www.treccani.it
di Alfredo Canavero
Nacque a Milano il 1° genn. 1869, primogenito di nove fratelli,
da Luigi, negoziante di stoffe, e da Luigia Rainoldi.
Il M. frequentò le scuole elementari comunali e poi il
ginnasio-liceo Cesare Beccaria. L’ambiente laico delle scuole
pubbliche non modificò, tuttavia, i suoi profondi sentimenti
religiosi. Culturalmente fu influenzato dalla filosofia tomistica,
assorbita attraverso la lettura del Saggio teoretico di diritto
naturale appoggiato sul fatto di L. Taparelli d’Azeglio (I-V,
Palermo 1840-43). Fin dagli anni del liceo si interessò alla
vita pubblica, aderendo alla sezione giovani di Milano dell’Opera
dei congressi, di cui divenne subito l’organizzatore più
autorevole e il propagandista più prolifico attraverso
conferenze e scritti nel mensile Foglietto volante. Ad appena
diciotto anni iniziò la collaborazione con numerosi periodici
cattolici, come La Scintilla di Venezia, diretta da F. Saccardo,
L’Eco di San Luigi di Milano, divenuto poi Eco della
gioventù, la Rivista monzese, Il Cittadino di Monza e il
Corriere della domenica. Collaborò anche con L’Osservatore
cattolico, il battagliero quotidiano milanese diretto da don D.
Albertario. Dopo un primo scritto dedicato a Le scuole secondarie
governative (14-15 maggio 1887), gli articoli del M. si
moltiplicarono, e il 1° ag. 1893 Albertario gli rilasciò
una lettera di presentazione che lo accreditava come redattore de
L’Osservatore cattolico.
Nella sua intensa attività di conferenziere e di pubblicista,
il M. andò via via precisando un proprio originale pensiero,
distinguendo la causa dei cattolici da quella dei legittimisti, che
auspicavano il ritorno dei detronizzati sovrani preunitari.
Appoggiandosi all’autorità di Leone XIII, che con l’enciclica
Immortale Dei (1885) aveva lasciato ai cattolici libertà
d’opinione sui sistemi politici e di governo, nel 1889 chiarì
che i cattolici non volevano una «Italia in pillole con
relativi duchi e granduchi», bensì una «Italia
forte, grande, indipendente, una anche, ma in pace col pontefice
sovrano effettivo» (Le cinque piaghe del movimento cattolico
italiano, in F. Meda, Fatti ed idee, Milano 1898, p. 15).
La formazione politica del M. fu fortemente influenzata
dall’incontro con G. Toniolo, di cui si dichiarò in seguito
«figlio spirituale», pur non condividendone sempre le
scelte. A partire dal 1893 collaborò alla Rivista
internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, fondata
da Toniolo e da mons. S. Talamo, guardando con grande attenzione
alle esperienze dei cattolici del resto d’Europa. Sempre nel 1893
fondò –insieme con don U. Benigni, A. Mauri e don L. Cerutti
– La Rassegna sociale, che aveva come programma la
«cristianizzazione dello Stato, rigettando il principio e la
pratica tanto dello stato ateo quanto del gioseffista»
(Programma del comitato promotore della Rassegna sociale, in La
Rassegna sociale, 1° luglio 1893, p. 3).
I sempre più pressanti impegni politici e giornalistici,
tuttavia, non ritardarono la carriera universitaria del M., che nel
luglio 1891 si laureò in lettere presso la R. Accademia
scientifico-letteraria di Milano discutendo una tesi su «Il
melodramma e Rinuccini». Si iscrisse poi all’Università
di Genova, dove prese una seconda laurea in giurisprudenza (novembre
1893), con una tesi sulle vicende storiche delle corporazioni di
arti e mestieri del Comune di Milano, poi pubblicata (Le
corporazioni milanesi d’arti e mestieri, Milano 1894). Nel frattempo
adempì gli obblighi militari, raggiungendo il grado di
sottotenente. Sostenuti gli esami per divenire procuratore legale e
poi avvocato, il 1° maggio 1896 aprì a Milano uno studio
legale in società con A. Cameroni. Il mese successivo
sposò Maria Annunciata Branca, da cui ebbe due figli,
Gerolamo, nato nel 1897, e Luigi, nato nel 1900.
Avendo compiuto la sua formazione dopo la fine del potere temporale
dei papi, il M. non respingeva l’ipotesi di accettare l’Unità
d’Italia con Roma capitale. Per lui la richiesta della
sovranità territoriale del pontefice era legata alla
volontà di questo, sicché «se domani il papa
giudicasse diversamente per ipotesi, noi cesseremmo di volerla e di
domandarla» (Noi e gli altri, in Fatti ed idee, cit., p. 49).
Tali prese di posizione sconcertarono i più anziani esponenti
del movimento cattolico, ma per il M. ben più importante del
potere temporale erano la riconquista cristiana della
società, attraverso la soluzione della «questione
sociale», e la pace religiosa del Paese. Anche
sull’astensionismo elettorale, considerato quasi un dogma dalla
dirigenza dell’Opera dei congressi (G.B. Paganuzzi, G. Sacchetti, i
fratelli Jacopo, Andrea e Gottardo Scotton ecc.), vi erano
divergenze. Per il M. il non expedit doveva essere interpretato
però come una fase contingente, transitoria, che serviva per
educare i cattolici al buon uso del voto, secondo la formula
«preparazione nell’astensione» che da tempo Albertario
predicava.
Il M. si dedicò quindi con particolare attenzione alle
elezioni comunali, fondando nel 1890 una organizzazione permanente,
la Associazione degli elettori cattolici, che dotò di un
proprio organo di stampa, L’Elettore cattolico milanese. Grazie
anche a una certa spregiudicatezza nello stringere accordi
elettorali coi cattolici transigenti e con alcuni moderati, il M.
riuscì a fare eleggere nel 1893 quattro cattolici nel
Consiglio comunale di Milano. L’anno successivo i cattolici si
presentarono da soli, con un programma che, oltre all’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole, prevedeva il decentramento e
l’autonomia dei Comuni e delle Province, il riposo festivo,
l’abolizione delle tasse comunali più gravose e una migliore
gestione dei servizi pubblici, raccogliendo un numero di suffragi
non troppo inferiore a quello ottenuto dai moderati e dai radicali,
i due principali gruppi politici milanesi. In occasione delle
importanti elezioni amministrative generali del 1895 il M. si
giovò della posizione di forza acquisita dai cattolici e
concluse con i moderati un «contratto» che, senza
snaturare la fisionomia del gruppo cattolico e senza trasformarsi in
una alleanza, garantisse l’accettazione dei punti qualificanti del
loro programma. Per i moderati l’accordo con i cattolici era
essenziale, dovendo fronteggiare una lista composta da socialisti e
radicali. La lista clerico-moderata ebbe successo, ma il gioco delle
preferenze impedì a molti candidati cattolici l’accesso a
palazzo Marino, ingenerando parecchio malcontento. Le
capacità organizzative e manovriere del M. avevano comunque
dato buona prova e indussero la dirigenza dell’Opera dei congressi,
che pure considerava con molta perplessità alcune sue idee,
ad affidargli il compito di comporre una guida pratica per gli
elettori cattolici, che con il titolo Catechismo elettorale
teorico-pratico fu pubblicata a Milano nel 1895.
Con una interpretazione estensiva delle encicliche di Leone XIII (la
Diuturnum del 1881, la Immortale Dei del 1885 e la Libertas del
1888), il M. accettava le forme democratiche e difendeva le
istituzioni rappresentative dello Stato liberale italiano. Fu quindi
decisamente contrario ai tentativi autoritari di F. Crispi,
così come, in seguito, a quelli di A. Starabba di
Rudinì e di L. Pelloux.
«Dopo l’esperienza fatta in cinquant’anni io credo che ben
pochi protesterebbero – scriveva nel 1896 – se oggi per esempio a
Crispi venisse il ticchio di sbarrare per sempre Palazzo Madama e
Montecitorio e di far procedere l’amministrazione dello Stato con
decreti reali. Tra questi pochi però, prego i lettori a
credere, ci sarei io» (Parlamentarismo e sistema
rappresentativo, in Riv. internazionale di scienze sociali e
discipline ausiliarie, 1896, marzo, p. 4).
In seguito ai moti milanesi della primavera del 1898 e alla
repressione che ne seguì, il M. fu costretto ad allontanarsi
da Milano per sfuggire all’arresto. Dopo la fine dello stato
d’assedio, condannato al carcere don Albertario, il M. assunse la
direzione de L’Osservatore cattolico e, per rilanciare il giornale,
chiamò a collaborarvi i più brillanti giovani del
movimento cattolico, da don R. Murri ad A. Mauri, da G. Micheli a P.
Arcari.
L’Osservatore cattolico divenne il giornale dei democratici
cristiani e si interessò sempre più ai temi economici
e sociali e alla vita politica in Italia e all’estero. Senza cessare
la lotta al liberalismo, il M. sottolineava che le istituzioni
rappresentative non erano cattive in sé, ma lo diventavano
per lo spirito liberale di cui erano imbevute. Compito dei cattolici
era quello di impadronirsene, per modificarle dall’interno in senso
cristiano e sociale, naturalmente non appena il pontefice avesse
permesso la partecipazione alle elezioni politiche. Occorreva
armarsi di pazienza e scoraggiare le accelerazioni di molti
democratico cristiani insofferenti del conservatorismo dell’Opera
dei congressi, all’interno della quale era necessario restare.
Il M. fu quindi contrario alla fondazione del Fascio democratico
cristiano di L. Necchi e S. Bassi (estate 1899), come pure alle
«fughe in avanti» di Murri e dei suoi amici. Nel 1899
ebbe con Murri una polemica giornalistica sul rapporto tra Chiesa e
Stato.
Murri riteneva lo Stato uno strumento del dominio delle classi
superiori e chiamava i cattolici a combatterlo per eliminarlo. Il M.
era invece convinto che lo Stato fosse uno strumento necessario per
la vita sociale, che andava quindi conquistato e riformato in senso
sociale e cristiano.
Per superare i contrasti tra i vecchi dell’Opera dei congressi e i
giovani democratico cristiani, Leone XIII emanò nel febbraio
1902 le Istruzioni, che imponevano di inquadrare il movimento
democratico cristiano nell’Opera dei congressi. Mentre alcuni
giovani si sentirono sconfessati e meditarono di abbandonare la
lotta, il M. cominciò a pensare come trarre vantaggio dalla
nuova situazione. Dopo la morte di don Albertario nel settembre del
1902, era rimasto unico direttore e proprietario de L’Osservatore
cattolico, cui tolse le asprezze di modi e di tono che lo avevano
caratterizzato nel passato, per sostituirvi un linguaggio molto
più diplomatico e prudente, portandolo a una tiratura di 8000
copie.
Eletto nel Consiglio provinciale di Milano per il mandamento di Rho,
poco dopo, nel giugno 1902, entrò nel nuovo comitato
permanente dell’Opera dei congressi, contribuendo all’elezione del
conte G. Grosoli alla presidenza al posto di Paganuzzi. Il M.
sperava che fosse possibile modificare la vecchia organizzazione
cattolica dall’interno, garantendo il successo della linea
democratico cristiana. La morte di Leone XIII (20 luglio 1903) e
l’elezione al pontificato di G. Sarto con il nome di Pio X
impedirono tale soluzione; quando nel luglio 1904 Grosoli
emanò una circolare, stesa in realtà da mons. G.
Radini Tedeschi e dal M., in cui si affermava che il programma
dell’Opera dei congressi era quello democratico cristiano,
L’Osservatore romano intervenne per sottolineare che la circolare
non era del tutto conforme alle istruzioni pontificie. Grosoli si
dimise e pochi giorni dopo Pio X sciolse l’Opera dei Congressi (28
luglio 1904).
In quei giorni il M. aveva invitato a Milano alcuni esponenti del
movimento cattolico per fondare una organizzazione di elettori
amministrativi a livello nazionale. Non a tutti il momento parve
opportuno, visto quanto era appena successo, ma, nonostante la
contrarietà di G. Toniolo, S. Medolago e N. Rezzara, a Milano
il 4 ag. 1904 giunsero alcune fra le più significative
personalità del mondo cattolico italiano: L. Sturzo, G.
Micheli, A. Mauri, F. Crispolti, A. Bürgisser. Fu fondata
l’Unione nazionale tra gli elettori cattolici amministrativi, che
non riscosse però un grande successo, attaccata per opposti
motivi sia dai democratico cristiani sia dai conservatori, per non
parlare dei sospetti della S. Sede, che temeva si volesse fondare un
vero e proprio partito politico in vista dell’abolizione o della
attenuazione del non expedit alle elezioni politiche che si
sarebbero dovute tenere nella primavera successiva.
Avendo G. Giolitti anticipato le elezioni al novembre 1904 per
sfruttare le reazioni antisocialiste suscitate dal primo sciopero
generale italiano del settembre precedente, Pio X permise una
attenuazione del non expedit, che condusse alle candidature di C.O.
Cornaggia Medici a Milano e di A. Cameroni a Treviglio. Anche il M.
fu candidato nel collegio di Rho, ma, per evitare le accuse di voler
forzare l’abolizione del non expedit che i Paganuzzi e gli Scotton
erano pronti a lanciargli, tenne un atteggiamento passivo.
Ciononostante sfiorò il ballottaggio, raccogliendo il 30% dei
voti.
I cattolici avevano affrontato le elezioni del 1904 in maniera
dispersa e confusa e ciò convinse il M. che fosse necessario
organizzare un partito politico che si presentasse alla prossima
scadenza elettorale con un programma proprio e non a sostegno di
altri. In un discorso tenuto a Rho il 28 dic. 1904 auspicò la
costituzione di un partito cattolico non confessionale,
«riformatore e moderatamente progressista», non
più dedito a difendere esclusivamente gli interessi religiosi
e i diritti lesi del pontefice, ma al servizio di un programma di
«pace religiosa, di libertà politica, di giustizia
sociale». Il modello doveva essere il partito cattolico della
Germania, il Zentrum. Il nuovo partito avrebbe dovuto comprendere
diverse tendenze, accettare lo Stato liberale italiano e le sue
istituzioni e combattere i socialisti, ma senza l’ossessione
antisocialista dei moderati. Quanto alla «questione, assai
impropriamente detta romana», il M. ribadiva che essa era di
esclusiva competenza del pontefice: «Né la sua
potestà sarà mai diminuita dalla presenza in
Parlamento di uno o più deputati cattolici, perché
questi, come tutti i deputati, non riceveranno il mandato dalla
Santa Sede, ma dai loro elettori» (Il discorso dell’avv. M. a
Rho. I cattolici italiani nella vita politica, in L’Osservatore
cattolico, 29 dic. 1904).
Le idee del M., diffuse attraverso L’Osservatore cattolico,
causarono diverse polemiche coi settori più conservatori
dell’intransigentismo, ma permisero un riavvicinamento al gruppo dei
transigenti milanesi, che facevano capo al marchese Cornaggia Medici
e al suo quotidiano La Lega lombarda. Divenne così possibile
pensare alla fusione dei due giornali, auspicata tanto dal papa
quanto dall’arcivescovo di Milano, il cardinale A. Ferrari. Superate
non poche difficoltà, il 14 dic. 1907 comparve nelle edicole
il primo numero de L’Unione, così chiamato per ricordare
l’invito di Pio X a compiere l’unione dei due giornali. Il M. rimase
direttore e proprietario del nuovo giornale, mentre Cornaggia Medici
fu posto a capo del consiglio d’amministrazione.
La vita del quotidiano non fu facile. Il M. cercò di farne un
quotidiano moderno, attento ai temi della politica e di facile
lettura. Il pontefice lamentava invece che non parlasse abbastanza
della situazione «iniqua» imposta al Papato, che i temi
religiosi fossero trascurati, che si occupasse troppo di politica,
recensisse libri moralmente discutibili e non mostrasse rispetto per
periodici «veramente religiosi». Le accuse del papa
vennero immediatamente riprese dai giornali cattolici più
tradizionalisti e il M. dovette anche intentare causa a
L’Unità cattolica, giornale fiorentino appartenente alla S.
Sede, che aveva accusato L’Unione di tendenze moderniste, riportando
frasi che il giornale milanese mai aveva scritto. La causa fu
discussa a Firenze il 9 giugno 1909 e dette ragione al Meda.
Ciononostante, la vita de L’Unione continuò tra ostacoli e
perplessità: Pio X, in una lettera all’episcopato lombardo
del 1° luglio 1911, lamentò che il giornale non
sottolineasse abbastanza il fatto che libertà e indipendenza
erano negate alla Chiesa in Italia.
Le critiche del pontefice non furono senza conseguenze sul piano
economico e nel 1912 il M. fu costretto a cedere il quotidiano alla
Società editrice romana, fondata nel 1907 da Grosoli, che
già pubblicava altri giornali cattolici, tra cui Il Momento
di Torino, L’Avvenire d’Italia di Bologna e Il Corriere d’Italia di
Roma. Con il nuovo nome L’Italia, e sotto la direzione di P. Mattei
Gentili, il 25 giugno 1912 uscì il primo numero del
quotidiano. Al M. restò solo la rubrica politica del
giornale.
Nel frattempo alle elezioni generali del 1909, con oltre il 66% dei
voti, il M. era stato eletto deputato nel collegio di Rho, che dal
1902 già rappresentava al Consiglio provinciale di Milano.
Alla Camera si caratterizzò per interventi concreti, privi di
retorica, che gli guadagnarono la simpatia anche di anticlericali di
vecchio stampo. Doveva però fare attenzione a non destare
sospetti di scarsa ortodossia nella S. Sede e in certi ambienti
cattolici. In aula intervenne più volte a favore di una
riforma dello Stato che garantisse una maggiore autonomia ai Comuni
e alle Province, secondo una linea tradizionale del movimento
cattolico. Durante la discussione della legge Daneo-Credaro, nel
1910, sostenne l’opportunità di mantenere ai Comuni la
gestione della scuola elementare, perché lo Stato doveva
basarsi sui governi locali, più vicini al sentire della
popolazione e più attenti ai suoi bisogni fondamentali. Fu
favorevole all’estensione del suffragio elettorale e
all’introduzione del sistema proporzionale, per permettere la
formazione di veri e propri partiti e spostare la lotta politica dal
piano personale a quello delle idee e dei programmi. Per sostenere
l’introduzione del sistema proporzionale, nel 1911 fondò,
assieme con esponenti del socialismo e del radicalismo,
l’Associazione proporzionalista milanese. La riforma elettorale
giolittiana del 1912, invece, pur introducendo il suffragio quasi
universale maschile, mantenne in vita il sistema uninominale.
In vista delle elezioni del 1913 ritenne giunto il momento di dare
vita a un vero e proprio partito cattolico, non dipendente dalla
gerarchia ecclesiastica, che si sarebbe dovuto chiamare Partito
popolare cristiano, con un proprio statuto e programma. L’idea
però non incontrò favore e il M. si dovette limitare a
contribuire alla stesura dei sette punti del cosiddetto Patto
Gentiloni, l’accordo segreto che permise la sospensione del non
expedit in quei collegi in cui i candidati si fossero impegnati a
non votare, qualora fossero stati eletti deputati, leggi contrarie
agli interessi della Chiesa. Il 26 ott. 1913 il M. fu rieletto
trionfalmente nel collegio di Rho, riportando quasi il doppio dei
voti del suo antagonista socialista.
Allo scoppio della guerra mondiale, il M. si schierò per la
neutralità, finché l’invasione tedesca del Belgio lo
indusse ad accettare senza riserve l’intervento. Quando cadde il
governo di A. Salandra e fu composto un ministero di unione
nazionale, il più autorevole parlamentare cattolico non
poteva esserne escluso. Il 18 giugno 1916 entrò quindi come
ministro delle Finanze nel governo guidato da P. Boselli.
Primo cattolico ad assumere un incarico ministeriale nell’Italia
unita, il M. intendeva contribuire a eliminare gli ultimi pregiudizi
contro i cattolici, permettendo loro di diventare finalmente
cittadini a pieno titolo al pari di tutti gli altri. Pur sapendo che
la sua presenza nel ministero avrebbe suscitato aspre critiche,
giudicava però essenziale che il passo fosse compiuto.
Nonostante il parere contrario della S. Sede, decise di accettare,
confortato dal giudizio favorevole di alcuni fra i principali
esponenti del movimento cattolico italiano, come Sturzo, Grosoli o
G.M. Longinotti. Con la sua caratteristica modestia, il M. si
riteneva un umile strumento del disegno provvidenziale:
«È un errore – scriveva a G. Toniolo il 19 giugno 1916
– l’attendere qualche cosa da me: la mia funzione si è
esaurita nell’entrata al governo, perché era questo che
importava alla realizzazione di un disegno che io credo
provvidenziale, cioè che cadesse l’ultima barriera da cui i
cattolici italiani erano ancora segregati, e che impediva loro di
prendere contatto con la vita nazionale[…]: il mio compito – forse
storico – è finito[…] mi chiederanno un giorno che cosa
avrò fatto: io non potrò mai rispondere altro se non
che ho reso possibile ad altri di fare» (lettera citata da F.
Fonzi, F. M. nella storia e nella storiografia del movimento
cattolico italiano, in F. M. tra economia, società e
politica…, p. 37).
Il M. assumeva su di sé la responsabilità di coniugare
le istanze pacifiste e sovranazionali della S. Sede e l’impegno
nella guerra dell’Italia liberale. Alla fine anche in Vaticano ci si
convinse dell’opportunità dell’entrata del M. nel ministero,
pur senza mostrare entusiasmi.
Per il M. i problemi sorsero quando Benedetto XV inviò la
celebre Nota alle potenze belligeranti (datata 1° ag. 1917, ma
effettivamente trasmessa ai governi interessati a partire dal 9) in
cui la guerra veniva definita una «inutile strage» e si
invocava una pace senza vincitori né vinti. In un momento in
cui le sorti della guerra sembravano volgere a favore delle potenze
dell’Intesa, la Nota fu interpretata come un aiuto agli Imperi
centrali o quantomeno come un’indebita ingerenza clericale nella
condotta della guerra italiana che poteva affievolire lo spirito
militare del Paese e spingere al disfattismo. La decisione del
governo italiano di non dare risposta al pontefice mise il M. in
grave imbarazzo. Attaccato tanto dagli anticlericali e dagli
interventisti quanto da molti cattolici, fu sul punto di dimettersi,
quando le drammatiche notizie che provenivano dal fronte orientale,
dove gli Austro-Tedeschi avevano rotto le linee italiane a
Caporetto, lo convinsero a restare in carica anche nel successivo
governo di V.E. Orlando (30 ott. 1917 - 23 giugno 1919).
Come ministro delle Finanze elaborò un progetto di riforma
tributaria, apprezzato da L. Einaudi e di grande modernità,
che cercava di unificare diversi tributi in una sola imposta sui
redditi, affiancata da un’imposta complessiva sul reddito della
famiglia, intendendo con ciò un insieme di persone fisiche
conviventi, ancorché non legate da vincoli di parentela o
affinità. Veniva prevista poi una trattenuta alla fonte del
25% sui titoli azionari. Molto osteggiata, la riforma fu presentata
alla Camera soltanto il 6 marzo 1919 e non ebbe seguito.
Il M. non aderì immediatamente al Partito popolare italiano
(PPI) costituito nel gennaio 1919, sia perché riteneva che un
membro del governo non potesse entrare in un partito sorto dopo la
formazione del ministero, sia perché riluttante alla
disciplina di partito. Solo per le insistenze di molti, tra cui il
direttore de L’Italia, don A. Novelli, si convinse ad aderire
(ottobre 1919), non senza aver contestualmente avviato l’iter di
pubblicazione di una rivista attraverso la quale poter divulgare le
sue idee. Nacque allora Civitas. Riv. bimensile di politica e di
coltura sociale, il cui primo numero uscì il 16 dic. 1919.
Un mese prima era stato rieletto al Parlamento con un grande
successo personale: 42.652 preferenze su un totale di 73.820 voti
raccolti dal PPI nella provincia di Milano. Convinto
dell’inopportunità per i popolari di partecipare al governo,
si lasciò però piegare dalle insistenze di Giolitti,
che lo volle ministro del Tesoro nel suo ultimo governo, entrato in
carica il 16 giugno 1920.
In tale veste contribuì all’approvazione della legge sulla
nominatività dei titoli azionari e si adoperò per una
soluzione concordata nel corso della prima fase dell’occupazione
delle fabbriche, cercando di convincere gli industriali a concedere
gli aumenti salariali e i miglioramenti normativi richiesti dai
metallurgici. Le resistenze degli industriali e l’atteggiamento
neutrale di Giolitti fecero però fallire il suo tentativo.
Stanco della vita politica e nella necessità di dedicare
più tempo all’attività professionale dopo la scomparsa
del socio A. Cameroni, avvenuta nel settembre 1920, il 4 genn. 1921
presentò le proprie dimissioni a Giolitti, accettando
però di tenerle in sospeso fino all’approvazione della legge
che aboliva il prezzo politico del pane. Approvata la legge, si
dimise il 29 marzo 1921. Nel frattempo era stato nominato presidente
della Banca popolare di Milano, incarico che tenne fino al 1927. Fu
anche impegnato a trovare le soluzioni giuridiche migliori
perché l’Università cattolica del Sacro Cuore, fondata
da padre A. Gemelli, fosse riconosciuta dallo Stato.
Alle elezioni del 1921 si presentò di nuovo come capolista
nella circoscrizione Milano-Pavia e fu eletto con 58.568 preferenze
su 101.131 voti andati al PPI. Non volle però assumere
né l’incarico di ministro degli Affari esteri o quello della
Giustizia e affari di culto propostigli da I. Bonomi, né
l’incarico di presidente del Consiglio dopo la crisi ministeriale
del febbraio 1922. Anche nel corso della crisi del luglio successivo
rifiutò l’analogo incarico che gli venne offerto dal re,
nonostante le insistenze di Sturzo e del figlio Gerolamo. Il rifiuto
rese più difficili i suoi rapporti con Sturzo e con A. De
Gasperi.
Dopo la marcia su Roma del 28 ott. 1922 fu contrario, come del resto
Sturzo, alla partecipazione dei popolari al governo Mussolini.
Riteneva però che il PPI non dovesse assumere posizioni di
scontro frontale col fascismo e cercò di impedire la
convocazione del congresso di Torino, che temeva avrebbe portato a
una spaccatura all’interno del partito. Per lo stesso motivo fu a
favore dell’accettazione della legge elettorale Acerbo, anche se non
partecipò alla seduta in cui alcuni deputati popolari,
contravvenendo alla disciplina di partito, votarono per il passaggio
agli articoli. Cercò poi di ottenere la revoca della
conseguente espulsione di costoro dal PPI. Nell’imminenza delle
elezioni del 1924 pose una serie di condizioni per la sua
ricandidatura che indussero il PPI a escluderlo. Rifiutò
però l’offerta di B. Mussolini di entrare nel
«listone» fascista. Non più deputato,
restò vicino al PPI e combatté i clerico-fascisti,
esponendo le sue idee su Civitas fino a quando, a seguito di
ripetuti sequestri della rivista, ne sospese la pubblicazione
(novembre 1925).
Da allora si dedicò alla professione di avvocato, senza
più occuparsi di politica. Solo nel 1927 uscì
dall’ombra per difendere De Gasperi dall’accusa di tentato espatrio
clandestino. Continuò a collaborare a riviste cattoliche con
articoli di carattere storico, rievocando cose e persone di un
passato ormai irrimediabilmente finito, che implicitamente
contrapponeva a un presente in cui non si poteva riconoscere.
Il M. morì a Milano il 31 dic. 1939.