Giuliòtti, Domenico

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Scrittore italiano (S. Casciano in Val di Pesa 1877 - Greve 1956). Passato dall'ateismo alla fede, diede al suo cattolicesimo, specie sull'esempio di L. Bloy, le forme di una vigorosa polemica, sia nel più noto dei suoi libri, L'ora di Barabba (1920), sia, con qualche attenuazione, nei volumi successivi: Tizzi e fiamme (1925); Polvere dell'esilio (1929); Pensieri di un malpensante (1936); Raccontini rossi e neri (1937); Nuovi pensieri di un malpensante (1947), ecc. Ricordiamo inoltre: Dizionario dell'omo salvatico, in collaborazione con G. Papini, rimasto al I vol. (1923); e le Poesie (1932). È stato anche edito (3 voll., 1984-91) l'ampio Carteggio (1913-55) di G. con Papini.

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DBI

di Giuseppe Izzi

GIULIOTTI, Domenico.

Nacque a Luciana, frazione di San Casciano Val di Pesa, presso Firenze, il 18 febbr. 1877 da Giuseppa Aretini e da Francesco, fattore presso la tenuta di Verrazzano, dove il G. trascorse infanzia e fanciullezza, fino alla morte del padre, avvenuta nel 1894. Madre e figlio si trasferirono allora a Greve in Chianti, nella casa dello zio paterno, Virgilio, regio notaio, che si adoperò perché il G. proseguisse gli studi, iniziati nel 1887 e conclusi solo nel 1900, con una licenza liceale conseguita al terzo tentativo. Gli studi universitari, presso la facoltà di giurisprudenza, prima di Siena e poi di Roma, rimasero invece interrotti.

Su questi anni di studi il G. ha lasciato pagine autobiografiche molto amare, sia perché questi furono gli anni della perdita della fede ("Da cattolico diventai mazziniano, da mazziniano socialista, da socialista anarchico", a padre E. Rosa, 2 dic. 1920, in Lettere agli amici, p. 38), sia perché il mondo chiuso della scuola prima e quello scapestrato dell'università poi mal si conciliavano con le sue ancora confuse aspirazioni al rigore morale e artistico.

I primi tentativi letterari del G. furono tutti poetici e sfociarono nella pubblicazione, a spese dell'autore, della raccolta Ombre d'un'ombra (Città di Castello 1910), che bene esprimeva lo stato d'animo di cupo pessimismo dello scrittore in quegli anni (cfr. A. Tilgher, Ricognizioni, Roma 1924).

Intanto, il 29 nov. 1905, il G. aveva sposato a Siena Zina Vestri, figlia dell'architetto Archimede, con la quale si stabilì a Greve, in casa dello zio Virgilio. Da Greve non si mosse quasi mai: l'eredità paterna e quella dello zio, morto il 1° nov. 1912, unite ai modesti proventi dell'attività letteraria, gli dettero di che vivere, sia pur non agiatamente.

Fecero parte del personaggio G. la vita parca, l'inamovibilità da Greve, l'attività di piccolo possidente di due poderi e le settimanali visite a Firenze il venerdì, giorno di mercato e, più tardi, giorno degli incontri con A. Vallecchi e G. Papini.

Tra il 1908 e il 1910 si consolidarono i rapporti fra il G. e F. Tozzi, già avviati a Siena agli inizi del secolo, destinati a durare fino alla morte di quest'ultimo (1920) e che costituiscono il primo grande esempio di quel singolare dono dell'amicizia che il G. ebbe e che toccò, per esempio, personaggi come J. Joergensen e R. Wis o l'intera famiglia di Rina Tirinnanzi, maestra in Greve e poi amanuense e ordinatrice delle opere del Giuliotti.

Il legame con Tozzi fu letterario, etico e religioso e andò dallo scambio di giudizi sulle rispettive opere alla partecipazione solidale alla vita di riviste quali L'Eroica, Il San Giorgio e La Torre, nel periodo che va dal 1911 al 1914.

Mentre la collaborazione del G. a L'Eroica fu ancora tutta di poesie, sulla rivista bolognese Il San Giorgio. Giornale dei nuovi romantici, apparvero gli articoli Controcorrente e La voce di un vandeano (1913), primi significativi documenti del polemista cattolico e del prosatore, e preludio all'imminente avventura de La Torre. Agli anni 1910-13 si può datare, infatti, la "conversione" del G. o, meglio, il suo ritorno alla religione cattolica nelle forme intransigenti ispirate dagli scrittori reazionari francesi del secolo XIX.

"Ritornai, lentamente, a tappe, trattenuto da dubbi, sospinto da speranze, rischiarato da luci improvvise, attirato da richiami angelici, ma ritornai, infine, pentito e redento, tra le braccia di mia madre che m'aspettava da anni, senza aver mai disperato. Ritornai a Dio" (a E. Rosa, 2 dic. 1920, in Lettere agli amici, p. 39).

La Torre. Organo della reazione spirituale italiana uscì il 6 nov. 1913 a Siena, dove furono stampati gli altri tre numeri di quell'anno e i primi tre del 1914, mentre gli ultimi due videro la luce a Firenze, nel maggio 1914, senza la partecipazione di Tozzi. Alla rivista collaborarono, con interventi di diverso peso e misura, F. Paolieri, G. Battelli, J. Joergensen, L. Le Cardonnel, S. Monti; la circolare-manifesto a stampa fu scritta da Tozzi, l'editoriale programmatico, La nostra fede, dal Giuliotti.

Il giornale si presenta come strumento di battaglia contro razionalismo, modernismo, futurismo e contro la modernità in genere: contro, quindi, l'industria e la città e per un ritorno alla religione e ai valori e costumi tradizionali, ritorno simboleggiato nella spiritualità medievale, nell'utopia politica di Dante e anche nell'apprezzamento per gli scrittori toscani del Due e Trecento, in particolare quelli religiosi, e per la loro lingua. Le violente espressioni letterarie con cui tali idee vengono sostenute non nascondono il rapporto di filiazione dalle riviste che, come Il Leonardo e La Voce, erano state strumento della rinascita spiritualista e idealista, a cui si può dire che La Torre togliesse il segno immanente per sostituirlo con uno trascendente. Così, in scrittori che si proclamano poeti, italiani e cattolici, sono espliciti i legami con il nazionalismo, a cui si chiede, anzi, di fare un ulteriore passo verso l'imperialismo, come scrive il G. nell'editoriale per l'ultimo numero della rivista. Tra le reazioni che accompagnarono l'uscita della rivista va ricordata quella di G. Papini, anche perché da quel violento scambio di idee furono gettate le basi della loro futura amicizia.

Richiamato alle armi il 1° dic. 1916, il G. seguì un corso per allievi ufficiali di fanteria a Parma, per prendere poi servizio a Roma, presso il ministero della Guerra, con il grado di sottotenente al segretariato generale dello stato maggiore. A Roma rivide Tozzi, mantenne la corrispondenza con Papini, che incontrò anche di persona, conobbe E. Rosa, direttore de La Civiltà cattolica, al quale, il 2 dic. 1920, scrisse la già ricordata lunga e importante lettera autobiografica. In particolare il rapporto con Papini crebbe di intensità fino a divenire vincolo saldissimo dopo la conversione di quest'ultimo. Della rinnovata amicizia con lui e delle possibilità aperte dalle sue grandi capacità di organizzatore di cultura si videro ben presto gli effetti sull'attività del G., in particolare con l'uscita, presso Carabba (Lanciano 1920, ma il lavoro risale agli anni 1917-18) della Antologia di cattolici francesi del secolo XIX (De Maistre, Bonald, Lamennais, Balzac, D'Aurevilly, Hello, Veuillot, Bloy), e poi, sempre nel 1920, ma a Firenze presso Vallecchi, de L'ora di Barabba, il libro che rivelò il G., non solo ai cattolici ma anche a uomini come P. Gobetti e A. Tilgher. E in effetti gli anni dal 1920 al 1923, con i volumi appena ricordati, la Storia di Cristo di Papini (Firenze 1921) e il Dizionario dell'omo salvatico (ibid. 1923) - il cui primo e unico volume fu scritto insieme dai due scrittori - appaiono cruciali per il consolidarsi definitivo dell'amicizia tra il G. e Papini, per la loro vita interiore e per una parte della cultura cattolica, per la quale i due, con le loro diverse personalità, rappresentarono un costante punto di riferimento, almeno fino alla metà degli anni Trenta.

L'ora di Barabba ebbe cinque edizioni curate dall'autore (dopo la prima, già citata: 1922, 1923, 1925, 1946, sempre Firenze; si veda anche l'ultima a cura di L. Castiglione, Roma 1982, che riproduce anche le pagine soppresse dal G. nell'edizione del 1922) e suscitò vivaci e contrastanti reazioni. Nel volume il G. raccolse testi scritti, ma solo parzialmente pubblicati, tra il 1914 e il 1920, sotto l'impressione di quella crisi generale della civiltà che egli aveva visto delinearsi dai tempi de La Torre e di cui la guerra mondiale gli era apparsa piena manifestazione: "Ricrocifisso Cristo, Rex Regum, tutte le altre sovranità morali, intellettuali e politiche son morte. Barabba, sedizioso e ladro, è il solo, attuale, padrone del mondo" (a B. Sanvisenti, 27 marzo 1920, in Lettere agli amici, p. 29). Del "giuliottismo" - cioè di quel sistema religioso e politico che si configura attraverso l'attività letteraria del G. - una lucida valutazione fu data da Tilgher nel saggio già citato, in occasione della seconda edizione de L'ora di Barabba, in cui bene vengono messi in risalto anche i pregi e i limiti dello scrittore, potente o sforzato a seconda che riesca a mettersi o meno alla giusta distanza dagli oggetti della sua apocalittica visione.

Il Dizionario dell'omo salvatico, ideato da Papini, fu messo a fuoco e avviato a due mani in una memorabile vacanza nell'eremo papiniano di Bulciano: nella forma dell'ordine alfabetico (un unico volume con le lettere A-B, da Abba, Pater a Byron, preceduto da 12 dediche, da Al lettore benigno ad Ai superiori), il Dizionario vuol essere una protesta "contro il mondo moderno, contro il mondo quale s'è venuto disfacendo da cinque secoli a questa parte", assumendo a modelli il Bouvard et Pécuchet di G. Flaubert e, forse ancor più, l'Exégèse des lieux communs di L. Bloy. Artefice e specchio del male del mondo è il borghese, a cui è dedicata apposita voce: "Scaltro e imbecille, audace e vigliacco, profumato e puzzolente, ipocrita e cinico, padrone e servo, miscredente e superstizioso, sanguinario e sentimentale, volatile e quadrupede, ha invaso, infettato, imbruttito e deformato tutta la terra[…] Tutto, inabissandosi nel suo incommensurabile ventre, vi si disfà e putrefà". L'opera, considerata sin dal suo apparire complessivamente infelice per la difficoltà, se non altro, di mantenere un continuo tono polemico se non ricorrendo a un abuso di retorica, è tuttavia assai utile per comprendere la personalità del G., di cui si rivelano predilezioni, letture e gusti artistici. Nel complesso il Dizionario sembrò fare più male che bene alla causa della cultura cattolica, per il tono della polemica e l'inadeguatezza dei bersagli prescelti, come lucidamente osservava don G. De Luca anni dopo (G. De Luca a P. Bargellini, 26 marzo 1930, in P. Bargellini - G. De Luca, Carteggio, I, 1929-1932, a cura di G. Scudder, Roma 1998, p. 44).

Nel corso del 1923 il G. cadde in una crisi drammatica, non la prima né l'ultima; queste crisi, legate anche alla scelta lineare e intransigente che egli aveva fatto al momento della conversione (non si è cristiani al di fuori della Chiesa cattolica, non si è cristiani se non si tende alla santità), furono una drammatica costante della vita del G. e ne paralizzarono spesso l'attività malgrado le sollecitazioni degli amici, primo fra tutti Papini.

Nel 1925 il G. pubblicò a Firenze presso Vallecchi Tizzi e fiamme, libro, come dice l'autore nella premessa, "ancora in parte, barabbesco e salvatico. Ma l'ultimo".

Il volume ha in effetti un carattere riassuntivo dell'attività letteraria svolta dal G. sino ad allora, raccogliendo articoli dal San Giorgio e da La Torre, ritratti di amici e maestri, prefazioni a volumi da lui tradotti e curati o semplicemente presentati.

Tra il 1924 e il 1926 il G. ebbe la momentanea illusione di poter incidere sugli avvenimenti italiani. Alle richieste di collaborazione da parte del mondo della cultura cattolica, da Il Carroccio ad Arte e vita, si aggiunsero, infatti, quelle di parte fascista come avvenne quando, nel 1924, G. Casini, uomo di G. Bottai, gli scrisse invitandolo a collaborare alla sua rivista di imminente uscita, La Rivoluzione fascista.

"Che ne dici? Nel fascismo c'è una piccola corrente che deriva da noi e che potrebbe essere illuminata, guidata e fecondata da noi. No?" (il G. a Papini, 2 maggio 1924). In effetti al G. e al Papini de L'ora di Barabba e del Dizionario guardarono sia il C. Malaparte de L'Italia barbara (Torino 1925), sia il M. Maccari de Il Selvaggio e di "strapaese", sia, infine, il L. Longanesi de L'Italiano. Sulla rivista di Casini il G. pubblicò uno scritto sotto forma di lettera (poi in Polvere dell'esilio, Firenze 1929, con il titolo Il grande cono: "la Chiesa docente è un cono di luce che tocca il cielo dal quale è irradiato e s'imbasa sulla terra"); in quelle considerazioni riaffiorava lo slancio utopistico che era dietro la sua visione apocalittica del mondo: "Il cristiano […] non è né conservatore né rivoluzionario; egli non s'occupa di politica, ma vuole che tutti, indistintamente, mettano in pratica gli insegnamenti di Gesù Cristo […] Inutile occuparsi di riforme; l'uomo si riformi sul Vangelo: e la faccia del mondo cambierà" (a C. Rossi, 19 maggio 1922, in Lettere agli amici, pp. 53 s.).

Queste convinzioni, che erano alla base dell'avversione del G. per le forme di vita organizzate che fossero al di fuori del corpo mistico della Chiesa, come egli considerava, in sostanza, i partiti tutti ma anche l'Azione cattolica o la Federazione universitaria cattolica italiana, spiegano come, in genere, fossero gli altri a cercare la sua collaborazione e come questa non implicasse mai una piena adesione ai programmi delle riviste o dei giornali a cui inviava i suoi scritti.

Accadde così anche per L'Italiano di Longanesi a cui il G. era stato invitato a collaborare in nome della rivoluzione ideale che il fascismo stava compiendo e alla cui base era, come scrisse Casini sul primo numero della rivista, un problema religioso "di rinascita di una sincera e genuina coscienza religiosa romana e cattolica". Ma proprio su questo punto il G. era imprendibile: per lui, che aveva definito la religione della patria "una delle varie forme moderne di idolatria" (a D. Provenzal, 27 giugno 1922, in Lettere agli amici, p. 57), quel "filo-cattolicismo ateo" non presentava soluzioni. La rivoluzione fascista doveva ribattezzarsi in reazione cattolica, mentre, in una visione gerarchica del mondo, indiscutibile doveva essere la supremazia spirituale di Pietro su Cesare: finché tutto ciò fosse stato considerato un sogno "anche dall'estremissima destra fascista", di cui in quel momento L'Italiano era portavoce, "i nemici della Chiesa e del Fascismo potranno continuare a sorridere, perché la loro ultima ora non sarà suonata" (La croce e l'aquila, in L'Italiano, 28 genn. 1926).

Non diversi, e cioè non incasellabili in uno schieramento o in uno schema precisi, furono i rapporti del G. con il mondo cattolico, dal momento che il suo pessimismo investiva spesso anche il mondo della Chiesa, in particolare la figura del prete, cui avrebbe voluto dedicare un libro e il valore della cui funzione sacerdotale gli sembrava non compreso e non vissuto proprio da troppi preti. Su questo argomento nel 1930 il G. ebbe una famosa polemica sulle pagine de L'Avvenired'Italia con don G. De Luca. L'articolo del G. alle origini della polemica, Casini il parrocchiano, oltre che su L'Avvenire era uscito anche su Il Frontespizio, testata che, per certi aspetti, sembrava realizzare il sogno di quella rivista di cui tante volte Papini e il G. avevano parlato e che era indicata come obiettivo da conseguire nello statuto di quella singolare intrapresa che era la Compagnia degli Ultimi, "confraternita laica destinata alla conversione di coloro che lasciarono o non conobbero la Fede Cattolica", fondata nel 1927 da Papini, G., Bargellini e N. Lisi, a cui si aggiunse, alcuni mesi più tardi, T. Casini (N. Vian - P. Vian, La regola degli "Ultimi", in Il salvatico G., Firenze 1988, pp. 89-100).

La rivista, da semplice bollettino della Libreria editrice fiorentina, si trasformò in impegnato periodico, sempre più diffuso in particolare dopo il passaggio alla Vallecchi, propiziato da Papini nel 1930, la cui autorevolezza, insieme con quella del G., fu per la rivista un essenziale punto di partenza, pur se essa seguì poi altri percorsi. Il G. non assunse compiti di gestione e anche come scrittore comparve con relativa assiduità, tanto che il frutto forse più significativo della sua collaborazione fu la creazione del personaggio del "malpensante", versione attenuata dell'"omo salvatico", ma sempre nemico del benpensante, del borghese, i cui pensieri, pubblicati in seguito anche su altri giornali e periodici, furono raccolti in un fortunato volume (I pensieri di un malpensante, ibid. 1936). D'altro canto il G. era troppo intelligente per non avvertire che le strade intraprese dalle nuove generazioni dei collaboratori della rivista (C. Bo, C. Betocchi, Lisi, R. Paoli, A. Hermet, L. Fallacara ecc.) divergevano dai suoi percorsi familiari: "il Frontespizio (sezione poesia!?) spesso non lo capisco neppur io, che non sono (crepi la modestia) uno sciocco. Ma ciò lo dico incidentalmente - era tanto che lo volevo dire - e fra parentesi" (a P. Bargellini, 9 maggio 1937, in Lettere agli amici, p. 105).

Ma, in verità, dopo la pubblicazione di Polvere dell'esilio (Firenze 1929), del profilo di S. Francesco (ibid. 1931), del volume che raccoglieva le sue Poesie (ibid. 1932) e del libro sulla messa dal laboriosissimo parto (ideato sin dal 1926 con il titolo La vite e i tralci, uscì come Il ponte sul mondo, Torino 1932), il G. era entrato di nuovo in una crisi profondissima. E a Papini, il 5 ag. 1932, scrisse: "Ho perso il gusto non solo della letteratura (e ciò non vorrebbe dir nulla, ed, anzi, sarebbe bene) ma della vita stessa […] Anche la fede (lo hai intuito) mi si è affievolita e quasi oscurata […] Il pessimismo più cupo, che è stato sempre il mio vero fondo, mi ha ripreso totalmente, sotto la forma di uno scetticismo radicale, in cui si spenge ogni luce. Solo l'amicizia è rimasta, ed è rimasta per un solo amico, che sei te". Il suo pessimismo investiva anche la Chiesa, come aveva scritto a don G. De Luca il 25 marzo 1932: "Che c'è più nella Chiesa, oggi? Il meglio, qualche anima inquieta, che si sforza di credere, forse, anche, qualche santo sconosciuto, muto, invisibile. Ma il resto, a rifarsi dal Papa!" (Lettere agli amici, p. 96). Questa crisi profonda, a intervalli più o meno lunghi, lo accompagnò fino agli anni della seconda guerra mondiale; nel frattempo, anche per ragioni economiche, continuò a scrivere e a collaborare con quotidiani e riviste, da La Nazione a L'Italia al Corriere della sera a La Festa, scegliendo un tono più pacato e spesso la forma del breve racconto o dell'apologo in prosa. Molte di queste prove furono accolte nei Raccontini rossi e neri (Firenze 1937) e in Giri d'arcolaio (ibid. 1942), mentre i consolidati interessi per religione e poesia trovarono espressione nella raccolta di saggi Le due luci (santità e poesia) (Torino 1933) e nel profilo di Jacopone da Todi (Firenze 1939).

Quasi cercando, in quei difficili momenti, un altro se stesso letterario e riprendendo un vecchio progetto (ne aveva scritto ad A.F. Formiggini nel 1913), il G., negli anni di crisi, lavorò a una monografia su F. Villon pubblicata nel 1934 a Firenze, con il titolo Il merlo sulla forca (Francesco Villon), che suscitò perplessità scientifiche fra i critici letterari, polemiche moralistiche negli ambienti cattolici e un cautelativo intervento dell'autorità ecclesiastica.

In questi anni il G. tornò ad appassionarsi di arte, lui che aveva ascoltato a Roma le lezioni di A. Venturi e peregrinato con Tozzi fra pitture e architetture medievali senesi, ed era stato, ed era, amico e giudice anche di contemporanei, da A. Soffici a O. Rosai. In particolare lo coinvolse Michelangelo a cui dedicò quattro saggi, raccolti nel volume Penne pennelli scalpelli (Firenze 1942), e un commento alle Rimespirituali (ibid. 1948).

Gli anni della guerra furono molto duri per il G., più che per le sofferenze materiali per quelle spirituali che si intensificarono spingendolo sull'orlo della disperazione come testimonia in più punti il carteggio con Papini. A questo stato d'animo si aggiunsero fattori esterni: difficoltà economiche, malanni fisici, l'aver dovuto abbandonare la casa di Greve nel giugno 1944 per rifugiarsi a Montoro presso i marchesi Torrigiani, il senso serpeggiante di aver fatto ormai il suo tempo. Tuttavia nel dopoguerra continuò a scrivere, a vedere ristampati alcuni libri, a proporne altri: Nuovi pensieri d'un malpensante (Pisa 1947) e Calendottobre (Monza 1952).

Questo volume, il suo ultimo, aperto da una Testimonianza per G. di Papini, è ancora una raccolta di pagine sparse, in cui spicca la sezione di Ricordi personali e che si chiude con una pagina di apocalittica fiducia: "Può […] traboccare su questo mondo, insatanito e pur redimibile, tutto l'inferno. Dopo l'universale espiazione l'amore reciproco del Creatore e delle creature, più forte dell'odio, lo annienterà". Su questa base il G. si preparò alla morte: "Chi ha detto che sono sempre battagliero, ha detto una bugia, vigoroso di spirito sì, ma ormai placato con gli uomini e con le cose del mondo che non mi toccano più" (a E. Cozzani, 1° ott. 1955, in Lettere agli amici, p. 122).

Già sofferente di diabete, colpito da emorragia cerebrale nel 1948, da paralisi il 14 luglio 1955, il G. si spense nella sua casa di Greve, munito dei conforti religiosi, il 12 genn. 1956.