Ferrero, Guglielmo

 

Txt.: Grandezza e decadenza di Roma

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Sociologo e storico italiano (Portici 1871 - Mont-Pélerin, Ginevra, 1942).

In collaborazione con C. Lombroso, scrisse La donna delinquente (1893); svolse poi sul Secolo di Milano e altrove attività di scrittore politico. Voltosi agli studî storici, in Grandezza e decadenza di Roma (5 voll., 1902-07) presentò la storia romana, dai Gracchi ad Augusto, essenzialmente come riflesso di complessi fattori economici, diminuendo così il valore degli uomini di solito considerati suoi protagonisti: Cesare, Pompeo, Augusto. L'opera, apprezzata dal vasto pubblico, anche fuori d'Italia, fu invece avversata dagli specialisti. Antifascista, nel 1930 si stabilì a Ginevra, dove insegnò storia della Rivoluzione francese e storia contemporanea.

Altre opere: La ruine de la civilisation antique (1921); Roma antica, in collab. con C. Barbagallo (3 voll., 1921-22); Le donne dei Cesari (1925); romanzi storici (Le due verità, 1926; La terza Roma: la rivolta del figlio, 1927; Gli ultimi barbari. Sudore e sangue, 1930); la trilogia: Aventure, Bonaparte en Italie (1936, trad. it. 1947); Reconstruction, Talleyrand à Vienne (1940, trad. it. 1948); Pouvoir (1942, trad. it. 1946). ]

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Guglielmo Ferrero nacque a Portici (Napoli) il 21 Luglio 1871. La famiglia era però torinese; il padre Vincenzo era ingegnere presso le ferrovie ed era quindi spesso lontano dal Piemonte per ragioni di lavoro. La madre si chiamava Candida Ceppi.

Nel 1891 era già laureato in giurisprudenza presso l'ateneo di Torino (dopo aver iniziato gli studi a Pisa) e in lettere presso l'università di Bologna (dove diresse per breve periodo un giornale universitario).

A fine ottocento è già elemento di spicco del mondo intellettuale italiano. È del 1897 il saggio L'Europa giovane che scrisse nei sei mesi di domicilio coatto trascorsi a Ulzio, inflittigli per essersi schierato a favore dei moti contro la reazione crispina. Il libro è il risultato di viaggi attraverso l'Europa che toccarono Germania, Russia, Svezia Norvegia. Il confronto tra la cultura latina e quella germanica è il filo conduttore del saggio che ha un taglio eminentemente giornalistico. La conclusione, inusuale per l'epoca, è la grande considerazione per la cultura germanica nella quale, secondo Ferrero, il ruolo femminile ha posizione decisamente diversa.

Non c'è dubbio che la frequentazione dell'ambiente positivistico e i contatti con Peano e Vailati, la collaborazione con Lombroso sfociata nella stesura di La donna delinquente (1893) e, soprattutto, il legame intellettuale instaurato con la figlia di quest'ultimo, Gina Lombroso (della quale divenne il marito nel 1901) hanno forte influenza su questa presa di posizione. Forgiato nelle proprie idee da questi importanti contatti culturali approdò a una visione repubblicana radicale già espressa nel saggio del 1895 Il fenomeno Crispi e la reazione.

Nonostante si sia letto talvolta notizia diversa, Ferrero non aderì mai al socialismo, pur avendone sostenuto talvolta le ragioni e condiviso talune battaglie.

Nel 1898 pubblica Dieci conferenze sul militarismo dove propone e affina la sua distinzione tra patriottismo, inteso come elemento fondante della vita nazionale, e nazionalismo, bruttura del pensiero utilizzata dall'imperialismo per far accettare le degenerazioni militariste.

Dal 1897 collabora attivamente con "Il Secolo", giornale milanese di ispirazione liberale-radicale.

Il grande successo internazionale dell'opera Grandezza e decadenza di Roma (pubblicata in cinque volumi tra il 1901 e 1907 – l'edizione integrale definitiva è tuttavia in sei volumi e in lingua francese) prontamente tradotta, oltre che – appunto – in francese, anche in inglese, gli apre la strada per la notorietà internazionale e lo porta a viaggiare spesso non solo in Europa, ma anche in America del Nord e in America latina per impegnativi cicli di conferenze.

Sergio Romano afferma che Ferrero è, alla vigilia della prima guerra mondiale, l'autore italiano vivente più noto e tradotto assieme a Gabriele D'annunzio.

I temi sempre presenti nei suoi scritti e nelle sue conferenze sono quelli della crisi del liberalismo ottocentesco, che s'era consolidato nella democrazia parlamentare di stampo anglosassone, che si andava evolvendo in militarismo, pauperismo, macchinismo, autoritarismo. Anche la sua grande opera sulla storia di Roma va vista come una riflessione attenta sulla decadenza di una grande civiltà, il tutto mentre imperava l'ottimismo sul progresso e sulla civiltà occidentale. Si tratta dei temi che percorrono i due volumi in lingua inglese, Characters and Events of Roman History (1909) e Ancient Rome and Modern America (1914) che raccolgono le idee esposte in due cicli di conferenze tenute negli Stati Uniti. La più compiuta esposizione di queste riflessioni si trova nel testo Tra due mondi (1913). L'eco di queste riflessioni è anche presente nel carteggio con un altro importante intellettuale e pensatore dell'epoca: Gaetano Mosca.

Nell'ambito della tendenza largamente maggioritaria che si coagulava attorno alla figura di Giolitti e che vedeva affermarsi la posizione neutralista, solo una minoranza nazionalista chiedeva l'intervento a fianco degli imperi germanico e austro-ungarico per ottenere, con Nizza, Savoia e Corsica, anche le colonie dell'Africa mediterranea francese e inglese dal Marocco all'Egitto. Al contrario i circoli radicali repubblicani irredentisti chiedevano di entrare in guerra contro Vienna e Berlino e questa posizione seguì per breve periodo anche Ferrero.

La politica tesa a portare l'Italia nello schieramento franco-anglo-russo, culminata col ritorno in Italia di D'Annunzio (all'estero per debiti ma in condizioni finanziarie floride al suo rientro in Italia) ha il suo culmine nelle cosiddette «radiose giornate di maggio» del 1915, infiammate dai discorsi del poeta abruzzese. Il paese è trascinato al grande massacro da una minoranza di generali e affaristi, mentre prendono anche forma tutti gli strumenti e i metodi di quella che poi sarà la politica fascista, null'altro che imitazione del modello dannunziano.

Di tutto questo Ferrero è testimone lucido e attento e si vede l'evolvere del suo pensiero tramite la lettura degli articoli del "Secolo" e di alcuni testi, brevi e spesso in forma di libello, tra i quali La vecchia Europa e la nuova (1918), Memorie e confessioni di un sovrano deposto (1920), La tragedia della pace (1923) Da Fiume a Roma (1924), La democrazia in Italia (1925), L'enigma democratico (1926). Si tratta di testi di opposizione, di denuncia, mentre il fascismo avanza verso il potere mettendo in atto le tecniche di propaganda consolidate dai metodi dannunziani: nazionalismo, terrorismo, militarismo.

Proprio da questi testi si verifica come l'antifascismo di Ferrero fosse decisamente anteriore al delitto Matteotti, contrariamente all'antifascismo crociano e di tanta altra parte del mondo intellettuale e della cultura in Italia. Di nuovo si ha conferma di questo leggendo il carteggio nel periodo 1921-24 con l'amico Gaetano Mosca: «Mussolini sta usando la grande paura borghese del bolscevismo, non per restaurare, attraverso la repressione squadrista del 1920-23, lo stato laico liberale, bensì per imporre una dittatura, sostenuto dai poteri forti esterni al parlamento: corona, chiesa, grande industria e finanza, allo scopo di impedire lo sviluppo democratico del paese intorno al parlamento».

Nel 1925 Guglielmo Ferrero collabora al volume antologico Giacomo Matteotti nel primo anniversario del martirio.

Tra il 1924 e il 1929, per ben tre volte è vicinissimo a vedersi assegnato il premio Nobel per la letteratura grazie a un prestigio intellettuale internazionalmente consolidato.

Dal gennaio 1925, soppressa nei fatti la libertà di stampa, a Ferrero è impedita la collaborazione giornalistica; "Il Secolo" è ormai un giornale filo-fascista e Ferrero si vede ritirato il passaporto e di fatto rimane confinato in una sua proprietà agricola presso Firenze. Qui, nell'impossibilità di ogni altro lavoro, anche a continuare la sua riflessione sulle cause che avevano prodotto in Italia il fascismo, lavora a un romanzo che ripercorre gli anni tra le guerre d'Africa (1880-90) e lo scoppio della prima guerra mondiale. Sarà in quattro volumi, pubblicati i primi tre in Italia (Milano, 1926, '27, '30), il quarto nel '36 in Svizzera, dov'era riuscito a trasferirsi con la moglie (i due figli, Leo e Nina si trasferirono invece a Parigi – Leo morì giovane nel 1933 in un incidente stradale in Messico e il padre curò la pubblicazione della sua opera poetica); infatti nel 1930 Mussolini, incalzato da pressioni internazionali, aveva dovuto concedergli di espatriare per una conferenza all'università di Ginevra. A Ginevra insegnerà storia contemporanea tenendo corsi annuali all'università fino alla morte avvenuta improvvisamente a Mont-Pèlerin, 3 agosto 1942.

Fu sepolto accanto al figlio nel cimitero di Plainpalais, a Ginevra; la moglie Gina sopravvisse a lui ancora due anni.

Dal 1930 Guglielmo Ferrero è un anche autore di lingua francese. In questa lingua scrive i tre saggi storici che concludono la sua produzione di studioso: nel 1936 pubblica a Parigi Aventure, Bonaparte en Italie: 1796-7 (ed. it. Milano 1996), e nel 1940 Reconstruction: Talleyrand à Vienne (ed. it. Milano 1999); nel 1942, a New York, Pouvoir: Les génies invisibles de la cité (ed. it. 1946, 2a 1982). Piero Flechia afferma: «Il Ferrero diventa scrittore di lingua francese perché la sua è una riflessione che non può circolare in area fascista, tanto che, con il nazifascismo padrone in Europa, nel 1942 neanche in Svizzera c'è chi osi stampare Pouvoir, che compare in prima edizione presso l'editore americano dell'autore.»

Cinquant'anni dopo, nella prefazione ad Avventura, il già citato Sergio Romano constatava: «Ferrero è un classico esempio della distrazione e della trasandatezza con cui la cultura italiana amministra il proprio patrimonio». Ma giustamente sempre Piero Flechia si domanda: «per la cultura italiana della prima repubblica, una cultura egemonizzata da cattolici e marxisti dagli anni '50 fino a tutti gli anni '80, Guglielmo Ferrero era un patrimonio?». Il non essere mai stato socialista (pur avendo sostenuto con grande determinazione le lotte operaie di fine ottocento) e l'aver denunciato i limiti dogmatici del marxismo, aver visto, tra i primi, la catastrofe che era diventata, per i popoli russi, la rivoluzione bolscevica, gli impediva di far breccia nella cultura accademica di sinistra cristallizzata attorno allo studio del pensiero gramsciano. Anche più determinata a cancellare il pensiero laico-liberale è stata l'area della cultura cattolica. In questo modo possiamo farci una ragione del perché l'opera di Ferrero si sia iniziata a ristampare solo verso la fine degli anni '90. La ripresa dello studio dell'opera e del pensiero di Ferrero era stata avviata in un convegno in Francia a metà anni '60 nel quale intervenne Norberto Bobbio. Nel 1980 la Giuffrè edita il carteggio Mosca-Ferrero, con la prefazione di C. Mongardini.

Ma l'ostracismo per Ferrero è naturalmente più antico. Ancora Flechia dice: «...prima di quello fascista e quello cattomarxista, e quasi a precorrerli, agli inizi del secolo XX aveva conosciuto l'ostracismo della cultura accademica. Una cultura universitaria che nel 1910-11 si oppose compattamente all'assegnazione al Ferrero di una cattedra di storia nell'università di Roma.

Davanti a una tale chiusura corporativa, l'allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti, conosciuto il fatto, dichiarò: "Le cattedre universitarie non sono state create per gli accademici, ma per la nazione, che non può rinunciare a uno studioso di prestigio quale il Ferrero". E ordinò al ministro della pubblica istruzione di procedere, poiché rientrava nelle sue competenze, ad assegnare al Ferrero, per chiara fama, una cattedra. Il ministro creò nell'università di Roma, per il Ferrero, la cattedra di filosofia della storia, che però andava finanziata, e quindi il parlamento doveva votare lo stanziamento. Nella primavera del 1913, pur tra molte resistenze, alla camera lo stanziamento passò, ma al senato S.E. don Benedetto Croce insorse proclamando, vera fotocopia del Pangloss volterriano, che "la storia è già filosofia in azione"; non si poteva dunque disonorare agli occhi dell'alta cultura internazionale l'università italiana inventando una tale cattedra, per di più a Roma, e in soprappiù affidarla a uno studioso di retrograda mentalità positivista ottocentesca.»

Principali opere:

Fonti e bibliografia.

Nota biografica a cura di Paolo Alberti.