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Scrittore italiano (Firenze 1881 - ivi 1956). P. fu parte viva
del movimento letterario, filosofico e politico, che ai primi
del Novecento promosse da Firenze lo svecchiamento della cultura
e della vita italiana. Tra i fondatori delle riviste Leonardo
(1903) e Lacerba (1913), concepì la letteratura come «azione» e
diede ai suoi scritti un tono oratorio e dissacrante. Tra le
opere più note si ricordano: l'autobiografia Un uomo finito,
il saggio Stroncature, le prose liriche Giorni di
festa (1918).
VITA
Nel 1903, già fornito di una cultura superiore agli studi
scolastici compiuti, fu fondatore con G. Prezzolini e altri
amici (1903) di Leonardo (nella quale scrisse con lo pseudonimo
di Gian Falco), rivista vivacemente combattiva, che divenne
presto uno dei più notevoli organi di reazione al positivismo
filosofico e letterario in nome dei valori dello spirito,
divulgatore in Italia di contemporanei movimenti filosofici
stranieri, quali l'intuizionismo francese del Bergson e il
pragmatismo anglo-americano del Peirce e del James, promotore
infine dello svecchiamento della cultura italiana, in nome di
un'individualistica e sognatrice concezione della vita e
dell'arte.
Redattore per qualche tempo del Regno di E. Corradini;
direttore, nel 1912, della Voce, fondato da Prezzolini con
l'intento di farvi collaborare gli uomini e le dottrine più
rappresentativi a una rieducazione morale, politica, artistica
degli Italiani; fondatore (1913), con A. Soffici, di Lacerba,
che rappresenta il momento della sua adesione al futurismo.
Con l'entrata in guerra dell'Italia - in favore della quale Lacerba sostenne una fierissima battaglia - il gruppo fiorentino si disperde, non senza aver agitato vecchi e nuovi problemi della cultura, diffuso la conoscenza di movimenti filosofici e artistici forestieri, e rivelato alcune notevoli figure di scrittori e di artisti.
OPERE
Studioso di filosofia e di religione, critico e polemista,
narratore e poeta, la costante della sua personalità è data
dall'attivismo, dal volontarismo, che lo indusse a farsi
divulgatore fra i primi in Italia del pragmatismo, e poi a
passare da questa ad altre filosofie, sempre insoddisfatto
perché vi cercava il segreto per diventare giudice sicuro del
bene e del male, una sorta di demiurgo o di uomo-dio. Il suo
volontarismo romantico e decadente lo portò a concepire la
letteratura come «azione» e a dare ai suoi scritti un carattere
da «giudizio universale», sia che in una serie di saggi per lo
più demolitori - le famose «stroncature» - passasse in rassegna
filosofi e scrittori d'ogni tempo (Il crepuscolo dei filosofi,
1906; Ventiquattro cervelli, 1912; Stroncature,
1916; Testimonianze, 1918), sia che delle proprie
esperienze facesse il bilancio fallimentare nelle forme
trasposte della parabola, dell'allegoria, della novella
fantastica (Il tragico quotidiano, 1906; Il pilota
cieco, 1907; Parole e sangue, 1912; Buffonate,
1914), ovvero nella forma diretta, fra il diario e la
confessione di Un uomo finito (1912: il suo libro
migliore, che esercitò un notevole influsso sulla giovane
letteratura d'allora).
E quando P. si convertì alla fede cattolica (e il primo frutto
fu la Storia di Cristo, 1921, che ebbe rapida e vasta
fortuna), il suo fu un cristianesimo da «atleta di Dio», un poco
alla L. Bloy. Il tono oratorio, che ha sempre dominato in P.,
via via accentuerà il suo turgore baroccheggiante, anche se non
verranno mai del tutto a mancare nei suoi libri, da Gog
(1931) a Figure umane (1940), a Le felicità
dell'infelice (1956), quelle improvvise schiarite nelle
quali il cruccio e l'orgoglio cedono alla malinconia del momento
o all'intimità del ricordo.
Ed è lì che va cercato il P. propriamente artista, dalla vena
agreste e casalinga, che gli dettò le pagine più belle di Un
uomo finito, le prose liriche o «frammenti» di Cento
pagine di poesia (1915) e di Giorni di festa
(1918), e alcune poesie in versi di Opera prima (1917) e
di Pane e vino (1926).
Nel 1937 P. fu nominato accademico d'Italia.
La sua opera, già pubblicata quasi interamente dall'editore
Vallecchi, è stata raccolta, compresi alcuni inediti e il post.
Giudizio universale (1957), in 10 voll. (1959-66) dei
«Classici contemporanei italiani» dell'editore Mondadori.
Si veda anche il suo carteggio con G. Prezzolini, Storia di
un'amicizia (2 voll., 1966-68).
*
A cura di Andrea Edoardo Paron
Vita e opere
Giovanni Papini nasce a Firenze nel 1881, da Luigi Papini,
commerciante di mobili, e Erminia Cardini. Già a quindici anni,
a scuola, pubblica un giornalino scritto a mano intitolato
«L’Amico dello scolaro», dove pubblica il suo primo racconto Il
leone e il bimbo: «finalmente un sabato sera, aprendo per la
strada, al lume rosso del gas, il giornale, vidi la figura d’un
cipiglioso leone in mezzo a ciuffi d’erbe a punta e, in fondo a
una colonna, il mio nome e cognome. […] Mi ricordo ancora il
caldo che mi salì al viso e l’ondata, mista di pudore e di
trionfo, che mi riempì il quindicenne cuore». Nel 1899 ottiene
il diploma di maestro presso la Scuola Normale e inizia a
insegnare lingua italiana all’istituto inglese di Firenze. Nel
1900 nascono le prime e importantissime amicizie, tra cui quella
fondamentale con Giuseppe Prezzolini, con il quale passa lunghe
serate sui lungarni in impegnatissime conversazioni, dove già
emerge la predilezione per la filosofia e l’esercizio del
pensiero. Dalle memorie di quegli anni affiora un importante
predilezione per Max Stirner, che lo affascina a tal punto da
dichiararsi politicamente anarchico e filosoficamente
«solipsista morale». Nel 1902 viene nominato bibliotecario del
Museo di Antropologia di Firenze, dove ottiene il primo compenso
fisso mensile e la possibilità di leggere senza limitazioni ciò
che gli interessa.
Il 1903 è l’anno di svolta. Dopo mesi di gestazione e
preparazione, Papini riesce a pubblicare il «Leonardo», la
rivista che sognava da anni e che poteva dare spazio alle sue
ambizioni e alle sue acerbe teorie: «sentivo il bisogno
apostolico di liberare gli altri come avevo, mi pareva, liberato
me stesso colla nuda e coraggiosa teoria. In che modo? Fondando
un giornale». La rivista appare, sin da subito, come uno sfogo a
tutto campo, senza obiettivi precisi, confusa in una miscela
esplosiva di arte, filosofia, letteratura e politica. Il
giornale suscita pareri discordanti e non si diffonde come nelle
intenzioni dei collaboratori. Iniziano i dissapori e già
all’inizio dell’estate Papini, trovatosi solo con Prezzolini, si
convince a dare una svolta e un taglio più omogeneo alla
conduzione del giornale: «l’arte fu messa un po’ in disparte; la
letteratura e la politica furono cacciate via e la filosofia
diventò finalmente padrona, signora, dominatrice». L’iniziativa
sembra funzionare: iniziano le recensioni della rivista in
Italia e all’estero; la vendita delle copie aumenta in modo
considerevole; giovani intellettuali chiedono insistentemente di
poter collaborare; importanti personalità italiane e straniere
inviano i loro articoli; si ospitano le prime traduzioni di
Schiller, Kierkegaard, Bergson e James; il nome di Papini
diventa noto e cominciano ad arrivare i primi inviti a
conferenze e congressi.
La mera polemica, il gusto dell’attacco e della distruzione
della filosofia diventano insufficienti. Papini sente l’esigenza
di inquadrarle in un progetto più ampio, che, partendo dalla
critica, dia luogo a una visione dell’uomo in grado di
conciliare sentimento e volontà, libertà e azione, spirito e
materia. Il pragmatismo di William James, secondo
l’interpretazione di Papini, offre questa possibilità. Già nel
dicembre del 1903, sul «Leonardo», poteva parlare di Morte e
resurrezione della filosofia, dove la filosofia moriva come
sistema e tornava a nascere come progetto, preludendo a una
sincera, quanto personalissima, adesione al pragmatismo
jamesiano. Papini aveva letto James anni prima, attraverso le
recensioni di Vailati e le prime traduzioni di Calderoni e
Ferrari, senza però rimanerne folgorato. Ora invece si prepara a
diventarne il principale divulgatore in Italia e non solo. Già
nel 1904, a soli ventitre anni, partecipa a Ginevra al II
congresso internazionale di filosofia, in qualità di
rappresentante italiano del pragmatismo, e interviene con una
memoria sugli Extrèmes de l’Activité théorique. Sempre nel ’04 è
invitato al congresso internazionale di psicologia a Roma, dove
incontra James e tiene una conferenza sull’«Influenza della
volontà sulla conoscenza», dove le teorie del filosofo americano
sono accolte in pieno. L’incontro stesso con James è descritto
in termini euforici, e rimarrà uno dei ricordi più piacevoli
dell’intero periodo. Per tutto il 1905 Papini pubblica articoli
sul pragmatismo, non solo su «Leonardo», organizza incontri e
conferenze, fonda addirittura a Firenze un Pragmatist Club.
Nel 1906 escono i primi libri di una certa importanza: Il
crepuscolo dei filosofi, sagace rassegna a metà tra l’insulto e
l’analisi seriosa di Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer,
Nietzsche e la raccolta di racconti fantastici Il tragico
quotidiano. Il Crepuscolo è un progetto che Papini covava già da
anni e che così descriveva: «e intanto, non potendo far nulla,
scontento ed eccitato, avido e schivo, scaricavo il mio sdegno
in aforismi corrosivi, in sfoghi lirici e mordaci a somiglianza
di quelli di Nietzsche; e meditavo, in odio alla filosofia e a
Kant suo degno ruffiano, una “Critica di ogni Ragione” – e un
“Crepuscolo dei filosofi”». I filosofi al crepuscolo ci vengono
presentati come se stessero salendo sul patibolo, con Papini che
legge loro le accuse e i motivi della condanna a morte. Non c’è
via di scampo ed essi passano in rassegna senza diritto di
replica. Lo definisce un macello, un mattatoio, un delirio di
onnipotenza, la rivolta di una generazione che si libera dalle
catene dei padri. Il primo della lista è Kant, poi arriva Hegel
e dietro di lui, a sorpresa, Schopenhauer, che tanto aveva
appassionato il giovane Papini; il positivismo è il principale
indiziato, non può mancare, e giù contro Comte e Spencer, prima
di arrivare a un finale inaspettato: Nietzsche. Proprio il
filosofo dello spirito dionisiaco, della volontà di potenza,
della morte di Dio e dell’aurora che si annuncia, in altre
parole il filosofo che sembrava l’ispiratore recondito
dell’avventura leonardiana, veniva affossato senza pietà. Papini
lo fa con dolore, ma lo fa perché è costretto, salvarne uno
significherebbe salvare l’intero sistema. La lezione kantiana e
tutto l’ottocento sono spazzati via d’un colpo solo.
Nello stesso anno intraprende un viaggio a Parigi presso l’amico
Ardengo Soffici, dove incontra vari filosofi tra cui Boutroux e
Bergson, che gli chiede un’opera in francese sul pragmatismo.
Tra i leonardiani nel frattempo nascono forti contrasti, ma la
rivista continua le sue pubblicazioni fino a quando, rendendosi
i conflitti insanabili, Papini stesso ne decreta la chiusura
nell’estate del 1907. Nonostante ciò il programma del
pragmatismo procede con nuovo vigore e nuova forza. Papini
inaugura una collana di pubblicazioni, dove trovano spazio tutti
gli esponenti del pragmatismo americano ed europeo. L’attività
di divulgazione continua, ma, accanto a essa, Papini matura la
convinzione di superare la lezione del James, e fare del
pragmatismo una filosofia dell’azione intrisa di forti motivi
religiosi: «bisognava tirarla fuori da quel piede di casa
anglosassone, da quel pietismo missionario in borghese,
trascinarla per i cieli dell’assurdo». Il progetto non sembra
poi così complesso: occorre agganciare il will to believe di
James a Novalis, alla mistica romantica e a quella cristiana. Il
risultato deve essere una filosofia o, se si vuole, un
pragmatismo, in cui «lo spirito potesse far tutto da sé, col
solo suo comando, senza niente framezzo».
Si tratta in realtà di una prospettiva che Papini aveva già
accarezzato due anni prima, quando con Prezzolini progettava una
fantomatica Divine School, una scuola religiosa di ispirazione
pragmatista da diffondere prima in America e poi in Europa, per
offrire a tutti un nuovo credo in cui i maggiori desideri
dell’uomo trovassero accoglimento. Il progetto ovviamente doveva
tramontare, nonostante i puntigliosi preparativi; ma l’idea di
una filosofia che contemplasse il desiderio di onnipotenza
dell’uomo non poteva sparire e sia Prezzolini che Papini
avrebbero continuato a perseguire tale obiettivo seppure per
strade diverse: il primo passando attraverso Novalis e
approdando all’idealismo crociano, il secondo, come abbiamo
visto, operando degli sviluppi al pragmatismo di James.
A partire dal 1907 Papini si dedica anche ad un’intensa vita
familiare. Nel ’07 si sposa con Giacinta Giovagnoli, nonostante
anni prima avesse solennemente giurato insieme a Prezzolini e
altri che non si sarebbe mai sposato (l’avrebbero fatto poi
tutti), e nascono poi le due figlie Viola e Gioconda, nel 1908 e
nel 1910.
Nel 1912, a soli trentuno anni, pubblica la sua autobiografia Un
uomo finito, cioè la storia del rapporto tra Papini e Dio,
attraverso la mediazione del will to believe, che emerge
insistentemente in ogni capitolo; un rapporto che vive momenti
di pathos e di riflessioni razionali, senza però risolversi mai
in nulla, gettandolo spesso nello sconforto e nella necessità di
mutare indirizzo di pensiero verso l’arte e la letteratura. Nel
rivolgersi ai giovani, sul finire del libro, esortandoli a
adempiere il loro compito di smantellamento, Papini sembra già
sentirsi sulla strada del crepuscolo e accetta senza rancore che
qualcun altro si faccia avanti. La giovinezza era finita, anche
lui diventava storia, padre, una catena di cui liberarsi.
Il distacco dalla giovinezza prepara in qualche modo il
definitivo distacco anche dal pragmatismo che, come avrebbe poi
detto Prezzolini, non era stato che una cometa, cui dedica
ancora un’opera nel 1913, Sul pragmatismo. Proprio nel corso di
quest’anno Papini intraprende una nuova via intellettuale,
fondando un giornale, più di arte e letteratura che di
filosofia, «Lacerba», diretta insieme a Ardengo Soffici, la
quale per un breve periodo intrattiene stretti legami con
Filippo Tommaso Martinetti e aderisce al futurismo.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Papini si schiera dalla
parte degli interventisti e tenta in tutti i modi di arruolarsi,
senza riuscirci a causa della forte miopia. Così infatti scrive
a Soffici pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto: «molti
amici nostri sono partiti o stan per partire. Io sto facendo i
documenti per entrare sottotenente. Non si riesce a star qui a
non far nulla». Dopo la fine del conflitto si trasferisce a Roma
dove scrive per «Il Tempo».
Il 1919 è un nuovo anno di svolta. Papini, dopo un’improvvisa
illuminazione,comincia a scrivere La storia di Cristo, che viene
pubblicato due anni dopo e ottiene subito un successo mondiale.
Negli anni seguenti si susseguono molte pubblicazioni a sfondo
letterario o religioso, come Sant’Agostino, Pane e vino, Gog,
Eresie letterarie, Dante vivo (che ottiene il premio Firenze). A
partire dagli anni ’30, Papini, ormai intellettuale
riconosciuto, ottiene numerose attestazioni, come la cattedra di
letteratura italiana presso l’Università di Bologna, che già era
stata di Carducci e di Pascoli; la nomina ad accademico, che gli
consente di lavorare alacremente come organizzatore culturale e
redattore di importanti riviste italiane.
Il periodo bellico è trascorso presso il convento della Verna,
dove diventa terziario francescano con il nome di fra’
Bonaventura e si intrattiene con i giovani studenti di filosofia
e teologia in argomenti filosofici e spirituali. Sul finire del
’44 riesce a tornare a Firenze, dove è protagonista di un
episodio singolare: «mentre andavo verso la biblioteca della
Fraternità dei laici per cercare una storia della filosofia vedo
una macchina americana fermarsi dinanzi a me. Un giovane
ufficiale scende e mi chiede se sono io Giovanni Papini. Si
comincia a parlare e si viene a sapere che si tratta di due
ammiratori miei che erano andati a cercarmi a Firenze. Sorpresa
e felicità». Papini oramai è conosciuto a livello mondiale.
Dopo la guerra Papini continua le sue pubblicazioni come Vita di
Michelangiolo nella vita del suo tempo, Passato remoto e Il
diavolo. A partire dal 1952 iniziano a manifestarsi i sintomi
della malattia che lo condurrà alla morte, ma continua a
lavorare dettando faticosamente alla nipote Anna. In particolare
è da segnalare la rubrica Schegge che tiene sul «Corriere della
sera» e che avrà un successo incredibile.
Nel 1956 detta la sua ultima Scheggia: Le felicità
dell’infelice: «Una felice agonia cominciava di fatto con la
mirabile Scheggia dove l’infelice, più provato e più forte di
Giobbe, numerava le felicità sue». Muore a Firenze, nella sua
Firenze, che tanto peso ha avuto nella sua formazione culturale
di intellettuale brillante e coraggioso.
Il pragmatismo
L’adesione di Papini al pragmatismo risponde a una duplice
esigenza: da un lato trovare una soluzione organica ai vari
intendimenti filosofici; dall’altro possedere una filosofia in
grado di sostenere le proprie scelte esistenziali. In altri
termini, a una vita intesa come missione doveva corrispondere
una filosofia del fare. Il pragmatismo, in senso etimologico,
veniva incontro a tali necessità: il πρὰγμα risultava
l’ingrediente indispensabile per una filosofia nuova e una vita
all’attacco.
Sotto il profilo filosofico il concetto di azione non è che
l’inizio e la fine dell’indagine sul pragmatismo: l’esigenza di
una filosofia dell’azione, o pragmatista in senso stretto
appunto, porta all’analisi della volontà come funzione
determinante non solo dell’azione, ma anche della credenza, a
sua volta fondamento di conoscenza e verità, per tornare infine
a una nuova definizione dell’azione in chiave volontaristica,
idealistica e spiritualistica o, secondo la definizione di
Papini, dai tratti magici.
1. Azione
Nell’articolo «Il pragmatismo messo in ordine» Papini sintetizza
in sei punti quali siano le origini filosofiche del pragmatismo,
inserendovi due riferimenti assai eloquenti: l’utilitarismo in
quanto «ha diretto l’attività intellettuale verso i problemi
pratici, quelli, cioè, la cui soluzione è suscettibile di fare
cambiare alcune delle nostre azioni» e il kantismo, «col suo
primato della ragion pratica». Secondo Papini il pragmatismo,
proprio per la varietà di aspetti cui si ispira, può essere
suddiviso al suo interno in tre regioni: la prima inerisce ai
rapporti tra generale e particolare; la seconda alla scelta
delle convenzioni rappresentative e ai modi di espressione; la
terza alla cultura della credenza. Se le prime due analizzano i
modi con cui la filosofia si deve rapportare con la realtà e con
se stessa in termini di linguaggio e concetti, la terza regione
ci porta al nucleo fondamentale del pragmatismo, «perché insegna
il modo di procurarsi delle convinzioni e il modo di trasformare
per tale mezzo la realtà», cioè i metodi con cui perveniamo al
vero πρὰγμα. Non si tratta, dunque, di determinare le condizioni
che generano un’azione qualsiasi o definire le leggi che
regolano la nostra condotta, ma di ricercare il motivo profondo
e determinante che genera l’Azione originaria, quella in grado
di «aumentare il nostro potere di modificare le cose».
La terza regione del pragmatismo riguarda infatti da un
lato le cause del credere, cioè l’agire come se si credesse,
dall’altro gli effetti del credere sulla verità e sull’azione.
In sostanza, il vero πρὰγμα, cioè il potere di modificare la
realtà, ha luogo soltanto se noi possediamo una conoscenza certa
della realtà, che non può derivare dall’esperienza diretta del
mondo, perché parziale e incompleta, ma è fornita da una
credenza, che, essendo basata su un atto di fede, ci permette di
pervenire a una comprensione assoluta della totalità delle cose.
Soltanto con il will to believe possiamo raggiungere il Wille
zur Macht, inteso non in senso nietzscheano, ma come
«aspirazione a poter agire».
Secondo Papini, per poter agire nella realtà e modificare le
cose, occorre fare riferimento a un atto originario che scateni
un desiderio di potenza infinita. Un potere siffatto, però, non
può essere atemporale e astorico, perché si tratta pur sempre di
un potere di cambiare il mondo in cui viviamo e che perciò deve
essere conosciuto. L’atto originario è pertanto preceduto da un
atto di fede, un will to believe appunto, che ci garantisce la
materia su cui possiamo azionare il nostro potere.
Una volta definiti i caratteri del concetto di azione, cioè del
πρὰγμα originario alla base di tutti gli altri, è possibile
procedere all’analisi delle azioni così come si presentano in
concreto nella vita quotidiana. Papini dedica a tale argomento
un intero saggio, intitolato Agire senza sentire e sentire senza
agire, in cui dimostra come le nostre azioni non dipendano quasi
mai da un calcolo razionale, ma siano per lo più riferite ai
nostri sentimenti. Già James, in Will to believe, aveva posto
l’accento sulla necessità di considerare il comportamento
dell’uomo come determinato non solo dagli scopi che la ragione
suggerisce, ma soprattutto dalle esigenze dei propri sentimenti.
Secondo Papini, sono quattro i casi in cui si riscontra la
reciproca influenza tra azione e sentimento: 1) agire senza
sentire per giungere a sentire; 2) agire senza sentire per
giungere ad altri scopi; 3) sentire senza agire per non sentire;
4) sentire senza agire per altri scopi. In altri termini, ci
troviamo di fronte, nel primo caso, a colui che fa certe cose
per interiorizzare un sentimento, nel secondo all’ipocrita, nel
terzo allo stoico e nell’ultimo al dissimulatore. Per ogni
situazione vengono forniti innumerevoli esempi e riferimenti
filosofici e letterari, tanto che il saggio, per come si
presenta e per come Papini stesso afferma, è principalmente
materia dello psicologo e dell’educatore. In realtà, l’ultimo
paragrafo dell’articolo porta a una inaspettata conclusione:
«queste soluzioni fra l’agire e il sentire potrebbero essere le
prime basi per la creazione definitiva di un’arte di dominare e
modificare lo spirito a nostra volontà». L’analisi in concreto
delle azioni dell’uomo, come dettate dai sentimenti, rivela una
nuova dimensione del πρὰγμα originario. Papini si rende conto
che non solo lo spirito agisce sulle cose, ma anche su se
stesso, e che una condotta coerente non può prescindere da
un’arte di dominare lo spirito, cioè da una prassi e quindi da
un’azione che stabilisca da principio in che modo il soggetto
debba porsi dinnanzi al mondo e alla sua varietà.
Per modificare il mondo è dunque necessario: conoscere il mondo
nella sua interezza attraverso un atto di fede, cioè attraverso
una credenza; dare luogo a un’azione originaria, cioè accrescere
la nostra potenza nei confronti delle cose; adottare un’arte in
grado di dominare il nostro spirito, cioè agire su noi stessi
per essere coerenti nel rapportarci alla realtà. Queste
strutture si presentano ovviamente in astratto, ma nel concreto
non avviene nient’altro che la temporalizzazione di questi
momenti: «la fede dunque non agisce direttamente; essa non fa
altro che provocare l’azione ed è veramente l’azione che
modifica la realtà, cioè il rapporto che noi avevamo stabilito
tra fede e realtà non è che in fin dei conti se non un caso
speciale dell’influenza della fede sulla realtà».
La particolare accezione del concetto di azione è la chiave di
lettura di tutto il pragmatismo papiniano e si configura
certamente come una novità rispetto a James, in cui l’azione è
spesso semplicemente l’intermediaria tra una credenza e la sua
verificazione. In Papini invece rappresenta l’incipit di un
nuovo discorso filosofico.
2. Volontà
Il concetto di azione si lega inevitabilmente a quello di
‘volontà’, che ne fa da funzione determinante. La concezione
papiniana della volontà riprende senza distinzioni la
definizione che James ne aveva dato in Will to believe, in cui
per natura volitiva si intendono «tutti i fattori della fede
come la paura e la speranza, il pregiudizio e la passione», una
volontà non fondata sulla pura ragione ma influenzata dai
sentimenti. Papini però non si ferma soltanto a James, ma
ricerca in altri autori le stesse considerazioni. Sempre
nell’articolo Il pragmatismo messo in ordine, infatti, laddove
sono elencati i riferimenti filosofici cui il pragmatismo si
ispira, vi è il riferimento al «volontarismo schopenhaueriano il
quale ha insistito sull’influenza che la volontà (intendendovi
anche i sentimenti) esercita sull’intelligenza».
Papini, in sostanza, è alla ricerca di una volontà che abbia in
se stessa i desideri e le aspirazioni dell’uomo. L’agire per
modificare la realtà non è solo il fine della volontà, ma ne è
anche il motivo determinante, nel senso che la volontà deve
inglobare in sé stessa l’esigenza sentimentale e passionale di
cambiare le cose che ci circondano. In altri termini il πρὰγμα
originario, sotto questa prospettiva, non si configura come
un’azione diretta sullo spirito e sulle cose, ma piuttosto come
l’insieme dei desideri, dei sentimenti e delle aspirazioni
dell’uomo, diventando così il motivo determinante della volontà.
Volontà che a sua volta non dà luogo semplicemente alle singole
azioni tese a modificare la realtà, ma determina una credenza
sul mondo, una volontà di credere appunto, che influisce
inevitabilmente sul nostro modo di conoscere e determinare il
criterio di verità.
Non si tratta però di una volontà che, in maniera differente,
determina di volta in volta un’azione o una credenza o una
conoscenza, ma le determina tutte quante insieme. Papini
definisce infatti un’azione volontaria come «quel cambiamento di
cose fra le cui cause si trovano anche delle nostre credenze».
La volontà, dunque, nell’innescare un’azione, allo stesso tempo
dà luogo a una conoscenza, facendo sì che l’azione possa
concentrarsi su qualcosa che si conosce e che perciò può essere
modificato. A tale soluzione Papini era già pervenuto in Morte e
resurrezione della filosofia, dove la nascita di una nuova
filosofia non sta solo nel conoscere e nell’accettare il mondo,
ma nel «salvarlo, trasformarlo ed accrescerlo» e in questo
contesto «ci dobbiamo proporre di rendere concreta la volontà,
cioè di rendere esternamente i nostri desideri».
Se James aveva introdotto il will to believe nel campo etico e
religioso, per far sì che i loro assunti indimostrabili fossero
ugualmente accettati come veri, Papini applica la volontà di
credere a ogni aspetto della vita dell’uomo, da quello
filosofico a quello scientifico. Infatti, anche nei confronti di
una teoria scientifica dobbiamo avere volontà di credere,
affinché si possa agire su di essa, così come per qualsiasi
problema si ponga dinanzi a noi. Soltanto attraverso tale
volontà l’azione sulle cose risulta efficace e ci permette di
discernere le situazioni utili da quelle non utili, le
possibilità di azione da quelle di impotenza.
Da una concezione della volontà relegata a mero strumento
attuativo dei nostri desideri, Papini passa a una definizione di
essa centrale in tutto il pragmatismo, dove emerge come
l’ingrediente indispensabile per determinare, senza mediazioni,
una credenza sul mondo che è insieme una teoria della conoscenza
e della verità e una teoria della prassi.
3. Credenza
Il concetto di ‘credenza’ era stato introdotto da Peirce come
regola d’azione quando ci si trova nelle situazioni di dubbio,
ponendo nel risultato dell’azione la sua verificazione. James, a
sua volta, lo aveva ripreso nel will to believe affermando che
nei casi di morale e religione la credenza produce da sé la sua
verificazione. Tale problema è affrontato da Papini nel saggio
La volontà di credere, dove, accanto a una interpretazione della
fortunata formula jamesiana, apporta nuovi ed importanti
contributi.
Secondo Papini la teoria di James può configurarsi come un
«elogio del rischio», in quanto anche se ci troviamo dinanzi a
situazioni incomprensibili razionalmente, se ci crediamo, non
solo possiamo risolverle, ma la fede stessa può renderle vere.
Tale assunto è riducibile a due affermazioni fondamentali: 1) è
preferibile il rischio di una scelta attiva a una scelta
passiva; 2) in certi casi la fede è la sola che possa rendere
vero il risultato o, in altri termini, il pensiero diventa
padrone del fatto. La credenza, in sostanza, ci permette di
agire anche quando razionalmente saremmo portati all’inerzia.
Se è vero che da una credenza scaturisce un’azione sulla realtà,
non è altrettanto sicuro che, come afferma James, una credenza
abbia un effetto immediato sulla realtà: «la fede cioè non può
modificare senza l’intermediario di azioni muscolari e strumenti
la realtà, ma può modificare soltanto il nostro spirito». Anche
lo spirito però non può essere modificato dalla fede in modo
diretto, perché «la fede sola, non accompagnata da fatti, da
azioni corrispondenti, non riesce a nulla», così come un’azione
indiscriminata, ovvero non accompagnata da una credenza, non
porta a nulla: «bisogna cioè che alla fede tengano dietro degli
atti». La volontà infatti non genera solo una credenza, ma nello
stesso tempo anche un’azione corrispondente: azione e credenza
sono due atti volitivi contemporanei e necessariamente
collegati.
In altre parole, in seguito a una credenza si compiono
degli atti corrispondenti, la cui ripetizione e la sicurezza che
ne deriva, contribuiscono a rendere vera la credenza di
partenza. Secondo Papini è vero che la credenza crea la sua
stessa verificazione, ma lo fa non per se stessa, ma per mezzo
di azioni che le sono corrispondenti. La modificazione della
realtà dunque avviene per mezzo di azioni esterne, mentre la
modificazione dello spirito avviene per mezzo delle abitudini,
nel senso peirciano di habitus, che le azioni ripetute
contribuiscono a formare. Nel caso delle modificazioni dello
spirito torna quindi la definizione di credenza del Peirce, per
cui le credenze sono regole per l’azione, cioè abitudini, vere
perché utili nell’esperienza concreta. Papini, in sostanza,
utilizza due pesi e due misure: nei confronti della realtà è
lecita la credenza auto-verificantesi; nei confronti dello
spirito la credenza è verificata dai risultati delle azioni,
che, se positivi, forniscono delle regole sotto forma di
abitudini.
4. Conoscenza e Verità
Il concetto di credenza implica necessariamente l’analisi dei
criteri di verità e di conoscenza. Non si tratta per Papini di
fondare una gnoseologia o una teoria della verità in chiave
pragmatistica, ma mostrare come le nostre credenze influiscono,
oltre che sulle nostre azioni, sul modo in cui concepiamo talune
realtà, in modo particolare quelle di cui non possiamo avere
esperienza diretta. Appartengono a questa sfera non solo gli
aspetti religiosi e morali, sulla scorta di James, ma anche e
soprattutto le teorie scientifiche, i nostri modi di prevedere
le cose e le nostre regole d’azione in un determinato campo.
Tutto ciò che trascende la mera particolarità delle cose, dai
concetti ai sistemi, è credenza o, più precisamente,
‘previsione’.
All’interno del saggio Introduzione al pragmatismo, Papini
precisa più volte il proprio pensiero su questo punto: «una
delle massime più care ai pragmatisti è questa: che il senso
delle cose consiste unicamente nelle conseguenze che ne
aspettano quelli che le ritengono vere»; concetto che ribadisce
alcune righe più avanti, dove afferma che «il pragmatismo non
considera la previsione come possibilità di applicazioni
pratiche o come aiuto per la verifica delle teorie, ma anche
come mezzo di definizione e interpretazione delle teorie
medesime». In altri termini, per conoscere ciò che accadrà o ciò
che accade ma che risulta incomprensibile, si formula una
teoria, cioè una credenza, la quale ci rassicura momentaneamente
su come si svolgono o si svolgeranno le cose. La credenza
implica delle azioni corrispondenti, che permettono di
verificare o falsificare la credenza di partenza. Poiché la
credenza fa sempre riferimento alla natura volitiva e, quindi,
anche ai sentimenti e alle passioni, il criterio di verità e
falsità non varrà per se stesso, ma dipenderà dall’utilità o
meno che i risultati delle azioni avranno per le nostre
aspirazioni. La volontà, dunque, determina una credenza e
un’azione corrispondente, le quali risponderanno al criterio di
utilità, risultando, in virtù di questo, vere oppure false.
Papini, contrariamente alla lezione di James, cui dice di
riferirsi, non si sofferma in modo approfondito sul binomio
verità-utilità, preferendo concentrarsi sull’intreccio tra
volontà, azione, credenza e conoscenza. Il saggio Volontà e
conoscenza, infatti, analizza «l’influenza che certi cambiamenti
prodotti da credenze hanno su altre nostre credenze», che si
manifesta in modo visibile proprio «nell’influenza di ciò che si
fa su ciò che si sa». Di tale influenza si possono riconoscere
quattro casi fondamentali: i primi due riguardano l’influenza di
ciò che si fa delle cose sulla conoscenza delle cose e di noi
stessi; gli altri due sull’influenza di ciò che si fa di noi
sulla conoscenza di noi stessi e delle cose. Il primo caso
inerisce agli esperimenti che noi operiamo al fine di accrescere
le nostre conoscenze; il secondo riguarda l’aumento della nostra
capacità di prevedere ciò che saremo in grado di fare in futuro
di fronte a alcune situazioni; il terzo si riferisce agli
«esperimenti personali», che ci informano sulle nostre
potenzialità di azione; il quarto fa riferimento alla
possibilità di cambiare le nostre abitudini mentali, affinché si
possa influire direttamente sulla conoscenza delle cose. In
altri termini, «non soltanto, dunque, quel che si fa dipende da
quel che si sa, ma anche quel che si sa dipende da ciò che si
fa».
La sfera della conoscenza in Papini non è autonoma rispetto alla
pratica, ma anzi si nutre di essa per accrescere i propri
confini. Attraverso le azioni, possiamo non solo verificare o
falsificare le teorie, ma anche cambiare le nostre abitudini
mentali, cioè le nostre credenze, in modo da renderle duttili di
fronte ai nuovi scenari che la scienza può porci davanti. Papini
sintetizza più volte questo argomento giocando sul noto detto
baconiano “il sapere dà il potere”, trasformandolo in “il potere
dà il sapere”, intendendo con ciò che il potere di agire sulla
realtà e su noi stessi amplifica la nostra conoscenza delle
cose.
5. Pragmatismo magico
5.1 Dal Pragmatismo al concetto di «Uomo-Dio»
Il saggio di apertura di Sul pragmatismo, che è anche
cronologicamente il primo della produzione filosofica di Papini,
appare come un discorso programmatico per una nuova filosofia,
cui i saggi successivi, anche quelli che guardano più da vicino
le teorie jamesiane, tengono fede in modo coerente. Papini,
infatti, dopo aver dimostrato l’inutilità della filosofia, così
come si era configurata storicamente, per le esigenze della
nuova generazione, ne annuncia la resurrezione con un nuovo
obiettivo: «una sola ambizione conserveremo: il possesso intero
della realtà». E’ questo, in fondo, il nocciolo del pragmatismo
papiniano, su cui ruotano quei concetti che gli studi di James
gli avevano suggerito. Il pragmatismo americano forniva a Papini
semplicemente un panorama concettuale su cui si adattava
benissimo il nuovo progetto filosofico. La famosa teoria del
pragmatismo come «corridoio di un grande albergo» rende
perfettamente l’idea di come Papini stesso sia consapevole di
muoversi verso orizzonti diversi da quelli che James aveva
indicato.
Anche nell’autobiografia torna su questo punto, dedicandovi un
passo che merita di essere riportato integralmente, perché
fornisce la prospettiva in cui leggere il suo pragmatismo:
Il famoso pragmatismo non m’importava già in quanto regola di
ricerca, cautela di procedimenti e riforma di metodi. Io
guardavo più in là. In me sorgeva il sogno taumaturgico: il
bisogno, il desiderio di purificare e rafforzare lo spirito per
farlo capace d’agir sulle cose, senza strumenti e intermediari,
e giunger così al miracolo e all’onnipotenza. Attraverso la
«volontà di credere», tendevo alla «volontà di fare» – alla
possibilità di fare. Se la volontà potesse estendere il suo
cerchio di comando dal corpo proprio alle cose che lo circondano
– e far sì che tutto l’universo fosse il suo corpo, obbediente
in ogni parte a un ordine suo, come ora son obbedienti questi
pochi fasci di muscoli! Fingevo di partire da un precetto di
logica (pragmatismo) ma l’anima più segreta mia era assetata e
invidiosa della divinità.
Il sogno della divinità e della magia, l’ambizione di possedere
la realtà e di trasformarla, sono il filtro per comprendere per
quale motivo i concetti che il pragmatismo pone sul tappeto
siano così cari al programma papiniano: l’azione modifica le
cose, la credenza le giustifica, la volontà genera l’azione, la
conoscenza possiede la realtà.
E’ dalla combinazione di questi elementi che il pragmatismo
diventa magico, perché con la pratica (accezione etimologica di
pragmatismo assunta da Papini) «noi sfuggiamo a tutti gli
inganni e a tutti i tradimenti del razionalismo e
dell’espressione» e «creiamo collo spirito (nuovi mondi) e
coll’azione che vivifica, per mezzo dello spirito, le cose,
tendiamo a una più intensa psichizzazione del mondo». Si tratta
di entrare nella realtà per cambiarla dal suo interno,
sradicando il rapporto soggetto-oggetto che tutta la filosofia
aveva insegnato, per fare sì che senza strumenti, ma con il solo
miracolo si possa modificare il mondo. Soltanto l’«Uomo-Dio» può
incarnare una potenza siffatta.
Papini dedica a tale figura un intero saggio, intitolato
Dall’Uomo a Dio, dove ne analizza i caratteri, gli scopi, le
creazioni. «Uomo-Dio» ha tre significati: cristiano, mistico,
magico. Il significato cristiano implica il concetto di
incarnazione, quello mistico la fusione dell’anima personale con
l’essere universale, quello magico conduce all’idea di
imitazione, ovvero «l’anima cerca di acquistare i poteri
attribuiti a Dio, diventa divina in quanto le cose sono parti
obbedienti di essa». Papini sceglie l’accezione magica, perché
essa inverte il tradizionale rapporto tra uomo e divinità che la
tradizione filosofica e teologica aveva imposto: «non è più Dio
che s’incarna, ma è l’uomo che s’india».
Secondo Papini, l’esigenza della divinità è innata nell’uomo,
perché l’insoddisfazione del presente ci porta a desiderare e a
possedere sempre più. Si tratta di un tormento dal quale l’uomo
può uscire attraverso due vie: la rinuncia o il possesso. Il
metodo della rinuncia è storicamente fallito, nonostante la
predicazione del cristianesimo e del buddhismo, e il desiderio
di onnipotenza può aprire nuove prospettive. Ottenuta
l’onnipotenza, l’«Uomo-Dio» non avrà più desideri e, quindi,
sofferenze, ma inizierà a disprezzare le cose per la loro
abbondanza e per la loro facilità a ottenerle. Se muore il
desiderio, muore anche l’azione e senza azione cesseranno i
cambiamenti: «il mondo diventerà, attraverso l’Uomo-Dio, una
sola cosa, immobile, omogenea. […] La grande opera, il resultato
ultimo dell’Uomo-Dio sarà la fine del mondo per mezzo della sua
perfezione».
La strada per raggiungere l’«Uomo-Dio» è lunga e faticosa,
occorre agire e imparare ad agire in modo diverso da come si fa
quotidianamente. Non si tratta di un desiderio poetico o di un
sogno delirante, ma di un problema strettamente pratico, ovvero
la ricerca di una definitiva e sicura «arte del miracolo».
Papini rintraccia le basi per un insieme di norme e regole in
grado di aiutarci su questa via nei santi, nei mistici, nei
profeti, nei fakiri, negli yoghi, in tutto un mondo di scuole
spirituali scomparso o nascosto, la cui matrice di fondo è
l’idea di un panteismo dove l’uomo può fare da spirito
vivificatore della realtà.
L’obiettivo dell’«Uomo-Dio» è la pace definitiva, o nirvana, o
quietude, che si raggiunge attraverso il cambiamento radicale
del mondo secondo i propri modelli e i propri ideali. Tali
modelli sono forniti dall’arte, dalla religione, dalla
metafisica, «ch’esprimono i desideri di certi uomini singolari
intorno alla costituzione dell’universo». Ma questi da soli non
bastano, occorre un ulteriore contenitore di modelli, che
contempli anche ciò che non esiste e ciò che non esisterà:
queste sono le «scienze immaginarie», scienze cioè «di quello
che accadrebbe se certe condizioni, certi fatti, certe parti
della realtà cambiassero». L’«Uomo-Dio», in sostanza, distrugge
i tormenti dell’uomo attraverso l’onnipotenza, che lo rende
padrone di un’arte in grado di dominare e cambiare le cose,
secondo tutti i modelli possibili immaginabili.
E’ il pragmatismo magico la risoluzione di questo problema
pratico, di questa prassi dell’onnipotenza, di questa arte del
miracolo. E’ un pragmatismo perché è una filosofia dell’azione,
è magico perché permette all’uomo di diventare Dio, cioè di
giungere all’onnipotenza. Il πρὰγμα è, in definitiva, l’azione
che porta alla metamorfosi in una divinità.
5.2 Riferimenti filosofici
Secondo Papini, il pragmatismo magico doveva nascere dalle
ceneri della filosofia, ma è proprio dagli autori del
«Crepuscolo dei filosofi» che trae gli spunti migliori. Vi sono
infatti, seppur interpretati in modo originale, il Kant della
Ragion Pratica, l’Hegel dello Spirito Assoluto, lo Schopenhauer
del Nirvana, il Nietzsche del Super-Uomo, il positivismo del
primato della scienza. Papini comunque non si ferma soltanto a
questi autori: certamente si possono rintracciare altri
riferimenti importanti come la concezione della magia del
‘400-‘500, secondo cui l’anima dell’individuo, essendo parte
della natura, poteva modificare la realtà dal suo interno, o il
misticismo medievale, attraverso la figura di Eckhart e il suo
processo di deificatio, che presuppone il distacco alle cose
terrene e finite.
Tuttavia è da Novalis che Papini ottiene i suggerimenti più
importanti per la definizione del pragmatismo magico. Innanzi
tutto, la concezione di Novalis della poesia in senso
etimologico (da ποιει̃ν, fare), come creazione, ben si adatta al
significato che Papini dà al suo pragmatismo, e la stessa
riduzione della filosofia a poesia coincide perfettamente con
l’esigenza di passare dalla metafisica alla pratica. Il
pragmatismo magico è, in sostanza, l’«idealismo magico» di
Novalis e non è un caso che alcune formule del filosofo
romantico siano riprese di peso dallo stesso Papini. Ad esempio,
riguardo alla necessità di modificare il mondo secondo le
proprie aspirazioni, Novalis afferma: «il mondo dev’essere
com’io voglio. Il mondo è originariamente com’io voglio – se non
lo trovo così, allora devo cercare l’errore di questo prodotto
in entrambi i fattori – o in uno solo»; oppure, «io potrò
ordinare il mondo per me – tramite le sue leggi – fermi restando
il mondo e le sue leggi». Anche sulla figura dell’«Uomo-Dio» è
possibile rintracciare dei riferimenti in Novalis: «ogni uomo
che adesso vive di Dio e mediante Dio, deve egli stesso divenire
Dio»; «come il corpo sta in connessione con il mondo, così
l’anima con lo spirito. Entrambe le strade partono dall’uomo e
terminano in Dio». In altri termini, le coincidenze tra Papini e
Novalis si possono sintetizzare in questi aspetti: l’«Uomo-Dio»
onnipotente come il soggetto individuale; il possesso della
realtà come l’unità tra individuo e natura; l’«indiarsi»
dell’uomo come l’unità tra uomo e Dio. Papini non fa altro che
leggere Novalis attraverso i concetti del pragmatismo americano,
che ne escono rimodellati e adattati all’esigenza di definire
con ulteriori spunti il pragmatismo magico.
Il romanticismo entra pienamente nell’opera di Papini, non solo
con la figura del Novalis, ma come spirito che pervade tratti
della storia della filosofia. Il tema è affrontato in Unico e
diverso, dove il romantico è messo a confronto e in contrasto
con lo spirito classico. Il romanticismo è attività, libertà,
mobilità, sentimento, volontà, passione, pessimismo, idealismo,
misticismo, genio, rivoluzione. A questi si contrappongono i
caratteri del classico come passività, determinismo, fissità,
ragione, conoscenza, dovere, ottimismo, positivismo, teologia,
normalità, tradizione. Una contrapposizione che ricorda
vagamente quella tra spirito dionisiaco e spirito apollineo di
Nietzsche. Il romanticismo «rappresenta la liberazione
dell’uomo, dell’individuo particolare e passionale, fantastico e
mobile, contro l’armatura di tradizioni, di regole, di norme, di
leggi, di uniformità che fasciavano e asfissiavano la libera
vita». La soppressione dello spirito classico permette il
ritorno delle aspirazioni dell’uomo, il suo desiderio di
onnipotenza. Muore la filosofia dei sistemi, delle
dimostrazioni, della logica e nasce o, meglio si impone, la
filosofia della volontà, dell’azione, della potenza.
In tale contesto James sembra sparire. Invece è proprio
dal filosofo americano che Papini intraprende la via per il
nuovo modello filosofico: «presi dunque la parte che suggeriva
di più – quella che insegnava come rendere vere per mezzo della
fede, le credenze non rispondenti alla realtà». Gli studi di
James forniscono l’incipit e un supporto filosofico
fondamentale: «come la conoscenza scientifica creava, in certo
modo, i fatti, così la volontà di credere creava la verità, così
lo spirito doveva agire sul tutto».
Il pragmatismo magico è la sintesi di una lettura personale e
fortemente arbitraria di quegli autori che meglio si adattano
all’esigenza esistenziale di uscire dal pessimismo conoscitivo,
in cui Papini era caduto in gioventù. Il pragmatismo magico non
nasce dall’analisi puntuale del pragmatismo americano, ma si
serve di esso per interpretare altri autori e inserire in una
nuova filosofia elementi talvolta lontani e contraddittori ma
con il minimo comune denominatore del primato dell’azione, della
volontà e dell’onnipotenza, del soggetto nei confronti della
realtà.
*
Wikipedia
Giovanni Papini (Firenze, 9 gennaio 1881 – Firenze, 8 luglio 1956) è stato uno scrittore, poeta e aforista italiano.
Nacque in una famiglia artigiana da Luigi Papini, ex
garibaldino e repubblicano ateo e anticlericale, ed Erminia
Cardini, che lo fece battezzare all'insaputa del padre. Ebbe
un'infanzia e un'adolescenza molto povere e solitarie, passate a
leggere i libri della biblioteca del nonno prima e di quella
pubblica poi. Si diplomò maestro nel 1899, insegnando per
qualche anno, poi diventò bibliotecario. Attirato dalla
letteratura, collaborò con le riviste fiorentine La Rivista,
Sapientia e Il Giglio. Nel 1903, fondò assieme a Giuseppe
Prezzolini, Giovanni Vailati e Mario Calderoni la rivista
Leonardo, poi collaborò come redattore capo ne Il Regno del
nazionalista Enrico Corradini. Iniziò a pubblicare alcuni
racconti e saggi, fra cui Il crepuscolo dei filosofi
(1905), nel quale criticò i sistemi filosofici di Immanuel Kant,
Friedrich Hegel, Arthur Schopenhauer, Auguste Comte, Herbert
Spencer e Friedrich Nietzsche, dichiarando infine la morte della
filosofia stessa.
Nello stesso anno, pubblicò Il tragico quotidiano che
sancì, assieme a Il pilota cieco (1907), la nascita
delle cosiddette "novelle metafisiche", un genere letterario che
innovò profondamente l'ambito novellistico.
Il distacco progressivo da Prezzolini, più incline a seguire
Benedetto Croce, e i disaccordi con gli altri collaboratori
segnarono la chiusura del Leonardo nel 1907. Sempre in
quell'anno, Papini si sposò con Giacinta Giovagnoli.
Nel 1911, Papini fondò con Giovanni Amendola la rivista Anima, di tendenza teosofica, che ebbe solo un anno di vita. Nel 1912, pubblicò Le memorie d'Iddio, l'apice della sua protesta anticristiana e del suo nichilismo, in cui mette in scena un Dio che si augura la morte della fede e dunque la propria fine, pentito com'è di aver creato tanto male nel mondo. L'opera generò molto scalpore e costò all'autore un processo per oltraggio alla religione ma venne ricusata da Papini in tarda età, tanto da incaricare la figlia Viola di ricercare le copie ancora esistenti e darle alle fiamme.
Il 1º gennaio 1913 creò con Ardengo Soffici la rivista Lacerba,
che uscì a Firenze. Appoggiò per poco il futurismo, che per lui:
«è guerra contro l'accademia, contro l'università, contro lo
scolarismo, contro la cultura ufficiale, è liberazione dello
spirito dai vecchi legami, dalle forme troppo usate... è
forsennato amore dell'Italia e della grandezza d'Italia... è
odio smisurato contro la mediocrità, l'imbecillità, la
vigliaccheria, l'amore dello status quo e del quieto vivere,
delle transazioni e degli accomodamenti...»
Sempre nel 1913 pubblicò Un uomo finito,
un'autobiografia scritta ad appena 30 anni di un giovane "nato
con la malattia della grandezza", che si butta sullo studio per
creare un'opera che possa superare Dante Alighieri e William
Shakespeare in importanza. Sopravviene di tanto in tanto nel
romanzo la delusione per l'impossibilità di raggiungere
l'obiettivo troppo ambizioso.
Si batté per l'intervento italiano nella prima guerra mondiale.
Celebre il suo articolo Amiamo la guerra, apparso su
Lacerba in cui afferma: «Siamo troppi. La guerra è una
operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo
di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa
il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno
alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che
vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che
lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il
coraggio di rifiutar la vita. »
Il 22 maggio 1915, chiuse la rivista pochi giorni prima
dell'entrata in guerra, dimostrandosi però ampiamente pentito
del suo interventismo e dichiarando "di sentirmi quasi complice,
benché inerme, di quella forsennata devastazione".
Nello stesso anno, pubblicò le prose poetiche Cento pagine di poesia, Buffonate e Maschilità. Nel 1916, con le sue Stroncature polemizzò con Boccaccio, Shakespeare e Goethe, ma anche con Croce, Gentile, Benelli (definito "ciabatta smessa del dannunzianesimo") e col "passerotto agevolino" Guido Mazzoni. Del 1917 sono i versi misticheggianti di Opera prima.
Dopo anni di profondi travagli spirituali, nel 1921 annunciò la
sua conversione religiosa pubblicando la Storia di Cristo,
che si rivelò essere un successo editoriale non solo in Italia:
basato sulla testimonianza dei Vangeli canonici e anche di
quelli apocrifi, narra della vita di Gesù per invocarne la
grazia verso l'umanità corrotta.
Suscitò invece accese polemiche il Dizionario dell'omo salvatico (1923), scritto in collaborazione con Domenico Giuliotti, in cui si scaglia contro gli ebrei, i protestanti, le donne, il laicismo e la democrazia. Pubblicò poi Pane e vino (1926), Sant'Agostino (1929), Gog (1931) e Dante vivo (1933) .
Aderì al fascismo ma nel 1935 rifiutò l'offerta della cattedra
di letteratura italiana all'Università di Bologna. Nel 1937,
pubblicò il primo (poi rimasto unico) volume della Storia della
letteratura italiana con la dedica Al Duce, amico della poesia e
dei poeti. Poco dopo ricevette la nomina ad accademico d'Italia
e la direzione dell'Istituto di Studi sul Rinascimento e della
rivista La Rinascita.
Fu firmatario del Manifesto della razza nel 1938.
Dal 1942 è stato vice presidente dell'Unione Europea degli
Scrittori. Nel 1943 si fece terziario francescano nel convento
della Verna.
Dopo la seconda guerra mondiale, pur emarginato di fatto dal
mondo della cultura ed appoggiato dai soli cattolici
tradizionalisti, pubblicò libri che fecero ancora scalpore come
le Lettere agli uomini di Celestino VI (1946), la Vita
di Michelangelo (1949), Il libro nero (1951) e
soprattutto
Il diavolo (1953). Da ricordare anche La loggia dei
busti e La spia del mondo (entrambi del 1955).
Collaborò anche al Corriere della Sera, pubblicandovi articoli quindicinali pubblicati postumi nel 1971 col titolo Schegge.
Debilitato dalla malattia, e pressoché cieco negli ultimi anni
di vita, lavorò con l'aiuto della nipote a Giudizio
universale, un progetto giovanile pubblicato postumo nel
1957.
Vennero pubblicati dopo la sua morte anche La felicità
dell'infelice (1956), La seconda nascita (1958, in
cui Papini ripercorre le sue vicissitudini fino alla
conversione), Diario (1962) e Rapporto sugli uomini
(1978).
Scrittore controverso fu apprezzato peraltro da Jorge Luis
Borges che ritenne lo scrittore "immeritatamente dimenticato".
In filosofia fu seguace del pragmatismo e apprezzato da William
James.