretta che rotolò fra le palme; cimò il tabacco con
certe ùnghie acute, rosse.
Chi èrano queste due donne notturne? Sozzura notturna
certamente. Ma quale? Quella che la questura scopa; o quella che
è idealizzata dagli scrittori? innominàbili
èrano? ovvero di quelle che sono nominate con onore?
La mia ignoranza è grande. «Ma quali voi vi siate, ah,
le turpi fèmmine! ah, i vili scrittori che idealìzzano
codeste fèmmine, commèntano davanti alla onorata
nostra povertà quanti diamanti elle possèggono; e
quanto denaro dissìpano; e fanno i nomi degli stùpidi
proci che aspìrano alle loro nozze! E le vanno ad
intervistare codeste fèmmine, e più
insulsàggini elle dìcono, più sono giudicate
originali; e ci pàrlano dei ritmi, dei sìmboli che
hanno sin nei piedi; e ci presèntano le loro lìnee
invereconde nei disegni e pitture, e ci raccòntano nei
romanzi le avventure della loro vita! Obbròbrio!»
(La biondina, con la testa abbandonata sul bràccio e come
dormiente, aveva pure un non so che di soave: la bruna, eretta con
que' chiari occhi metàllici, aveva alcunchè di
crudele.)
Ma quale maligna forza mi costringe a guardarle? Esse non si
accòrgono nemmeno di me: io pur le guardo: io le intervisto.
Sì, le intervisto anch'io, e domando: «Quale abisso
separa me da voi? Bellìssime creature, io vorrei che voi mi
diceste, che voi mi dichiaraste che cosa sono per voi i titani
dell'umanità: i grandi scopritori, i grandi polìtici,
i grandi guerrieri, i grandi scienziati, i grandi poeti».
Mi sento rispòndere: «Cristòforo Colombo ci ha
permesso le tournées in America; Stephenson ci ha permesso di
viaggiare in sleeping-car; Pasteur ci ha inventato molte cose
igièniche; Edison ci ha inventato le lampadine
elèttriche: i pittori hanno disegnato i figurini delle nostre
toilettes; i guerrieri fanno la guerra anche per noi; le teste dei
legislatori spesso hanno servito da cuscinetto alle nostre scarpine.
I poeti sono i nostri reclamisti».
La biondina, dormiente, esponeva graziose scarpette d'oro, tutte
brillantate.
«Miseràbili carni vendute! - proseguiva io -
viltà del mondo senza nome! dissipatrici dell'enorme lavoro
dell'uomo!»
«Sempliciotto - rispondèvano loro. - Ci hai mai
pensato? Pènsaci. E d'inverno e d'estate, e negli autunni
squàllidi, e nelle albe di cènere, e attraverso tutti
i terremoti, tutte le devastazioni, chi fiorisce eterna, e ridente?
Chi? Noi. Noi non siamo mai arruffate, mai inzaccherate, mai
scalcagnate. Erette, lineate le cìglia, fisse le labbra,
impennacchiate, indiamantate.... Batta pure la neve! noi siamo il
sole dell'uomo. Il nostro splendore attraversa l'ora grìgia
del mondo. Ci siamo profumate per vìncere le
putrèdini. Ridiamo per deviare le vostre tristezze.
Sempliciotto, ci vuoi misurare le spese? Ci vuoi fare i regolamenti?
Va a scuola!»
Io ero a questo punto della mia intervista, quando mi sentii balzare
sul sofà. Era la bruna che era balzata venèndomi da
presso: ed io ero balzato per contraccolpo. Ella - mentre io
meditavo su la sozzura notturna - aveva frugato nella sua borsetta
d'oro.
- Un'allumette per piacere, - disse presentandomi la sigaretta
penzoloni dalle labbra.
Offrii la fiamma, la quale insieme con l'àcqua non si
può rifiutare all'uomo e neanche alla donna. Colei accese,
aspirò, scosse la compagna, le offrì una sigaretta: ma
essa ripetè:
- Go sono!
La bruna allora mi fissò in volto: disse a bruciapelo:
- Noi siamo milionàrie. Certo, milionàrie! Siamo state
in automòbile questa notte; e adesso andiamo a letto. Ci
alzeremo quando ci piacerà.
Aveva un metallo di voce roca, bruciata dall'arsura delle sigarette.
- Io, signora - dissi rispondendo dopo essermi un po' riavuto, - non
sono ancora milionàrio; ma meriterei di èsserlo. Non
vado a letto perchè mi sono levato da poco: andrò
anch'io in automòbile, perchè devo recarmi appunto a
Scaricalàsino.
La signora non conosceva questo paese. Aveva viaggiato mezza Europa;
conosceva tutti gli Eden, le Folies, i Trianons, i Moulin-Rouge
d'Europa e d'Amèrica; ma non conosceva Scaricalàsino.
Per tal modo appresi che la signora era artista: ma assai più
artista di lei era la biondina, anzi «cèlebre
artista».
Mi feci attento. Artiste! Le signore allora appartenèvano
all'almanacco di Gotha dell'alta sozzura.
- Artista di canto, la signora bionda? - domandai.
- La signorina la xe artista de balo, e che artista! - Come? io non
l'avevo riconosciuta? - Ghe xe i ritrati per tuti i cantoni! Lu nol
conosse Lydia Dolores?
Confessai la mia ignoranza.
Stupì. Domandò: - Ela no la ga mai visto Lydia Dolores
balar la danza egìzia? el tango autèntico? la
matchiche? la danza serpentina? la danza russa, tutta nuda?
- Tutta nuda?
- No ghe xe gnente de mal.
- Non dico di no. È che io, signora, ho l'abitùdine di
alzarmi nell'ora in cui si cominciano a ballare queste danze; - e
perciò non potevo imbàttermi con la signorina Lydia
Dolores.
Quegli occhi grigi e freddi mi scrutàrono un poco
dubitosamente; poi disse: - El ga perso un gran spetàcolo. Lu
nol xe miga per caso un cèrego, un prete?
- Tutt'al più un chièrico vagante.
- Del resto per mi un cèrego el xe un omo come un altro. Se
nol xe un cèrego, alora el xe qualcossa de stravagante. Be',
se lu el vede balar Lydia Dolores, dopo el se ne ricorda per un
toco. La par fata co le suste; la se remena, la se
inverìgola, la se storze come una bissa! Eh, se la gavesse
giudìzio, quela là, la podaria mètarse da parte
un grumo de soldi, in verità de Dio! Ma no la ga
giudìzio....
- Non ha giudizio?
- Gnente! Una vera artista! Ela la se strùssia, la xe
sentimental, la se consuma. Indove che la va, la se inamora come una
gata soriana, no la ga condota; la tôl i òmeni sul
sèrio....
- Non si dèvono prèndere sul sèrio gli
uòmini, questo capolavoro della creazione?
- Gli uòmini sul sèrio? - Ed i suoi occhi freddi mi
fissàrono.
- Ecco, signora, se non pròprio sul sèrio, con un
certo rispetto, almeno voi, tenendo conto che vivete della loro
generosità.
- Se ghe dà la vita a sti porçei. Ah, sì ben,
generosi! - disse ironicamente. - I òrdina una botiglia de
sciampagna. Piper! Veuve Cliquot! - disse imitando la voce dell'uomo
che òrdina, - ma per farse vèdar che i xe scic, che i
xe boni de spèndar un marengo - riprese con un lampeggiamento
di sprezzo; - per ecitarne! Nineta - disse scotendo Lydia Dolores, -
dìghelo ti a sto signor quante volte, de scondon, mi buto via
soto la tòla el sciampagna. E a ti te digo: No star a
bèvar, ti xe mata anche senza sciampagna.
La cèlebre Lydia Dolores sollevò appena la testolina
dalla sua dormivèglia; confermò di sì: disse -
Andemo a leto!
- Quando me parerà a mi - disse la bruna. E rivolta a me,
disse: - El me creda, no i dà gnente per gnente!
Allora io mi ricordai di avere udito e letto che molte signore,
appartenenti all'alta sozzura, possèggono ville,
tìtoli di rèndita, fanno anche uno, due, tre matrimoni
cospìcui. E per confermare il mio asserto, feci qualche nome
famoso di cui ricordavo. Ella mi ascoltò con benevolenza ed
ammise in parte quello che io dicevo: - Ma casi rari. Eco: Lydia
Dolores! La ga avuo, la fortuna de nàsser co la lìrica
nei pié; la podaria arivar a un alto grado, ma ghe manca la
condota, no la ga mètodo. Za, in arte ghe xe çento che
tenta e una che riesse....
- Verità sacrosanta! - dissi - Brava, signora!
(La mia calda lode la lasciò indifferente).
- Scusi - domandai - e lei che mi pare che àbbia
mètodo, condotta, e anche giudìzio...?
Punto primo: lei era artista, ma non cèlebre; cioè non
possedeva, come la signorina Lydia Dolores, quella che si potrebbe
chiamare «la messa in valore».
- E punto secondo? - domandai.
- Mio caro - disse in italiano fissàndomi bene in volto con
quelle sue fredde pupille - , io dò soltanto la..., - e mi
investì con quella parola oscena, che nell'intenzione di lei
voleva significare «io non sono oscena, io sono soltanto
fisiològica». Mi sentii le vampe alla fàccia a
quella parola, e un non so che di àrido nella gola. Colei
rimase impassìbile.
- Un'allumette.
Accese un'altra sigaretta.
La cosa oscena per lei era l'uomo. - Ma che el creda, - disse -
l'omo, se no se ghe dà el clorofòrmio, se no lo se
brutaliza, no se ghe cava fora gnente. Bisogna adatarse a tutti i
sporchessi de l'omo. Ella non si adattava, e perciò era
pòvera.
La biondina dormiva oramai. Io la guardavo di sfuggita di tanto in
tanto. Una purità angèlica pareva affiorare su la
dormiente. La bruna si trovava in istato di euforia verbale, e
continuava:
- Lu nol me credarà. Ma co tuto quelo che go visto, co tuto
el mondo che go viagià, go conservà ancora i gusti de
quando che giero una puta d'onor a Venèzia! El me creda che
mi piutosto de i patè, de i flan, e tuti i pastroci de le
cene de i restaurants, go più caro un bel piatin de
figà a la venessiana, fato da per mi, co la so bela
sèvola frita pulito.
Queste dichiarazioni di gusti sèmplici e naturali, unitamente
alle sue disposizioni fisiològiche e non oltre,
disponèvano in favore della moralità della signora. Ma
age quod agis prima di tutto, come dice la antica sapienza. La
signora poteva concorrere ad un pìccolo diploma di
onestà; ma certo non era nata per appartenere all'almanacco
di Gotha dell'alta sozzura; e a suoi tempi il magnìfico
Bandello non la avrebbe giudicata meritèvole della laurea di
cortigiana onorata.
In secondo luogo non nasconderò che quel piattino di
fègato con la cipolla soffritta mi aveva disgustato. Ne
sentivo quasi il puzzo. Ella continuò noiosamente a parlarmi
delle sue segrete aspirazioni che èrano quelle di ritornare
in grembo alla vera onestà.
Allora io le dissi:
- Ma non mi pare, signora, che anche nello stesso stato presente,
lei sia fuori della circoscrizione dell'onestà. Scusate,
signora, avete rotto la fede? No, perchè non l'avete mai
data! Avete qualche suicìdio su la coscienza? Nemmeno. Avrete
dato scàndalo e certo questo vostro vestire è
perturbante; ma voi potete ben dire: «è
professionale»; ma anche altre donne, ritenute oneste dal
mondo, commèttono scàndalo, purtroppo! Avrete acuito
qualche desidèrio, ma la colpa fu del padre Giove che volle
mèttere questi incendi nel sàngue dell'uomo. L'avete
acceso, ma l'avete anche spento con onesta fisiologia, senza lasciar
memòrie dannose. Ma ben più riprovèvoli sono
quelle donne le quali accèndono le fiamme e non le
spèngono, o le spèngono male. Per me voi siete una
donna onesta, anche se la società vi giùdica
diversamente.
Le mie parole non la commòssero. Speravo che, dopo avere
udito le mie liberali opinioni, esclamasse: «Lei è un
vero uomo!». No, disse soltanto: «Mi digo che lu el xe
un cèrego, de quei che fa le prèdiche».
Il suo ideale era di lasciare la professione, comperare nella sua
Venèzia, nel sestiere di Cannarègio, una casetta, su
cui già aveva posto l'òcchio, mètterla bene, in
òrdine, con belle càmere, disimpegnate....
- E poi?
- E poi affittare ad artiste come noi - disse. - Sapete che rende
moltìssimo affittare? Lo sappiamo noi cosa costa! Noi
paghiamo tutto il dòppio! Allora sì potrò fare
la donna onesta! Oh, ma xe tardi.
Il quadrante dell'orològio segnava le cinque.
- Ninetta, desmìssiete!
- Peccato svegliarla, pòvera creatura.
- Adesso la svèglio io - disse la bruna - . Volete vedere!
volete vedere? - E senza attèndere una mia risposta,
battè a palma a palma e gridò gioiosamente: - Nineta,
xe qua Rafaelo d'Urbin!...
A questo richiamo la biondina balzò di colpo; le pupille le
balenàrono lànguide, ardenti, indagatrici:
- Dove xelo, dove xelo?
- El xe a leto che el dorme. Macaca!
E la biondina ricadde giù con la testa.
- Galo visto? Cossa vorlo mai - riprese saviamente la bruna - che
anca ela, povareta, la possa farse una fortuna? La se magnerà
quel fià che la guadagna co le so onorate fadighe. Che la
lassa passar i trenta, e po', adio Nineta!
Domandai chi era Rafaelo d'Urbin.
- El xe un pitor futurista, che el fa el romàntico, el
d'Artagnan. Ma mi digo che el xe un pitor truffaldin e
mirabolàn. El xe de Màntova e tanto basta.
*
E la bruna e la bionda uscìrono dal caffè.
Le prime vampate del sole nascente corrèvano ròsee
sotto i pòrtici.
Le due milionàrie, strascicando le loro vesti di seta,
movèvano verso il loro nascondìglio diurno.
Le pìccole operàie si soffermàvano a guardarle
con pupille attònite. E mi avviai verso la stazione
dell'automòbile per Scaricalàsino.
Capìtolo IX.
MAGISTER ELEGANTIARUM.
Il giovinetto che era con me in quella spècie di
scàtola bucata che è l'automòbile Bologna-San
Piero a Sieve, pareva su le spine.
Egli era in quella età beata ed ancora implume, in cui nei
tempi antichi si andava paggi e damigelli presso qualche barone. Mi
si presentò nel fatto: Pierettini Giùlio, impiegato
nella ditta «Daruk und Sohn», fabbricatrice di
grammòfoni, fonògrafi e dischi dei più
cèlebri artisti, con depòsito generale in Milano, via
X, n. 7.
Egli non andava, come me, a Scaricalàsino - paese alla sua
volta anche a lui sconosciuto - ma più oltre....
- Mio dio, dio mio! - diceva fra il sèrio ed il faceto - se
si va avanti così, io sono completamente rovinato!
- Ma in che cosa rovinato, bel signore?
- Ma i miei vestiti, porco can! Non vede lei in che stato sono
ridotto?
Confesso che io fui molto sorpreso da queste parole, perchè
io ammiravo - oltre che il paesàggio - anche il mio compagno.
Egli era un paradigma: pareva venuto fuori, fresco fresco, da una
ditta di mode: High life, English taylor, Al mondo elegante.
Egli non guardava punto il paesàggio; ma si stava tutto
composto sul suo seggiolino, e ad ogni colpo del polverone, piegava
il capo come il soldato nuovo, ai primi colpi di fucileria.
Disse:
- Supponendo di arrivare sano e salvo, io mi presento che sembro un
vero mostro. Pensi, in un hôtel di primo òrdine, pieno
di signori e signorine, sbarcare così! Ho preso tutto - e
indicava la valìgia - smoking, pijama..., ed ho dimenticato
la spolverina da viàggio! Ho dimenticato? Non ci ho pensato.
- Lei va a fare un poco di villeggiatura? - domandai.
- Sì, un po' di campagna, e se ne ha il diritto! Tutto il
giorno in ufficio! - E mi spiegò come il fìglio di un
conduttore di un hôtel, nel Mugello, impiegato anche lui
presso una ditta di Milano e suo buon amico, lo avesse invitato
quale òspite graditìssimo per una ventina di giorni. -
Un hôtel di nuovo impianto - mi andava spiegando - in
posizione splèndida; ottocento metri sul mare; garage,
tennis, due fonògrafi monstre, sempre della ditta Daruk und
Sohn; insomma tutto il confortàbile moderno: al mattino,
prima colazione, caffè latte e che latte! mèglio di
Milano; burro, miele, confiture, pròprio come in
Germània; secondo lunch a mezzogiorno, potage e due portate;
alla sera, poi, minestra, altre due portate, dolce; e fiasco in
tàvola. Sentisse che vino! Vero Chianti! Mica di quello che
si fàbbrica a Milano! Chi vuole, fa la cura del latte; e chi
vuole, fa la cura del vino di Chianti. E tutto questo po' po' di
roba per lire dieci al giorno. Sono prezzi da fallimento, prezzi
réclame: in Svìzzera un trattamento sìmile vale
almeno venti lire....
Ora egli si sarebbe divertito, avrebbe fatto rìdere, ballare
le signorine, avrebbe mangiato molte fràgole, mangiato molti
spaghetti col sugo, una cosa che a Milano «lascia alquanto a
desiderare». Avrebbe imparato la lìngua fiorentina:
Costassù, codesto costì, e non la mi fàccia il
nesci! una cosa complicata mica male, che a scuola non era riuscito
a capire.
- Lei ha studiato?...
- Tutte le tre tècniche, ma, in confidenza, la lìngua
milanese è la vera lìngua del commèrcio.
Naturalmente non andava costassù a mani vuote - e mi
mostrò un pacchetto rotondo.
- Una torta? - domandai.
- Mai più! Alcuni dischi straordinari, Caruso, Bonci ed altri
cèlebri divi e dive. Non li conosce? No! Nemmeno al
fonògrafo? Non la interessa il fonògrafo?
- Sinceramente, preferisco non sentirlo.
Mi guardò con istupore.
- È il primo che sento. E lei dice di vìvere a Milano?
- E ammutolì guardàndomi.
Aveva la fisonomia di un buon figliuolo; e siccome ai miei occhi
egli pareva moltissimo elegante, così giudicai ùtile
di approfittarne per risòlvere il diffìcile problema
della differenza che intercedeva fra me e le persone eleganti in
gènere, e lui in particolare.
Dissi dunque:
- Lei si lamenta di arrivare a destinazione mal conservato. Che cosa
dovrei dire io, allora? Guardi queste scarpe gialle! Sono otto
giorni che le porto e non si capisce più di che colore esse
sìano. Se poi avessi comperato delle scarpe con la mascherina
bianca e nera, come le sue, chi sa in quale stato sarèbbero
ridotte.... Le sue scarpe dèvono possedere un qualche
segreto....
- Sono scarpe di american shoe, - disse - ed è già il
terzo mese che le porto.... Ma la sera bisogna mètterci il
suo bravo stirascarpe; e così si consèrvano nuove.
- Allora passiamo ai calzoni. Anche lei è in viàggio;
ma i suoi calzoni sèmbrano dipinti come nei figurini. I
miei..., i miei arrossìscono di fronte ai suoi.
Anche per i calzoni la cosa era sèmplice.
- Quando si lèvano, la sera - diceva - si fìssano nel
loro stira-calzoni....
- E tutti questi arnesi per stirare, scusi, li porta con sè?
- Certamente! - rispose meravigliato della mia meravìglia.
- Passiamo ad altro. Confronti il mio cappello col suo....
Sorrise di compiacenza. Se lo tolse e me lo spiegò.
- Cappello sans-gêne, forma capricciosa, qualità
extra-extra. Un'ala deve posare su l'orècchia sinistra; il
nastrino posteriore va a due centìmetri dalla lìnea di
tosatura, e così rimane fisso e non si sforma. Vede?
Nel levarsi che egli fece il cappello, era rimasta scoperta la
testa: una testolina oblunga, un poco a forma di cetriolo: ma la
lucidezza della capigliatura era ammirèvole.
- Scusi, prima che lei si rimetta il suo copricapo extra-extra, mi
spieghi un po': c'è anche lì qualche cosa per stirare
i capelli? Prescindendo - ben inteso - dal colore, i miei capelli
hanno l'abitùdine di rizzarsi obbrobriosamente....
- Per lustrare ed ammorbidire i capelli - rispose - io faccio uso
della brillantina Organ di Coty, al profumo di eliotròpio.
Provi anche lei.
Proverò, ma credo che resteranno ìspidi lo stesso: il
difetto sta sotto: nel cervello.
Mi nacque un dùbbio; e dopo avere ringraziato, esposi questo
dùbbio così:
- Non le pare, bel signore, che dover lustrare e stirare tutte
queste cose, sia un poco come diventare il cameriere di se stessi?
Quel buon figliuolo fece una mossa còmica: levò le
cìglia sino a far ritirare la già pìccola
fronte del suo lungo pàllido volto; spalancò, storse
la bocca, instupidì le pupille. Io lo avevo obbligato ad un
esercìzio ben crudele: pensare!
Ma si rimise sùbito, come un vispo galletto che, immerso
nell'acqua, scuote le penne coraggiosamente e riprende il contegno
di prima.
- Sarà - rispose allegramente. - Ma io ho osservato che
quando esco di casa poco soigné, per esèmpio col
berretto da ciclista, la gente mi saluta con meno rispetto. Le
signorine, poi, quando si è eleganti, guàrdano e
guàrdano anche per prime! Ma quando non si è eleganti,
niente guardare! Questa, capirà, è una cosa molto
sèria, specialmente per un giovinotto. Io poi le dirò
per conto mio questo fatto curioso: se non ho la cravatta a posto,
non mi sento a posto nemmeno moralmente.
- Bravo! A propòsito di cravatte! Come va che la sua cravatta
sta come torre ferma; e la mia gira come un quadrante per il
collo?...
- Sèmplice! Lei la fissa con queste molle
automàtiche.... Permette?
Mise delicatamente il pòllice e l'ìndice nel taschino
del gilè, ne trasse sùbito un astùccio,
dall'astùccio due mollette; mi venne vicino con la sua
testolina lucidata all'eliotròpio, e come glielo permetteva
l'andar balzelloni nell'automòbile, fissò e mise in
valore anche la mia cravatta.
Mentre egli si stava così chino, io assaporavo il profumo
della sua testolina all'eliotròpio.
- Le cravatte svolazzanti – disse - è bene che lei le
èviti. Hanno un caràttere democràtico, ma non
sono niente chic.
- Perchè, scusi, lei è aristocràtico?
Vidi la sua fronte incresparsi ancora sotto il martìrio di
una meditazione.
- Lasci, lasci, già anch'io non so bene se sono
democràtico o aristocràtico-dissi, e ringraziai della
molletta e del consìglio.
- E un'ùltima spiegazione, la prego - aggiunsi di poi: - lei,
come ho potuto osservare, ha trovato sùbito la scatolina
delle mollette; lì vedo che spunta il fazzoletto; di
lì vedo che vien fuori l'astùccio delle sigarette. Io,
invece, per trovare un oggetto necessàrio, devo ogni volta
fare un viàggio per tutte le tasche: cerco il fazzoletto,
viene fuori un toscano; cerco il toscano, viene fuori il
temperino....
- Ma ogni tasca, signore - rispose quel caro giovane - ha la sua
particolare missione....
Egli mi spiegava la missione delle vàrie tasche: ma ogni
tanto si arrestava: la fuga dell'automòbile, giù per
le discese, gli levava il respiro.
Capii come, oltre che dall'assenza della spolverina, il giovanotto
era preoccupato della pazza corsa a cui si abbandonava
l'automòbile. Diceva anzi:
- Quel diàvolo di chauffeur deve aver bevuto chi sa quanti
cicchetti di grappa! Nelle svoltate, che non ci si vede a cento
metri, lui lància questo baraccone alla terza
velocità. Guardi come cala giù per i tourniquets! Roba
da matti! Se ci imbattiamo in un'altra automòbile, mi dice
lei dove andiamo a finire?
- Più di morire - risposi - io credo che non ci possa
capitare....
- E le par poco? Mi par tanto! - E voleva dire: «Allora, addio
cappellino extra-extra, addio spaghetti col sugo, addio
fràgole e signorine».
- Ma scusi - obbiettai - se lei deve andare soldato, con la guerra
che c'è in Lìbia, con questi nuvoloni neri che
pàssano sull'orizzonte d'Europa, è mèglio star
preparati.
- Per questo sono a posto: fìglio ùnico di madre
vèdova! - esclamò allegramente.
- Va bene! Però ammetterà che una volta o l'altra
bisogna morire....
- Di questo poi non me ne parli, sa! Mi vèngono i
brìvidi solo a pensarci.
- Eppure avrà inteso dire che una volta o l'altra bisogna
morire....
- Così ho inteso dire, e così sarà: ma io non
ci penso. Mi viene una paura, se ci penso! Quasi quasi farei la
strada a piedi. Questa è una corsa alla morte!
Io dissi allora gravemente: - Thànaton gar dediènai
oudèn allo estì e sofòn eìnai
dokèin, me onta! Così è, il mio caro
giòvane. E sa chi dice così?
I suoi begli occhi neri mostravano un acuto stràzio a queste
parole.
- Che vorrebbe dire!
- Vorrebbe dire: temer la morte, null'altra cosa è che
sembrar d'esser sàggio, non essendo.
- Rinùncio ad esser sàggio.
- E il suo ideale allora sarebbe?
- Portar il frac in società, aver da pagar da cena a qualche
donnina. Un uomo che non ha portato il frac, che non ha puntato a un
tappeto verde, che non sa far stare allegre le signorine, che cosa
è? Io, veda, ho la specialità per far star allegre le
signorine. È che poi màncano i soldi....
- Così che lei vorrebbe avere tanti soldi....
- Eh, già!
- E non le darèbbero il giramento di testa?
- Cosa dice mai!
- Ma guardi, guardi lì - mi disse ad un tratto - quella
montagna tutta verde, che pare un triàngolo tirato col
compasso....
- Ebbene?
- Come ci starebbe bene una réclame tutta in bianco:
«Casa Daruk e compagni. Grammòfoni
insuperàbili!».
Un campanile aguzzo, un aggruppamento di case biancheggianti, su di
un pòggio, ci venìvano incontro rapidamente.
L'automòbile si arrestò alle prime case dell'abitato.
Il conduttore scese, gridò:
- Monghidoro! Mezz'ora di fermata.
Raccolsi le mie cose: mi preparai a scèndere. Salutai il
compagno.
- Ma non diceva lei che andava a....
- A Scaricalàsino - risposi. - Monghidoro e
Scaricalàsino sono la stessa cosa.
Mi guardò come temendo d'èsser beffato.
- Credevo - rispose - che fosse un nome inventato, ma che il paese
non esistesse....
- Non esiste Scaricalàsino? Paese irreale, chimèrico
Scaricalàsino? Ma è paese reale, ed è questo:
Scaricalàsino! Domandi, ed il pòpolo le dirà
Schergalesen! Non sente lei, giòvane e bell'amico,
un'ebbrezza nel ripètere a se stesso: «La terra che io
calco è Scaricalàsino! l'aria pura che qui respiro
è aria di Scaricalàsino! non vede la
tranquillità, la felicità nei cittadini di
Scaricalàsino?».
Non dimenticherò facilmente gli occhi esterrefatti del mio
giòvane compagno di viàggio. Mi disse: - Lei, signore,
scusi, sa! deve èssere poeta4.
Capìtolo X.
EFFETTI DI SCARICALÀSINO.
Ma non appena la automòbile strombettò, e fuggì
via, domandai a me stesso: «Cosa sono venuto a fare a
Scaricalàsino?».
Ah, sì, a respirare ària pura.
Avrei voluto riprèndere la automòbile; e andar di
lungo in Toscana, ma quel cassettone dell'automòbile era
oramai lassù, in vetta a un altro pòggio.
Sì, l'ària a Scaricalàsino era pura; le fontane
di Scaricalàsino versavano lavacri di acque pure; file di
buoi e di asinelli baliosi trascinàvano seco il profumo dei
presepi. Ma io ero già stanco. Mi dilungai fuori del paese e
vidi, per greppi e prati, file di donne, vècchie e fanciulle,
che intrecciàvano, col ràpido moto delle mani, trecce
di pàglia. Le mani di quelle trecciaiole forse èrano
pure; ma sùdice e deformi. Rientrai in paese.
Guardiamo le antichità: una làpide mi avvertì
che Scaricalàsino aveva dato i natali al Ramazzotto, uno di
quegli avventurieri che vestìvano di ferro e, quando garbava,
scaricàvano pugni sul pòpolo, che allora era privo
della sovranità. Anche il nome Ramazzotto richiama in mente
una scàrica di pugni. Cosa strana e certo deplorèvole:
vi sono momenti in cui si prova simpatia per gente sì fatta!
Vediamo se vi sono altre làpidi. La interpretazione delle
làpidi serve anche a far pèrdere il tempo, come la
spiegazione delle sciarade. Ne scopro una graziosa, che ricorda il
fàusto passàggio del papa Pio IX per
Scaricalàsino, il 17 agosto 1857.
A Pio Sovrano,
Al Sommo Pastore,
Noi mìseri figli
Offriamo l'amore.
Dèvono èssere versi, nell'opinione di
Scaricalàsino. Mi vènnero anche in mente le poesie di
Mimì; e così passai altro tempo.
Oh, ma interessante! Ecco, pròprio vicina alla làpide
per Pio IX, un'altra làpide, e un altro fàusto
passàggio per Scaricalàsino: il primo giugno 1860,
Vittòrio Emanuele II, il Duce valoroso di Magenta, qui
venendo di Toscana, colse su questi monti i primi omaggi dei
pòpoli dell'Emìlia.
Dunque a due anni e mesi di distanza, i mìseri figli di
Scaricalàsino, dopo avere offerto il cuore a Pio IX, lo
offrìvano a Vittòrio Emanuele II. Ma questa non
è una specialità di Scaricalàsino: anche fuori
di questo paese i pòpoli òffrono con molta
facilità il loro cuore ai pastori nuovi.
Valoroso duce di Magenta, però, non era esatto; ma può
andare per Scaricalàsino, tanto più che nei libri di
scuola si dice lo stesso. Pòvero Napoleone III! Tutta la
stòria del Risorgimento d'Itàlia sarebbe da rifare. Ma
chissà se questa stòria è finita?
E così pensando, passai altro tempo.
Ma quanta ricchezza di preti c'è a Scaricalàsino!
Baldanzosi, messi bene, ben pasciuti.
La buona gente mi assicura che se vado su pel Mugello, di preti e
mònache ne troverò anche di più.
Si vede, allora, che la pianura è coltivata a socialismo
rosso, e la montagna a socialismo nero.
E guardando i preti, passai altro tempo.
Ma ecco un'altra automòbile, pari idèntica a quella
che avevo lasciata, rombò per Scaricalàsino.
- Questa dove va? - domandai.
- Torna a Bologna, - mi fu risposto. - Ma lei non deve andare in
Mugello?
Mi avèvano visto scèndere poche ore prima con le mie
scarpe gialle, girare per Scaricalàsino, ed ora andavo via.
Cos'ero venuto a fare a Scaricalàsino? «No, buona
gente, la verità è questa, che io non so dove andare,
se andare in Toscana o tornare a Bologna.»
Ma se avessi detto così, avrei dato scàndalo:
perchè è lècito seguire ad lìbitum o i
sàtrapi rossi o i pastori neri; ma non è lècito
ignorare dove l'uomo deve andare, e perchè andare.
Perciò risposi: - Sì, devo andare a Firenze....
- Allora domattina, con la corriera con la quale ella è
venuta.
E l'automòbile passò.
*
La gente mi parlava pittorescamente del Mugello, del Giogo, e della
Futa. Lassù avrei mangiato fràgole di bosco. Dal
vàlico, per Barberino di Mugello, avrei raggiunto San Pietro
a Sieve; lì avrei preso il treno, e in mezz'ora sarei stato a
Firenze e di lì a Pisa. Non avevo mai visto il Mugello; ma ne
avevo l'imàgine di un paesàggio composto ed adorno,
come la prosa del Firenzuola. E il nome di Barberino di Mugello mi
fece balzar fuori la Nència da Barberino, la quale, in
realtà, era una contadina, ma quei versi di Lorenzo il
Magnìfico che tanti anni addietro avevo sentito recitare, io
direi divinamente, in iscuola dalla bocca amara di Giòsue
Carducci, mi rifiorìvano alla memòria:
I' t'ho agguagliata alla fata Morgana,
Che mena seco tanta baronia,
e me la trasfiguràvano: fata Morgana, così
pròprio, che sorrise per breve ora nella mitezza del cielo
toscano. Poi la realtà: la servitù della
pàtria.
E anche Pisa non avevo mai veduto; ma mi piaceva nominarla in
latino: Pisae-Pisarum, e la vedevo con tante galee antiche;
àuree, rosse su per l'Arno azzurro: e il cimitero di Pisa non
avevo mai veduto, e lo vedevo come un gran porto silenzioso e
adorno, dove approdàvano coloro che avèvano navigato.
Allora domani andremo a Pisa.
Era questione di far venìr sera nell'interminàbile
giornata di Scaricalàsino, poi chiùdere òcchio,
la notte.
Mi fu indicata l'osteria del Ramazzotto; e quell'ostessa mi
assicurò che in un'ora mi avrebbe preparato delle
tagliatelle, e un pollastrino su la graticola.
- Lei, intanto, - disse - vada a vedere i monti.
Ripresi il cammino per sentieri e prati attorno a
Scaricalàsino. Vecchie e donzelle erano ancora accoccolate
sui greppi a intrecciare la pàglia.
C'era la donzelletta e c'era la vecchierella incontro là dove
si perdeva il sole oramai, come nella poesia del Leopardi. Ma allora
capii perchè Leopardi si annoiasse tanto a Recanati, sino al
punto da fare, a vent'anni, della filosofia su la donna.
Quelle feminette lavoràvano in silènzio,
immòbili, con ràpido muòvere delle mani. Non so
perchè quelle mani pure, ma sùdice, mi fècero
venire in mente le mani impure di quella cortigiana, laggiù
al caffè dell'Arena.
Sì, ella levàndosi, mi aveva sussurrato,
«Venite!», offrendomi indifferentemente il resto della
sua notte immonda.
Ed io la avrei anche seguita: ma era l'alba, l'ora delle cose pure,
l'ora che i bimbi dòrmono ancora. E poi c'era
quell'arrière-goût di fègato con cipolla.
L'ostessa aveva apparecchiato in una spècie di giardinetto
con una grossa tovàglia spighettata, che sapea di fresco odor
di lavanda, e vi avea posato un fiasco di vino bianco, che pel collo
sottile aveva le graziose bollicine, che andàvano su e
giù. Gran quiete e solitùdine. E allora pensai a
quell'antica istituzione che èrano i conventi antichi: una
specie di fortezza spirituale, dove i flutti mondani si venivano a
fràngere. Quivi oh, lievemente vìvere,
trascòrrere caldi e geli! Ebbene, quando sarò a Pisa,
domanderò in una biblioteca, il De òcio religiosorum,
che non avevo mai letto.
*
Malauguratamente nel giardino c'era una pianta di gardènie, e
tutta la colpa fu delle gardènie. Nei rossi vèsperi
davanti al teatro dell'Arena del Sole, a' bei tempi, si
vendèvano gardènie.
In verità non bàstano i conventi, ma è
necessària la rinùncia, anche alle gardènie; e
invece ne spiccai una ed immersi tutto il naso in quella freddezza
dei pètali carnosi sino a spezzare i pètali e a far
nera la gardènia.
Intanto l'ostessa aveva portato in tàvola le tagliatelle.
- Ma che mostruoso piatto - dissi. - Lei ne ha portate per due.
- Ne màngia fin che vuole.
Molto eccellenti e toste.
Avèvano un afrore fresco e quasi carnale.
È necessàrio rinunziare anche alle tagliatelle.
Calava il vèspero. Il vino mi fece vedere Bologna, la rossa,
Bologna d'altri tempi quando non èrano sorti i deformi
casamenti e il pòrtico del Pavaglione odorava di felsina, e
di gaggie, in quella sua composta signorilità. E si
vedèvano i pochi edifici sopra i colli imminenti,
spiccàvano con purità ellènica.
Poi, non so come, sentivo mormorare questi versi del pòvero
Severino Ferrari:
Vedi?
L'alba s'accende ed alza le ben cento
Torri Bologna fùlgida a' tuoi piedi.
E Severino Ferrari richiamava Biancofiore:
O Biancofiore, i tuoi riccioli d'oro
Come belli dormian sovra il tuo sen!
E allora anche Carducci, così maldestro
a cantare d'amore, si commoveva
per consenso, e sospirava:
O alti pioppi che tutto vedete,
Dìtene, adunque, Biancofiore ov'è?
Capìtolo XI.
IL SOGNO DELLA GARDÈNIA.
Ma quando fu notte e mi addormentai, ebbi una strana visione di
sogno. È vergognoso! ma sono stato io il Creatore della vita,
degli uòmini, delle gardènie? Chi era quell'uomo dalla
età e dalla barba a cirri veneràbile? Pareva Leonardo
da Vinci, il savìssimo; o Catone l'uticense, il
moralìssimo.
Ma il luogo dove il veneràbile uomo si trovava pareva la
Corte dei Miràcoli. Notte fonda: qualche lume, e dagli
angiporti un animarsi, un brulicare, come le cìmici, di
meretrici rosse, di meretrici gialle. Uomini priapei, malviventi,
cinedi. Orrìbile sozzura notturna.
- Che vuoi da me, pìccola miseràbile?
- Rispettàbile signore, aiutate una pòvera fanciulla.
Era una creaturina sparuta, quasi senza sesso. Quale orrore! Una
fanciulla nella età in cui gli àngeli fanno con le ali
velo all'innocenza, trovarsi in così abbominèvole
luogo!
- Sei sola?
- Ero con quegli uòmini che ora si allontànano
laggiù. Ma ora sono sola.
- Vuoi, pìccola fanciulla, che ti riconduca a casa?
- Casa? Io non ho casa.
- Ma tuo padre? Tua madre?
- Padre? Madre? Non ne so nulla, signore.
- Ti guiderò allora all'asilo delle fanciulle perdute,
benchè a quest'ora antelucana, gìrino per le vie le
guàrdie dei buoni costumi, che fanno razzia delle creature
immonde. Per la mia buona reputazione, fanciulla, procedi tuttavia
discosta da me.
- Hai paura? - domandò la fanciulla. - Ma la città ora
dorme; la gente non ti vede. Hai paura di venire vicino a me?
Non era più una voce infantile quella che l'uomo sàvio
udiva: era una voce divenuta sicura e calma.
- Io vado avanti e tu procedi dopo di me, se tu hai paura.
Così ella disse e andava avanti.
Il suo passo era lieve e saltellante: ora pareva più grande,
quale una snella efeba. Come una strana scia si formava dietro il
passo di lei, nel cui vòrtice l'uomo sàvio fluttuava.
Ogni tanto il volto di lei si volgeva in dietro con un
impercettìbile scintillar di sorriso: e tutte le chiome di
lei si volgèvano insieme.
Era veramente lei che trascinava dietro lui. - Fanciulla, tu sei
bene impudica! il giorno rischiara, e la tua veste è
impudica. Fèrmati, dimmi: non nacque il Pudore su le guance
di una fanciulla?
- Così dìcono - ella disse, - in fatti, i libri degli
uòmini: una bella fanciulla ti darà altra risposta.
Le vie della città èrano ancora deserte; e tutte le
finestre chiuse: ma dietro quelle finestre a lui sembrava di
scòrgere mille e mille sguardi: tutti, ah, tutti
vedèvano.
- Oh, ma io non ti toccherò, fanciulla, e se tu entrerai in
qualche luogo immondo, io non ti seguirò.
- Ma se fossimo in luogo dove non fosse più nessuno, nessuna
abitazione, nessuna curiosa pupilla umana, nulla fuori che me e te,
tu mi toccheresti.
La città infatti era scomparsa, e la notte dava posto al
sole, ed era l'irradiante sole estivo che rovesciava di qua e di
là le tènebre come un forte iddio. Una campagna si
apriva senza tràccia di abitazione umana. Salìvano
alte erbe, alte rose e gardènie. Ella saliva più alta
delle erbe e dei fiori, e con le bràccia nude districava le
sue impigliate chiome. Era un enorme velàrio di fiori, come
entro un campo di spighe. Le mani del veneràbile uomo si
tèsero per adunghiare quel bràccio. Ella se ne
accorse, rise, disse: - Ora hai tu perduto il pudore.
Allora ella rallentò il passo. Si lasciò avvicinare.
Magnifica e veneranda ella era. Bella come Biancofiore!
Pure sorrideva dolcemente.
Abbassò per un momento le grandi cìglia. Staccò
un tènue fermàglio, e con la mano si attolse la
mammella col purpùreo fiore del seno.
- Che cosa vuoi tu - disse ella allora tristemente - ,
pìccolo miseràbile?
*
E mi destai allora.
Sorgeva la pàllida aurora. Mi levai, guardai nello
specchietto. Certo non ero io il personàggio del sogno,
perchè io non porto barba. Ma certo era un indivìduo
della spècie barbuta, la cui potenza io avevo il giorno prima
esaltata davanti a Mimì.
Comunque una bella servitù questa dell'uomo che domanda una
mammella quando nasce e quando muore!
Probabilmente deve sussìstere un rapporto fra Biancofiore e
la morte.
Capìtolo XII.
BATTISTERO, CHIESA, CIMITERO!
Pisa, Battistero, Chiesa e Cimitero, e poi il campanile che suona; o
suonava una volta.
Le alte mura merlate, severe, nere, in questa parte remota di Pisa,
si piègano a gòmito e sèmbrano recìngere
il confine di un mondo.
Battistero, Chiesa, Cimitero e la campana che chiama; tutto è
marmo bianco, su cui è passata la mano giallina del tempo: un
color di cera, un color di alabastro, come la mano dei vècchi
e dei morti: tutto un ricamo aèreo sul verde del prato!
Io vi giunsi sul vèspero luminoso di un giorno di festa, e,
per buona ventura, quell'àngolo un po' fuori di mano di Pisa,
era deserto: cioè proprio deserto, no.
Si vedèvano sul verde del prato gruppi di gente, seduta o
sdraiata; ma che cosa facesse, non distinsi da prima per la
lontananza.
«Qui dunque a Pisa - pensai - è lècito
calpestare i tappeti verdi ed anche sdraiàrvisi;» e
così mi accostai a quei monumenti venerandi
«calpestando», ma senza paura; ed un po' percorrendo
quei sentieri marmorei, tracciati come lìnee
cabalìstiche, sul verde, fra l'uno e l'altro monumento.
L'erba del prato non era gentilina, pettinata, rasata dal
giardiniere: ma rubesta, scura, tenace.
Attorno al Battistero, alla Torre, alla Chiesa non trovai, in
quell'ora in cui io vi giunsi, alcun tedesco col Bèdaeker
rosso, nessun visitatore, nessun cicerone. Il Battistero, il
Cimitero, la Chiesa èrano chiusi in quell'ora; ma
parèvano vìvere ancora nella vita.
Quei gruppi di gente, che avevo intravveduta, èrano formati
di famìglie di artigiani con loro donne e bimbi. Dove cadeva
l'ombra dalle mura o dalle cùpole, facèvano merenda in
cròcchio: in mezzo, un tegame, un fiasco, pane e frutta;
mangiàvano placidamente, fra il loro Battistero e il loro
Cimitero. Poi i bimbi ruzzàvano, e quei monumenti
parèvano protèggerli e non adontarsi.
*
Quel Battistero, quella Chiesa, quella Torre cantante, quel
Cimitero, adorni dei più bei segni della resurrezione, che
cosa èrano? Asilo e pàtria; il luogo del
battèsimo, il luogo delle nozze, il luogo della pace. Una
religione, insomma!
La speranza immensa abitava allora dietro queste porte. Oggi le
nostre patrie sono più grandi, e vi sono tanti asili e tanti
manicomi, con tanta igiene, che una volta non si conosceva nemmeno.
Ma questi edifici moderni non sono belli. Perchè?
Perchè non li ha edificati la pietà; e nè anche
la religione. V'è bensì chi dice oggi di
crèdere nella religione dell'umanità. Ma ci possiamo
fidare?
*
Come fuggìrono veloci quelle ròsee ore del
vèspero! Il monte di San Giuliano, dietro la Torre pendente,
pigliava certe ineffàbili tonalità violàcee.
Conforto di maggior frescura, e profumo di rèsine, recava dal
Tirreno la sera imminente.
Passàvano intanto donne del popolo coi loro bimbi davanti
alla chiesa: li sollevàvano a baciare quelle istoriate porte
di bronzo, chiuse come il mistero; e non so perchè,
dicèvano ad ogni porta, con accorato accento: «Bello,
bello!» con quelle elle che squillàvano come
làmine tese fra la dolcezza lamentosa delle vocali; ed i
bimbi ripetèvano: «Bello».
«Bello», che cosa?
Sì, «bello» e basta.
Quanto più sàvio baciare le impenetràbili porte
del mistero, e dilungare piamente, in silènzio, a capo chino,
come facèvano quelle donne, piuttosto che urtarvi col capo,
come facciamo noi! Ed allora anch'io mi posi a riguardare quei
riquadri delle porte ad alto rilievo di bronzo, ed una figurazione
più delle altre mi attrasse: essa rappresentava un
cancelletto campestre, dietro il quale era un orto fiorito, e,
dentro, tante figurine con gli occhi levati verso il cielo.
Sotto stàvano iscritte quelle parole simbòliche che il
D'Annùnzio pose a tìtolo delle sue rime profane:
Hortus Conclusus. E tutte quelle figurine di bronzo, che sono gli
abitanti del nostro mondo, parèvano estàtiche a
contemplare quello che avviene lassù, nel gran sècolo,
nella gran pàtria di Dio. E un po' per volta divenni
estàtico io pure.
- Mi accorsi allora di non èssere solo: una vècchia
magra, lunga, passava cercando con gli occhi e col tatto, l'una e
l'altra porta.
- Che cosa cercate, buona donna?
- E ci deve èssere! L'ho visto quand'io era bimbetta, e non
lo trovo più! - disse come parlando a se stessa.
- Che cosa?
- Il pretino, veh! - rispose.
Ella cercava tra quelle figurazioni la stòria di un prete di
cui era antica leggenda che avesse rubato l'àbito e la corona
di gemme alla Madonna: «E un giorno - diceva la vècchia
- trovorno il pretino stiacciato fra le du' porte, metà di
qua, metà di là; e allora si capì che era stato
lui. E ci dev'esser5 qui il pretino, e non lo trovo
più».
La buona vècchia, da quanto riuscii a capire, credeva nella
Madonna e nel miràcolo, ma non credeva nei preti.
- E se loro non vi danno l'assoluzione? - domandai.
- Oh, senta - rispose ragionando come si fosse trattato di un affare
spìccio e che si poteva còmpiere anche quella sera
stessa - , io ho settant'anni e più di vita, e in
settant'anni non ho fatto male a nissuni. Possa pèrdere
questi occhi e non veder più i miei figliuoli se ho fatto
male a nissuni! Quando sarò morta, mi bùttino dove
vògliono. Poi farà Dio quello che vuole di me.
- Oh, buona donna, siate certa che porteranno anche voi lì,
nel Cimitero....
- Oh, lì non seppellìscono più nissuni.
Quant'anni è che non seppellìscono più? Ma gli
scienziati - interruppe poi gravemente - ci hanno diritto.
- Gli scienziati soltanto? - domandai - ed i poeti, no?
«Scienziati» voleva ella dire, cioè «i
saggi», cioè quelli che sanno le cose che non si
vèdono. Mi diede la buona sera, e si allontanò per uno
di quei raggi bianchi che lineavano il prato scuro.
Quella donna è nobile certamente - dissi a me stesso seguendo
con lo sguardo la sua magra figura; - non sarà contessa o
marchesa: ma nòbile è certamente! Ammette qualche
privilègio per gli scienziati e per i poeti. Si rivolge al
suo Creatore senza interposta persona: «Ecco, o Dio, a te la
mia ànima».
Domattina avrei trovato tutto aperto: la chiesa e il cimitero. Ma
non era il caso di ritornarvi. Il trionfo della morte dell'Orcagna,
con quei cavalieri che si arrestano davanti alle bare, lo vedremo
quando che sia.
*
Mi avviai io pure. Non era così caduta la sera che alla luce
ancora sospesa nell'aria, non distinguessi in una piazzetta, deserta
allora, un edifìcio di nòbile fattura antica, da
gèmine scalee esterne aggraziato, le quali sul chiuso portone
in alto si congiungèvano.
Una scritta dicea: Scuola superiore di magistero. Una stàtua
marmòrea, guerriera, dominava la solitùdine della
piazzuola. «Deve èssere - pensai - la simbòlica
Minerva, dea della sapienza, perchè questa è la casa
della sapienza. Ve ne sono anche altre in Itàlia: ma questa
è una delle case più pregiate.» Qui
studiò, in fatti, Giòsue Carducci, il quale fu come tu
vuoi, o Minerva: cioè fu sapiente e fu guerriero: e anzi
voleva che i professori fòssero i guerrieri della nuova
Itàlia. Quando morì, l'hanno rivestito di abiti
pontificali con gran riverenza; ed ora con grande irriverenza lo
vanno spogliando anche delle fòglie del santo alloro.
Minerva, Minerva immortale, non esiste più la
immortalità?»
E mi appressai alla stàtua marmòrea. Ohime! Non era la
divina armata Pàllade Atena. La stàtua era
bensì loricata, ma non era Atena. Era uno dei tanti imbelli
prìncipi medìcei, agli òrdini di casa
d'Aùstria e di Spagna, che pittori e scultori
vestìvano, nel Seicento, da guerrieri romani, sì che
finivano per essere creduti guerrieri veramente romani.
«Minerva, vedete - mi disse il sedentàrio
personàggio marmòrio - ha l'inconveniente di inoculare
la sapienza agitante. Qui si fàbbrica invece la sapienza
riposante.»
Allora per la gèmina scalea di quella scuola mi parve di
vedere salire e scèndere una quantità di contributi,
saggi, ricerche, congetture: una spècie di un altro cimitero.
Antiquària! Con tutta la precisione dei moderni sistemi; ma
antiquària.
Mi venne, allora, in mente Giacomo Leopardi quando giovinetto
uscì dalla biblioteca paterna e si recò in Roma per
cercarvi la vita, e trovò invece che tutto in Roma era
antiquària. Guai a lui se alla gente romana egli avesse
detto: «Io son poeta, io son colui che sentì il suon
dell'ora e le voci dell'infinito». E se avesse detto:
«Io son colui che dall'antiquària dedussi il verso: Io
solo combatterò, procomberò sol io», la gente
antiquària di allora avrebbe esclamato: «È pazzo
costui?». Eppure per quel verso noi lo chiameremo Liberatore.
Potrò io rinchiùdermi in una biblioteca, come in un
chiostro dalle spesse mura e dilettarmi dell'antiquària, o,
sopra un bel leggìo, lèggere il De òcio
religiosorum: potrò io godere nel non sentire più
l'ossìgeno della vita: ma per i giovani, no! Esiste negli
anni giòvani un servìzio militare obbligatòrio.
Non sarà più - come si va dicendo - il servìzio
materiale delle armi, ma veramente, comunque, pei giòvani
militare, navigare est necesse!
*
Una luce violenta mi abbagliò. Ero arrivato presso i
Lungarni. Bars, buvettes cinematògrafi con le sòlite
proiezioni deformi o grottesche, caffè all'aperto, gran
folla, gran luce elèttrica. Mi accostai al parapetto del
fiume e vi rimasi finchè l'ùltima luce rossa del
tramonto, sospesa su le acque, disparve.
*
Al mattino mi levai presto, e andavo lungo le rive dell'Arno. Il
mattino rugiadoso tremava di un pàlpito di giovinezza. La
riva dell'Arno era deserta in quell'ora, e mi si animò per
una fantasia d'altri tempi. Una cavalcata orgogliosa risale le
sponde dell'Arno: Lord Byron, la Guìccioli, la leggiadra
contessa, poi altri gentiluòmini, poi il corteo dei servi in
gran contegno. Dall'alto dei lùcidi palafreni quegli
stranieri guàrdano l'ùmile gente, guàrdano le
onde cilestrine del fiume, mèmore delle glòrie di
Pisa. Ma ora, Rule Britania. Le galee di Pisa non ci son più.
Britànnia impera sull'onde.
Giòrgio Byron, pàllido orgoglioso poeta britanno!
Peregrinava per le città già imperiali
d'Itàlia: Venèzia, Ravenna, Pisa, che allora erano le
città del silènzio. Vìvono i santi e i
màrtiri sui mosàici d'oro a Ravenna e vìvono i
pini in Ravenna; scintilla cilestrina l'acqua dell'Arno. Ma
l'Itàlia è nelle sue grandi arche marmòree.
Quante arche all'aperto, fra gli sterpi, in Ravenna! Napoleone
è morto a Sant'Èlena, il tricolore è stato
sepolto anche lui. Sull'Itàlia ora è stesa una dura,
bianca assisa austrìaca: il papa benedice la morte
d'Itàlia. E allora discèsero in questa pàtria i
giòvani poeti oltramontani, figli delle lor pàtrie
potenti. Venìvano ad inspirarsi visitando le belle regine
morte: Roma, Venèzia, Ravenna. Quale voluttà!
Avèvano seco le belle loro arpe romàntiche, e questo
cimitero d'Itàlia era quello che ci voleva per riportare in
pàtria gloriose canzoni.
Quali tocchi alle loro arpe romàntiche! E bello, con
inanellata la chioma, azzurre le pupille, venne Lord Byron e
chiamò l'Itàlia: «Nìobe delle
Nazioni». A Venèzia le belle donne, dai nomi dogali,
elevàvano troni a lui, per lui degnamente accògliere.
A Ravenna, quasi staccata dalla processione delle spiritali
màrtiri esàngui, nel musàico d'oro di
Sant'Apollinare, venne a lui incontro Teresa Guìccioli, la
contessa.
Ma ella era tutta di carne, era tutta palpitante, e ti si disciolse
fra la bràccia. Sentisti tu, o poeta, nell'allacciamento di
lei la voluttà come se la morta Nìobe rivivesse e ti
baciasse in prèmio della pietà che tu avesti per lei?
La morta Nìobe rivivrà!
Pineta di Dante, pineta del Boccàccio! Batte il mare ai tuoi
màrgini, e il cielo vi trasporta, al tramonto, fulgori
orientali, e allora le chiome dei pini si colòrano di
sàngue. Le màrtiri in fila hanno un insensìbile
moto di vita: dall'àbside azzurra di Santo Apollinare in
Classe, Cristo, possente e giòvane, pare in atto di levarsi e
dire: «Risorgerà! La morta Nìobe
rivivrà!».
Quale amore, o Giòrgio Byron!
Ma poi tutto si fa cupo e sanguinoso: prima è il rogo del
poeta Shelley, da te acceso, o Giòrgio Byron, in
fàccia al Tirreno; poi è la tua giòvane morte,
eròica, come un'espiazione, a Missolungi. Come in un'antica
tragèdia! Perchè tu, o felice poeta, ricercasti la tua
morte?
E allora mi venne incontro un'imàgine evanescente, quella
della tua bimbetta, o Giòrgio Byron, che tu avesti da altra
donna, e che tu quasi abbandonasti in un convento di Romagna.
Di lei più nulla si sa, più non si parla, e pure mi
pareva che la sua imàgine mi venisse incontro di là
dove agli innocenti si risponde.
Quale strano nome tu le imponesti! Ma era un nome itàlico:
Gaja? Letìzia? Alba? Allegra? Sì, Allegra, tu la
chiamasti così: ma ella morì da te lontana, e aveva
cinque anni, in quel convento di Romagna. Morta la tua
pìccola gaiezza! morta la tua letìzia, la bimbetta
tua! Perchè è morta? e di qual male è morta? e
dove adesso ella è?
Le mònache di quel convento la chiamàvano la
fìglia dell'inglese, e questo è quello che esse
ricòrdano di lei: «aveva gli occhi azzurri6, i capelli
neri, le manine affusolate. Aveva nome Allegra, ed era fìglia
di Lord Byron. Era buona e gentile ed era la nostra gràzia.
È morta, non sappiamo di qual male. È morta. E poi che
ella fu morta, venne un uomo di terra lontana, alto della persona,
coi capelli inanellati e gli occhi azzurri. Si sentìrono
forti grida nel monastero. Milord piangeva perchè era morta
la sua creatura. Fu composta in una ghirlanda di fiori, fu deposta
in una tomba, e il padre incise il motto: «Io andrò a
lei, ma lei non tornerà a me»7.
Non so perchè una gioja di pianto allora mi ravvolse. Mi
pareva che veramente ci fosse il paradiso per gli innocenti: e la
pìccola inanellata Allegra io la vedevo che si sollevava
ridente sopra le mònache morte; ella diceva: «Io sono
la pìccola Ifigenia!».
E fu dopo di allora che il poeta corse alla sua morte. Certo tu non
l'hai lasciato per iscritto, o poeta, perchè soltanto alla
morte e non alle muse si confìdano le parole supreme.
*
Le acque dell'Arno corrèvano continuamente; e altre parole
supreme mi vènnero incontro. Perchè fu a Pisa che la
lèttera del padre Monaldo Leopardi raggiunse il figlio
Giàcomo. A Giàcomo Leopardi nessuna venustà
della persona, nessuna voluttà, nessun onore in vita!
Giàcomo Leopardi aveva fuggito il padre e la gran casa di
Recanati, come una maledizione. Ora egli dimorava in Pisa, e qui lo
raggiunse quella lèttera del padre Monaldo, scritta da
Recanati, il 16 màggio 1828, che gli annunciava come
l'àngiolo della morte era passato sopra la sua casa,
inalberando lo stendardo del pianto. Era morto Luigi, il
giòvane fratello di Giàcomo. Diceva Monaldo: la morte
spezzò la corona delle giòvani olive che èrano
l'allegrezza e il decoro della paterna mensa. Quali parole!
Allegrezza, giòvani olive, paterna mensa! Che cosa era in
confronto la glòria ricercata dal fìglio? Egli cercava
la glòria e la sapienza, e incontrava sempre la
vanità. Quello e non altro che gli scriveva accoratamente,
timidamente suo padre in quella lettera: Giàcomo mio,
salviàmoci. Tutto il resto è vanità! Forse quel
salviàmoci può sembrare grottesco; ma fu destino del
conte Monaldus de Leopardis, in parrucca e spadino, già nel
secolo XIX, parère grottesco; eppure se il padre e il
fìglio fùrono divisi nella vita, io li vedevo
congiunti nella morte.
Tutti morti nella giovinezza, Byron, Shelley, la pìccola
Allegra, Leopardi: ma una imàgine perdurava nella vita:
impinguava, deformemente impinguava. Chi? La contessa
Guìccioli.
C'è il barone Hübner che nelle sue memòrie parla
di una decrèpita dama alle Tuileries, obesa e semi-idiota, a
cui però tutti rendèvano onore di curiosità,
perchè era stata l'amante di Byron.
Capìtolo XIII.
LA PUPA, IL PRETE E LA GUERRA.
Una elegante donnina che andava su e giù a passettini stretti
sotto la tettòia della stazione di Pisa, è salita
anche lei nel treno dove sono salito io. Non è sola; ma con
un grosso vistoso signore. Adesso ella sta seduta: io la posso
contemplare in tutta pace. È bella? chi lo può dire?
Il suo volto pare ricavato per opera di un àbile gelatiere da
un sorbetto di crema alla vanìglia, con ricami di cioccolata
ed alchermes. I suoi occhi sono lineati ad arte; e rimàngono
immòbili e stùpidi: deve essere giovanìssima;
un'adolescente ancora. Questa adolescenza e quegli artifici di
vècchia cortigiana pertùrbano. Il suo crànio
pìccolo sta incapsulato, giù sino alla nuca, in uno di
quei cupolini che ora sono di moda: dalla nuca si drizza pur una
penna, alta quasi come lei. Una spècie di casacca,
lievìssima, àmpia, color granata, le sta aperta sul
petto, dove una mussolina aderisce così finamente che
sìmula l'epidèrmide. La gonnella a sghimbèscio
làscia esposte due scarpette laccate, affusolate,
mìnime: la trama delle sue calze è così lieve
che si direbbe senza calze.
Non giunge nè meno ad essere invereconda e scomposta: anzi
rimane composta. Un grosso mazzo di viole le sta fermato sul petto:
un grosso manìpolo di rose thea, di rose purpùree ella
ha posato sul cuscino rosso. Vien la vòglia di soffiarci
sopra, e farla fuggire dal finestrino quella fèmmina
perturbante.
Ne sono perturbati un po' tutti. È una ressa di gente,
enorme, anche in prima classe: grossi maschi, grossi sottotenenti
bellìssimi affòllano il passàggio del
corridoio, sbìrciano, èntrano: è il mattino
d'estate, l'ora dei formidàbili appetiti.
Lei non si muove; il signore che è con lei, le fa segno di
restrìngersi, pare su le spine, ha gli occhi fuori della
testa.
Oh, ma quei signori sono tutti cortesi, quei bellìssimi
imberbi dei sottotenenti sono di una cortesia spaventosa. La
signorina non si muova, le rose thea stìano sedute: staranno
loro, i sottotenenti e i tenenti, in piedi. Stanno in piedi:
mòstrano ridenti bianchi denti.
Mi pare che la vògliano mangiare.
La graziosa pupàttola gira attorno la serenità dei
suoi occhi idioti, e sembra dire: «Io mi lascierei anche
mangiare. Ma come si fa?».
Oh, grosso signore, con gli occhi fuori della testa,
proprietàrio o usufruttuàrio di quella adolescente
femminetta, ringràzia il tuo santo protettore che noi viviamo
in un tempo pieno di civiltà, perchè in verità,
se vivèssimo in un'età primitiva, tu correresti un
quarto d'ora un poco terrìbile.
*
Ma che si aspetta per partire? Si aspetta il diretto da Roma. Ecco,
arriva finalmente; strìscia, brùcia su le
rotàie un lungo treno. Si ferma: il treno porta con sè
tutto il vòrtice, tutta la pòlvere della lunga corsa
per la deserta Maremma: la màcchina sembra bàttere i
fianchi, anelare. Grìdano i giornali di Roma: La Tribuna, Il
Giornale d'Itàlia.
Si parte, alfine.
Èccoci fuori della tettòia: si respira.
Ride la campagna nella gran primavera del lùglio fiammante.
Cimitero, Chiesa, Battistero di Pisa, addio per l'ùltima
volta.
Io ritorno ancora con lo sguardo dentro lo scompartimento: la gente
è un po' sfollata, si è messa a posto: tutti hanno i
gran fogli dei giornali spiegati: Tribuna, Giornale d'Itàlia.
Tutti lèggono: anche la giovinetta legge, o almeno le sue
manine tèngono il fòglio spiegato, ed io vi posso
lèggere in grande queste parole: Orrìbili
crudeltà bùlgare. Alcune madri vìdero i loro
figlioletti gettati dalle finestre su le baionette dei soldati.
I grossi maschi, che vanno su e giù pel corridòio; due
signori, che sono seduti nello scompartimento, tèngono
anch'essi lo stesso giornale in mano: le loro pupille pàssano
con indifferenza dai bimbi gettati su le baionette bùlgare, a
quella femmina provocante.
Gli orrori della guerra balcànica?
Certamente gli orrori della guerra balcànica sono lontani da
Pisa. Ma si vede pròprio che l'amore verso il
pròssimo, comandato da Gesù Cristo, è
diffìcile. Si direbbe anzi che la difficoltà aumenti
in ragione del quadrato della distanza. Io mi trovo in tasca un
Corriere della Sera, e con molta sorpresa leggo che gli orrori della
guerra fòrmano oggetto di un artìcolo dell'illustre
Luigi Luzzatti. Il suo artìcolo è intitolato
così: «la nostra felina umana natura». Grave!
L'illustre e venerando filòsofo si dichiara molto dubbioso a
rispòndere a questo problema: «se la bontà sia
all'altezza del nostro incivilimento materiale». Ma che
succede? Una ventata di pessimismo passa anche per il cervello,
sempre in perfetto bilàncio, dell'onorèvole Luigi
Luzzatti? Sembrerebbe che sì, e la cosa mi fa dispiacere
perchè non vorrei che gli dovesse far male. Un uomo che non
ha mai dubitato della nobiltà dell'umana natura, dubitare ora
in così tarda età? Gli potrebbe far male. L'ottimismo
non è soltanto una filosofia, ma anche un eccellente
digestivo.
*
Ecco il diretto si arresta: Viarèggio. Oh, finalmente! Il
proprietàrio della bella bàmbola si affretta a
chiamare dal finestrino: «Facchino, facchino». È
impaziente di scèndere. Consegna valige, grosse valige,
scatoloni. Gira, però, ogni tanto la fàccia
congestionata verso quella sua femminetta. Ella è fresca come
un gelato; e non è mica infondato il sospetto che quei grossi
imberbi degli ufficiali non àbbiano diritto di rinfrescarsi
un poco al contatto di quel gelato di carne. Affare sèrio
anche questo della proprietà! Ma non succede nulla. Il
grazioso balocco pei grossi bambini si alza placidamente:
alzàndosi, làscia cadere a terra il giornale coi bimbi
infilzati: raccòglie solamente le rose, discende piano, con
gràzia, con amàbile stento.
L'alta penna ondèggia su la folla, densa alla stazione di
Viarèggio.
Molta gente è discesa a Viarèggio: il treno è
quasi sfollato. Si riprende la corsa. Le Alpi Apuane àprono
in fondo il loro scenàrio bianco di marmi. Sento con emozione
gridare un nome: Pietrasanta. Qui è nato Giosuè
Carducci. Mi pare che tutta la gente debba guardare, debba dire:
«Dove è nato Giosuè Carducci?» La gente
non dice nulla.
*
Perchè ho preso questo deserto pìccolo treno che da
Sarzana va a Parma?
Non lo so. So che sono padrone di tutta la prima classe. Oh, verdi
valli della Magra dalle cilestrine acque, dai tranquilli gorghi! che
nostalgia di solitùdine, di pure acque, di profondi boschi,
di paesàggio con poca gente! Ma dopo due ore che il treno
saliva, mi venne in mente che, poi, avrebbe cominciato a
scèndere.
Così avvenne che mi trovai a terra.
- Guardi che il treno parte sùbito.
- Rimango.
Fu per tale ragione che sono disceso a Borgotaro, luogo deserto fra
i monti. Ma dove è Borgotaro? È lontano dalla
stazione. Deserto e solitùdine là dove io ero. Ma cosa
fare lì? Forse che noi siamo come il pàssero, che non
si può staccare dagli uòmini omicidi?
*
Il paese di Borgotaro si disegna a corona, distante circa un
chilòmetro dalla stazione. Un nastro di strada, larga,
bianca, vi conduce. Mi avviai piano piano. Quando fui a metà
circa della via, mi sorprese una casa nuova, dove tutta la facciata
era occupata per il lungo da una scritta cubitale, con
caràtteri neri su lo sfondo bianco della fàscia: e la
scritta diceva così: «senza Dio noi non siamo
nulla».
Questa curiosa scritta mi ha fermato lì per qualche tempo.
Certo che non è fàcile dichiarare che cosa siamo
venuti a fare al mondo: a far nùmero? a dar commèrcio?
a godere - come mi diceva tristamente una signora: «io
vòglio godere!»?
Invece quando si ammette Dio, la risposta viene bene: - «Siamo
venuti al mondo per amare e servire Dio, e poi goderlo in
paradiso».
La difficoltà sta tutta nella prima parte: crèdere in
Dio. Ma non c'è dùbbio che il proprietàrio di
questa casa è un santo o qualcosa del gènere affine.
Borgotaro!
Borgotaro triste, cadente, diroccato borgo, chiuso nelle mura
dell'antico castello. Come fa la gente qui a consumare le
ventiquattro ore dell'esistenza giornaliera? Io non ci potei
consumare due ore. Mi ricordai che presso questo castello
passò negli anni 1494 Carlo VIII, re di Frància,
quando mosse alla conquista del Reame di Nàpoli.
Il merìggio divampava ardente fra il silènzio
dell'Appennino. I bimbi, infilzati su le baionette bùlgare,
mi chiamàrono alla mente il re Carlo VIII, con la
lància alla còscia, che infilzava l'Itàlia.
Federico Nietzsche diceva: «Benìssimo!» e
l'onorevole Luigi Luzzatti diceva: «Oibò!».
Queste stravaganti fantasie mi ballàvano dolorosamente nella
testa in quel merìggio. Tutt'effetto di nervi non riposati.
Se avessi riposato la notte a Pisa, il pensiero doveva essere
questo: «Dove è un'osteria? dove si màngia bene
a Borgotaro?»
Me ne tornai indietro da Borgotaro senza far colazione, in compagnia
di un vècchio lavoratore che incontrai per via. Gli domandai
- come vi passammo davanti - a chi apparteneva la casa su la quale
era la scritta, «Senza Dio noi non siamo nulla».
- Èccolo che vien fuori adesso - disse il lavoratore.
- Quel prete?
- Sì, quel prete.
In quel punto, dal cortile usciva un biroccino, tirato da un
cavallino asciutto, brioso, che nitriva allegramente. Il prete, che
occupava col suo gran corpo il pìccolo sedile, non aveva
affatto l'aspetto di uomo nato per la rinùncia. Era un forte,
vigoroso uomo.
Appena fu su la via, mosse le rèdini e il cavallo
scappò. E il lavoratore si sberrettò.
Disse poi il lavoratore:
- Questa casa è sua, quel prato è suo, quel campo
è suo.... Anche quei campi là son suoi.
- Allora è tutto suo.
- -Ah sì, se camperà molti anni, tutto il paese
sarà suo.
Il lavoratore cominciò a querelarsi perchè il prete
godeva, in terra, il paradiso. - Chi sa poi se ci sarà anche
quell'altro paradiso? Lui, il prete, dice: «Badate a quello
che diciamo e non a quello che facciamo....».
- E non vi pare giusta?
- E a lei pare giusta? - domandò a sua volta il lavoratore.
- Non mi pare giusto - risposi - , ma non si può nemmeno
pretèndere che ognuno viva secondo la pròpria
prèdica. Ma sapete, buon uomo, che molti per vìvere
secondo la pròpria prèdica sono diventati così
magri, da sembrar trasparenti, oppure sono finiti in
manicòmio? - Ma nella casa del prete, - domandai osservando
mèglio - c'è anche un'osteria.
In fatti sopra la porta c'era un cartello che nell'andata non avevo
veduto, e diceva: «Salumi di Parma e vino nostrano».
Come si può combinare - io pensavo - la prima scritta
«Senza Dio noi non siamo nulla» con «salumi di
Parma e vino nostrano»?
Io al vècchio lavoratore volevo spiegare quel poco che so del
mistero della creazione. Vi sono gli uòmini divoratori,
così per istinto, come i rondoni, le talpe, i pescicani,
sempre in moto con le fàuci spalancate. Napoleone non diceva,
e lo confessava come una sua malattia, che per lui la guerra era un
istinto, come per il violinista suonare il violino? Che farci,
vècchio lavoratore? Distrùggere i divoratori, i
pescicani? C'è tutto un partito che ha questo programma, e
poi? Pensavo alle talpe. La talpa è il lìrico della
fame: è capace di mangiare più volte il suo peso: ha
denti e artigli formidàbili per la distruzione. Distrugge in
fatti le radici delle piante, e i contadini quando tròvano
una talpa, la uccìdono, anzi ne fanno estermìnio. Se
non che la talpa non màngia le radici, le rompe soltanto per
poter così dare la càccia sotto terra ai vermi e alle
larve di cui è insaziàbile. Distruggiamo le talpe? Non
dico di no, ma allora la terra è invasa dagli spaventosi
insetti infiniti, nati dalle larve; e il rimèdio è
peggiore del male! Pensi, volevo dire al lavoratore, che in alcuni
paesi si fa commèrcio non solo di talpe, ma di animali anche
più immondi, come rospi, bìscie, per salvare la
agricoltura, e distrùggere le bestioline pìccole con
le bèstie più grosse. Finora non c'è
rimèdio migliore. Il nostro torto filosòfico è
di considerare gli uòmini per uòmini; che se li
consideràssimo come animali, dovremmo ammèttere che
mègio de cussì no la poderia andar.
Ma questo ragionamento era troppo complicato e mi accontentai di
pagar da bere al vècchio lavoratore.
*
Aspettai alla stazione di Borgotaro molte ore. Impossìbile
che io scendessi a Parma!
Non volendo andare a Parma, nè restare a Borgotaro, non
rimaneva che rifare la via percorsa, ed alla sera ero a Firenze.
Capìtolo XIV.
PÈCORE E UOMINI.
Linea Firenze-Faenza.
Ieri grandinò: il treno correva sotto le nubi, che calavano
plùmbee, gràvide ancora di piòggia: le cime
verdi dell'Appennino le ferìvano, e dallo squàrcio si
vedeva qualche strìscia d'azzurro. Poi il treno
cominciò ad ansimare lungo le rotàie bagnate, su per
l'erta dei monti. Le quattro ruote accoppiate della macchina pareva
avèssero gran pena a salire.
La torre di Fièsole, già scomparsa nel fondo
dell'orizzonte, mi rideva ancora nel cuore, melanconicamente: Dante,
Itàlia, Firenze, cuore d'Itàlia!
Giallore di ginestre fra le genghe dell'Appennino; e guardando in
giù in fondo ai viadotti, si vedèvano gore
lustreggianti; e in fondo ai botri, e su per le aèree pendici
si vedèvano bianche pècore in piena pace pascenti.
Sotto il riparo di una schèggia, ecco due pastorelli si
ripàrano dalla piòggia. Fanno con le manine
«Addio, addio» al treno: sorrìdono: soli,
piccini, tranquilli fra quei gran monti paurosi.
Ma le pècore, ma qualche màcchia più bianca
lassù fra i querceti - èrano mucche e buoi - non
lèvano nemmeno la testa.
Chi lo ha detto? San Paolo, mi pare; e di poi l'hanno ripetuto i
padri della Compagnia di Gesù: «Gli uòmini sono
pècore, e le pècore non potrèbbero salire al
monte senza cozzare insieme sino a precipitare giù nel
burrone, se il pastore, cioè la provvidenza, non le
vigilasse».
Ma guardando quelle pècore pascenti non mi parve che esse
avèssero bisogno del pastore. Esse brùcano oggi in
divina pace fra questi monti; come trecento, come mille anni fa. Le
nubi minacciose ed orlate di nero scèndono dal cielo; ed esse
brùcano in pace!
Bello questo paesàggio aspro dell'Appennino: esso è
rimasto forse come era più di mille anni fa, quando i messi
di re Alboino, dopo tanto cercare, vi trovàrono alfine la
Marcolfa col figliuol suo Bertoldino: paesàggio immoto nelle
età, attraversato adesso da questa carrozza di ferro, coi
sedili imbottiti di velluto, il lavamano e le lampadine
elèttriche.
Forse il pastore è necessàrio per gli uòmini.
Una gran tenerezza mi trascinava dal treno fuggente verso quei
ruminanti: coperti di vello duro, brucanti gli odorosi mentastri,
beventi acque pure, digerenti con quattro stòmachi: se non ci
fòssero i lupi e i macellai, però. Curiosa
stòria! Si legge dell'uomo questa cosa: che dopo aver trovato
quella sua cèlebre definizione: cògito, ergo sum, ha
poi desiderato di èssere come le pècore!
Strano è anche come i vecchi castelli, i vecchi borghi si
confòndano con il colore delle rocce. Le torri
sèmbrano ricami della terra: tutto si confonde nella terra.
Nelle curve si vede il treno che, ruggendo, si disvìncola
dalle strette dei monti. La màcchina - a fissarla lungamente
- sembra, con quel pennàcchio di fumo e quell'àlacre
moto dei suoi organi, che vada animata da una sua volontà.
Certo è un'illusione dell'òcchio perchè
è l'uomo che ha creato la màcchina. Però questo
contìnuo creare màcchine e màcchine non
può darsi che porti via un po' d'ànima all'uomo per
darlo alle màcchine? Se la natura ha dato quel tanto e non
più....
Il treno si è liberato dai monti. Precìpita.
Brisighella: siamo già in pianura: pochi chilometri ancora, e
poi Faenza.
Sopra Brisighella in cima a tre collinette si sono rifugiati una
torre merlata con l'orològio, una chiesina, un
minùscolo castello: un, due e tre, su le tre collinette. Una
fila di cipressetti li congiunge, che pare un ricamo nel cielo.
Quelle tre cosine salùtano sempre i treni che pàssano.
Faenza! Ecco noi siamo arrivati in Romagna, e per l'appunto in
quella città che fu chiamata l'Atene delle Romagne, in quei
tempi in cui con molta facilità si concedèvano queste
onorificenze di Grècia e di Roma. I superiori che allora
comandàvano in Itàlia, trovàvano, anzi, questi
balocchi molto ùtili.
Scendo dal treno. È l'ora del vèspero. Due, tre,
parècchie donne pedàlano ardite e un po' scomposte,
sul largo piazzale della stazione.
Oh! Romagna, dolce paese democràtico!
*
Oh, Romagna, generosa Romagna, forte ed ospitale Romagna! Io non
dico di no. Ma dal tempo in cui l'Ipèrbole mi ha privato del
benefìcio della sua protezione, io non godo più la
giòia di questi attributi alla forte Romagna. Io non ammiro
più le vostre risolute bestèmmie; io non poso
più volentieri le labbra sul vostro ospitale bicchiere.
Quanto alla democrazia, è un altro affare. Nel tempo che
vissi in Romagna, fui molto avvilito a sentirmi sempre interpellare
con un: «Puvrèin!». Poverino, qua; poverino,
là! Lo dicèvano per modo di dire, e gentilmente; e
certo bene considerando, tutti noi siamo poverini. Sarà
democràtico quel «poverino», ma è
seccante. E poi perchè ai cavadenti di piazza, ai tenori, ai
ricchi proprietari di cavalli non dìcono puvrèin?
Ma il vero è che io quella sera non avendo aspetto nè
di cavadenti, nè di tenore, nè di proprietàrio
di cavalli; e d'altra parte ricordèvole di quell'esasperante
puvrèin, era molto incerto sul modo di entrare in
città, e presentarmi ad un albergo.
Ora capisco tutta la tua intuitiva saggezza, egrègio
giòvane della ditta Darük und Sohn, che mi offristi
così ùtili, benchè tardivi precetti, nella gita
Bologna-Scaricalàsino!
Bisognava tuttavia escogitare un qualche espediente per isfuggire
familiarità democràtiche. Mi venne in mente una
deplorèvole finzione, e l'ho adoperata, quella sera.
Ho simulato cioè di èssere tedesco, svìzzero,
che so io; tutto fuor che italiano: poche parole dure, sempre molto
impettito, e mai sorrìdere, perchè il sorriso è
la più pericolosa forma di dimestichezza.
*
La càmera che mi fu offerta era una grande, bella e fresca
càmera con buonìssimo letto.
Quanto ai mòbili, era un'ingènua contaminazione del
conforto moderno con antichi arredi che oggi sono chiamati di
pèssimo gusto, cioè angioletti di gesso, frutti di
scagliola, tappetini fatti con ritagli di stoffe: tutte cose che si
consèrvano nelle vècchie case di Romagna, la quale
è piuttosto conservatrice benchè àbbia fama di
èssere rivoluzionària.
Ispezionai rigorosamente.
- Questo, orrìbile, cos'è? - domandai al
proprietàrio, indicando alcune chiazze nere, su la parete
contro al lavamano.
- Mah! Quando si làvano - disse bonariamente - , invece di
scostare il catino, bùttano tutti i sbruffi dell'acqua sporca
sul muro. Sicuro già che l'è poca pulizia!
- E quest'altro, più orrìbile, cos'è?
Il brav'uomo allargò le bràccia:
- Lo crede, el me signor - disse, - che ho fatto imbiancare tre
volte da quando che sono qui! E ho fatto mèttere la
sputacchiera apposta, come usa adesso. Macchè! loro
tìrano al bersàglio. E gente che a vederla pare
pulita; forestieri, gente come lei, che non si direbbe! Guardi mo'.
- E additò tutti i punti cardinali della càmera. -
Come si fa? Ci vuole pazienza.
- E questa coperta del letto la chiamate bianca voi?
- Sangue della Madonna, - esclamò - l'abbiamo cambiata ieri.
Si pulìscono le scarpe, sti boja!
Dissi:
- Molto sporchi i tagliani!
- Tutto il mondo è paese, caro il mio signore - rispose con
rassegnazione. - Vuol dire poi che chi è sporco per un verso,
e chi è sporco per un altro.
Poco dopo sentii bàttere discretamente all'ùscio.
- Cosa volete?
- Scusi sa, ma c'è il nome e cognome da mèttere.
Adesso vògliono anche questa roba qui, e ci vuole pazienza.
Tracciai sgarbatamente il mio nome con caràtteri
gòtici, mutando la i in y: qualcosa di
incomprensìbile.
Il mio òspite non replicò, ma mi parve che se ne
andasse mandàndomi un accidente.
*
Ho dormito finalmente bene: mi sono fatto aprire la finestra: il
cielo era puro, innocente: della delinquenza del temporale di ieri
nessuna tràccia. La bella estate aveva ricondotto il sereno.
Canti di augelli dalla campagna, raggi di sole nascente. Come
è più bello il sole in Romagna!
- Un caffè raccomandato, senza vostra porcheria di
cicòria. E i giornali, molti giornali - ordinai.
Ecco il caffè, ecco i giornali. Pover'uomo, aveva preparato
un caffè eccellente. Disteso sul letto, ravvolto nel sole e
nell'ària del mattino, io venni un po' per volta a trovarmi
in quello stato di benèssere che segue al riposo notturno e a
una buona tazza di caffè. Accesi il sìgaro per
rèndere più completa la voluttà.
«Godiamo!» come dice quella signora, e cominciai a
svòlgere i giornali.
Notìzie della guerra. Se ne comìncia a capire qualche
cosa, cioè sono i Greci ed i Serbi contro i Bùlgari.
«Gli euzoni, i palicari - dice questo giornale - si
buttàvano contro la mitràglia dei cannoni
bùlgari, cantando.» Allora è vero quello che
disse il poeta Giàcomo Leopardi:
parea ch'a danza e non a morte andasse
ciascun de' vostri.
Zìvio i Ellas! e tanto mèglio.
Dunque esìstono ancora gli Èlleni?
Dunque non è vero che i Greci sìano «briganti
assai», come scriveva Monaldo padre per calmare i furori
eròici del figlio Giàcomo? Dunque la Grècia non
è morta? Botzaris dice di no. Tanto mèglio! Ma chi ne
sa nulla? Spesso basta un uomo o una leggenda a far grande un
pòpolo.
Ma le grandi Nazioni, i grandi potentati, che da anni ed anni, a
fior di labbro soffiàvano per spègnere il focolare
balcànico, sono un poco sorpresi del vasto braciere suscitato
laggiù. Se quelle alte fiamme si appiccàssero alle
vesti delle magnìfiche Potenze?
La mia supposizione non è verosìmile. Prima di tutto i
re delle grandi Potenze si incòntrano ogni tanto, e quando si
sono incontrati, bèvono lo champagne e dìcono: Hoch!
Zìvio! Hurrah! Evviva! Si congràtulano della loro
rispettiva salute e di quella dei loro pòpoli, e poi
comùnicano ai pòpoli questo messàggio che col
patrocìnio dell'Onnipotente la pace è assicurata. In
secondo luogo, e a mia memòria, i ciambellani dei re
dìcono ai pòpoli: l'accordo è perfetto. E
allora speriamo bene!
V'è chi trova che il sistema dei re è molto costoso, e
un po' fuori di moda. Ma tutto è costoso! Anche la
Giustìzia è costosa, eppure è
necessària; non perchè essa possa fare
giustìzia, ma per rèndere meno intolleràbile
l'Ingiustìzia. E così si può dire dei re. Essi
- come dice San Paolo - sono la Provvidenza dei pòpoli. Il
perìcolo che presèntano i re è forse questo,
che uno di essi vòglia ròmpere tutte le altre teste
coronate dei cugini re, e assicurare così la pace senza
l'aiuto dell'Onnipotente. Aboliamo allora i re. Ma chi garantisce
che i pòpoli si vògliano bene? I pòpoli si
àmano o sono, come la matèria, repellenti?
Io non ne so nulla: io amo i pòpoli con lo stesso amore con
cui amo i re.
Non so perchè, a questo punto, vidi davanti a me,
ròseo, beato, in toga càndida, seduto su la
sèdia d'avòrio, Cèsare Augusto imperator
romano. Le sue chiome stillàvano ambròsia come quelle
di Giove, con la mano pontificale segnava l'amministrazione del
mondo.
A quanti re e cugini aveva egli rotta la testa? per quanto sangue
era passato prima di ridurre il mondo in somma pace, e sedersi lui
in pace su la sèdia d'avòrio? Ma ora Augusto non
portava più corazza insanguinata, ma un càndido manto;
non più elmo, ma una corona di alloro. Un bel sorriso ornava
la maestà del suo volto, e diceva: «Guerre non
più! Caso mai si farà la guerra per la conservazione
della pace: guai anzi a chi disturberà la maestà della
pace romana! Noi d'ora in avanti coltiveremo le lèttere, le
arti e le scienze, e decoreremo il mondo di bellìssime
istituzioni».
E presso di Augusto imperatore sedeva un giovanetto, càndido
e gentile; un poeta di nome Virgìlio; il quale gli traducea
con infinita dolcezza le spaventose guerre, òrrida bella,
dell'impero, cominciando dal sàvio Enea che venne da Troia,
su su, sino al tempo nel quale lui, Cèsare Augusto, si
chiamava semplicemente Ottaviano.
Augusto ascoltava con molto compiacimento il poeta, tanto più
che la stòria del come aveva fatto per diventare Augusto,
domandava non pochi abbellimenti poètici. Ma ad un tratto
Augusto balzò su la sèdia di avòrio: un
dispàccio gli era venuto che gli annunciava come i soldati
romani messi a guàrdia della pace, èrano stati dal
tedesco Armìnio tagliati a pezzi dalla guerra. E da allora,
per altri tre sècoli, l'impero dovette far la guerra per
conservare la pace.
Ma ecco spuntò un bel giorno in cui la pace sembrò
assicurata definitivamente; e ciò fu perchè venne
Cristo, e gli ufficiali e soldati romani si rifiutàvano di
adoperare la spada, perchè Cristo vieta di adoperare le
spade. Sarebbe stata una cosa sublime se ai confini dell'Impero non
ci fòssero stati molti Armini, i quali non conoscèvano
Cristo e avèvano molto sangue nelle vene. Allora un
sàvio imperatore, di nome Diocleziano, ricorse alle
più severe misure contro quegli indisciplinati. Ma come era
possìbile punire gli indisciplinati quando il numero di
costoro superava gli agenti della disciplina? E fu così che
un altro imperatore, sàvio anche lui, ma di nome Costantino,
adottò un altro sistema: inquadrò gli indisciplinati
nello Stato. Ma dal giorno in cui i seguaci di Cristo furono
inquadrati nello Stato, essi non andàrono più
d'accordo, nemmeno su la natura di Cristo.
Ah, mostruosa cosa! Conòscere Cristo e non andare d'accordo!
Aver distrutto il meraviglioso impero in nome di Cristo, e
combattersi ancora in nome di Cristo!
E da allora il giro delle guerre ricominciò, senza fine; e
sempre per aver pace: Carlo Magno, Carlo Quinto, Carlo Marx, unti
dal Signore, unti dal Pòpolo! Chi scrive qui nel giornale
queste abbominèvoli parole?
La Dio mercè il pacifismo è tramontato! I
giòvani d'oggi sono ridivenuti anelanti di esprìmere
che la guerra è la realtà dello spìrito umano.
Questi giornali ragiònano tutti della guerra con un
materialismo che desta orrore. E poi non si tratta di guerra
soltanto; si tratta di stragi! E questo è uno
spettàcolo barbàrico, disgustoso, che distrugge la
civiltà della Croce.
Ma e io? Io che qui, beato sul letto, leggo il giornale e fumo?
I danni della guerra? Come la grandinata di ieri! Tranne i pochi
colpiti, chi se ne ricorda più oggi? Ieri il cielo era nero,
oggi è azzurro. Ieri i passerotti stàvano nascosti, e
oggi càntano e sàltano. Io suppongo che dopo cinque,
dieci anni, i morti in guerra ritòrnino alle loro case. Essi
cercano trepidanti il loro tetto, il loro letto, il loro posto alla
mensa. «Oh, i benvenuti», ma un altro già dorme
su quel letto, e il posto alla mensa è ristretto.
«Tornate, tornate ove eravate!»
Anche le povere mamme sono morte, frattanto.
Però, invidiàbile giòvane della Ditta
Darük und Sohn, che non pensi a queste cose! Io non posso
tenere giù il sipàrio del cervello. Appena poche ore
di sonno: poi gli occhi si àprono; e trovo il sipàrio
alzato; e i burattini della vigìlia contìnuano la loro
rappresentazione.
Guardavo con stupore fuori della finestra le verdi piante, il
bell'azzurro, i cantanti augelletti.
Via, speriamo che presto cali il sipàrio su tutti questi
orrori del mondo.
*
Dissi all'oste:
- Informàtevi sùbito, stazione, se diretto Bologna
avere corrispondenza mit Venedig.
Egli corse alla stazione e m'informò che sì.
Fu in tal modo che la sera stessa ero a Venèzia.
Capìtolo XV.
VENÈZIA E IL TRIPPÀJO.
Venèzia! Trionfo di Santi e di pòpolo! Lo
dìcono le vie, cioè i nomi delle vie in quei
sèmplici rettangoletti bianchi di calce, filettati di nero.
Oh, bei nomi di Santi e di profeti, diventati tutti cittadini
veneziani, San Bartolomeo, San Nicolao, San Marco, San Polo! Oh, bei
nomi di Madonne, gloriose e formose! Quasi mi è parso,
levando gli occhi al cielo, di vederti, o Madonna, Madonna del
Tiziano, Madonna del Veronese, magnìfica nella corona degli
àngioli e assunta al cielo; e gli àngioli festosi
àgitano le palme e guàrdano il tuo mare, o
Venèzia!
Bei nomi di condottieri, bei nomi di popolani, di artieri e di arti,
hanno le tue vie, o Venèzia, con dichiarazioni precise,
ùmili ed anche gloriose. Per esèmpio questa:
Fondamenta di donna onesta! Mi sono soffermato a lungo a studiare
queste singolarìssime fondamenta, tanto che alcune donnette
mi chièsero se avessi perduto qualcosa. Risposi che chiedevo
a quale pia leggenda si riferisse quella denominazione, e dove
avesse abitato quella «donna onesta».
- Una volta la ghe sarà stada: adesso la xe andada via! -
rispòndono.
Ecco, io penso, verrà il giorno, e non lontano, in cui tutte
queste singolari denominazioni di vie perderanno di significato. A
molti non piàcciono i Santi; v'è chi ha in
disprègio il dialetto; v'è chi crede troppo
sèmplici questi riquadri imbiancati. Allora si farà
come a Milano: invece di un rettangoletto imbiancato, metteranno una
lastra di marmo con quattro bòrchie di metallo dorato, e in
mezzo un nome moderno con la sua bella dichiarazione, in modo da
facilitare al pòpolo la sua istruzione. Sparirà un po'
anche il costume del vestire. Mi meravìglio come già
non sia sparito. Donne pàssano ogni tanto per le calli
silenziose, vàrcano i ponti: testoline brune e bionde
scoperte; visetti scialbi - cìpria fatta anche un po' con
l'anemia; - ma lo scialle nero a gran frange, ricade dalle spalle a
terra con una maestà di peplo. Guarda quella strega magra! Ha
una testa dogale. Pàssano; e il suono lamentèvole del
dialetto, rotto da gàrrule risa, da interiezioni, Maria
Vèrgine! fa venire in mente uno stormire di ròndini.
Le loro gonne sono ancora gonne àmpie, nere, all'antica, e le
loro scarpette sono pòvere scarpette. Così è
oggi come una volta. E i greci in gonnellino? e gli orientali in
turbante? Non vi sono più. E dove è trasmigrato quel
vècchio cantastòrie, tutto rughe, tutto grinze, che
ripeteva con voce che pareva le onde del mare, la stòria
della regina Cornaro, di Marcantònio Bragadìn? Deve
èssere ben morto.
Vòglio andare da me fino a San Marco, e vedere se mi ricordo.
Ecco, mi sono smarrito in questo dèdalo di calli. V'è
un odorino..., ma non è puzzo: odor di àlighe dai
canali verdi, di lumachini, di vecchi fòndaci: ma non
è puzzo. È odore di Venèzia. E nemmeno si
può dire, sporcìzia: quel bucatino di bimbo, a
festoncini, sospeso lassù, è grazioso. Èccomi
in un campiello dove pare che l'orològio del tempo si sia
fermato. Le case sembra che stìano per cadere da un momento
all'altro per malattia di decrepitezza: ma quella cappa elegante di
camino le tiene su. È lùglio, e c'è un ribrezzo
di umidore in questo campiello; ma un tronco di glìcine, che
beve la sua vita chi sa da quali morte putrèdini, sale su pel
vècchio muro, lambe alcune transenne bizantine, sale su e
cerca il sole: ha trovato il sole lassù su quell'altana,
s'è arrampicato attorno alle quattro colonnette bianche
dell'altana e vi forma un diàfano padiglione di verde e di
gràppoli color lilla. C'è una signorina lassù
sull'altana con tutti i capelli biondi, sciolti al sole. Sta
assorta, con le mani a leggìo: ella legge. Quale libro?
Daniele Cortis? Il Fuoco? Già un tempo fu Madonna Isotta e
Messer Tristano! E il sole vi scherza sempre.
*
Ecco il trippàio pulitìssimo. Pochi uòmini io
ho in mente così coscienziosi e gravi nel suo ufficio, come
il trippàio. E perciò dinanzi alla sua bassa
minùscola bottega mi sono soffermato a lungo in ammirazione.
Egli si stava in piedi, alto, quadrato, sbarbato: come un
maggiordomo di grande casa: dietro stava il suo calderone di terso
rame; il suo grembialone era immacolato.
Toglieva dai fumosi bollori della caldàia un po' di trippa
nera, verde, biancastra, vìscida, reticolata, spugnosa;
lasciava gocciolare meticolosamente, deponeva in una tortiera ben
stagnata; e quivi tagliava con delicatezza di damina: rovesciava poi
i pezzetti in una carta bianca, spargeva il sale ed offriva ai molti
avventori che facevano coda. Sempre in silènzio! Ma forse non
era mùtolo, e quando la schiera dei compratori si fu
diradata, - Gran pulizia - dissi complimentando.
L'uomo parlava, con gravità; ma parlava.
- Eh, sì, scior; gran pulizia a Venèzia! Senza
pulizia, tripa no se vende a Venèzia!
- Trippa lessata come a Firenze?
- Cognosso, son sta anca mi a Firenze. Ma a Firenze i vende soltanto
tripa de bo: qui, a Venèzia, se vende carnami e tripa d'ogni
sorte, e de tute le bèstie, piègore, montoni. Ma gran
pulizia! - e così dicendo prese il forchettone e si
apprestò a fornirmi una lezione di anatomia.
- Questo coso bianco, longo, per esèmpio, xe....
Basta, basta, eloquente e dotto trippàio! Come tutto è
melancònico e tràgico anche sotto l'ùtile
funzione di offrire da mangiare al pròssimo per quattro soldi
di trippa!
Le pècore, i plàcidi buoi, i montoni, pascenti in
divina pace pel verde Appennino, queste cose certo non sanno.
Capìtolo XVI.
PAX TIBI, MARCE,
EVANGELISTA MEUS.
Sono sboccato - dopo lunghìssimo giro - in Merceria.
V'è del pulvìscolo d'oro nelle Mercerie; le vetrine
abbàgliano: merletti, filigrane, vetri di Murano. Ma è
tutto un incrociarsi di voci tedesche: è una carovana di
genti tedesche; essa risale, io scendo. Si sòffoca.
Ecco infine: piazza San Marco. È un barbàglio di sole:
la laguna, come una lama immota, barbàglia anche lei.
Il campanile nuovo, biancastro, sembra che guardi con occhi di
albino. Sull'àngolo della Scala dei Giganti, i sòliti
tedeschi ed inglesi, col sòlito naso in su. I sòliti
piccioni svolàzzano: vanno a salutare i signori stranieri e
ne ricèvono il becchime; si compòrtano con contegno
tanto gli stranieri come i piccioni.
Però mi sono antipàtici quei troppo ben pasciuti
piccioni che bèzzicano la limòsina da tutti! Sono
conosciuti anche in Germània i piccioni di San Marco ed hanno
già il nome germànico: die Sanct-Markustauben!
*
È accaduta una cosa strana: sopra la torretta
dell'orològio, i due neri giganti di bronzo che
bàttono le ore, le mezze ore col lungo martello, si sono
mossi, ed hanno battuto le ore e le ore si sono mosse.
Facèvano pure così molti anni addietro, quando ero in
collègio a Venèzia e allora mi fermavo a guardare i
due giganti e le ore che andàvano via e dicevo: «Come
è bello!». Non è dùbbio che per tutto
questo tempo i giganti hanno seguitato a bàttere le ore,
così: il loro martello si sposta e si muove appena, ma adesso
io sento che l'eco della campana si dilata, è immenso: le mie
orècchie hanno udito parole profonde, nere, piene di paure.
Ma due amanti, lui un giovanottone tedesco, lei una cosina
gràcile, sospesa a quel suo màschio, guardàvano
in su come me, vicino a me, e non hanno udito niente.... Lui gode a
guardare in su, col pìccolo naso e le grandi lenti: lei dice:
«schön! bello!» come dicevo io da bambino.
I giganti sono tornati nella loro immobilità. I due
innamorati tedeschi vanno a dare il grano ai piccioni.
Doveva èssere più bella Venèzia una volta,
quando l'Adriàtico rigònfio e forte, pareva tener lui
sollevate queste moli ricamate di marmi, e c'èrano le galee
d'oro: Venèzia al tempo di Pietro Aretino, ma senza questi
pennacchietti tirolesi.
*
Mi sono fermato davanti a quella tomba che è sul lato
orientale di San Marco, su la quale sta scritto: Daniele
Manìn, e null'altro.
Passa una popolana con due bimbi. I bimbi si fèrmano: - Mama,
chi xelo Daniele Manìn?
- Quello che ga difeso Venèzia nel Quarantoto. Andemo putei,
no fermeve, no perdè tempo.
E poco dopo una voce suonò dietro le mie spalle: - Daniele
Manèn?
- Daniele Manèn? - rispose un'altra voce, ma pareva
interrogare la prima voce: «l'hai tu conosciuto?».
«Manìn», stavo per dire io, «non
Manèn».
Ma voltàndomi, vedo due signori così eleganti,
così abbaglianti di candore estivo che il mio amico della
Ditta Darük und Sohn sarebbe caduto in ammirazione. L'uno era
giòvane e aveva l'ària di gran mondo, ma l'altro aveva
una barba così aristocràtica - un po' grìgia -
che degna era al tutto di decorare re Enrico IV di Frància. I
due gentiluòmini si guardàrono in volto,
sospìnsero il labbro nell'atto che vuol dire: nun
sàccio; poi fècero dietro-front. Vidi le suole di
gomma rossa delle loro scarpe bianche; e il fumo delle loro
sigarette scherzava sopra i loro copricapo di autèntico
panamà.
Giacchè essi non portàvano il pennacchietto alla
tirolese.
Appare evidente che il Comune di Venèzia, quando
decretò questa tomba per Daniele Manìn, non
pensò all'istruzione del pòpolo, come fa il Comune di
Milano, perchè in tale caso vi avrebbe messo una nota
esplicativa.
Quale?
Questa forse: «Daniele Manìn, che col suo
martìrio sigillò il pòpolo
d'Itàlia».
Ma poi sarebbe stato necessàrio un libro per spiègare
questa nota. E allora, invece di quei quattro leoncini sotto la
tomba nera, che sèmbrano i piedi di un cassone del
Cinquecento, quattro grandi leoni grifagni, terribìli come
te, Marce, Evangelista meus!
*
Ma il caldo è sciroccale, ed io non ho il sottile
àbito rinfrescativo dei due gentiluòmini.
Rifugiàmoci in luogo meno caldo: qui sotto il pòrtico
del palazzo ducale, dove non è gente, non negozi, non
caffè.
Ma qui il mio naso andò a bàttere contro una
pìccola làpide incastrata nel muro.
Questa làpide non era in latino, ed io di sòlito
quando trovo una làpide in latino, non la leggo per non
spogliarla del suo paludamento. Era una làpide in italiano,
anzi in veneziano.
Diceva così:
MDCLXXX, III ottobre. Andrea Bodù fu de Andrea, fu bandito
per gravissimo intacco de cassa fatto nella càmera di Vicenza
essendo camerlengo in quella città.
Camerlengo è una parola che oggi pochi capìscono, ma a
quei tempi la capìvano tutti: vuol dire tesoriere, cassiere.
«Bravo, signor Bodù - dissi, - lei dunque, nell'anno
1680, essendo tesoriere di Vicenza, rubò il denaro dello
Stato!
«E non sono solo - risponde il signor Bodù - ;
chè se lei va nel palazzo qui vicino, trova la làpide
del signor Venturìn Maffetti, quondam Giàcomo, nodaro,
anche lui bandito dall'ecelso consìglio dei Dieci per enorme
intacco di pegni ascendente a riguardèvole somma di denaro, a
grave pregiudìzio della pùblica cassa.
E il signor Bodù ed il signor Venturìn non sono soli!
Essi sono, in altre làpidi, in compagnia del signor
Giàcomo Capra, contador, che certo vuol dire
«contàbile», della cassa grande, bandito come
ministro infedele e reo de grave intacco fatto nella cassa medesima.
E v'è anche il signor Francesco Magno, provveditore agli ori
et argenti in zecca, bandito anche lui capitalmente, per grave
intacco alla cassa, commesso con turpe infedeltà et abuso del
pròprio ministero. E vi sono i sigg. fratelli Antonio e
Zuanne Stralico, ossia Sirùpolo, ragionati [che senza
dùbbio vuol dire «ragioniere», come dìcono
ancora a Milano] ed altri notari, ed altri ragionati e camerlenghi,
tutti rei di enormi gravìssimi pregiudizi inferiti al
pùblico patrimònio.
Si rubava dunque il denaro pùblico anche sotto il tremendo
governo della Repùblica di Venèzia?
«Sempre usato, signor, da che mondo è mondo, - mi
risponde il signor Bodù. - E xe question de istinto,
vèdalo: come i ragni che hanno all'estremità dei
polpastrelli della roba che attacca; e adesso poi coi chèques
e coi biglietti di carta filogranata xe anche più
fàcile che ai miei tempi».
Quello che diceva il signor Bodù era esatto, e non c'è
dubbio che il molto denaro permette all'uomo di invertire le
stagioni, come ne fanno testimonianza i giardini d'inverno nei
grandi alberghi; come ne fanno testimonianza, dietro le lastre dei
sontuosi negozi, le fràgole in gennaio per soddisfare il
delicato e formidàbile appetito della donna; e così il
denaro fa sì che i due cialtroni che dìssero:
«Daniele Manèn, nun sàccio» àbbiano
aspetto di gentiluòmini: però mi pare che la
Serenìssima Repùblica di Venèzia, collocando
queste làpidi in buon dialetto, provvedeva con onestà
all'istruzione del pòpolo. Inoltre consegnando il nome ad
infàmia su làpidi di marmo con la parola chiara,
ladro, e non deploràbile - come usa oggi, - offriva ai
sùdditi una certa soddisfazione pel danno sofferto. In terzo
luogo non si può negare che queste làpidi non
costituìscano un coraggioso e insieme originale motivo di
decorazione nei palazzi pùblici. È un sistema che si
potrebbe riproporre.
E così avendo trovato in fondo ad una tasca una cordicella,
mi misi allora a misurare le pìccole làpidi.
Làpide del signor Bodù, m. 0,50 per 0,60;
làpide del signor Pàulo Vivaldi, contador
all'offìcio de dazio del vin, m. 0,58 per 0,80.
Ma in quel punto una mano fermò il mio bràccio e una
voce mi disse:
- Cosa fa qui lei?
Era una guàrdia.
- Prendo le misure del signor Bodù....
- Vada, vada! Le misure le prendiamo noi.
Dovetti interròmpere. Era mezzodì ed andai a far
colazione.
Colazione econòmica in una vècchia trattoria, in una
vècchia calle: fondi di carciofo e zuppa di pesce.
*
Ora due (vecchio stile). In gòndola. Dissi al vècchio
gondoliere: «Girate per i canali più brutti; non
attraversate il canalazzo; non date spiegazioni».
Una lieve frescura aleggiava su le acque; e dalle acque morte
parèvano venir fuori le spirali turchine, o gialle, che
gìrano intorno ai pali, ove si fèrmano le
gòndole. Dai neri palagi pèndono fior di
nastùrzio. Il ferro lucente della gòndola procede con
l'ondulamento di una sottile testa di serpe. La gòndola va
stranamente ràpida nella sua silenziosità; e par che
vada da sè perchè il motore - il remo - non si vede,
nè se ne ode il tonfo. Solo, ogni tanto, la voce del
gondoliere si eleva nel dare il richiamo allo svolto dei rii. Ha
suoni cupi, plàcidi, imperiosi. Strano! Mi pare tutt'altro
suono del ciacolàr veneziano! Sopravvìvono le voci di
Marco Polo, latino; di Marìn Sanudo, dei combattenti di
Lèpanto? Voci fèrree e latine pel mare! Davanti a me,
scolpita nello sportello della gòndola, sta la bocca umana
del leone. Ondeggiò il leone sugli orifiammi delle galee
combattenti; fu scolpito per tutto l'Oriente il sàvio leone
che posa la zampa sull'Evangelo! Pax tibi, Marce, evangelista meus!
Ha l'Evangelo, ed anche la spada! A Zara ti ho ben veduto, leone di
Venèzia! Obliata, lontana Zara! Perchè pensai a Zara?
Perchè le donne di Zara dicèvano a me con isconforto:
«I nostri figli non parleranno più veneto».
Ecco d'un tratto su le fondamenta mi balza, cavalcante, la figura e
l'elmo brònzeo di Bartolomeo Colleoni.
Lungo quelle fondamenta una schiera di ragazzi ignudi si
tùffano, mi grìdano: «Buttare in mare
soldino!».
Via! Brutte rane!
Il sedile della gòndola è assai còmodo: questo
basso nero sprofondato sedile. V'è posto per due, ed io sono
solo. «La biondina in gondoleta»? No! Io non penso ad
alcuna biondina. Penso a te, piccina, ridente cosa senza nome, o con
un làbile nome, nome del mio mondo! Oh, averti qui in piedi
avanti a me, domandarti: «Dove siamo, bambina? Che cosa sono
queste lìvide acque? questi palazzi tràgici con
bianchi baleni come di schèletri nel marmo? questo enorme
silènzio?». Vedere lo stupore dei tuoi occhi!
No, no, non vòglio farti vedere queste cose morte dove i
sècoli hanno piovuto le loro làgrime.
Ecco, io ti porto la bàmbola nuova ed i baìcoli
freschi.
Capìtolo XVII.
PÌCCOLI PENATI.
Un'agitazione nervosa mi aveva tenuto per tutto il viàggio
mattutino da Bologna a Rìmini; nè poteva stare io
fermo o seduto. E più il treno mi portava verso quella
città, più l'ossessione nervosa cresceva: un antico
male. Percorrevo su e giù il lungo treno quasi vuoto, e
cercavo qualcosa di diverso a cui attaccare il pensiero. Corri,
vècchio treno e pòrtami via il pensiero! Ma andava
così adàgio il treno mattutino della Romagna!
*
Per buona ventura, in uno scompartimento di seconda classe si
svolgeva un piacèvole ragionamento: c'era una signora di
mezza età, dolcemente tonda, che parlava come a casa sua e si
soffermava con letìzia, gestendo, sui suoni della sua
pronùncia ravennate. C'era un signore anzianotto con una
cravattina bianca che ascoltava con serietà. C'era una
signorina magrolina che non parlava. Questa era la nepote e la
signora era la zia.
La signora si rivelava per una di quelle plàcide borghesi di
Romagna, che hanno poderi al sole, casa in città, galline in
pollàio, vino in cantina; hanno esperienza di
masserìzia domèstica e agrìcola; vìvono
in quella, e nessun dùbbio le assale che tutte queste
proprietà còrrano oggi un certo perìcolo, o,
quanto meno, sìano molto discusse.
Ella parlava di cose della vita domèstica; e dopo un po',
prestando io maggior attenzione, sentii queste parole, spiccate, con
effusione di cuore: - Lei pesta, fine fine, le màndorle dolci
e qualcuna di amare, ma poche; sì che venga tutta una bella
manteca. Poi lei fa una bella spòglia come per i tagliolini,
e li tàglia, ma fini fini. Allora lei prepara un bel
sutè, e lo fòdera con la pasta frolla; poi ci mette un
suolo di tagliolini, e sopra quel siroppo di zùcchero, che le
ho detto, e la manteca di mandorle e dei pezzettini di burro; poi un
altro suolo di taglioline, e ancora le condisce con lo
zùcchero, con le màndorle, e del burro....
- Come fosse un ragù.... - suggerì d'incanto quel
signore.
- Bravo! E così di sèguito. Sopra, poi, ci fa dei
ricami con la pasta frolla, e cuoce al forno: quando è levato
dal forno, ci fa un buco, e ci versa mezzo bicchiere di alchermes o
di cògnac, a piacimento. Una bontà! Provi, e
sentirà che onore si fa!
- E come si chiama?
- La torta con le taglioline dolci. Lei la può mangiar calda,
ma se la làscia raffreddare, sentirà che è
più buona.
Il signore prese nota: màndorle dolci, poche amare,
zùcchero, burro, alchermes o cògnac. - E la signorina
- domandò - sa fare anche lei la torta con le taglioline
dolci?
La signorina si schermì.
E allora la signora disse che la signorina non studiava le torte, ma
studiava alla scuola normale, dove era una delle prime: - Dante,
ginnàstica, fìsica, pedagogia e làscia pur dire
a lei!
Il signore guardò con ammirazione quella signorina che sapeva
tante cose in così giòvane età. Ma parve
preferire i ragionamenti su la sapienza della zia.
- Stùdiano troppo, adesso - disse il signore guardando con
òcchio incerto la signorina come si guarda uno sconosciuto
esercìzio su gli attrezzi. Forse la sua mente instituiva un
rapporto tra la magrezza della signorina, e la floridezza della zia.
- Troppo, troppo, troppo! - confermò la zia. - E poi vede? Se
queste ragazze devono fare un paio di calze, o un rammendo, non le
sanno più fare.
- Ma si còmprano già fatte di chiffon! - disse la
signorina con una vocina rabbiosetta.
La zia non fu di questa opinione perchè le calze fatte a
màcchina pèrdono i calcagni in un momento: lei aveva,
si può dire, tutto ancora il suo corredo da sposa.
- Si bùttano via e se ne còmprano delle altre -
ribattè la signorina.
Questo sistema di buttar via e di comperare non doveva essere
conforme alle opinioni dell'economia domèstica della zia,
perchè disse: - Ci vògliono tanti soldi, allora!
La signorina scattò e disse:
- I soldi si guadàgnano! Prima le signorine non
guadagnàvano niente, e adesso guadàgnano come gli
uòmini. Sì, staremo lì a far la calza!
Il signore pareva ammirato delle risposte della signorina; ma si
permise di obbiettare, non su le calze fatte a màcchina, ma
in gènere sul perìcolo che Dante, la
ginnàstica, la fìsica e la pedagogia potèssero
sconvòlgere l'ordinamento della casa.
- A me, per esèmpio, signorina - disse, - le tagliatelle
fatte a màcchina non mi piàcciono.
- Oh, bravo! - esclamò la zia - Senti quello che dice il
signore?
- Si pìglia una cuoca! - squillò la signorina - E poi
e poi! Una volta voialtre stavate tutta la vita a imparare a far da
cucina; ma oggi le signorine che stùdiano, come dice la
nostra professoressa, sanno fare di tutto.
La signorina continuò con eloquenza, ma queste cose io
già avèndole udite altre volte, lasciai lo
scompartimento.
*
Scompartimento deserto di terza classe.
Fra i due sedili si stava una giòvane donna. Era un visetto
da Maria Vèrgine, ma senza beltà. Ella pareva
continuare in treno le consuete occupazioni della sua pìccola
casa, interrotte dal viàggio mattutino: aveva allattato un
suo piccino; aveva disteso il trapuntino; vi aveva deposto il
fantolino ed ora lo spiava affinchè nessuna perturbazione
avvenisse: èrano chiusi gli sportelli dei finestrini dalla
parte del sole nascente, rialzato il trapuntino, posto lievemente un
fazzolettino bianco sul volto del dormiente.
Fra i due sedili, - immoto presso la mamma, - si stava un altro
fantolino, di circa quattro anni, con un càndido grembiale,
scarpettine pulitine, braccia nude, gambine nude: pareva in
camìcia. Le due manine si tenèvano come in
equilìbrio fra i due sedili: il verde della campagna, desta
al primo sole, si rispecchiava nella diafanità delle pupille
liquide, con immenso stupore. «Oh, la casa che balla e
cammina! oh, quanto verde e quanto sole!» pareva dire.
«Oh, mondo bello! Mondo nuovo!»
Una paletta per ismuover l'arena; una barchettina nuova da pochi
soldi: alcunchè di nuovo, di fresco, di lieto in tutto il
modesto bagàglio, rivelàvano a prima vista che il
viàggio era di piacere, e probabilmente per i bagni, per
dipìngere di scuro le pàllide carni di quel fantolino.
Anzi certo, ai bagni! Una grossa glàndola enfiata deformava
il volto del piccino. Gli dava quella immobilità dolorosa del
bimbo ammalato.
Mi sorprese allora una voce diretta a me, a me veramente.
- Scusi, signore, questo scompartimento è per i non fumatori!
Le parole èrano cortesi, ma il tono era severo.
Era il marito di quella madonnina: un giòvane smilzo da pochi
soldi. Veramente la espressione significava altra cosa: «Lei
guarda il petto della mia signora!».
No, caro uomo, cosa vuole che guardi quella roba lì!
Guardavo il bimbo. «Le madri vìdero i bimbi infilzati
su le baionette bùlgare.»
Guardavo fuori nel sole la piràmide della nostra
civiltà: quattordicimila morti.
Al di là di questo manto azzurro del mare si deve udire il
cannone rombare.
Ma già, quando s'alza il sole, la vita comincia lo stesso.
Il sole! Un gran pèndolo oscillante nel vuoto: da un lato
l'istinto a fuggire la morte, dall'altro lato l'istinto a cercare la
guerra!
Un cimitero elevò d'un tratto i suoi torrioni funerari,
immoti davanti al treno fuggente. La macchina sibilò.
Rìmini!
Thalatta, thalatta, l'eterno mare! la lama azzurrina
dell'Adriàtico saliva verso il cielo, ma io non ti salutai,
eterno mare: non ti saluterò più!
Mi rincantucciai e nascosi il volto.
*
Quella grama famigliuola non discese a Rìmini, che è
stazione di gran mondo.
A Rìmini vidi il soldatino, rèduce dalla guerra.
Capìtolo XVIII.
IL RÈDUCE DALLA GUERRA.
Alla stazione di Rìmini io ho veduto il soldato,
rèduce dalla guerra.
Dove l'avevo già veduto un'altra volta? Certo io l'ho veduto!
Quando! L'ho veduto nel mese di ottobre, non questo, l'altro
ottobre, in Galleria a Milano. Se non è lui, non importa,
è uno come lui: vestito di grìgio; con le scarpe
d'ordinanza; una bandierina tricolore sul berretto. Anzi alcuni
avèvano bandierine anche su la bottoniera. Camminàvano
un po' dinoccolati, un po' sperduti, sotto la Galleria;
tendèvano ad andare insieme.
«Viva Trìpoli! Viva l'Esèrcito!» gridava
la gente al loro passàggio.
Ma, sul tardi, èrano molto più sciolti e arditi, e
prima di arrivare al quartiere, le stazioni diventàvano
molte; perchè ognuno voleva offrire qualche cosa; una stretta
di mano, un sìgaro, un càlice (come si dice a Milano);
un càlice di qualche cosa di piacèvole al soldatino
che ci andava a conquistare Trìpoli bel suol d'amore. Poi una
sera è partito il reggimento. Altri cinquantamila soldati il
Governo mandava laggiù. Certamente avremmo vinto. Come
scrosciàvano gli applàusi! Si propagàvano dalla
strada, su per i balconi, per tutti i piani; parèvano
scrosciare dai tetti. Una fiumana di gente, per tutta la strada, per
via Santa Margherita, via Manzoni; e, in mezzo a quella fiumana il
reggimento si snodava, si riannodava: si avviàvano i
soldatini grigi alla stazione.
Gli studenti portàvano gli zàini affardellati e i
fucili. Quando rimbombàvano i metalli delle bande militari,
pareva che gli applàusi scendèssero giù dal
cielo come crepitanti ali di Vittòria, e le bandiere
èrano agitate come se presentìssero la tempesta della
guerra lontana. La stàtua di Carlo Cattàneo emergeva
sopra la folla, e pareva avviata anche lei.
*
Poi un'altra volta l'ho veduto il soldato grìgio; non questa,
l'altra primavera (1912). Se non era lui, non importa. Era sempre
lui! L'ho veduto a Casalècchio di Reno. Noi bevevamo la buona
birra e mangiavamo le sementine abbrustolite; e alcuni soldati
facèvano lo stesso, e tutti intorno a loro facèvano
festa. Vuol dire che uno era con le stampelle, uno aveva la testa
bianca, fasciata, uno aveva un bràccio di meno. A prima vista
ciò destava una certa impressione; ma tutti facèvano
festa; ed anche i mutilati sorridèvano.
E un altro ne ho veduto a Pistòia. Se non era lui, non
importa! Era il soldatino rèduce dalla guerra di
Lìbia. Era lui. Andava al telègrafo a telegrafare.
Tutti gli si offrìvano, con quel dolce loro parlare, pronti
al servìzio; e molti lo seguìvano, ammirati: lo seguii
anch'io. Egli aveva la bandierina infissa su l'elmetto di
sùghero, ma del piumàccio non rimaneva che qualche
penna. Gli stinchi, lunghi, èrano stretti nelle fasce:
portava solo il tascapane ed il fucile. Ma come era lùrido! E
il volto era tèrreo; le pupille èrano abbacinate. Non
parlava. Pareva di quei soldati macabri che il giornale socialista
riproduce nelle sue vignette in disprègio dell'Itàlia
se fa guerra, dell'Itàlia se non fa guerra, cioè un
bersagliere con dentro uno scheletro.
*
Per la terza volta io l'ho veduto alla stazione di Rìmini. Se
non era lui non importa! Era il soldato rèduce dalla guerra.
Aveva la bandierina su l'elmetto; era tutto lùrido anche lui
e un po', anche, abbacinato. L'elmetto non soltanto era pesto, ma
aveva una strana màcchia: era forato. Il soldato stava
seduto, immòbile, solo, col suo fucile. Ma nessuno gli faceva
festa.
Rìmini d'estate fa toilette, e prende un nome esòtico
e glorioso nei fasti mondani: l'Ostenda d'Italia8. Òspita
gente straniera, conti e contesse, nonchè una superba
colònia ungherese.
La stazione di Rìmini dava in quel mattino l'idea di Ostenda.
Era tutto un susurrare ossequioso: «Signor conte, signora
contessa, signora marchesa, signor commendatore»; era un
servizièvole portare di valigette e spolverine; cagnolini,
sotto il bràccio delle dame; fiori freschi delle dame;
bambini delle dame.
C'era anche quella bandierina infissa sull'elmo; ma nessuno badava a
lei.
«Signor conte, signora contessa!» Fuori della stazione
rombàvano le automòbili dei signori conti e delle
signore contesse. Gli automedonti gridàvano: Grand
hôtel, Palace-hôtel, Hôtel Hungària.
Un signore ben pasciuto, ben rasato, con un suo bel naso adunco, un
bel trabucos fra le grosse labbra, ragionava con accento forestiero
suasivamente con un omarino, di exploitation di terreni, di grandi
hôtels, di Kursaal: e l'omarino, in udire, trepidava per la
ingordìgia.
Un giovanotto, grosso e ròseo come un prosciutto tedesco, con
una barbetta ricciolina, con un collare bianco alla Robespierre,
faceva lo svenèvole in lingua fiorentina con una signorina
smancerosa, magrolina, fresca come una gardènia, che
rispondeva in lingua bolognese.
Lui, il bersagliere dalla penna spezzata, era solo, solo, solo.
«Signor conte, signora contessa, signor commendatore, signor
usuriere dal trabucos, signor giovanottone dal collarino
ultra-pschutt, signorina gardènia, andiamo a fare una bella
ovazione al soldatino sùdicio che torna dalla guerra e sta
solo, solo, solo! Ad firmandum cor sincerum, sola fides
sùfficit.»
«Siamo andati, siamo andate quando ci fu la Messa di
suffràgio per le ànime dei militari morti in
Lìbia; siamo andati, siamo andate quando hanno recitato il
discorso sugli eroi; siamo andati, siamo andate quando hanno
distribuito le medàglie agli eroi. Abbiamo tricoté i
berrettoni per l'inverno e le zanzariere per l'estate.»
«Allora su voi, da bravi, bambini, bei bebè dalle
brachesse olandesi, andiamo a fargli festa, e belle carezze, e belle
carole attorno al bersagliere! battete le pìccole manine,
gridate con le argèntee voci: Evviva! Non venite, graziosi
bebè? Perchè? Non è questo il soldatin che va
alla guerra, màngia, beve e dorme in terra? È
sùdicio? è scarmigliato? Già, non ha usato lo
shampooing! Orrìbili insetti si infìltrano in chi
dorme su la terra di Lìbia che nutre le serpi e i leoni!
È tèrreo? Effetto dell'acqua di Marsa-Susa. Ha gli
occhi che fanno paura? Effetto di Saf-saf.»
*
Ma ecco fra l'intrèccio dei binari, precìpita, si
arresta il diretto.
- Lìnea Bologna-Milano! - si sente chiamare.
Dagli sportelli di prima classe qualche piedino vezzoso appare.
Deliziosi visetti scrùtano. Altre valigette, altri fiori,
altre piume, altri bebè, altri cagnolini in bràccio.
V'è chi scende, v'è chi sale. «Oh, signor conte,
signora contessa!»
- Ma cosa fa quel militare, laggiù in coda...! - io sento
gridare.
Due, tre guàrdie del treno si precìpitano,
fèrmano il bersagliere che già è salito a
metà, e lo fanno scèndere.
- C'è la terza! - lui dice.
- Ma non sapete - dìcono essi - che voialtri militari non
potete viaggiare coi diretti?
- Ma se ho scritto a casa che arrivavo stasera!
- Ma se ha scritto a casa, torni a riscrìvere:
arriverà domani sera! Presto presto!
Si ribàttono gli sportelli, il diretto è partito. Il
bersagliere è rimasto a terra.
Sono rimasto a terra anch'io.
Vedo il bersagliere, con la sua bandierina su l'elmo, trapassato
dalla pallòttola del fucile Mauser, che segue il folgorante
berretto del signor capo stazione, in grande stiffèlius.
- Ma lo sanno - dice il signor capo senza piegare la direzione del
suo berretto, - lo sanno bene che loro militari non pòssono
viaggiare così diretti.
«Oh, signor capo, fàccia viaggiare il soldato,
rèduce dalla guerra, aspettato da sua madre, lo fàccia
viaggiare non soltanto in diretto, ma in prima classe. Chi lo vieta?
La legge? Ma quando la legge ci comanderà di morire per la
pàtria, come potremo noi ripètere i versi del poeta:
Dic, hospes, Spartae te hic nos vidisse iacentes Dum sanctis
pàtriae lègibus obsèquimur? Come potremo,
signor capo, se le leggi non sono sante?
*
Ho seguito il militare in quella città dove avevo deliberato
di non fermarmi. Perchè? Non so. Avrei voluto parlare al
soldato, confortarlo e non lo feci. Mi pareva che avesse dovuto
dirmi tristi, amare cose, e io non avrei saputo che cosa
rispòndere. Ero sconfortato anch'io. E allora come si fa a
confortare?
Lo seguii tuttavia.
Andava a capo chino, avvilito. Le automòbili erano partite. I
fiaccherai non degnàvano di offrire la loro vettura al
soldato troppo in brandelli.
Due o tre lùridi ragazzacci, qualche megera si offriva per
indicargli una bèttola, un luogo dove riposare.
Ma lui faceva gesti larghi di rifiuto e diceva: - Mafisch!
Si fermò ad una porticina dove era scritto: Trattoria.
Esitò, ed infine entrò. Entrai anch'io.
Era già mezzodì: la trattoria con tante tàvole
strette, con tutte le tovàglie vinose, era stipata di
avventori: odori di pesce fritto, di ragù, di gente in
màniche di camìcia. Ma i camerieri èrano in
frac perchè quella città è l'Ostenda
d'Itàlia.
Trovammo un po' di posto presso una tàvola dove
sedèvano due preti.
Ci fùrono finalmente messi innanzi tovaglioli con impronte di
altre bocche, pane e vino; poi il cameriere recitò la lista
delle vivande nel più orrìbile gergone poliglotto:
«maccheroni al graten, patate mascè, entrecôts,
guylasch», perchè oltre che di Ostenda, quella
città sa un po' di ungherese, d'estate.
- Presto, militare, perchè c'è molta gente da servire.
Venne portato non so quale cibreo, ed il militare mangiava lento e
svogliato in tristezza di cuore.
Nemmeno i due preti badàvano a lui, e la bandierina era
invano affissa su l'elmetto. Un frèmito, un singulto
d'affetto per quella bandierina, mi agitava.
I due preti mangiàvano tagliatelle col ragù. Ambedue
avèvano aspetto campagnuolo. L'un prete era poderoso,
giòvane, nero. L'altro era un flòrido uomo d'un colore
biondìccio, e il sudore cadeva per suo conto, dalle rotonde
gote, sul collare. Con mossa automàtica del tovagliolo il
prete asciugava il sudore, e scacciava le mosche. Una questione,
quasi teologale, era intavolata fra i due.
- Com' vala sta fazzenda - diceva con voce in falsetto il prete
color carota - che se me, che se io màngio tagliatelle
sottili, sento un umore, se màngio tagliatelle larghe, ne
sento un altro?
Il prete nero sosteneva con voce profonda che ciò proveniva
da Dio che faceva entrare in funzione speciali nervi per gustare le
tagliatelle strette, ed altri nervi per gustare le tagliatelle
larghe.
Ma il prete rosso in questa faccenda delle tagliatelle era
d'opinione che Dio non ci entrasse; ma piuttosto la cuoca ed il
cuoco, il tagliere e la coltella. Essi non si accordàvano
nella metafìsica della questione, ma si accordàrono
nella parte sperimentale, perchè seguitàrono ad
ordinare diversi piatti di tagliatelle larghe, alternate con
tagliatelle strette.
Io stavo sempre meditando qualche ragionamento straordinàrio
per confortare il soldato, ma non osavo cominciare perchè
avevo paura che dalle labbra di lui uscisse qualche imprecazione
contro quella bandierina; come già, a Borgotaro, dalle labbra
del vècchio lavoratore contro la santa terra.
*
Il soldatino non c'era più.
Uscii dall'osteria, girai per le vie della città, oramai
deserte nell'ora della siesta. La città dove ero vissuto
nell'adolescenza, dove èrano le case degli avi, la casetta
della mamma! Ma la città io non la riconoscevo più:
vecchi quartieri èrano scomparsi: vie nuove, case nuove, in
nuovo stile èrano sorte. Anche le persone non le riconoscevo
più. Stupii di me stesso: «se sotto questa terra non ci
fòssero i miei morti, io la guarderei con la stessa
indifferenza delle terre iperbòree, dove non sono mai
stato.»
Poi mi colse un altro stupore: stupisco vedendo volti di persone che
èrano vive allora. Allora anch'io sono vivo, e anche di
questa cosa ho stupore. Ma come sono ben conservati! Come hanno
fatto a conservarsi così? Essi èrano maravigliosamente
conservati. Io sono vivo, ma devo èssere così mutato
che essi non guàrdano nemmeno.
Ma allorchè discese il vèspero, dopo il lungo
merìggio, una luminosità cilestrina venne dal mare.
Riconobbi quella luce, ed essa riconobbe me; e ne stupii come di una
carezza dell'infànzia.
*
Trovai una stanza in un albergo e mi addormentai di un greve sonno.
Capìtolo XIX.
LA FESTA DELLA MAMMA.
Questo fu il sogno di quella notte di estate.
*
Non è il ****? Non è il giorno della mamma? Io le
porterò di bei dolci, i più fini che troverò.
Non sarà come quell'anno che io giunsi in ritardo; ed io
avevo per mano il mio bambino affinchè venisse anche lui alla
festa; e così si ricordasse della madre mia. Pòvero
bambino! Era tutto pàllido, tutto vestito di bianco; ma i
suoi occhi èrano attòniti e le sue scarpe èrano
vècchie, slabbrate, senza tacchi....
Sì, sì, ora ricordo: fu il calzolàio: aveva
promesso le scarpe nuove, e non le portò. Con la scusa che
sono pòveri operai, si màngiano la parola, questa
miseràbile gente, per un centèsimo di più di
guadagno! Non le aveva neppur cominciate, le scarpe! E partimmo
così in ritardo. Vederlo pàllido così,
pòvero bimbo, e trascinare quella spècie di ciabatte,
mi dava una irritazione sorda, insensata.
«Ma sta ritto almeno!» io diceva.
La città era in festa. Passàvano altri bimbi,
fiorenti, gai, con le scarpe nuove. «Ma sta ritto
almeno!» E.... e lo toccai appena; ma feci atto di
percuòterlo lì, fra la gente. Lui si fermò
lì, fra la gente, avvilito. Il mazzo dei fiori per la nonna,
gli cadde.
«Su, su via, sii buono. Lo sai che bisogna camminare dritti,
forti, fra la gente, e con la testa alta! Ora ti comprerò
molti dolci».
Era tardi, e lui camminava senza avvedersi della sua
goffàggine, trascinando quelle orrìbili scarpe senza
tacco, che lo facèvano sembrare anche più piccino.
Quelle abbominèvoli scarpe mi plasmàvano nel cervello
l'idea fissa d'una misèria ereditària,
inguarìbile. «E poi e poi, se ti occorrerà dar
dei calci, come farai con quelle scarpe?»
La pasticceria era piena di gente, sul mezzodì.
«Su, entra. Compriamo i dolci....»
«Non mi arrìschio....»
«Non ti arrischi? Non ti arrischi?»
Avere dei figliuoli che non s'arrìschiano! Ma che sono gli
altri uòmini? Ma non sai che non arrischiare, che aver
temenza degli altri uòmini, è la maggior condanna pei
nati su la terra?
Era mezzodì, oramai, quando arrivammo; e la mamma era vestita
a festa.
«Benvenuti, benvenuti, - disse sorridendo dal limitare. -
Ancora un altro po' e non vi aspettavo più. Passata la festa,
gabbato lo santo.»
Ma ora il santo non sarà gabbato: è il primo mattino:
questa è ben la città, io non mancherò al
giorno della festa!
*
Il mercato era pieno: io ero ricco, adesso: io ora potevo comperare
per la festa della mamma le più belle pesche del mercato.
Le più belle pesche del mercato èrano vendute: le
aveva comperate tutte quel signore; quel signore, impassìbile
su la sua automòbile. Ebbi una gran vòglia di
scagliarmi contro, tanto più che io lo conoscevo da bambino,
e lui conosceva me: mai però ci eravamo salutati.
Io ero ricco, ma a piedi; lui era ricco, ma in automòbile.
No, non adiriàmoci - dissi fra me - ; oggi è il santo
giorno della mamma. Comprerò le pesche meno belle;
comprerò questa bella angùria zuccherina. Essa piace
molto alla mamma.
«Non avete servo che vi porti queste cose?» chiese la
venditrice.
Io ero ricco, ma senza servi. Porterò io.
Ora comprerò i dolci: i più fini, e squisiti, a
qualunque prezzo, perchè io sono molto ricco.
Ma la pasticceria è ingombra. Quante dame eleganti, delicate,
che sùcchiano i dolci, e ingòmbrano tutto il posto
davanti le vetrine! Sono tutte smancerose, tutte altere; e quanti
gentiluòmini con quelle dame, e nessuno si muove per farmi
posto! «Io sono ricco; fàtemi posto.» «Ma
voi non siete dei nostri.» «Ah sì, io non sono
dei vostri! Mai dei vostri! Voi siete i nuovi arricchiti! Gentilezza
è oramai l'esser plebei!» Via, non adiriàmoci:
il dolciere mi servirà con garbo e cortesia lo stesso, io
spero. Siamo della stessa città e mi conosce.
Lo chiamai amichevolmente per nome. «Oggi è la festa
della mamma. Dàtemi dei bei dolci.»
Non mi ha udito; ma mi ha visto. Sì bene, mi ha visto ed
anche udito; e mi prega anzi di non ingombrare le sue vetrine coi
miei grossolani involti.
«Servìtemi presto.»
«Presto non posso. Prima vi sono queste dame e questi
gentiluòmini».
«Ma non eravate voi un buon democràtico?»
«Io sono sempre democràtico, e firmo ancora i manifesti
democràtici; ma quando si lavora in denaro, in denaro -
capite - , in quel momento nessuno più è
democràtico.»
Un ìmpeto di follia mi vinse contro colui, contro quei
gentiluòmini, contro quelle dame.
Via, non arrabbiàmoci, oggi è la festa della mamma!
Non entriamo nella sua casa con la fronte ottenebrata. Ecco il
dolciere viene finalmente a me. Comperiamo quello che gli piace di
darci.
Quanto tempo mi hanno fatto aspettare!
*
È ben tardi oramai. Il sole cade a piombo su le vie affocate.
Perchè tutte le vie sono ora deserte? Tutta la gente è
sparita. Io non mi ricordo più le vie: io mi sono smarrito
fra il dèdalo delle vie. Vedo edifici nuovi che non riconosco
più: edifici con mostruosi disegni di fiori, di sfingi, e
serpi e leoni. No, non è nei quartieri nuovi, è nei
vecchi pòveri quartieri che la mamma àbita. Queste,
fra cui mi sono perso, sono le lùcide case degli arricchiti,
coi grevi ornamenti.
Il sole è ardente, le vie deserte: un'enorme angòscia
mi prende. Io ho smarrito la via. Io non mi ricordo più dove
la mamma àbita. Ma dove? Ma dove? Dove sono le antiche
pìccole case?
A quest'ora ella attende: la mensa è preparata, tutta
càndida, con le vècchie care stovìglie: la
mamma ha colato il brodo nella piccola pèntola. L'arrosto col
rosmarino è su lo spiedo, è a buon punto. E il fuoco
làngue. Ora il fuoco è spento sul focolare. L'ora
è passata. Non mi aspetta più la mamma. Io corro,
cercando per le vie. In quale casa àbita la mamma? I doni del
giorno della festa della mamma mi pèsano su le
bràccia: io vorrei còrrere più veloce per le
vie; ma un peso enorme, un enorme peso mi grava.
Ah, ecco la vècchia chiesa. La casetta è lì
presso.
Quante volte nel dolce mese di màggio io giunsi in quella
città, e bussai alla porta della casa! la mamma non c'era in
casa; e donne del vicinato dicèvano che era andata alla
chiesa: la ritrovavo in chiesa, lì presso, col capo chiuso
nel suo nero scialle: mese di màggio; dolci preghiere;
profumo tènero di primavera, viole màmmole, erba
cedrina sopra gli altari.
Forse è lì che la ritroverò ancora! La
vècchia chiesa elevava la fronte davanti a me. Spinsi la
grave porta.
E allora mi ricordai che un triste giorno d'inverno sul pavimento di
quella chiesa fu posata una bara con quattro ceri intorno, e un
manto nero orlato d'argento era steso per terra! E quel manto mi
gravava come un enorme peso.
*
E allora mi destai che era il primìssimo albore. Sentii la
campanella fresca del mattino che chiama all'ave maria del
dì. Caro suono che squilla ancora. Lagrimavo un po'
dolcemente.
Non rammenti più? - dissi a me stesso. - Da due anni ella non
è più. Tu non comprerai più le pesche ed i
dolci per il giorno della sua festa, come nessuno più
ripeterà con quella voce il nome del tuo battèsimo.
Ma chi sa perchè? Io non ero triste dopo tanta
angòscia durata nel lungo sogno. Ora a me pareva di vedere
mia madre assunta in cielo come si legge nei grandi poeti.
Io fissai la mente e, cosa incredìbile, non vidi più
la morte che divide la vita. La vita mi sembrava che fosse una
continuità non limitata dalla morte. E quando io verrò
a te, tu forse mi verrai incontro sul limitare e mi chiamerai per
nome e mi dirai ancora: Benvenuto!
Capìtolo XX.
DUNQUE RÒNDINI, ADDIO!
Mi sono accorto la mattina all'albergo che l'abbonamento
ferroviàrio era già scaduto. Questa cosa è
molto incresciosa perchè adesso dovrò fermarmi.
Dove andrò adesso?
Ho considerato intensamente ed ho riconosciuto che nella
superfìcie così vasta del mondo non è luogo
dove desidererei di fissare stàbile dimora. Non è cosa
piacèvole non trovare fisonomia di villàggio, profilo
di campanile o di minareto, città o campagna che vi sorrida
sì da esclamare: «vorrei vìvere
là!». Come dèvono èssere felici quelli
che pòssono dire: «Io vorrei vìvere
là!».
«E allora c'è il cimitero.», dirà alcuno.
E infatti ci avevo pensato; il cimitero di Bellària è
pròprio un cimitero carino perchè abbandonato, e non
è lontano dal mare, e mi piaceva una scritta con sopra
scritto: «Ascolterò la voce del mare»,
naturalmente in latino: Exàudiam vocem maris, perchè
certe cose è bene che sìano capite da pochi.
Inoltre quella buona gente di Bellària conserva riti
fùnebri molto gentili: porta a bràccio le bare e non
fa discorsi. Però avrèbbero detto: «Um spis! Mi
dispiace. Pòvero professore!». Anche senza sapere di
che io sia professore, ciò è molto gentile.
Ma da qualche tempo, intanto, sono sorti forti dubbi su la
probabilità di udire la voce del mare dal cimitero di
Bellària; e poi lo scorso autunno è accaduto un fatto
che mi ha impressionato.
È morto a Bellària un buon signore, che aveva anche
lui una sua villetta: un buon signore che occupava poco posto su la
superfìcie della terra; non diceva male di nessuno, e dava a
tutti il buon dì. È morto di morte dolce come del
resto meritava; ma non è stato accompagnato a bràccia
al cimitero: è venuto invece il carro nero e oro col cavallo.
La buona gente non ha accompagnato: guardava il carro transitare per
la campagna e pareva dire: «Voi seppellite i vostri morti e
noi i nostri». Nella chiesetta non c'era nessuno del
pòpolo. C'era Don Serafino e altri preti, che li vedevo su la
cantoria aprire la bocca nera. Ma il pòpolo non c'era. Esso,
in questi ùltimi tempi, ha imparato dalla bocca eloquente dei
suoi apòstoli che Dio non c'è, e ha disertato la
chiesa, e non si sofferma nemmeno su la porta della chiesa,
perchè questa buona gente può crèdere o
può negare, ma non si può soffermare sul limitare del
dùbbio. La cosa mi ha fatto dispiacere, non perchè la
negazione di Dio non sia anch'essa un'opinione rispettàbile;
ma perchè sentir negar Dio all'osteria tra i fumi del vino e
l'odore del pesce fritto, fa venir la nàusea.
Si può riconòscere per altro che l'apostolato della
negazione di Dio non sta a sè, ma fa parte di tutto un
più vasto programma che sarebbe questo: «i
pòveri hanno diritto di godere come i ricchi». Questo
è un programma attraente ed accessìbile alla
intelligenza di tutti. Esso ha fruttato una bella fioritura di
òdio fra questa buona gente contro quelli che sono chiamati
signori; ed ho veduto molti signori rimanerne impressionati. A me la
cosa non ha fatto però troppa impressione, e anzi in qualche
caso ha fatto piacere, perchè gli uni valèvano gli
altri. Tuttavia desiderando di vìvere in pace, mi sono
affaticato a fare qualche dimostrazione abbastanza dettagliata per
provare a questi pòveri che anch'io sono pòvero e
anche sfruttato, e che fra essi vi sono non pochi più ricchi
di me, e anche sfruttatori. Io non ho mai speso più
inutilmente le mie parole!
«Che lei sia ricco o pòvero, è una cosa che ci
importa poco. Noi sappiamo che lei non è dei nostri; lei
specialmente!»
Non che essi àbbiano detto così con le parole, ma vi
sono certi pensieri che si lèggono così bene negli
occhi!
Precisamente, mi hanno fatto capire quello che mi hanno fatto capire
«i signori», cioè che io non sono nemmeno dei
loro.
Confesso che questa cosa mi ha fatto dispiacere perchè ho
sentito una gran solitùdine intorno a me.
Ed è così che è svanita anche la vòglia
di star da morto a Bellària. E anche da vivo!
Pìccola casetta di Bellària, non lagrimare! Io ti devo
dire una verità amara: Io non ti amo più!
E pensare che quando nove anni fa ti fabbricai con quei
pìccoli risparmi, mi pareva che i mattoni che si
posàvano sui mattoni, cementàssero anche una mia
pìccola felicità con un pìccolo sole autunnale!
Ed io dicevo al buon mastro: «fammi le mura ben grosse, ben
sòlide». Ora io dico: «Casetta, perchè non
crolli, tu? pìccola casa sul mare, perchè non ti venne
l'eccellente idea di crollare quando è venuto quell'uomo nero
del fisco?». L'uomo del fisco che guardava e diceva: «Ma
questa casa è una fortezza, un màstio, una rocca! Lei
ha fabbricato senza rispàrmio! Oh, anche belle pitture! E
quell'indivìduo lassù, sul soffitto, col
cappùccio rosso e una rosa in mano, chi è?».
«Dante», risposi io, pensandomi con quel nome di
commuovere il cuore del fisco.
Ma l'uomo del fisco piegò in giù le labbra come per
dire: «che lusso!».
Perchè non crollasti quel giorno, pìccola casa?
Soffitto con Dante dipinto, perchè non precipitasti!
Io la fabbricai la pìccola casetta - sì è vero
- per mia pace e de' miei, e questo è un lusso, lo riconosco;
ma anche per ricoverare vècchie cose, vècchie
masserìzie, errabonde come me per tanti anni; le quali mi
pareva che domandàssero, anche esse, pace ed asilo. Le ho
ricoverate nella casetta, sì che la camera da letto sembra
quasi una bottega da rigattiere!
Ma quando di lùglio, alle quattro del mattino, spalancavo gli
scuri, e dalla gran finestra entrava, io non so bene, se la luce dei
pianeti e delle stelle o del nuovo giorno, e poi il fiammeggiare
dell'aurora dal mare, era una gran letìzia, una gran
frescura: e, nel silènzio profondo, io udiva un bisbigliare
tènue: «ringraziamenti».
«Ringraziamenti», dicèvano le vècchie
cose.
Levava io appena la testa dal capezzale, e vedevo il sole che si
allungava per istaccarsi dall'azzurro del mare: e sùbito, da
così lontano, mandava già pennellate d'oro su le
pareti.
Dicèvano le vècchie cose: «Io sono la
pìccola Madonna che per sette anni fui appesa sopra il tuo
lettìcciolo in collègio; io sono il magro e ardente
dàlmata, tuo professor Politeo dalla pupilla irònica;
io sono il professor Carducci; io sono la prima scarpetta di
Titì (l'altra scarpetta andò perduta; chi sa dove
sarà); io sono la rossa santacroce che la mamma tua trapunse
quand'era giovinetta, anno mille ottocento quarantotto! (mi
sèmbrano màcchie di sàngue del suo cuore); noi
siamo i libri di medicina e di legge dei vecchi tuoi. Fa conto,
figliuolo, di èssere conte o marchese!»
«E noi siamo due sciàbole arrugginite, ed un
bàlteo del Quarantotto! Fa conto, figliuolo, di èssere
cavaliere!»
«Io sono la màdia del pane quando si faceva il pane in
casa!».
Aprivo anche l'altra grande finestra che guarda verso il sole quando
tramonta; e si vedeva, nel cielo di perla ancora, declinare
giù la falcata luna. Pareva che la Madonna azzurra, che
è sopra il letto, ora navigasse col piè posato
sull'arco della luna. E la frescura dei campi, salendo, dicea:
«Noi siamo la giovinezza che non tramonta!».
Anche per ricoverare queste pòvere masserìzie io
edificai la casetta sul mare9.
«Ma questo è il lusso dei lussi» diceva l'uomo
del fisco, puntando l'ìndice su la fronte. «Questo
è il supèrfluo dei supèrflui!»
O uomo lùgubre del fisco, lusso tu chiami il culto delle
memòrie? della famìglia? dei pòveri morti? Sai
tu di quanto se ne avvantàggia la pàtria?
Ma l'uomo del fisco non conosceva la pàtria mèglio di
Dante.
«Io non la tasserò mai bastantemente questa
aristocràtica casetta!» mi disse, e mantenne la parola.
E i pòveri e i ricchi a buona ragione mi dìcono:
«Voi non siete dei nostri».
Ah, dolce casetta, perchè non poter fare come la Madonna di
Loreto, che ordinò agli àngioli di trasportarla, la
sua casa, di là dal mare?
Poi altre cose sono sopraggiunte in questi ùltimi anni oltre
all'uomo del fisco, cose reali e cose fantàstiche, che
sèguitano ancora a ballare nella mente: sono imàgini
che non stanno ferme. Appena elle si fèrmano un po' quando
fugge il treno. E poi viene avanti quel pòvero piccino che
correva nella sua dolce infànzia per le stanze della casetta:
la sua casetta! Ora pende immòbile e come tetro da un
ritratto della parete; e il sole invano lo percuote. Quali cose
tristi, o mio piccino, hanno fermato il tuo tènero riso? Ho
l'impressione di un gran tradimento intorno a me. Ma davanti a me
cammina Cristo, e quelle sue folli parole: «Làscia
tutto, butta via tutto!», mi hanno inebbriato di una nuova
passione: «non fabbricare qui nulla - dice Cristo - : non
èssere proprietàrio di nulla; non èssere
iscritto in nessun registro! Allora non avvèngono più
tradimenti; allora si cammina ben lieve!».
Invece io per effetto di quella casetta sono inscritto fra i
proprietari del mondo. Ma noi non siamo proprietari di nulla!
Ma pensare che bizzarra cosa! Fino a un certo tempo della vita noi
lavoriamo per legarci alla vita, fabbrichiamo case, compriamo terre,
piantiamo àlberi, piantiamo figliuoli, e con che entusiasmo!
Si crede nella glòria, nella làmpada della vita;
v'è chi crede nella civiltà, nella filosofia e in
altri zuccherini della ragione. Poi viene un momento che desideriamo
di èssere slegati. Allora si comprende, e ci si
meravìglia. Ma, dunque, noi possedevamo un'enorme provvista
di volontà di vìvere! Dove era questa volontà
occulta? Per fortuna che questo desidèrio di èssere
slegati dalla vita viene a pochi, se no sarebbe un affare
sèrio, anche per il fisco. Tutti andremmo dietro a Cristo.
*
Mi era grave, per tutti questi motivi, ritornare alla casetta di
Bellària. Eppure era necessàrio. D'altra parte in
quella città non volevo rimanere.
Ecco: andremo a Bellària lentamente, con un lungo giro.
Andrò prima a San Màuro che è la pàtria
di Giovanni Pàscoli, tanto più che io ho un
dèbito da assòlvere con lui. E in secondo luogo, il
dottor Grigioni, che è mèdico condotto di San
Màuro, mi aveva più volte fatto invito per
lèttera di andarlo a trovare e visitare una sua raccolta di
cose del Pàscoli. «Un uomo che ha raccolto con amore le
cose del pòvero Pàscoli, deve èssere
necessariamente un uomo fornito di quella gràzia (mi pare che
si chiàmino gràzie i doni di Dio), che è la
bontà.» Così dicevo fra me, perchè di
persona non conoscevo il dottor Grigioni «E come
mèdico, certamente deve èssere un filòsofo: ma
filòsofo di quella filosofia che non muta come quella delle
scuole; perchè fondata sull'uomo, che non muta. Sarà
un dottore venerando con una bella barba bianca.»
Pòvero Pàscoli! Io volevo - come ho detto - andare in
peregrinàggio a San Màuro per còmpiere
un'òpera di riparazione verso lui, morto, di certi pensieri
che di lui ebbi quando era vivo. Negli ùltimi tempi che egli
fu in vita, la sua voce lamentosa di fraternità e di pace non
la potevo più sentire. Mi pareva un mendicante che domandasse
agli uòmini quello che essi non pòssono dare: l'amore
e la pietà. Anche quella sua religione per gli ùmili
non mi piaceva: «Sì, Pàscoli, regala il pane
bianco e gratùito! Dopo lo butteranno via e domanderanno le
tartine». È sconfortante, lo so: ma è
così. E anche non mi piaceva nel Pàscoli quel suo
portare i fiori del sentimento al socialismo. «Il socialismo -
io diceva - è quello che è; e se è, è
perchè oggi ci deve èssere; ma dei tuoi fiori devoti
non sa che fàrsene».
«Giovanni Pàscoli - io dicea anche - non far la
capinera, che alleva le ova del cuculo; perchè quando il
cuculino è cresciuto appena, butta giù dal nido tutte
le capinerine.
«Tu ben ti intendi di uccellini, Giovanni Pàscoli! Il
cuculino non lo fa per cattivèria, oh no! È l'istinto.
Ha fatto così, e farà sempre così!»
Ma lui era sincero come un morente che dice ai viventi:
«Amàtevi, andate d'accordo, non fàtevi del male,
aiutàtevi l'un l'altro». E quando nelle sue
ùltime poesie cantò cose eròiche e la
Pàtria, sì, anche allora era sincero, e l'eco della
sua arpa era ben grande! Ma forse egli ne aveva sgomento,
perchè, allora, anche la guerra.... La guerra sempre? e la
notte si doveva bàttere il petto come il Petrarca quando gli
si affacciava la magnificenza carnale di madonna Làura; se
non che Pàscoli non possedeva Dio a cui domandare
mercè.
Ma come spesso mi avviene, io ragionavo per passione. Giovanni
Pàscoli era come un vero santo, il quale voleva tutto il
bene, perchè aveva conosciuto tutto il male; e di questa
santità la sua poesia portava le divine stigmate, come ebbi
documento il giorno che egli morì.
Quando egli morì, ci fu un grande funerale in Bologna, e la
gente faceva confronti fra questo funerale e quello del Carducci e
quello di non so chi altro. Ma in quel giorno in Bologna vidi sopra
la casa dove abitava il Pàscoli fuori di porta
d'Azèglio, un gran màndorlo improvvisamente fiorire. E
la sera in una bottegùccia vidi una giovanetta cieca e di
ùmile condizione, la quale piangeva; e domandàndole io
perchè, rispose; per la morte del Pàscoli. Ella non lo
conosceva di persona, ma diceva che per le poesie di lui aveva, lei
cieca, veduto il cielo ed i fiori.
Queste due cose mi fècero molta impressione e così
decisi di andare a San Màuro a fare ammenda dei miei
pensieri.
*
Lasciai l'albergo di quella città, e mi trovai in piazza che
era primo mattino. Cominciàvano a venire le prime vetture da
nolo. Ne noleggiai una.
Il giro per San Màuro importava parecchi chilòmetri di
più; e il vetturale fece valere i diritti dell'Ostenda
d'Itàlia per domandarmi venti lire; e infine si arrese per
diciotto, perchè io ero io; ma non lo dicessi a nessuno che
lui veniva per così poco.
Ed ecco càpita lì, tutto trafelato, un grosso prete. E
si spiegò: egli doveva recarsi al mercato, a Savignano, e
aveva perduto la prima corsa del treno delle quattro e mezzo. Si
offrì, poi insistè per salire anche lui. Avrebbe
contribuito per due lire al nolo della vettura; poi due e mezzo.
Arrivò sino a tre lire. Ma io sempre di no con la testa.
- Capisce - diceva - che ho affari urgenti al mercato!
Ma io sempre di no con la testa.
- Ah, non capisce? Tedesco è lei!
Quando il prete vide che a nessun patto io ero disposto a farlo
salire, si sfogò col fiaccheraio, in dialetto:
- S'è fatto un mondo così superbioso, così
aristocràtico con questi forestieri, che l'è una
vergogna! Ma non ci si stava bene in due?
E indicava i quattro cuscini, che io mi ostinavo ad occupare da
solo.
«Prete, prete, egli è che io poco amo i làici
che vanno al mercato; meno poi i chièrici!»
Ed il prete rimase lì, su la piazza, a querelarsi contro la
aristocrazia.
Passò il borgo di San Giuliano, passàrono le Celle,
dove è il Cimitero. Me ne accorsi dal rumore delle ruote sul
passàggio a livello. Allora soltanto levai la mano dagli
occhi.
*
Per la grande via Emilia, per quella che fu già la via Romea,
fra le siepi bianche di pòlvere, scendèvano alla
città, festosamente, baroccini, contadini, coi cesti delle
verdure fresche, del pollame vivo che canta, delle uova, delle
frutta rugiadose. Questa gente che vuol mangiare; questo mondo che
ogni mattina vuole vivere!
Garrìvano in alto le ròndini.
Antica via Romea, che costèggia il lido adriano, quanta gente
passò! Passàrono i legionari, passò il gran
piede dei Goti, passò il piedino di Francesca. Ma forse ella
venne di Ravenna cavalcando un bel destriero.
Beato il mio vetturale che non sa nulla di queste cose!
Ogni tanto qualche fìschio lungo, di trebbiatrice: presso le
aie, ogni tanto, vampate calde di spighe sgranate. Dietro gli olmi,
saliva verso oriente la lìnea del mare: qualche vela sospesa.
Riudivo, con effetto di incantesimo, al passare dei passanti, il
suono del dialetto dell'infànzia. Mi pareva a quei suoni di
vedere i miei morti antichi. «Come mai perdura - io mi
domandava - tanta letìzia nel mondo?» Ma le
ròndini garrìvano più forte. Mi affissai in
quel garrire delle ròndini, e ripetei anch'io, non so come,
le parole del Pàscoli:
Dunque ròndini, ròndini, addio!
Oh, buon poeta! Eri tu che mi prestavi dalla tomba la tua cantilena:
Ma saranno pur gli stessi voli;
Ma saranno pur gli stessi gridi;
Ma saran pur gli stessi nidi,
Risarà tutto quello che fu.
Una monòtona cantilena in verità. Ma le cantilene dei
poeti bisogna controllarle buttàndole contro il sole, contro
le ròndini. E se queste cose rispòndono, allora le
cantilene più disadorne sono veramente adorne.
Chi sono i poeti? Sono coloro che pàrlano dopo la morte.
Dunque, ròndini, ròndini, addio! cioè: addio,
dolce vita!
E poi, ripensàndoci e come eccitato da quel garrire che
accompagnava sopra la mia testa l'andare traballante della vettura,
mi pareva che anche un altro poeta avesse così preso commiato
dalla vita con un addio alle ròndini.
E cercando chi altri avesse detto così, vidi verso occidente
la lìnea dei monti, San Leo, la Carpegna, Montefeltro.
Per quei monti di Romagna passò San Francesco la prima volta
che si recò alla Vèrnia; e partèndosi per
sempre dalla Vèrnia, disse così: «Dunque addio,
addio, addio! Io me ne parto con fra Leone, pecorella di Dio, e qui
non farò più ritorno. Addio, addio, addio! Addio
tutti: addio ròndini, addio Monte degli Àngioli, monte
pingue, monte coagulato, rèstati in pace che mai più
ci rivedremo!».
Ma il fiaccheraio ruppe l'incanto: si fermò ad una bottega su
la via, da cui pendeva una frasca.
- Se permette - disse - mi rinfresco la gola, - e balzò di
cassetta, e poi stava lì su l'ùscio dell'osteria
centellinando da un boccaletto di còccio, in un bicchiere, un
così vermìglio vino, con tanta gioia, con tanto sole
in quel vino, che mi parve quasi natural cosa cominciare il giorno
libando il vino. Se non fossi stato io più ebro di lui, lo
avrei imitato.
- Lo poteva prender su, pòver pritazz! - disse.
Non risposi: se saliva il prete, non saliva San Francesco.
- Già che siamo su la strada, - dissi io, - vi volete fermare
un poco alla Torre?
- Vuole andare a visitare le cantine della Torre? - ridomandò
lui. - Ci va tanta gente. C'è una botte che è grande
come una casa.
- Anzi non entreremo nè meno alla Torre. Basta che vi
fermiate un po', e poi giriamo tutt'intorno, di passo. La cosa
farà piacere anche a questa vostra bèstia, che mi pare
non àbbia troppa volontà di andare.... - conclusi
innocentemente.
Se ne ebbe a male. Questo io non dovevo dire. Era una bèstia
eròica la sua. Non disse «eròica»: disse
«di un sentimento, che nemmeno un cristiano! Sa lei quante
mìglia pàssano, adesso, con la stagione dei bagni,
sotto le sue zampe? E senza mai alzare la frusta e senza biada! Che
vale, del resto - concluse - farci delle spese? Già, finita
la stagione, tutte queste pòvere bèstie da piazza sono
destinate alla carretta o al pelatòio. È il gran
sentimento che ha. - «Ah, sì!» - urlò
infine verso di me levando la palma della grossa mano, e: «Va
là, Filopanti!» e sùbito le quattro gambe
ballerine della bèstia affrettàrono premurosamente il
loro ritmo.
- Vede?
- Vedo. E perchè la chiamate così?
Non sapea. La aveva comprata con quel nome.
Sventurata bèstia, se non fossi nata così piena di
natural sentimento - pensavo, - avresti la consolazione di gustare
un po' di biada prima di andare al pelatòio.
Capìtolo XXI.
L'ALLORO ED IL CIPRESSO.
Eravamo giunti alla Torre.
Questa denominazione si dà a una grande tenuta che era ed
è ancora possesso della casa principesca romana dei
Torlònia.
Un gran cancello signorile, un viale in rettilìneo, sparso di
bianco lapillo: il viale tàglia un gran parco folto; in fondo
si vede un palazzo massìccio, che ha sapore di Settecento, di
chiesa, di nobiltà di chiesa; è un po' tetro; è
tutto chiuso. Sopra il palazzo si eleva una spècie di
torretta quadrata, da cui la tenuta tòglie il nome10; e si
scorge da ogni parte. Stemmo un po' lì e poi dissi di girare
attorno.
Si girò attorno: dietro il palazzone vi sono le fattorie, uno
chalet, tutto coperto di rose, una villa ridente, velata, per
così dire, da un filare, sorgente su di un àrgine di
altìssime pioppe frondose. È una grande azienda
agrìcola oggi, la Torre.
«La Torre! la Torre! la Torre!» Questo nome ricorre
nelle poesie di Giovanni Pàscoli con un suono di
spàsimo e con l'insistenza di un'ossessione. «La
Torre!» e nulla più, come se i lettori sapessero che
cosa è la Torre.
Il padre del poeta, signor Ruggero Pàscoli, era ministro di
quella tenuta, e abitava con la numerosa famìglia nel palazzo
della Torre. Era uomo di molta gentilezza d'ànimo e di gran
rettitùdine, della quale virtù, così - diciamo
- pericolosa, è anche testimonianza una làpide che il
principe Don Alessandro Torlònia fece apporre nella chiesetta
gentilìzia della Torre in memòria di quel suo fedele
ministro, e - parrebbe - ad ammonimento altresì del futuro.
Ora un bel mattino d'estate dell'anno 1865, il signor Ruggero
Pàscoli partì dalla Torre: baciò i suoi
piccini, che èrano tutti piccini. Andava a Cesena in
carrettino per affari. Sarebbe tornato la sera: ai bimbi avrebbe
portato bei doni: alle bimbe belle bàmbole.
Andò, tornò, ma non rivide la sua famìglia.
Nel pomerìggio di quel giorno stesso un carrettino col
soffietto alzato per la calura, che veniva al trotto di quella che
il Poeta ricorda, cavallina storna, si fermò alle prime case
di Savignano. Le brìglie èrano abbandonate e la
cavallina pareva domandare soccorso. La gente guardò e vide
un uomo con la testa chinata oramai e sanguinante, e fu riconosciuto
per il signor Ruggero Pàscoli. Un colpo di fucile a
tradimento gli aveva spezzata la testa. Perchè? A quei tempi
uòmini micidiali, dati a disonesti guadagni,
dominàvano in quelle terre di Romagna, e il trovare un uomo
ucciso non era cosa che meravigliasse troppo.
Quella rettitùdine e questa disonestà micidiale si
èrano incontrate in quel giorno d'estate. La gente tacque o
bisbigliò sommessamente; chi poteva avere udito o veduto, non
aveva nè udito o veduto. La Giustìzia fece, per suo
conto, un po' lo stesso; e ben è vero che in quei primi tempi
del nuovo regno la veste polìtica di liberale servì a
tante cose, che con la Pàtria e con la libertà non
avevano nulla a che fare.
Poi la mòglie dell'assassinato stava smemorata sul greppo
della Torre, quello dove sorgèvano le alte pioppe: ella
guardava, la immota, la immensa serenità del cielo nelle
estive sere: ogni tanto, ogni tanto per il cielo corruscava una
vampa di fuoco: èrano i lampi di caldo. Un pìccolo
bambino le era accanto, quegli che fu poi Giovanni Pàscoli.
Guardava anche lui i lampi di caldo.
Ci ricorda lui stesso, in una sua prosa, la madre sul greppo e i
lampi di caldo nella serenità della estiva sera: non egli lo
dice, ma in me rimase la impressione che egli volesse significare la
natura, la quale appare serena, ma ogni tanto la sua pupilla scatta
con un lampo di feròcia.
Poi dìssero a quella donna: «Il vostro uomo fu ucciso,
e ciò è spiacèvole. Ma voi e questi vostri
bimbi che state a far qui? Qui siete di troppo, alla Torre. Avete la
casa vostra a San Màuro. Via, andate alla vostra casa. Vi
ritirate quieti e parlate poco».
Andàrono. I piccini otto; la madre nove. Questo fu per
settembre, il giorno della Madonna. C'era a San Màuro gran
festa e sparàvano i mortaletti. Passò la carrozza coi
figli e la donna dell'assassinato. Un uomo del pòpolo quando
la carrozza passò, disse nella sua indifferente pietà:
Ve' un nid ad farlott! «Vedi un nido di verle!» Poi
venne l'inverno: e la madre faceva in silènzio i
pìccoli àbiti di lana coi grossi ferri: ma non li
potè terminare perchè infermò e morì:
poi, poi cominciàrono a infermare e morire i figli, poi fu
venduta la casa, poi fu dispersa la famìglia. E anche queste
infermità, susseguite da morte, non pàrvero cosa
naturale, essendo gente ben conformata e sana.
E allora?
E allora nei tempi in cui si credeva agli Dei, si sarebbe potuto
imaginare che un qualche Iddio, Dio Pan, Dio Apòlline,
adottasse per suo figliuolo quell'òrfano. «Noi ne
faremo un poeta, un poeta di gran sentimento.» La cosa
è strana, perchè i poeti di gran sentimento non sono
molto frequenti fra noi, così che avremmo un poeta assai
originale; e il Pàscoli, il quale per sua naturale
disposizione era da giòvane disposto al lepore piuttosto, e
all'amàbile e bonària allegria, fu così come al
Dio piacque.
Egli cantò nel suo silènzio, fatto di umiltà,
un pìccolo idìllico canto, ma senza uòmini, e
senza amore, il generatore degli uòmini. Cantava le
ròndini, i nidi, l'erba cedrina, le stelle, i pianeti, le
rose, le cose mìnime e immense, ma senza mai nominare gli
uòmini, così che l'idìllio era quasi doloroso e
pauroso: cantava con uno stupore sacro, con un procèdere
sgomento quasi che paventasse di svegliare l'òcchio feroce
della Natura: la misteriosa sfinge della Natura. Anzi egli la
lodava, questa Natura, nell'ape, nelle rose, nelle ròndini,
nelle stelle: la diceva pietosa e buona. Ed il suo canto era
sìmile al susurro delle andrene che egli vedeva sopra la
tomba della fanciulla; e vedeva anche la fanciulla là sotto
la terra e la chiamò beata, perchè pura di vite create
a morire.
La infantilità dell'idìllio diventava ben
tràgica! Più tardi, è vero, egli nominò
gli uòmini che camminàrono nella stòria; ma
essi èrano senza variazione di stòria; ed èrano
piuttosto ombre che uòmini, i quali dalla guerra della vita
andàvano verso una grande purificazione.
Il Dio Apòlline, o Pan che fosse, aveva inoltre data al poeta
una sampogna, che è un primitivo istrumento pastorale, ma
così sottilmente lavorata con lima d'oro e formata di
così preziosa matèria che ne usciva una
dolcìssima cantilena: la quale si confondeva con l'antico
dolore, per modo che il poeta finì con amare quasi il suo
dolore, perchè non avrebbe potuto liberarsi da questo senza
distrùggere quella sua cantilena.
E con quella sampogna si recava spesso alla casa dei morti, a
consolare i suoi, e altri ancora.
E qui il Dio Pan, o Apòlline, compiva un altro
miràcolo perchè il cimitero si trasfigurava agli occhi
del poeta come fosse stato l'antica ìsola dei beati,
circondata dall'azzurro mare. E anche questa era una consolazione.
Qualche volta poi avveniva che da quella sampogna uscìssero
squilli come dai bèllici oricalchi delle più perfette
orchestre moderne. Sono scherzi che fanno gli Dei, cioè gli
invisìbili. Il poeta aveva un po' di paura dei suoi stessi
suoni, ma quasi se ne compiaceva. Si doleva soltanto - e un po'
infantilmente - quando qualcuno di quelli che si chiàmano
crìtici, voleva smontare la sua sampogna per vedere come era
fabbricata, e se la marca di fàbbrica era ellènica, o
latina, ovvero inglese, o germànica; ma non si
scompòngono, gli istrumenti degli Iddii! E si doleva
altresì quando qualche altro, maestro di lògica, gli
diceva: «Lei si decida o per la sampogna o per il
bèllico oricalco. Majora canamus o minora canamus?» Una
volta anzi avvenne questo fatto curioso che intorno a lui, come
già intorno ad Orfeo, si radunàrono tutte le
bèstie, ma non èran già le tigri e i leoni, ma
èrano i conigli, le pècore e altri animali così
detti ùmili e mansueti. Ad un tratto, la sampogna
squillò, e una voce rimbombò:
«Itàlia!», e fu un fuggi fuggi, e il poeta si
trovò solo con la sua contraddizione vicino, e un puzzo
all'intorno, che egli sinceramente non avrebbe mai sospettato.
Sono scherzi che fanno gli Dei.
Ma con tutto questo avvenne che un bel giorno alla casa del poeta
arrivò una Donna.
Era la fiammante Glòria!
Ella viene sovente da chi non la invoca: tuttavia nella
fattispècie del Pàscoli la cosa è sempre un po'
miracolosa, quando si consìderi il pòpolo
d'Itàlia, che accorre così volentieri ai rimbombi di
piazza o agli spettàcoli còmici, ma difficilmente si
diverte all'autèntica tragicità. Ma questa volta si
era accorto di questo solitàrio che cantava così
dolcemente davanti alla porta dei morti.
Se non che quando la Glòria arrivò, il poeta aveva
già i capelli grigi, e le belle donne, si sa, non
bàciano capelli grigi. Sono scherzi degli Dei, i quali non
dànno mai in terra doni compiuti.
*
Ma il fiaccheraio era tediato di quella troppo lunga mia sosta
davanti al greppo e alle pioppe luminose. Io tacevo. Ma non taceva
l'ànima romagnola del fiaccheraio. «Quella gran villa
chiusa, tutta proprietà di un solo padrone, con tanti
poderi»..., e lui doveva pagare l'affitto per due buchi di
càmere! Ciò lo esasperava.
Pazienza, amico; e spera nell'avvenire!
Gli dissi infine che si poteva avviare verso San Màuro.
Si avviò. Ma la sua ànima rimaneva esasperata. -
Guarda qua! guarda là, boia de Signor! - diceva ogni tanto.
Dovunque si volgesse lo sguardo, èrano tutte fattorie con lo
stemma della casa Torlònia; pìngui campi: gran verde,
fuor della terra nera: case colòniche patriarcali, fra
pagliai giganteschi: melagrani rossi, eliotropi gialli, tutti i
fiori della fiammante estate.
Non si poteva dar pace il fiaccheraio che tanta ricchezza fosse per
uno solo.
Io gli parlai allora mansuetamente della vanità di
così sterminata ricchezza. Lo assicurai che a me avrebbe
fatto paura tanta ricchezza nè avrei saputo come
amministrarla. A lui non faceva paura, e quanto ad amministrarla ci
avrebbe pensato lui. Poi gli parve che io lo beffassi; e
perchè cercavo di persuaderlo che io non lo beffava, disse: -
Lei svària! - che vuol dire: «Lei va nelle
nùvole».
«Sì, anche. Anzi non dico di no.
Eppure se non ci fòssero stati gli uòmini che vanno
nelle nùvole, voialtri camminereste ancora su quattro
zampe!»
*
Le casette basse di San Màuro ci vènnero incontro. La
vettura balzò sull'acciottolato. Entrammo nel borgo.
Ho bussato alla casa del dottor Grigioni.
L'arrivo inatteso di un forestiero che si presenta in carrozza,
gènera un pìccolo scompìglio nel ritmo
sèmplice di una buona casa di villàggio. Io ne fui
mortificato. La mòglie del dottore, una giòvane
signora, che venne ad aprire, mi parve anche più mortificata
per l'assenza di un salotto, oppure perchè il dottore non era
in casa. Carlo non c'era. - Carlo non c'è! Oh, se avesse
imaginato.... Ma forse è ancora in paese. - Ed ella
lanciò Eros, il figlioletto, a cercare se il babbo fosse
nella farmacia. Lanciò anche Iris, la figlioletta.
Ma Iris tornò annunziando dolorosamente che nella rimessa non
c'era più la bicicletta.
- Allora si vede che è andato per qualche vìsita
d'urgenza, ma fra poco ritornerà.
La signora, quella buona pìccola signora, con quella sua
ùmile squillante voce càndida, parea come mandare
messaggi aèrei per la campagna: «fa presto, Carlo!
C'è qui quel signore tuo amico, che è venuto a
trovarti».
Mi offerse pavidamente di entrare. Io dissi che intanto sarei andato
a vedere la casa del Pàscoli....
- E intanto Carlo verrà; e tu Iris, e tu Eros, accompagnate
il signore....
- Dove, mamma?
- Giù in fondo alla contrada, dove è la casa dove
è nato il Pàscoli....
- La casa del poeta! - esclamàrono sùbito Iris ed
Eros.
- Ma sì, la casa del poeta - disse la signora. Pregai che non
si disturbàssero: ma ella mi fece osservare che era
mèglio vi fossi andato accompagnato; così i
proprietari non avrèbbero detto nulla.
- Tu, Iris, sai fare a dare qualche spiegazione....
Anche Eros disse che sapeva fare.
- Be', le darete un po' per uno.
Dunque andammo. E Iris ed Eros saltellàvano davanti a me.
I calzolai del borgo, col deschetto fuori, battèvano il cuoio
su la pietra: un fornàio sfornava il pane, il pane a crocette
caro al pòvero Pàscoli: più lontano, in mezzo
alla via, uòmini e donne circondàvano una di quelle
zingaresche pesciaiuole di Bellària; la quale si stava
appollaiata, alta, su le coffe del pesce, in vetta al suo baroccino
sgangherato. Giovanìssima ella era; ma garriva che
facèssero presto, garriva con violenza, perchè il
pesce si corrompe col sole. «E vi do, oggi, o pòpolo,
da mangiare per niente!» dicea. Bene gli uòmini le
gettàvano parole salaci. Ma ella teneva fronte a quei motti,
e pur non cessava dal contare il rame ed il nichel su le
pìccole palme, limate dall'acqua del mare. - Va là,
Marcòn! - disse quand'ebbe finito: e lanciò la sua
rozza, disperata lei e la rozza, pel lungo viàggio nell'arsa
campagna.
«Poeta! che cosa suona poeta e casa del poeta fra questa
gente?» dicevo fra me.
L'ombra del fiaccheraio, allora, mi si appressò.
- Se lei - disse delicatamente, e con bel garbo - se lei si ferma
molto per i suoi affari....
- Vi ho già detto che non ho affari....
- Insomma, per quello che ha da fare. Non vòglio sapere i
suoi interessi....
- Ebbene?
- Stacco la bèstia, e lei mi trova qui all'osteria. Mangio un
pezzo di pane....
- E pigliate un altro aperitivo, - dissi. - Va bene. Ed ecco il
franco per l'aperitivo e pel pane. È questo che volevate
dire?
Questa volta ci eravamo intesi: non però pienamente;
chè lui parve dire: «lei ha l'ària di farmi una
elemòsina; invece è un franco di più che mi
viene». Questa gente è nata veramente contàbile!
Lui si avviò verso l'osteria; io, preceduto da Iris e da
Eros, andai alla casa del poeta.
- Eccola là - disse Iris.
La casa natia di Giovanni Pàscoli è una casetta
all'estremità del borgo, verso la campagna: è ad un
solo piano; gentile, bianca, con le persiane verdi, i coppi
spioventi: ma il giardino è grande all'interno.
Iris ed Eros quando èbbero detto: - La casa del poeta! -
naturalmente si fermàrono.
I proprietari della casa non dìssero nè
«entrate», nè «cosa volete?».
La casetta era ancora, come una volta, circondata di fiori: erba
cedrina, gerani, rose e poi un grande alloro cupo e scuro.
Lì, fra quei due bimbi, un po' incantati per la soggezione; e
la gente della casa che andava, veniva, badava alle sue faccende
sogguardàndomi ogni tanto come si guarda un importuno, e quel
cupo àlbero d'alloro.... mi colse una gran depressione di
spìriti.
Pensavo alla Glòria dei poeti.
Intanto un uomo era balzato dalla bicicletta.
- Il papà - dìssero festosamente Iris ed Eros.
Era il dottor Grigioni: non un barbuto e grave uomo, ma un
giòvane uomo sèmplice, vivo, cortese.
Egli mi spiegò quel poco che c'era da spiegare.
Ma io sentivo che la depressione aumentava dentro di me. Il giardino
pieno di fiori era triste ai miei occhi come il prato dell'asfodelo,
per cui gli antichi imaginàrono andare i morti: l'alloro
aveva una immobilità cupa e dolente. Dove sei tu ippogrifo
dalle brìglie d'oro su cui volò il giovanetto nel suo
gran sogno di vita? Casetta, nido di allòdole fra il grano,
triste tu mi apparivi allora come un nido abbandonato.
- Andiamo, andiamo, dottore - dissi.
- Non vuol vedere il museo?
- Ah sì; ma non importa.
- Già che è qui....
*
Andammo a vedere il museo. Esso è nel Municìpio. Iris
ed Eros fùrono mandati a prèndere le chiavi.
Andàrono di corsa, ridenti. Il fiaccheraio beveva e mangiava
all'osteria: lo vidi beato, immoto, col vermìglio vino
davanti.
Aprimmo il Municìpio chiuso: entrammo.
Nel silènzio, nel sole, nel caldo chiuso della sala del
Consìglio, dominava un immenso ingrandimento
fotogràfico, già sbiadito, grande come mezza parete,
con una sfacciata cornice dorata: Giovanni Pàscoli in toga ed
ermellino: i suoi pòveri baffi càdono giù, la
sua stanca persona cade giù. Come è melancònico
Pàscoli in veste accadèmica!
Io volevo uscire, all'aperto; e lui, il dottore, voleva che almeno
vedessi una cosa che giudicava di un certo interesse. Mi parve
scortesia rifiutare e rimasi.
Nel museo c'era ben poco: in uno scaffale le òpere del
Pàscoli, rilegate, allineate, poi una cuna o lettuccio di
legno, la vècchia zana romagnola dove stèttero i figli
dell'assassinato: poi dentro un'altra vetrina una leccarda
dell'arrosto, un caldanino di còccio e fiorami, una
màglia di lana non finita, coi ferri dentro.
Il dottore cercava entro una grossa busta fra molte carte.
Quel caldanino, quella leccarda, quella cuna, che ora sono lì
nella morte, un tempo fùrono nella vita. Casa di Ruggero
Pàscoli; mensa familiare, ùmile santa mensa fiorita di
tanti bambini; mensa tepente odorosa; parva domus, nido sospeso;
primavera anche nell'inverno! E Cristo veniva a quella mensa. Poi
una schioppettata, e Gesù Cristo non potè
difèndere.
Mi tornàvano a mente le parole di Monaldo Leopardi: la
spezzata corona delle giòvani olive, che èrano
allegrezza e decoro della paterna mensa.
*
- Usciamo, caro dottore.
Egli cercava ancora.
- Ma che cerca?
- Una cosa curiosa.
Egli tranquillamente cercava nelle buste, e a me intanto
rifiorìvano questi versi alla madre:
....Fioccava senza fine,
e tu fra i ceri, con la morte accanto,
sentendo gli urli della tramontana,
parlavi ancora delle tue bambine,
cui non potevi, non potevi intanto
cucire i pìccoli àbiti di lana.
- Ah, ecco - disse il dottore che aveva trovato - ; e mi venne da
presso, e mostràndomi un ritrattino che aveva mezzo occultato
nella mano, domandò:
- Questo chi è?
- Giovanni Pàscoli - risposi naturalmente.
Quello infatti che il dottore mi mostrava era un ritratto di
Giovanni Pàscoli.
Il dottore sorrise; scoprì per intero il ritrattino e disse:
- No, è il padre, Ruggero Pàscoli che aveva, quando fu
ucciso, press'a poco la stessa età del poeta quando l'anno
scorso morì. La somiglianza è così grande che
tutti rispòndono come lei, e questa somiglianza non è
senza significazione. Ma c'è di più: guardi.
Il ritrattino sbiadito rappresentava il signor Ruggero
Pàscoli, sorridente, felice, in mezzo alla nidiata dei suoi
figliuoli, attorno a lui, su le ginòcchia di lui.
- Ma vede! - disse il dottore - . La mano del padre è posata
per protezione e per più intenso affetto su la testa di
Giovannino. Ciò lei può dire che è casuale; ma
ecco un altro ritratto - e ne mostrò un altro, una
spècie di dagherrotipia, dove ancora la mano del babbo sta
posata su quella stessa testolina infantile: - si distingue appena
un po' il nero degli occhi, ma è lui, Giovannino. Questo
voglio dire - continuò il dottore - che vi sono molte cose
che ancora non sappiamo. I crìtici dìssero che il
dolore del poeta per la uccisione del padre era diventato un
sèmplice dolore artìstico. Fu, invece, un dolore vero,
quasi fosse stato egli, insieme col padre, trafitto.
*
Si parlò di altre cose che qui non è il caso di
riferire. - Piuttosto si può dire - disse il dottor Grigioni
- che, nella vita, Pàscoli fu un tìmido, forse un
dèbole verso gli uòmini.
- Forse - risposi; ma poi mi ripresi e dissi: - Ma che cosa sono gli
uòmini? Pochi come lui bussàrono alle porte del
Mistero con tanto ardimento.
- E anche questo è pur vero - disse il dottore.
*
Uscimmo all'aperto, infine. Dopo, del Pàscoli non si
parlò più.
Il dottore volle che entrassi nella sua casa: egli non aveva
vergogna se non aveva salotto. La casa era piena di libri, di fiori;
e dietro la casa c'era un grande orto, ricco dei bei doni della
terra. La signora servì la limonea. Mi pregò di non
guardare la casa: «mio marito mette i libri da per
tutto».
- Come fa, dottore - domandai - , lei uomo di stùdio, a
vìvere qui fra questi?... - E non riuscivo a dire
uòmini.
- Ma tanto qui come a Milano, come a Roma - disse sorridendo il
dottore - son tutti uòmini; è questione di levare un
po' la scorza.
- Non desìdera di lasciare la condotta, trovare occupazione
altrove?
- Non desìdero11.
Ed ecco entrò un villano col cappello in testa e
reclamò il dottore sùbito per la sua donna che
«urlava come una bèstia e la scottava come il
fuoco».
- Ora vengo - gli disse il dottore e a me disse sorridendo: - La
sòlita ipèrbole romagnola. E sono romagnolo anch'io!
- Ma tu non bevi vino! - disse la signora.
Così presi commiato dal dottore, dalla buona signora, da
Iris, da Eros.
*
Il fiaccheraio era pacificato. Passammo davanti al cimitero di San
Màuro: una gran massa scura di cipressi. Ma il fiaccheraio
non se ne accorse; nè parlò parola.
Parlàrono i cipressi e dìssero: - E il cipresso
è uguale all'alloro! -
Era oramai il pieno mezzodì, l'ora in cui il Dio Pan va per i
campi.
Ma forse il Dio Pan o il Dio Apòlline, al cui giudìzio
io mi ero rivolto per corrèggere i giudizi degli
uòmini, non sono anche loro, come la Glòria, mai
esistiti.
E il cipresso era uguale all'alloro!