Luigi Pirandello

 

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Luigi Pirandello (1867-1936)

Nasce ad Agrigento nel 1867, da una famiglia dell'agiata borghesia, proprietaria di una miniera di zolfo. Sia la madre che il padre parteciparono attivamente alla campagna garibaldina in Sicilia. Dopo aver frequentato il liceo classico a Palermo, Pirandello si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dedicandosi soprattutto alla filologia romanza. In seguito a un violento litigio con un docente, si trasferisce a Bonn nel 1889, dove nel '91 si laurea con una tesi sul dialetto di Agrigento. A Bonn resta come lettore d'italiano per un anno. Nel '93 torna in Italia. L'anno dopo si sposa con la figlia di un socio di suo padre. Il matrimonio era stato quasi "combinato". Si stabilisce con la famiglia a Roma ed entra nella vita culturale e letteraria del suo tempo, collaborando a numerosi periodici: stringe amicizia con Luigi Capuana, mentre resta ostile al D'Annunzio. Nel '97 assume, come incaricato, l'insegnamento di Letteratura italiana (stilistica) presso l'Istituto superiore di Magistero a Roma; nel 1908 ne diventa professore ordinario insegnando sino al 1922. Nel 1903 una frana con allagamento distrugge la miniera di zolfo nella quale erano stati investiti sia i capitali di suo padre che la dote di sua moglie, la quale, già sofferente di nervi (sospettava continuamente che il marito la tradisse), si ammalò gravemente, cominciando a manifestare i primi segni di uno squilibrio psichico che la condurrà poi in manicomio. Pirandello reagì a questa situazione conducendo a Roma vita ritirata (per non offrire pretesti alla follia della moglie, ma inutilmente) e lavorando intensamente, anche per far fronte alle difficoltà economiche (insegnava, scriveva e dava lezioni private). Tuttavia, le sue novelle, raccolte poi col titolo Novelle per un anno, e i suoi romanzi (L'esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal e altri), nonché i suoi saggi (in particolare L'umorismo) passarono quasi inosservati.

La celebrità gli giunse soltanto in età matura, quando -a partire dal 1916- si rivolse quasi interamente al teatro. Le sue commedie, talvolta accolte con dissensi clamorosi, si imposero al pubblico soprattutto dopo la fine della I guerra mondiale. Ottennero vasta risonanza Liolà, Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare), Sei personaggi in cerca d'autore, L'uomo dal fiore in bocca, Enrico IV e molte altre commedie. Nel 1921 inizia ad ottenere grande successo anche all'estero (Praga, Vienna, Budapest, Usa, Sudamerica...), oscurando la fama del D'Annunzio. Nel '24 si iscrive al partito fascista, pochi mesi dopo l'assassinio di Matteotti e forte sarà la sua polemica con Amendola. Tuttavia, Pirandello, che si era iscritto solo per aiutare il fascismo a rinnovare la cultura, restandone presto deluso, non si è mai interessato di politica.

Nel '29 il governo Mussolini lo include nel primo gruppo dell'Accademia d'Italia appena fondata (insieme a Marinetti, Panzini, Di Giacomo...): questo era allora il massimo riconoscimento ufficiale per un artista italiano, ma Pirandello non se ne dimostrò affatto entusiasta. Nel '25 assunse la direzione di una compagnia teatrale di Roma, che resterà in vita sino al '28. Nel '34 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura.

Mussolini, attraverso il Ministero degli Esteri, cercò subito di sfruttarne la fama internazionale sperando di usarlo come portavoce estero delle ragioni del fascismo impegnato nella conquista dell'Etiopia. Nel luglio del '35 infatti il drammaturgo doveva partire per Broadway, per rappresentare alcuni suoi capolavori e sicuramente sarebbe stato intervistato dai giornalisti. Ma Pirandello non si prestò a tale servilismo. Durante le riprese cinematografiche de Il fu Mattia Pascal, effettuate a Roma, si ammala di polmonite e muore nel '36, lasciando incompiuto I giganti della montagna. A dispetto del regime fascista, che avrebbe voluto esequie di Stato, vengono rispettare le clausole del suo testamento: "Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il callo, il cocchiere e basta". E così fu fatto.

Ideologia e Poetica

Essendo siciliano, anche Pirandello muove da moduli veristi con novelle paesane, ma da subito il suo verismo è caricaturale e grottesco, inteso a scardinare polemicamente i nessi logici della realtà, soprattutto laddove questi nessi non sono altro che pregiudizi borghesi. I suoi temi di fondo sono già tutti presenti nel suo primo romanzo, L'esclusa (1901) che narra la storia di una donna cacciata di casa dal marito perché ritenuta, ingiustamente, adultera, poi riammessa proprio quando l'adulterio l'ha realmente compiuto. I temi di fondo sono: * il contrasto tra apparenza (o illusione) e realtà (o tra forma e vita), nel senso che l'uomo ha degli ideali che la realtà impedisce di vivere, poiché la realtà si ferma all'apparenza e non permette all'uomo di essere se stesso; * l'assurdità della condizione dell'uomo, fissata in schemi precostituiti (adultero, innocente, ladro, iettatore, ecc.): a ciò Pirandello cercherà di opporre il sentimento della casualità o imprevedibilità delle vicende umane; molte sue commedie rappresentano situazioni inverosimili o paradossali, proprio per mettere meglio in luce l'assurdità dei pregiudizi borghesi; * le molteplici sfaccettature della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla) espresse col "sentimento del contrario" (che è alla base del suo umorismo e che viene utilizzato per vanificare ogni possibile illusione). Pirandello ha una concezione relativistica dell'uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. L'uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e rimpianto). Il borghese si dibatte fra ciò che sente dentro (sempre mutevole) e il rispetto che deve alle convenzioni sociali (sempre fisse e stereotipate). La "forma" o "apparenza" è l'involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci identificano; la "vita" invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni forma. Noi crediamo di essere "forme stabili" (personalità definite): in realtà tutto ciò è solo una maschera dietro cui sta la nostra vera vita, fondata sull'inconscio, cioè sull'istinto e sugli impulsi contraddittori.

Parafrasando un titolo di un suo romanzo, si potrebbe dire che noi siamo "uno" (perché pretendiamo di avere una forma), "nessuno" (perché non abbiamo una personalità definita) e "centomila" (perché a seconda di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso). L'uomo, in definitiva, è soggetto al caso, che lo rende una marionetta, che gli impedisce di darsi una personalità. Ogni personaggio teatrale è immerso in una tragica solitudine che non consente alcuna vera comunicativa: sia perché il dialogo non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi, ma solo di confermare l'assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi reciprocamente è fondato sull'astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori comuni, ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D'altra parte, questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di Brecht, Ionesco, Beckett..., dandogli una rilevanza mondiale. Il "sentimento del contrario", tuttavia, potrebbe portare al suicidio o alla follia, se assolutizzato. Pirandello evita questa soluzione affermando che in un'epoca decadente, dove tutto è relativo, solo un'arte umoristica è possibile, un'arte cioè che sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza però che tutto questo divenga oggetto di riso. L'uomo non può far di meglio: ecco perché merita compassione. L'umorista non solo denuncia il vuoto della società borghese, le costruzioni artificiose con cui cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi, ma ha pure pietà dell'uomo che si comporta così, condizionato com'è dal più generale mentire sociale. Pirandello non ha mai cercato le cause dell'alienazione che caratterizza tutti i suoi personaggi, presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne attribuisce, in modo generico, alla storia e al caso la responsabilità. Solo nel romanzo I vecchi e i giovani scorge nel fallimento degli ideali risorgimentali e borghesi di libertà e giustizia, la causa storica e sociale della moderna crisi d'identità.

Aspetti critici

Pirandello ha sì trasmesso la percezione di una realtà come illusione, come insignificanza dell'esistenza umana, come forma impossibile di una verità delle cose, ma, per non apparire tragico, ha usato, a sua volta, l'illusione dell'ironia, dell'umorismo, con cui far credere di poter sopportare tutte le assurdità del vivere quotidiano. Non c'è novella, se non le ultime, in cui, nel mentre si denuncia il non-senso della vita borghese, non si plauda al fatto che, usando lo strumento illusorio dell'ironia, si possa fingere che quella realtà non abbia contraddizioni così inconcepibili da renderla insopportabile. Se il contenuto della novella o della commedia avesse dovuto portare al suicidio, non avrebbe certo potuto avere un riconoscimento così vasto. Per Pirandello l'umorismo è stato senza dubbio una valvola di sfogo, un modo per uscire dalla depressione, dalla crisi esistenziale del periodo giovanile, ma è stato anche un'operazione di marketing, che gli ha permesso di conseguire un successo mondiale. Egli aveva fiutato la possibilità d'arricchirsi sfruttando proprio le debolezze della società borghese, trasfigurate magistralmente in chiave comico-ironica, per quanto sempre all'interno di una cornice amara, che in fondo serviva per non rendere troppo surreali le proprie trame (cosa che avrebbe reso difficoltosa l'identificazione coi protagonisti). Pirandello aveva trovato un filone d'oro e s'era messo nella condizione ideale di poter produrre lingotti in serie, come la Zecca del Tesoro, semplicemente limitandosi a fare variazioni sul tema. La sua era davvero una recitazione a soggetto, come nella gloriosa commedia dell'arte, con la differenza che gli attori ripetevano le battute decise da lui. Il cosiddetto "sentimento del contrario", usato in tutta la sua produzione, ha spesso un carattere alquanto artificioso, funzionale all'esaltazione dell'ironia. Non è una constatazione che parte dalla realtà, anzi, viene usato per attenuare se non mistificare le vere contraddizioni sociali. E' una mera operazione intellettualistica, usata ad arte, allo scopo di produrre una sorta di effetto speciale. Pirandello è come un prestigiatore dei diversi casi della vita, i quali, sotto la sua penna, da normali diventano assurdi, e quando sono davvero assurdi, nella realtà, vengono fatti rientrare, grazie all'ironia, nella inevitabilità quotidiana, caratterizzata da un tragicomico non-sense, in quanto la fatalità negativa non è un'eccezione ma la regola. L'eccezione, al massimo, è la casualità positiva, che però, proprio perché eccezione, è destinata a durare poco, anche perché, se durasse troppo, impedirebbe la trasformazione magmatica della realtà in scrittura e quindi proprio il trucco dell'illusionista. Pirandello ha potuto fare questo proprio perché se fosse rimasto in Sicilia non avrebbe potuto avere uno sguardo ironico su quella stessa società borghese che lui criticava e che aveva devastato l'isola in maniera infinitamente peggiore di quanto avevano fatto i Borboni. Andando invece a studiare all'estero e vivendo prima a Roma e poi ovunque il successo lo portasse, egli aveva saputo tenere insieme, in maniera originalissima, la concezione meridionale assolutamente negativa della vita borghese, con quella forma di distacco autoironico che aveva la piccola-borghesia urbana, nazionale e, sarebbe meglio dire, europea, se non addirittura occidentale, poiché il successo ch'egli acquisì fu stupefacente, essendo funzionale a un sistema sociale e politico che aveva bisogno di un grande personaggio (in tal caso un letterato e commediografo) che sapesse ironizzare sulle contraddizioni sociali della borghesia, soprattutto dopo che questa aveva portato l'umanità alla catastrofe della I guerra mondiale. Un intellettuale come lui non poteva però interessare i regimi nazi-fascisti, proprio perché questi volevano sfruttare le debolezze della borghesia in chiave politica e ideologica, al fine di creare una società borghese più forte, più coerente, più convinta della propria superiorità a livello mondiale. Pirandello poteva interessare al fascismo solo fino al punto in cui evitava di proporre soluzioni non-borghesi alle contraddizioni del capitalismo, ma non poteva più tornare comodo quando, di fronte a quelle stesse contraddizioni, assumeva un atteggiamento rassegnato, rinunciatario. Inevitabilmente, sotto questo aspetto, il fascismo gli preferì D'Annunzio e il nazismo considerò "degenerata" la sua opera. E altrettanto inevitabilmente la critica letteraria lo ha voluto collocare tra i decadenti (non foss'altro che per il suo opportunismo politico nei confronti del regime, ma ovviamente non solo per questo). Tuttavia non s'è compreso a sufficienza ch'egli aveva voluto fare della sua visione ambigua delle cose, in forza della quale non si può mai essere sicuri dove stia la verità e dove la finzione, un'occasione di business e di riscatto personale, che nulla aveva a che vedere con gli aspetti introversi della letteratura borghese decadente (alla Svevo, per intenderci). Pirandello non è un uomo che di fronte alle contraddizioni sociali prova una sofferenza che va in profondità, ma è senza dubbio un intellettuale che le sa utilizzare come forma di autoaffermazione: non si piangeva addosso come il Verga. In questo senso resta modernissimo e, se si vuole usare la parola "decadente", lo si deve fare non in riferimento al suo modo di gestire la cultura, ma solo al rifiuto consapevole di andare sino in fondo nell'analizzare il malessere della vita sociale. Pirandello ha saputo teorizzare la follia restando lucido sino alla fine, perché aveva capito, vedendo il consenso "folle" del pubblico, che poteva giocare su questo argomento realizzando una notevole fortuna e uscendo finalmente dalla tetraggine del meridionalismo autoflagellante. Il meglio di sé non lo dà certo quando mette alla berlina la cultura meridionale, quella cultura che gli impediva di affermarsi socialmente.

L'adesione al fascismo

«Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l'Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario» Questa è una parte del messaggio, datato 17 settembre 1924 (pubblicata su « L'Impero » il 19) che Luigi Pirandello inviò a Mussolini nel periodo di massima incertezza e di massima debolezza del regime che stava instaurando e realizzando, stravolgendo le istituzioni nazionali. Tre mesi prima (il 10 giugno), Giacomo Matteotti era stato rapito e poi presumibilmente subito dopo assassinato da un gruppo di squadristi capitanati dal tristamente noto fascista fiorentino Amerigo Dumini. L'adesione ha comunque radici lontane, si può risalire anche al 1893 e ai Fasci siciliani, ma sicuramente possiamo risalire alla guerra e alla prigionia del figlio Stefano a Mauthausen e alle vicissitudini "militari" dell'altro figlio, Fausto. Agli occhi di Pirandello certamente la classe politica italiana, che aveva retto le sorti del Paese dal 1890 in poi, era responsabile di una Grande Guerra che aveva toccato nell'intimo ogni persona, con morti, feriti e prigionieri, distruzioni e miseria nuova aggiunta alla miseria vecchia, e si era dimostrata incapace di risolvere i problemi del paese e ancor peggio, di capire i bisogni e i problemi del paese (pensiamo ad esempio a cosa pensavano i politici del "paese reale").

L'adesione è innanzitutto un atto d'accusa contro quella classe politica che era partita dallo scandalo della Banca Romana. Al contrario, il fascismo si poneva come l'unica formazione in grado di rompere con il passato e di risolvere i problemi, e qualcosa in questa direzione viene pur fatto, se pensiamo ad esempio all'istituzione della "Cassa mutua" e della pensione di vecchiaia che pone la legislazione sociale italiana all'avanguardia fra le nazioni civili e successivamente alla legge di riforma agraria. Ma pur esistendo questa adesione apparentemente totale, una adesione che non sarà del resto mai ritirata, i rapporti tra Pirandello e il Fascismo sono tormentati e contraddittori, e direi anche influenzati da vicissitudini personali (il proprio successo e quello di Marta Abba e la creazione di un Teatro Nazionale).

Il Fascismo aveva sicuramente bisogno della figura di Pirandello per nobilitare la propria immagine, e credo che Pirandello pensasse veramente di aver bisogno di un Governo decisionista per realizzare la grande idea di un teatro italiano che avesse respiro e valore europeo e mondiale. Alla fine di settembre Pirandello viene ricevuto da Mussolini che gli assicura una sovvenzione di 250.000 lire (anticipandogliene 50.000) per il Teatro dei "dodici", che diventerà il "Teatro d'Arte" che avrà sede all'Odescalchi completamente ristrutturato. Ma Pirandello aveva una personalità ed esprimeva un'arte che mal si adattavano alle direttive e allo spirito del fascismo, perché erano aliene da qualsiasi orientamento o linea di condotta dittatoriale. Pirandello nel 1924 arriva per il Fascismo al momento giusto; non è il salvatore della patria fascista, ma la sua fama e il suo essere personaggio ormai internazionale vengono sfruttati in maniera profonda. Sono mesi in cui viene coinvolto anche pesantemente non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale ed artistico senza esclusione di colpi. Ed è in questo clima esacerbato che fa un passetto indietro: non ritira nulla della sua decisione, ma cerca di riconquistare la sua dimensione innanzitutto di artista.

Il 1925 è un anno importante nella sua storia umana e artistica: realizza la compagnia del Teatro d'Arte, e conosce Marta Abba (che il 25 febbraio firma il contratto): è la svolta decisiva della sua vita e del suo stesso teatro. Marta Abba in breve conquisterà il drammaturgo fino a identificarsi in una immagine vivente del teatro pirandelliano: il successo dell'uno sarebbe stato il successo dell'altra. Le due passioni diventano intimamente connesse e in qualche modo interdipendenti, tanto da cancellare o mettere in secondo piano tutto il resto, perfino i figli. Gli anni dal '24 al '26 sono quelli in cui si realizza in maniera più evidente la sua volontà di adesione al fascismo, e sono descritti in modo chiaro e corretto da Gaspare Giudice nelle pagine della biografia, che abbiamo riportato nel sito. Preso dalla propria situazione familiare (ci riferiamo soprattutto alla malattia della moglie e al suo internamento in una casa di cura, dove resterà fino alla morte avvenuta nel 1953, che provoca un senso profondo di solitudine e di smarrimento) e dallo sviluppo del suo teatro, non ha molto tempo per rendersi veramente conto della situazione sociale e politica dell'Italia dei primi anni dell'avvento del Fascismo: Mussolini ha un'aura e un credito particolari, i sentimenti popolari erano spaccati in due metà simmetriche: da un lato il fascismo, dall'altro il comunismo, in mezzo la borghesia che alla fine sceglie di stare dalla parte del fascismo per istinto di sopravvivenza: gli ideali della sinistra restano fissati nel cielo degli ideali e smarriscono la possibilità di creare quelle fondamenta culturali indispensabili per potersi realizzare in una concreta realtà politica di governo. La Sinistra esce disorganica e divisa dal conflitto, colpevolizzata per come è entrata e colpevolizzata per come ne è uscita, scavalcata dagli alleati e soprattutto dagli avvenimenti senza una linea accettabile di politica governativa e lacerata da discussioni e divisioni interne che rischiano di farla implodere. Ci riferiamo soprattutto alla sinistra che esce dilaniata dal Congresso di Livorno del 1921, spaccata e senza un leader politico di un certo carisma e in grado di avanzare proposte coinvolgenti, proprio mentre la Destra trova un personaggio nuovo e spericolato e senza grandi ideali.

Ed è un personaggio che nasce proprio da una piccola costola della Sinistra disorientata, della quale conosce gli atteggiamenti culturali, le analisi precise degli umori della società, il substrato di violenza imparato in anni di guerra, le delusioni cocenti del primo dopoguerra, ed è quindi un personaggio che cerca sulle prime di usare gli stessi atteggiamenti politici della Sinistra, riuscendo a inquadrare quella violenza in squadracce colle quali conquista il potere sgominando l'opposizione e mettendo a tacere la stampa avversaria, come era accaduto in altre nazioni europee di diverso colore, ma mantenendo intatto il potere economico nelle mani di chi lo deteneva già, quello stesso potere economico che era stato prodigo di mezzi materiali e monetari. La scelta della borghesia è stata netta e precisa, tra il rischio dell'essere spogliata di tutto e la possibilità di portare al potere con forti sovvenzionamenti chi avrebbe potuto evitare quel nulla e la distruzione di tutta la classe imprenditoriale: ogni mezzo sarebbe stato lecito, perfino la figura di Machiavelli viene spesso tirata in ballo e chiamata a sostegno (es.: Matteotti, Machiavelli Mussolini e il fascismo, articolo sull'English Life) Ma nel contempo i mali morali del fascismo cominciavano a diventare sempre più evidenti, e i quattro anni trascorsi fuori dall'Italia dal '28 al '32 in "volontario esilio" gli faranno capire molte cose.

Già dal 1927 Pirandello comincerà a distinguere tra la propria disinteressata adesione e il comportamento spesso "gaglioffo" di molti che mangiavano e si saziavano nella mangiatoia fascista senza produrre nulla di buono; anzi distruggendo il Teatro italiano, come il "famigerato" Paolo Giordani (impresario teatrale, consigliere delegato della società teatrale Suvini-Zerboni e della Società Finanziaria Italiana per la gestione di aziende teatrali e commerciali e della società del Teatro Drammatico), più volte accusato da Pirandello di essere il losco despota dei trusts che monopolizzavano i teatri italiani,per lungo tempo protetto da Bottai, condannato nel 1935 a cinque anni di confino ma riabilitato dallo stesso Mussolini dopo pochi mesi. Egli sa di essere considerato dai fascisti come un corpo estraneo, nel senso che i suoi atteggiamenti e il pensiero espresso dalla sua arte non sono allineati alla "filosofia" fascista, e nessuno dei suoi personaggi, neanche lontanamente, esprime l'atteggiamento del "libro e moschetto, fascista perfetto". Molti in seno all'apparato politico fascista lo avversano perché sentono, e possono dimostrarlo, che non è un intellettuale fascista, nel senso che l'intellettuale è una persona che, grazie alle sue eccezionali capacità intellettive e conoscenze culturali, con la sua opera e colle sue azioni "esercita una profonda influenza in seno a una classe sociale, a una categoria, a un partito politico, in modo da costituirne la guida, l'elemento dirigente, la mente organizzatrice": l'intellettuale è colui che si pone e si impone al centro della situazione. E a questo proposito Leonardo Sciascia afferma che "L'arte pirandelliana non ha nulla a che fare col fascismo, ma l'uomo sì!", distinguendo opportunamente l'artista dall'uomo. Ma è una distinzione che comunque non soddisfa pienamente, perché quando Pirandello si presenta in camicia nera alle parate fasciste non è solo l'uomo che fa atto di presenza lasciando a casa il Pirandello-artista, ("jeri ... alle 10 son dovuto andare in camicia nera al grande discorso del Duce alla II Assemblea Quinquennale del Regime, e m'è passata così tutta la mattinata", scrive a Marta Abba il 19-3-1934). Fino a che punto è possibile accettare l'affermazione di Leonardo Sciascia? Si tratta forse dell'uomo che ha mire ambiziose di potere (essere a capo del Teatro Nazionale), avere la possibilità di guadagnare moltissimo? Tolto l'uomo, resta la sua arte: ma è quell'uomo che intriga e fa discutere, anche perché quell'uomo è il creatore di un'arte che ha messo al proprio centro giusto i malesseri della civiltà e dell'uomo moderno.

È difficile capire quale sia il motivo che spinge Pirandello ad avanzare la richiesta di adesione al fascismo e le intime motivazioni della mancata sconfessione di quell'adesione, come altri personaggi fecero (Croce aveva ad esempio votato la fiducia al Governo Mussolini, ma capisce e sarà tra i primi a votare il Manifesto antifascista), pur avendo alla fine del 1927 strappato e gettato a terra la tessera del fascismo in una burrascosa lite "con il Segretario del Partito, il quale aveva sul tavolo una voluminosa documentazione di ritagli messi insieme da Enrico Corradini sull'atteggiamento di Pirandello all'estero", che lo aveva convocato per chieder ragione di quel comportamento così poco ligio al fascismo. Le decisioni prese in alto dovevano essere seguite supinamente e nessuno avrebbe potuto mai manifestare anche il dissenso più piccolo. Questo atteggiamento ambiguo tra l'adesione e lo spirito di critica e di indipendenza è il nodo gordiano, che ognuno può risolvere a modo proprio, perché per scioglierlo forse non basterebbe nemmeno capire a fondo l'uomo e i suoi sentimenti. E che Pirandello fosse perfettamente consapevole dell'impossibilità di rimanere indipendente e che il fascismo avesse ormai esteso i suoi tentacoli ad ogni aspetto della vita pubblica fino a determinare perfino il modo di pensare e di agire della gente è dimostrabile: basta leggere queste righe scritte a Marta Abba da Berlino il 27 settembre 1936: «fin da jersera son venuti a trovarmi due agenti, Ahn e Simrok, divenuti ormai, col nuovo regime, i primi di Berlino e della Germania, i quali sono animati dal proposito di fare una rinascita del mio teatro qui e mi hanno offerto condizioni vantaggiosissime. Alfieri ha promesso loro che ne avrebbe parlato domani o doman l'altro col Göbells che gli si dimostra amico. Se verrà l'autorizzazione, l'affare è fatto. Qua ci vuole l'autorizzazione per tutto; e per tal riguardo si sta molto peggio che da noi. »

Ma quando capisce, e questo avviene già a partire dal '27, che l'essenza morale del fascismo è negativa almeno quanto quella della incapacità della vecchia classe politica dirigente, perché non sconfessa la sua adesione? Pirandello di fronte alla vita è nudo come i suoi personaggi, e ciascuno di noi può rivestirlo dei panni che ritiene più ovvi e naturali: e per noi resta un mistero il suo atteggiamento più intimo. Vien da dire: è difficile conoscerlo! Di fronte alla politica svolge il ruolo passivo dell'osservatore, tanto che il regime non lo mostrerà mai come un fiore all'occhiello, e addirittura in molte occasioni, come nel 1929, gli mette i bastoni fra le ruote impedendo la rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto. Ma quale importanza e significato avrebbe assunto una sua eventuale sconfessione? In quanti modi diversi sarebbe stata giudicata quella sconfessione? Resta la sensazione che comunque col passare degli anni e coll'aumentare del suo terribile senso di solitudine, un atto pubblico del genere sarebbe stato assolutamente inutile. Mussolini non organizzerà mai una serata in onore di Pirandello, come quelle tributate a Stoccolma, a Parigi, a Londra, a Praga, a Berlino, a New York: il fascismo non ha bisogno di Pirandello per tirare avanti ma Pirandello ha bisogno del successo, sia artistico che economico, per tenere avvinta a sè una parte di Marta, che era più importante del fascismo e dei figli e della vita stessa...

Le azioni di Pirandello sono dettate innanzitutto dal lavoro, dalla necessità: questa è una idea, "orma" come la chiamerebbe Pirandello, che bisogna sempre tenere ben a mente per cercare di portare a unità due elementi così diversi tra loro che obiettivamente non possono stare uniti: da un lato l'adesione al fascismo, con le connotazioni negative che questo regime ha avuto sin dall'inizio insieme a quelle che ha assunto nel corso del ventennio della sua esistenza, fino a sfociare nella guerra come spinto da una forza inerziale insita nella sua stessa formazione culturale e genetica, e dall'altro l'arte di Pirandello, il Maestro come viene definito, un'arte così lontana dall'obbedienza e dal gregariato, così libera e incondizionabile. È questa, fra le tante contraddizioni che agitano l'anima e la vita dello scrittore siciliano, la più grande e profonda, la meno scandagliata ma anche la meno comprensibile, che lascia meravigliati e un po' sgomenti tutti coloro che sono lontani dal fascismo. gli incontri con Mussolini Dal '24 Pirandello ha incontrato parecchie volte Mussolini (la prima l'abbiamo già vista). Ma cosa pensa di lui? Lo scopriamo in una lettera che scrive da Parigi a Marta Abba, il 14/II/1932, che in quel momento si trovava a Roma insieme alla sorella Cele, anch'essa attrice: Mi dispiace molto, Marta mia, che Tu mostri tanto rammarico per una delusione, che io avevo prevista e m'aspettavo. L'uomo è quello che io t'ho descritto, credi, e non merita perciò codesto Tuo rammarico: ruvida e grossolana stoffa umana, fatta per comandare con disprezzo gente mediocre e volgare, capace di tutto e incapace di scrupoli. Non può vedersi attorno gente d'altra stoffa. Chi ha scrupoli, chi non soggiace, chi ha il coraggio di dire una verità a fronte alta, ha "brutto carattere". E pur non di meno, io riconosco che in un tempo come questo "brutale", della storia politica e sociale contemporanea, un uomo come lui è necessario; necessario, mantenere il mito che ce ne siamo fatto, e non ostante tutto, credere e serbarci fedeli a questo mito, come a una durezza indispensabile che in certi momenti sia utile imporre a noi stessi. Non bisogna dunque rammaricarsi, né aspettarsi da lui ciò che non può dare: quali e per chi siano le sue simpatie, quali le sue aspirazioni (anche nel campo dell'arte) l'ha dimostrato. Sopportare le offese che queste sue simpatie e queste sue aspirazioni recano al nostro amor proprio è la vera prova del disinteresse con cui noi ci serbiamo fedeli al suo mito. Proprio Mussolini aveva detto che Pirandello "ha un brutto carattere". Eppure quel che il Nostro pensa e scrive in privato, non è la stessa cosa di quel che dice in pubblico. E per il suo carattere è anche questa una ben strana contraddizione. Tra tante illusioni perdute, nella consapevolezza lucida e amara, talvolta confessata nelle lettere, di un modo di essere del fascismo lontano dal suo modo di essere e dalle sue aspettative, resta un'adesione che non verrà mai ritirata...

Nel 1929 Pirandello viene nominato Accademico d'Italia, mentre si trova a Berlino «in volontario espatrio», come scrive a Marta Abba; la nomina comunque, al di là del fatto che lusinga Pirandello nel suo orgoglio, viene in un momento particolare della sua vita; quando, cioè, il perdurare della sua lontananza dall'Italia avrebbe potuto arrecare un qualche danno all'immagine del Fascismo all'estero. Pirandello nulla brigò perché il suo nome figurasse nella lista dei primi trenta Accademici d'Italia...

Ma la soddisfazione della nomina è grande comunque, come forse la speranza che finalmente avrebbe potuto fare qualcosa di importante per per sè e soprattutto per Marta, come sappiamo da altre fonti. ..

. La lusinga della nomina ad Accademico lo solletica, e, sentendosi attratto dall'onore, stimolato dalla rara carezza del regime, risponde all'appello del fascismo e lascia il volontario esilio di Berlino per presenziare alla prima assemblea dell'Accademia, conscio del molto che può dare e speranzoso di quello che si potrebbe realizzare. Ma i risultati non saranno pari alle attese, e la delusione sembra cocente

Dal 7 marzo Pirandello è In Italia, impegnato alla Farnesina per i lavori dell'Accademia, noiosi, ma utili per allacciare o riallacciare rapporti con chi bazzica nelle anticamere del potere, e più d'uno gli riferisce (soprattutto il Marpicati) che il Duce "vede male che io stia all'estero e specialmente a Parigi", scrive a Marta. All'improvviso. il 13 marzo, Mussolini riceve Pirandello, a Palazzo Venezia. Nell'incontro, nessun accenno a Marta, si parla soprattutto della fondazione del Teatro Drammatico di Stato: il Duce gli chiede di spiegare il progetto che aveva in mente, arrabbiandosi perché non gli era stato presentato e chiedendogli di fargliene avere una copia scritta che l'avrebbe studiata attentamente...

Nei mesi seguenti ci saranno momenti in cui Pirandello avrà la quasi certezza che il progetto sarebbe stato realizzato, ma non andrà mai in porto, anche perché il regime preferirà finanziare il cinema che prometteva di avere ben altro impatto sulle masse che non il Teatro. Il sogno di un organismo teatrale attivo e vivo in Italia rimase sulla carta e Pirandello, rimanendo ancorato al passato, non credette fino in fondo allo straordinario sviluppo che avrà il cinema, pur individuandone l'importanza, perché non credeva realizzabili le possibilità enormi e rapide di sviluppo tecnologico che univa musica, recitazione immagini accogliendo in sé tutte le possibilità espressive dell'arte umana, e soprattutto non gli viene in mente che Teatro e Cinema sono due arti che avrebbero potuto benissimo convivere, ciascuna in un ambito, delimitato sì ma invalicabile...

Le cose per il suo progetto teatrale, per motivi politici, di beghe e profonde invidie oltre che economici, vanno per le lunghe e i tempi tendono a dilatarsi sempre più. Alla fine non se ne farà nulla.