Giovanni Papini

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Scrittore italiano (Firenze 1881 - ivi 1956). P. fu parte viva del movimento letterario, filosofico e politico, che ai primi del Novecento promosse da Firenze lo svecchiamento della cultura e della vita italiana. Tra i fondatori delle riviste Leonardo (1903) e Lacerba (1913), concepì la letteratura come «azione» e diede ai suoi scritti un tono oratorio e dissacrante. Tra le opere più note si ricordano: l'autobiografia Un uomo finito, il saggio Stroncature, le prose liriche Giorni di festa (1918).

VITA

Nel 1903, già fornito di una cultura superiore agli studi scolastici compiuti, fu fondatore con G. Prezzolini e altri amici (1903) di Leonardo (nella quale scrisse con lo pseudonimo di Gian Falco), rivista vivacemente combattiva, che divenne presto uno dei più notevoli organi di reazione al positivismo filosofico e letterario in nome dei valori dello spirito, divulgatore in Italia di contemporanei movimenti filosofici stranieri, quali l'intuizionismo francese del Bergson e il pragmatismo anglo-americano del Peirce e del James, promotore infine dello svecchiamento della cultura italiana, in nome di un'individualistica e sognatrice concezione della vita e dell'arte.

Redattore per qualche tempo del Regno di E. Corradini; direttore, nel 1912, della Voce, fondato da Prezzolini con l'intento di farvi collaborare gli uomini e le dottrine più rappresentativi a una rieducazione morale, politica, artistica degli Italiani; fondatore (1913), con A. Soffici, di Lacerba, che rappresenta il momento della sua adesione al futurismo.

Con l'entrata in guerra dell'Italia - in favore della quale Lacerba sostenne una fierissima battaglia - il gruppo fiorentino si disperde, non senza aver agitato vecchi e nuovi problemi della cultura, diffuso la conoscenza di movimenti filosofici e artistici forestieri, e rivelato alcune notevoli figure di scrittori e di artisti.

OPERE

Studioso di filosofia e di religione, critico e polemista, narratore e poeta, la costante della sua personalità è data dall'attivismo, dal volontarismo, che lo indusse a farsi divulgatore fra i primi in Italia del pragmatismo, e poi a passare da questa ad altre filosofie, sempre insoddisfatto perché vi cercava il segreto per diventare giudice sicuro del bene e del male, una sorta di demiurgo o di uomo-dio. Il suo volontarismo romantico e decadente lo portò a concepire la letteratura come «azione» e a dare ai suoi scritti un carattere da «giudizio universale», sia che in una serie di saggi per lo più demolitori - le famose «stroncature» - passasse in rassegna filosofi e scrittori d'ogni tempo (Il crepuscolo dei filosofi, 1906; Ventiquattro cervelli, 1912; Stroncature, 1916; Testimonianze, 1918), sia che delle proprie esperienze facesse il bilancio fallimentare nelle forme trasposte della parabola, dell'allegoria, della novella fantastica (Il tragico quotidiano, 1906; Il pilota cieco, 1907; Parole e sangue, 1912; Buffonate, 1914), ovvero nella forma diretta, fra il diario e la confessione di Un uomo finito (1912: il suo libro migliore, che esercitò un notevole influsso sulla giovane letteratura d'allora).

E quando P. si convertì alla fede cattolica (e il primo frutto fu la Storia di Cristo, 1921, che ebbe rapida e vasta fortuna), il suo fu un cristianesimo da «atleta di Dio», un poco alla L. Bloy. Il tono oratorio, che ha sempre dominato in P., via via accentuerà il suo turgore baroccheggiante, anche se non verranno mai del tutto a mancare nei suoi libri, da Gog (1931) a Figure umane (1940), a Le felicità dell'infelice (1956), quelle improvvise schiarite nelle quali il cruccio e l'orgoglio cedono alla malinconia del momento o all'intimità del ricordo.

Ed è lì che va cercato il P. propriamente artista, dalla vena agreste e casalinga, che gli dettò le pagine più belle di Un uomo finito, le prose liriche o «frammenti» di Cento pagine di poesia (1915) e di Giorni di festa (1918), e alcune poesie in versi di Opera prima (1917) e di Pane e vino (1926).
Nel 1937 P. fu nominato accademico d'Italia.

La sua opera, già pubblicata quasi interamente dall'editore Vallecchi, è stata raccolta, compresi alcuni inediti e il post. Giudizio universale (1957), in 10 voll. (1959-66) dei «Classici contemporanei italiani» dell'editore Mondadori.

Si veda anche il suo carteggio con G. Prezzolini, Storia di un'amicizia (2 voll., 1966-68).

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A cura di Andrea Edoardo Paron

Vita e opere

Giovanni Papini nasce a Firenze nel 1881, da Luigi Papini, commerciante di mobili, e Erminia Cardini. Già a quindici anni, a scuola, pubblica un giornalino scritto a mano intitolato «L’Amico dello scolaro», dove pubblica il suo primo racconto Il leone e il bimbo: «finalmente un sabato sera, aprendo per la strada, al lume rosso del gas, il giornale, vidi la figura d’un cipiglioso leone in mezzo a ciuffi d’erbe a punta e, in fondo a una colonna, il mio nome e cognome. […] Mi ricordo ancora il caldo che mi salì al viso e l’ondata, mista di pudore e di trionfo, che mi riempì il quindicenne cuore». Nel 1899 ottiene il diploma di maestro presso la Scuola Normale e inizia a insegnare lingua italiana all’istituto inglese di Firenze. Nel 1900 nascono le prime e importantissime amicizie, tra cui quella fondamentale con Giuseppe Prezzolini, con il quale passa lunghe serate sui lungarni in impegnatissime conversazioni, dove già emerge la predilezione per la filosofia e l’esercizio del pensiero. Dalle memorie di quegli anni affiora un importante predilezione per Max Stirner, che lo affascina a tal punto da dichiararsi politicamente anarchico e filosoficamente «solipsista morale». Nel 1902 viene nominato bibliotecario del Museo di Antropologia di Firenze, dove ottiene il primo compenso fisso mensile e la possibilità di leggere senza limitazioni ciò che gli interessa.

Il 1903 è l’anno di svolta. Dopo mesi di gestazione e preparazione, Papini riesce a pubblicare il «Leonardo», la rivista che sognava da anni e che poteva dare spazio alle sue ambizioni e alle sue acerbe teorie: «sentivo il bisogno apostolico di liberare gli altri come avevo, mi pareva, liberato me stesso colla nuda e coraggiosa teoria. In che modo? Fondando un giornale». La rivista appare, sin da subito, come uno sfogo a tutto campo, senza obiettivi precisi, confusa in una miscela esplosiva di arte, filosofia, letteratura e politica. Il giornale suscita pareri discordanti e non si diffonde come nelle intenzioni dei collaboratori. Iniziano i dissapori e già all’inizio dell’estate Papini, trovatosi solo con Prezzolini, si convince a dare una svolta e un taglio più omogeneo alla conduzione del giornale: «l’arte fu messa un po’ in disparte; la letteratura e la politica furono cacciate via e la filosofia diventò finalmente padrona, signora, dominatrice». L’iniziativa sembra funzionare: iniziano le recensioni della rivista in Italia e all’estero; la vendita delle copie aumenta in modo considerevole; giovani intellettuali chiedono insistentemente di poter collaborare; importanti personalità italiane e straniere inviano i loro articoli; si ospitano le prime traduzioni di Schiller, Kierkegaard, Bergson e James; il nome di Papini diventa noto e cominciano ad arrivare i primi inviti a conferenze e congressi.

La mera polemica, il gusto dell’attacco e della distruzione della filosofia diventano insufficienti. Papini sente l’esigenza di inquadrarle in un progetto più ampio, che, partendo dalla critica, dia luogo a una visione dell’uomo in grado di conciliare sentimento e volontà, libertà e azione, spirito e materia. Il pragmatismo di William James, secondo l’interpretazione di Papini, offre questa possibilità. Già nel dicembre del 1903, sul «Leonardo», poteva parlare di Morte e resurrezione della filosofia, dove la filosofia moriva come sistema e tornava a nascere come progetto, preludendo a una sincera, quanto personalissima, adesione al pragmatismo jamesiano. Papini aveva letto James anni prima, attraverso le recensioni di Vailati e le prime traduzioni di Calderoni e Ferrari, senza però rimanerne folgorato. Ora invece si prepara a diventarne il principale divulgatore in Italia e non solo. Già nel 1904, a soli ventitre anni, partecipa a Ginevra al II congresso internazionale di filosofia, in qualità di rappresentante italiano del pragmatismo, e interviene con una memoria sugli Extrèmes de l’Activité théorique. Sempre nel ’04 è invitato al congresso internazionale di psicologia a Roma, dove incontra James e tiene una conferenza sull’«Influenza della volontà sulla conoscenza», dove le teorie del filosofo americano sono accolte in pieno. L’incontro stesso con James è descritto in termini euforici, e rimarrà uno dei ricordi più piacevoli dell’intero periodo. Per tutto il 1905 Papini pubblica articoli sul pragmatismo, non solo su «Leonardo», organizza incontri e conferenze, fonda addirittura a Firenze un Pragmatist Club.

Nel 1906 escono i primi libri di una certa importanza: Il crepuscolo dei filosofi, sagace rassegna a metà tra l’insulto e l’analisi seriosa di Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer, Nietzsche e la raccolta di racconti fantastici Il tragico quotidiano. Il Crepuscolo è un progetto che Papini covava già da anni e che così descriveva: «e intanto, non potendo far nulla, scontento ed eccitato, avido e schivo, scaricavo il mio sdegno in aforismi corrosivi, in sfoghi lirici e mordaci a somiglianza di quelli di Nietzsche; e meditavo, in odio alla filosofia e a Kant suo degno ruffiano, una “Critica di ogni Ragione” – e un “Crepuscolo dei filosofi”». I filosofi al crepuscolo ci vengono presentati come se stessero salendo sul patibolo, con Papini che legge loro le accuse e i motivi della condanna a morte. Non c’è via di scampo ed essi passano in rassegna senza diritto di replica. Lo definisce un macello, un mattatoio, un delirio di onnipotenza, la rivolta di una generazione che si libera dalle catene dei padri. Il primo della lista è Kant, poi arriva Hegel e dietro di lui, a sorpresa, Schopenhauer, che tanto aveva appassionato il giovane Papini; il positivismo è il principale indiziato, non può mancare, e giù contro Comte e Spencer, prima di arrivare a un finale inaspettato: Nietzsche. Proprio il filosofo dello spirito dionisiaco, della volontà di potenza, della morte di Dio e dell’aurora che si annuncia, in altre parole il filosofo che sembrava l’ispiratore recondito dell’avventura leonardiana, veniva affossato senza pietà. Papini lo fa con dolore, ma lo fa perché è costretto, salvarne uno significherebbe salvare l’intero sistema. La lezione kantiana e tutto l’ottocento sono spazzati via d’un colpo solo.

Nello stesso anno intraprende un viaggio a Parigi presso l’amico Ardengo Soffici, dove incontra vari filosofi tra cui Boutroux e Bergson, che gli chiede un’opera in francese sul pragmatismo. Tra i leonardiani nel frattempo nascono forti contrasti, ma la rivista continua le sue pubblicazioni fino a quando, rendendosi i conflitti insanabili, Papini stesso ne decreta la chiusura nell’estate del 1907. Nonostante ciò il programma del pragmatismo procede con nuovo vigore e nuova forza. Papini inaugura una collana di pubblicazioni, dove trovano spazio tutti gli esponenti del pragmatismo americano ed europeo. L’attività di divulgazione continua, ma, accanto a essa, Papini matura la convinzione di superare la lezione del James, e fare del pragmatismo una filosofia dell’azione intrisa di forti motivi religiosi: «bisognava tirarla fuori da quel piede di casa anglosassone, da quel pietismo missionario in borghese, trascinarla per i cieli dell’assurdo». Il progetto non sembra poi così complesso: occorre agganciare il will to believe di James a Novalis, alla mistica romantica e a quella cristiana. Il risultato deve essere una filosofia o, se si vuole, un pragmatismo, in cui «lo spirito potesse far tutto da sé, col solo suo comando, senza niente framezzo».

Si tratta in realtà di una prospettiva che Papini aveva già accarezzato due anni prima, quando con Prezzolini progettava una fantomatica Divine School, una scuola religiosa di ispirazione pragmatista da diffondere prima in America e poi in Europa, per offrire a tutti un nuovo credo in cui i maggiori desideri dell’uomo trovassero accoglimento. Il progetto ovviamente doveva tramontare, nonostante i puntigliosi preparativi; ma l’idea di una filosofia che contemplasse il desiderio di onnipotenza dell’uomo non poteva sparire e sia Prezzolini che Papini avrebbero continuato a perseguire tale obiettivo seppure per strade diverse: il primo passando attraverso Novalis e approdando all’idealismo crociano, il secondo, come abbiamo visto, operando degli sviluppi al pragmatismo di James.

A partire dal 1907 Papini si dedica anche ad un’intensa vita familiare. Nel ’07 si sposa con Giacinta Giovagnoli, nonostante anni prima avesse solennemente giurato insieme a Prezzolini e altri che non si sarebbe mai sposato (l’avrebbero fatto poi tutti), e nascono poi le due figlie Viola e Gioconda, nel 1908 e nel 1910.

Nel 1912, a soli trentuno anni, pubblica la sua autobiografia Un uomo finito, cioè la storia del rapporto tra Papini e Dio, attraverso la mediazione del will to believe, che emerge insistentemente in ogni capitolo; un rapporto che vive momenti di pathos e di riflessioni razionali, senza però risolversi mai in nulla, gettandolo spesso nello sconforto e nella necessità di mutare indirizzo di pensiero verso l’arte e la letteratura. Nel rivolgersi ai giovani, sul finire del libro, esortandoli a adempiere il loro compito di smantellamento, Papini sembra già sentirsi sulla strada del crepuscolo e accetta senza rancore che qualcun altro si faccia avanti. La giovinezza era finita, anche lui diventava storia, padre, una catena di cui liberarsi.

Il distacco dalla giovinezza prepara in qualche modo il definitivo distacco anche dal pragmatismo che, come avrebbe poi detto Prezzolini, non era stato che una cometa, cui dedica ancora un’opera nel 1913, Sul pragmatismo. Proprio nel corso di quest’anno Papini intraprende una nuova via intellettuale, fondando un giornale, più di arte e letteratura che di filosofia, «Lacerba», diretta insieme a Ardengo Soffici, la quale per un breve periodo intrattiene stretti legami con Filippo Tommaso Martinetti e aderisce al futurismo.

Allo scoppio della prima guerra mondiale Papini si schiera dalla parte degli interventisti e tenta in tutti i modi di arruolarsi, senza riuscirci a causa della forte miopia. Così infatti scrive a Soffici pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto: «molti amici nostri sono partiti o stan per partire. Io sto facendo i documenti per entrare sottotenente. Non si riesce a star qui a non far nulla». Dopo la fine del conflitto si trasferisce a Roma dove scrive per «Il Tempo».

Il 1919 è un nuovo anno di svolta. Papini, dopo un’improvvisa illuminazione,comincia a scrivere La storia di Cristo, che viene pubblicato due anni dopo e ottiene subito un successo mondiale. Negli anni seguenti si susseguono molte pubblicazioni a sfondo letterario o religioso, come Sant’Agostino, Pane e vino, Gog, Eresie letterarie, Dante vivo (che ottiene il premio Firenze). A partire dagli anni ’30, Papini, ormai intellettuale riconosciuto, ottiene numerose attestazioni, come la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Bologna, che già era stata di Carducci e di Pascoli; la nomina ad accademico, che gli consente di lavorare alacremente come organizzatore culturale e redattore di importanti riviste italiane.

Il periodo bellico è trascorso presso il convento della Verna, dove diventa terziario francescano con il nome di fra’ Bonaventura e si intrattiene con i giovani studenti di filosofia e teologia in argomenti filosofici e spirituali. Sul finire del ’44 riesce a tornare a Firenze, dove è protagonista di un episodio singolare: «mentre andavo verso la biblioteca della Fraternità dei laici per cercare una storia della filosofia vedo una macchina americana fermarsi dinanzi a me. Un giovane ufficiale scende e mi chiede se sono io Giovanni Papini. Si comincia a parlare e si viene a sapere che si tratta di due ammiratori miei che erano andati a cercarmi a Firenze. Sorpresa e felicità». Papini oramai è conosciuto a livello mondiale.

Dopo la guerra Papini continua le sue pubblicazioni come Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Passato remoto e Il diavolo. A partire dal 1952 iniziano a manifestarsi i sintomi della malattia che lo condurrà alla morte, ma continua a lavorare dettando faticosamente alla nipote Anna. In particolare è da segnalare la rubrica Schegge che tiene sul «Corriere della sera» e che avrà un successo incredibile.

Nel 1956 detta la sua ultima Scheggia: Le felicità dell’infelice: «Una felice agonia cominciava di fatto con la mirabile Scheggia dove l’infelice, più provato e più forte di Giobbe, numerava le felicità sue». Muore a Firenze, nella sua Firenze, che tanto peso ha avuto nella sua formazione culturale di intellettuale brillante e coraggioso.

Il pragmatismo

L’adesione di Papini al pragmatismo risponde a una duplice esigenza: da un lato trovare una soluzione organica ai vari intendimenti filosofici; dall’altro possedere una filosofia in grado di sostenere le proprie scelte esistenziali. In altri termini, a una vita intesa come missione doveva corrispondere una filosofia del fare. Il pragmatismo, in senso etimologico, veniva incontro a tali necessità: il πρὰγμα risultava l’ingrediente indispensabile per una filosofia nuova e una vita all’attacco.

Sotto il profilo filosofico il concetto di azione non è che l’inizio e la fine dell’indagine sul pragmatismo: l’esigenza di una filosofia dell’azione, o pragmatista in senso stretto appunto, porta all’analisi della volontà come funzione determinante non solo dell’azione, ma anche della credenza, a sua volta fondamento di conoscenza e verità, per tornare infine a una nuova definizione dell’azione in chiave volontaristica, idealistica e spiritualistica o, secondo la definizione di Papini, dai tratti magici.

1. Azione

Nell’articolo «Il pragmatismo messo in ordine» Papini sintetizza in sei punti quali siano le origini filosofiche del pragmatismo, inserendovi due riferimenti assai eloquenti: l’utilitarismo in quanto «ha diretto l’attività intellettuale verso i problemi pratici, quelli, cioè, la cui soluzione è suscettibile di fare cambiare alcune delle nostre azioni» e il kantismo, «col suo primato della ragion pratica». Secondo Papini il pragmatismo, proprio per la varietà di aspetti cui si ispira, può essere suddiviso al suo interno in tre regioni: la prima inerisce ai rapporti tra generale e particolare; la seconda alla scelta delle convenzioni rappresentative e ai modi di espressione; la terza alla cultura della credenza. Se le prime due analizzano i modi con cui la filosofia si deve rapportare con la realtà e con se stessa in termini di linguaggio e concetti, la terza regione ci porta al nucleo fondamentale del pragmatismo, «perché insegna il modo di procurarsi delle convinzioni e il modo di trasformare per tale mezzo la realtà», cioè i metodi con cui perveniamo al vero πρὰγμα. Non si tratta, dunque, di determinare le condizioni che generano un’azione qualsiasi o definire le leggi che regolano la nostra condotta, ma di ricercare il motivo profondo e determinante che genera l’Azione originaria, quella in grado di «aumentare il nostro potere di modificare le cose».

 La terza regione del pragmatismo riguarda infatti da un lato le cause del credere, cioè l’agire come se si credesse, dall’altro gli effetti del credere sulla verità e sull’azione. In sostanza, il vero πρὰγμα, cioè il potere di modificare la realtà, ha luogo soltanto se noi possediamo una conoscenza certa della realtà, che non può derivare dall’esperienza diretta del mondo, perché parziale e incompleta, ma è fornita da una credenza, che, essendo basata su un atto di fede, ci permette di pervenire a una comprensione assoluta della totalità delle cose. Soltanto con il will to believe possiamo raggiungere il Wille zur Macht, inteso non in senso nietzscheano, ma come «aspirazione a poter agire».

Secondo Papini, per poter agire nella realtà e modificare le cose, occorre fare riferimento a un atto originario che scateni un desiderio di potenza infinita. Un potere siffatto, però, non può essere atemporale e astorico, perché si tratta pur sempre di un potere di cambiare il mondo in cui viviamo e che perciò deve essere conosciuto. L’atto originario è pertanto preceduto da un atto di fede, un will to believe appunto, che ci garantisce la materia su cui possiamo azionare il nostro potere.

Una volta definiti i caratteri del concetto di azione, cioè del πρὰγμα originario alla base di tutti gli altri, è possibile procedere all’analisi delle azioni così come si presentano in concreto nella vita quotidiana. Papini dedica a tale argomento un intero saggio, intitolato Agire senza sentire e sentire senza agire, in cui dimostra come le nostre azioni non dipendano quasi mai da un calcolo razionale, ma siano per lo più riferite ai nostri sentimenti. Già James, in Will to believe, aveva posto l’accento sulla necessità di considerare il comportamento dell’uomo come determinato non solo dagli scopi che la ragione suggerisce, ma soprattutto dalle esigenze dei propri sentimenti.

 Secondo Papini, sono quattro i casi in cui si riscontra la reciproca influenza tra azione e sentimento: 1) agire senza sentire per giungere a sentire; 2) agire senza sentire per giungere ad altri scopi; 3) sentire senza agire per non sentire; 4) sentire senza agire per altri scopi. In altri termini, ci troviamo di fronte, nel primo caso, a colui che fa certe cose per interiorizzare un sentimento, nel secondo all’ipocrita, nel terzo allo stoico e nell’ultimo al dissimulatore. Per ogni situazione vengono forniti innumerevoli esempi e riferimenti filosofici e letterari, tanto che il saggio, per come si presenta e per come Papini stesso afferma, è principalmente materia dello psicologo e dell’educatore. In realtà, l’ultimo paragrafo dell’articolo porta a una inaspettata conclusione: «queste soluzioni fra l’agire e il sentire potrebbero essere le prime basi per la creazione definitiva di un’arte di dominare e modificare lo spirito a nostra volontà». L’analisi in concreto delle azioni dell’uomo, come dettate dai sentimenti, rivela una nuova dimensione del πρὰγμα originario. Papini si rende conto che non solo lo spirito agisce sulle cose, ma anche su se stesso, e che una condotta coerente non può prescindere da un’arte di dominare lo spirito, cioè da una prassi e quindi da un’azione che stabilisca da principio in che modo il soggetto debba porsi dinnanzi al mondo e alla sua varietà.

Per modificare il mondo è dunque necessario: conoscere il mondo nella sua interezza attraverso un atto di fede, cioè attraverso una credenza; dare luogo a un’azione originaria, cioè accrescere la nostra potenza nei confronti delle cose; adottare un’arte in grado di dominare il nostro spirito, cioè agire su noi stessi per essere coerenti nel rapportarci alla realtà. Queste strutture si presentano ovviamente in astratto, ma nel concreto non avviene nient’altro che la temporalizzazione di questi momenti: «la fede dunque non agisce direttamente; essa non fa altro che provocare l’azione ed è veramente l’azione che modifica la realtà, cioè il rapporto che noi avevamo stabilito tra fede e realtà non è che in fin dei conti se non un caso speciale dell’influenza della fede sulla realtà».

La particolare accezione del concetto di azione è la chiave di lettura di tutto il pragmatismo papiniano e si configura certamente come una novità rispetto a James, in cui l’azione è spesso semplicemente l’intermediaria tra una credenza e la sua verificazione. In Papini invece rappresenta l’incipit di un nuovo discorso filosofico.

2. Volontà

Il concetto di azione si lega inevitabilmente a quello di ‘volontà’, che ne fa da funzione determinante. La concezione papiniana della volontà riprende senza distinzioni la definizione che James ne aveva dato in Will to believe, in cui per natura volitiva si intendono «tutti i fattori della fede come la paura e la speranza, il pregiudizio e la passione», una volontà non fondata sulla pura ragione ma influenzata dai sentimenti. Papini però non si ferma soltanto a James, ma ricerca in altri autori le stesse considerazioni. Sempre nell’articolo Il pragmatismo messo in ordine, infatti, laddove sono elencati i riferimenti filosofici cui il pragmatismo si ispira, vi è il riferimento al «volontarismo schopenhaueriano il quale ha insistito sull’influenza che la volontà (intendendovi anche i sentimenti) esercita sull’intelligenza».

Papini, in sostanza, è alla ricerca di una volontà che abbia in se stessa i desideri e le aspirazioni dell’uomo. L’agire per modificare la realtà non è solo il fine della volontà, ma ne è anche il motivo determinante, nel senso che la volontà deve inglobare in sé stessa l’esigenza sentimentale e passionale di cambiare le cose che ci circondano. In altri termini il πρὰγμα originario, sotto questa prospettiva, non si configura come un’azione diretta sullo spirito e sulle cose, ma piuttosto come l’insieme dei desideri, dei sentimenti e delle aspirazioni dell’uomo, diventando così il motivo determinante della volontà. Volontà che a sua volta non dà luogo semplicemente alle singole azioni tese a modificare la realtà, ma determina una credenza sul mondo, una volontà di credere appunto, che influisce inevitabilmente sul nostro modo di conoscere e determinare il criterio di verità.

Non si tratta però di una volontà che, in maniera differente, determina di volta in volta un’azione o una credenza o una conoscenza, ma le determina tutte quante insieme. Papini definisce infatti un’azione volontaria come «quel cambiamento di cose fra le cui cause si trovano anche delle nostre credenze». La volontà, dunque, nell’innescare un’azione, allo stesso tempo dà luogo a una conoscenza, facendo sì che l’azione possa concentrarsi su qualcosa che si conosce e che perciò può essere modificato. A tale soluzione Papini era già pervenuto in Morte e resurrezione della filosofia, dove la nascita di una nuova filosofia non sta solo nel conoscere e nell’accettare il mondo, ma nel «salvarlo, trasformarlo ed accrescerlo» e in questo contesto «ci dobbiamo proporre di rendere concreta la volontà, cioè di rendere esternamente i nostri desideri».

Se James aveva introdotto il will to believe nel campo etico e religioso, per far sì che i loro assunti indimostrabili fossero ugualmente accettati come veri, Papini applica la volontà di credere a ogni aspetto della vita dell’uomo, da quello filosofico a quello scientifico. Infatti, anche nei confronti di una teoria scientifica dobbiamo avere volontà di credere, affinché si possa agire su di essa, così come per qualsiasi problema si ponga dinanzi a noi. Soltanto attraverso tale volontà l’azione sulle cose risulta efficace e ci permette di discernere le situazioni utili da quelle non utili, le possibilità di azione da quelle di impotenza.

Da una concezione della volontà relegata a mero strumento attuativo dei nostri desideri, Papini passa a una definizione di essa centrale in tutto il pragmatismo, dove emerge come l’ingrediente indispensabile per determinare, senza mediazioni, una credenza sul mondo che è insieme una teoria della conoscenza e della verità e una teoria della prassi.

3. Credenza

Il concetto di ‘credenza’ era stato introdotto da Peirce come regola d’azione quando ci si trova nelle situazioni di dubbio, ponendo nel risultato dell’azione la sua verificazione. James, a sua volta, lo aveva ripreso nel will to believe affermando che nei casi di morale e religione la credenza produce da sé la sua verificazione. Tale problema è affrontato da Papini nel saggio La volontà di credere, dove, accanto a una interpretazione della fortunata formula jamesiana, apporta nuovi ed importanti contributi.

Secondo Papini la teoria di James può configurarsi come un «elogio del rischio», in quanto anche se ci troviamo dinanzi a situazioni incomprensibili razionalmente, se ci crediamo, non solo possiamo risolverle, ma la fede stessa può renderle vere. Tale assunto è riducibile a due affermazioni fondamentali: 1) è preferibile il rischio di una scelta attiva a una scelta passiva; 2) in certi casi la fede è la sola che possa rendere vero il risultato o, in altri termini, il pensiero diventa padrone del fatto. La credenza, in sostanza, ci permette di agire anche quando razionalmente saremmo portati all’inerzia.

Se è vero che da una credenza scaturisce un’azione sulla realtà, non è altrettanto sicuro che, come afferma James, una credenza abbia un effetto immediato sulla realtà: «la fede cioè non può modificare senza l’intermediario di azioni muscolari e strumenti la realtà, ma può modificare soltanto il nostro spirito». Anche lo spirito però non può essere modificato dalla fede in modo diretto, perché «la fede sola, non accompagnata da fatti, da azioni corrispondenti, non riesce a nulla», così come un’azione indiscriminata, ovvero non accompagnata da una credenza, non porta a nulla: «bisogna cioè che alla fede tengano dietro degli atti». La volontà infatti non genera solo una credenza, ma nello stesso tempo anche un’azione corrispondente: azione e credenza sono due atti volitivi contemporanei e necessariamente collegati.

 In altre parole, in seguito a una credenza si compiono degli atti corrispondenti, la cui ripetizione e la sicurezza che ne deriva, contribuiscono a rendere vera la credenza di partenza. Secondo Papini è vero che la credenza crea la sua stessa verificazione, ma lo fa non per se stessa, ma per mezzo di azioni che le sono corrispondenti. La modificazione della realtà dunque avviene per mezzo di azioni esterne, mentre la modificazione dello spirito avviene per mezzo delle abitudini, nel senso peirciano di habitus, che le azioni ripetute contribuiscono a formare. Nel caso delle modificazioni dello spirito torna quindi la definizione di credenza del Peirce, per cui le credenze sono regole per l’azione, cioè abitudini, vere perché utili nell’esperienza concreta. Papini, in sostanza, utilizza due pesi e due misure: nei confronti della realtà è lecita la credenza auto-verificantesi; nei confronti dello spirito la credenza è verificata dai risultati delle azioni, che, se positivi, forniscono delle regole sotto forma di abitudini.

4. Conoscenza e Verità

Il concetto di credenza implica necessariamente l’analisi dei criteri di verità e di conoscenza. Non si tratta per Papini di fondare una gnoseologia o una teoria della verità in chiave pragmatistica, ma mostrare come le nostre credenze influiscono, oltre che sulle nostre azioni, sul modo in cui concepiamo talune realtà, in modo particolare quelle di cui non possiamo avere esperienza diretta. Appartengono a questa sfera non solo gli aspetti religiosi e morali, sulla scorta di James, ma anche e soprattutto le teorie scientifiche, i nostri modi di prevedere le cose e le nostre regole d’azione in un determinato campo. Tutto ciò che trascende la mera particolarità delle cose, dai concetti ai sistemi, è credenza o, più precisamente, ‘previsione’.

All’interno del saggio Introduzione al pragmatismo, Papini precisa più volte il proprio pensiero su questo punto: «una delle massime più care ai pragmatisti è questa: che il senso delle cose consiste unicamente nelle conseguenze che ne aspettano quelli che le ritengono vere»; concetto che ribadisce alcune righe più avanti, dove afferma che «il pragmatismo non considera la previsione come possibilità di applicazioni pratiche o come aiuto per la verifica delle teorie, ma anche come mezzo di definizione e interpretazione delle teorie medesime». In altri termini, per conoscere ciò che accadrà o ciò che accade ma che risulta incomprensibile, si formula una teoria, cioè una credenza, la quale ci rassicura momentaneamente su come si svolgono o si svolgeranno le cose. La credenza implica delle azioni corrispondenti, che permettono di verificare o falsificare la credenza di partenza. Poiché la credenza fa sempre riferimento alla natura volitiva e, quindi, anche ai sentimenti e alle passioni, il criterio di verità e falsità non varrà per se stesso, ma dipenderà dall’utilità o meno che i risultati delle azioni avranno per le nostre aspirazioni. La volontà, dunque, determina una credenza e un’azione corrispondente, le quali risponderanno al criterio di utilità, risultando, in virtù di questo, vere oppure false.

Papini, contrariamente alla lezione di James, cui dice di riferirsi, non si sofferma in modo approfondito sul binomio verità-utilità, preferendo concentrarsi sull’intreccio tra volontà, azione, credenza e conoscenza. Il saggio Volontà e conoscenza, infatti, analizza «l’influenza che certi cambiamenti prodotti da credenze hanno su altre nostre credenze», che si manifesta in modo visibile proprio «nell’influenza di ciò che si fa su ciò che si sa». Di tale influenza si possono riconoscere quattro casi fondamentali: i primi due riguardano l’influenza di ciò che si fa delle cose sulla conoscenza delle cose e di noi stessi; gli altri due sull’influenza di ciò che si fa di noi sulla conoscenza di noi stessi e delle cose. Il primo caso inerisce agli esperimenti che noi operiamo al fine di accrescere le nostre conoscenze; il secondo riguarda l’aumento della nostra capacità di prevedere ciò che saremo in grado di fare in futuro di fronte a alcune situazioni; il terzo si riferisce agli «esperimenti personali», che ci informano sulle nostre potenzialità di azione; il quarto fa riferimento alla possibilità di cambiare le nostre abitudini mentali, affinché si possa influire direttamente sulla conoscenza delle cose. In altri termini, «non soltanto, dunque, quel che si fa dipende da quel che si sa, ma anche quel che si sa dipende da ciò che si fa».

La sfera della conoscenza in Papini non è autonoma rispetto alla pratica, ma anzi si nutre di essa per accrescere i propri confini. Attraverso le azioni, possiamo non solo verificare o falsificare le teorie, ma anche cambiare le nostre abitudini mentali, cioè le nostre credenze, in modo da renderle duttili di fronte ai nuovi scenari che la scienza può porci davanti. Papini sintetizza più volte questo argomento giocando sul noto detto baconiano “il sapere dà il potere”, trasformandolo in “il potere dà il sapere”, intendendo con ciò che il potere di agire sulla realtà e su noi stessi amplifica la nostra conoscenza delle cose.

5. Pragmatismo magico

5.1 Dal Pragmatismo al concetto di «Uomo-Dio»

Il saggio di apertura di Sul pragmatismo, che è anche cronologicamente il primo della produzione filosofica di Papini, appare come un discorso programmatico per una nuova filosofia, cui i saggi successivi, anche quelli che guardano più da vicino le teorie jamesiane, tengono fede in modo coerente. Papini, infatti, dopo aver dimostrato l’inutilità della filosofia, così come si era configurata storicamente, per le esigenze della nuova generazione, ne annuncia la resurrezione con un nuovo obiettivo: «una sola ambizione conserveremo: il possesso intero della realtà». E’ questo, in fondo, il nocciolo del pragmatismo papiniano, su cui ruotano quei concetti che gli studi di James gli avevano suggerito. Il pragmatismo americano forniva a Papini semplicemente un panorama concettuale su cui si adattava benissimo il nuovo progetto filosofico. La famosa teoria del pragmatismo come «corridoio di un grande albergo» rende perfettamente l’idea di come Papini stesso sia consapevole di muoversi verso orizzonti diversi da quelli che James aveva indicato.

Anche nell’autobiografia torna su questo punto, dedicandovi un passo che merita di essere riportato integralmente, perché fornisce la prospettiva in cui leggere il suo pragmatismo:

Il famoso pragmatismo non m’importava già in quanto regola di ricerca, cautela di procedimenti e riforma di metodi. Io guardavo più in là. In me sorgeva il sogno taumaturgico: il bisogno, il desiderio di purificare e rafforzare lo spirito per farlo capace d’agir sulle cose, senza strumenti e intermediari, e giunger così al miracolo e all’onnipotenza. Attraverso la «volontà di credere», tendevo alla «volontà di fare» – alla possibilità di fare. Se la volontà potesse estendere il suo cerchio di comando dal corpo proprio alle cose che lo circondano – e far sì che tutto l’universo fosse il suo corpo, obbediente in ogni parte a un ordine suo, come ora son obbedienti questi pochi fasci di muscoli! Fingevo di partire da un precetto di logica (pragmatismo) ma l’anima più segreta mia era assetata e invidiosa della divinità.

Il sogno della divinità e della magia, l’ambizione di possedere la realtà e di trasformarla, sono il filtro per comprendere per quale motivo i concetti che il pragmatismo pone sul tappeto siano così cari al programma papiniano: l’azione modifica le cose, la credenza le giustifica, la volontà genera l’azione, la conoscenza possiede la realtà.

E’ dalla combinazione di questi elementi che il pragmatismo diventa magico, perché con la pratica (accezione etimologica di pragmatismo assunta da Papini) «noi sfuggiamo a tutti gli inganni e a tutti i tradimenti del razionalismo e dell’espressione» e «creiamo collo spirito (nuovi mondi) e coll’azione che vivifica, per mezzo dello spirito, le cose, tendiamo a una più intensa psichizzazione del mondo». Si tratta di entrare nella realtà per cambiarla dal suo interno, sradicando il rapporto soggetto-oggetto che tutta la filosofia aveva insegnato, per fare sì che senza strumenti, ma con il solo miracolo si possa modificare il mondo. Soltanto l’«Uomo-Dio» può incarnare una potenza siffatta.

Papini dedica a tale figura un intero saggio, intitolato Dall’Uomo a Dio, dove ne analizza i caratteri, gli scopi, le creazioni. «Uomo-Dio» ha tre significati: cristiano, mistico, magico. Il significato cristiano implica il concetto di incarnazione, quello mistico la fusione dell’anima personale con l’essere universale, quello magico conduce all’idea di imitazione, ovvero «l’anima cerca di acquistare i poteri attribuiti a Dio, diventa divina in quanto le cose sono parti obbedienti di essa». Papini sceglie l’accezione magica, perché essa inverte il tradizionale rapporto tra uomo e divinità che la tradizione filosofica e teologica aveva imposto: «non è più Dio che s’incarna, ma è l’uomo che s’india».

Secondo Papini, l’esigenza della divinità è innata nell’uomo, perché l’insoddisfazione del presente ci porta a desiderare e a possedere sempre più. Si tratta di un tormento dal quale l’uomo può uscire attraverso due vie: la rinuncia o il possesso. Il metodo della rinuncia è storicamente fallito, nonostante la predicazione del cristianesimo e del buddhismo, e il desiderio di onnipotenza può aprire nuove prospettive. Ottenuta l’onnipotenza, l’«Uomo-Dio» non avrà più desideri e, quindi, sofferenze, ma inizierà a disprezzare le cose per la loro abbondanza e per la loro facilità a ottenerle. Se muore il desiderio, muore anche l’azione e senza azione cesseranno i cambiamenti: «il mondo diventerà, attraverso l’Uomo-Dio, una sola cosa, immobile, omogenea. […] La grande opera, il resultato ultimo dell’Uomo-Dio sarà la fine del mondo per mezzo della sua perfezione».

La strada per raggiungere l’«Uomo-Dio» è lunga e faticosa, occorre agire e imparare ad agire in modo diverso da come si fa quotidianamente. Non si tratta di un desiderio poetico o di un sogno delirante, ma di un problema strettamente pratico, ovvero la ricerca di una definitiva e sicura «arte del miracolo». Papini rintraccia le basi per un insieme di norme e regole in grado di aiutarci su questa via nei santi, nei mistici, nei profeti, nei fakiri, negli yoghi, in tutto un mondo di scuole spirituali scomparso o nascosto, la cui matrice di fondo è l’idea di un panteismo dove l’uomo può fare da spirito vivificatore della realtà.

L’obiettivo dell’«Uomo-Dio» è la pace definitiva, o nirvana, o quietude, che si raggiunge attraverso il cambiamento radicale del mondo secondo i propri modelli e i propri ideali. Tali modelli sono forniti dall’arte, dalla religione, dalla metafisica, «ch’esprimono i desideri di certi uomini singolari intorno alla costituzione dell’universo». Ma questi da soli non bastano, occorre un ulteriore contenitore di modelli, che contempli anche ciò che non esiste e ciò che non esisterà: queste sono le «scienze immaginarie», scienze cioè «di quello che accadrebbe se certe condizioni, certi fatti, certe parti della realtà cambiassero». L’«Uomo-Dio», in sostanza, distrugge i tormenti dell’uomo attraverso l’onnipotenza, che lo rende padrone di un’arte in grado di dominare e cambiare le cose, secondo tutti i modelli possibili immaginabili.

E’ il pragmatismo magico la risoluzione di questo problema pratico, di questa prassi dell’onnipotenza, di questa arte del miracolo. E’ un pragmatismo perché è una filosofia dell’azione, è magico perché permette all’uomo di diventare Dio, cioè di giungere all’onnipotenza. Il πρὰγμα è, in definitiva, l’azione che porta alla metamorfosi in una divinità.

5.2 Riferimenti filosofici

Secondo Papini, il pragmatismo magico doveva nascere dalle ceneri della filosofia, ma è proprio dagli autori del «Crepuscolo dei filosofi» che trae gli spunti migliori. Vi sono infatti, seppur interpretati in modo originale, il Kant della Ragion Pratica, l’Hegel dello Spirito Assoluto, lo Schopenhauer del Nirvana, il Nietzsche del Super-Uomo, il positivismo del primato della scienza. Papini comunque non si ferma soltanto a questi autori: certamente si possono rintracciare altri riferimenti importanti come la concezione della magia del ‘400-‘500, secondo cui l’anima dell’individuo, essendo parte della natura, poteva modificare la realtà dal suo interno, o il misticismo medievale, attraverso la figura di Eckhart e il suo processo di deificatio, che presuppone il distacco alle cose terrene e finite.

Tuttavia è da Novalis che Papini ottiene i suggerimenti più importanti per la definizione del pragmatismo magico. Innanzi tutto, la concezione di Novalis della poesia in senso etimologico (da ποιει̃ν, fare), come creazione, ben si adatta al significato che Papini dà al suo pragmatismo, e la stessa riduzione della filosofia a poesia coincide perfettamente con l’esigenza di passare dalla metafisica alla pratica. Il pragmatismo magico è, in sostanza, l’«idealismo magico» di Novalis e non è un caso che alcune formule del filosofo romantico siano riprese di peso dallo stesso Papini. Ad esempio, riguardo alla necessità di modificare il mondo secondo le proprie aspirazioni, Novalis afferma: «il mondo dev’essere com’io voglio. Il mondo è originariamente com’io voglio – se non lo trovo così, allora devo cercare l’errore di questo prodotto in entrambi i fattori – o in uno solo»; oppure, «io potrò ordinare il mondo per me – tramite le sue leggi – fermi restando il mondo e le sue leggi». Anche sulla figura dell’«Uomo-Dio» è possibile rintracciare dei riferimenti in Novalis: «ogni uomo che adesso vive di Dio e mediante Dio, deve egli stesso divenire Dio»; «come il corpo sta in connessione con il mondo, così l’anima con lo spirito. Entrambe le strade partono dall’uomo e terminano in Dio». In altri termini, le coincidenze tra Papini e Novalis si possono sintetizzare in questi aspetti: l’«Uomo-Dio» onnipotente come il soggetto individuale; il possesso della realtà come l’unità tra individuo e natura; l’«indiarsi» dell’uomo come l’unità tra uomo e Dio. Papini non fa altro che leggere Novalis attraverso i concetti del pragmatismo americano, che ne escono rimodellati e adattati all’esigenza di definire con ulteriori spunti il pragmatismo magico.

Il romanticismo entra pienamente nell’opera di Papini, non solo con la figura del Novalis, ma come spirito che pervade tratti della storia della filosofia. Il tema è affrontato in Unico e diverso, dove il romantico è messo a confronto e in contrasto con lo spirito classico. Il romanticismo è attività, libertà, mobilità, sentimento, volontà, passione, pessimismo, idealismo, misticismo, genio, rivoluzione. A questi si contrappongono i caratteri del classico come passività, determinismo, fissità, ragione, conoscenza, dovere, ottimismo, positivismo, teologia, normalità, tradizione. Una contrapposizione che ricorda vagamente quella tra spirito dionisiaco e spirito apollineo di Nietzsche. Il romanticismo «rappresenta la liberazione dell’uomo, dell’individuo particolare e passionale, fantastico e mobile, contro l’armatura di tradizioni, di regole, di norme, di leggi, di uniformità che fasciavano e asfissiavano la libera vita». La soppressione dello spirito classico permette il ritorno delle aspirazioni dell’uomo, il suo desiderio di onnipotenza. Muore la filosofia dei sistemi, delle dimostrazioni, della logica e nasce o, meglio si impone, la filosofia della volontà, dell’azione, della potenza.

 In tale contesto James sembra sparire. Invece è proprio dal filosofo americano che Papini intraprende la via per il nuovo modello filosofico: «presi dunque la parte che suggeriva di più – quella che insegnava come rendere vere per mezzo della fede, le credenze non rispondenti alla realtà». Gli studi di James forniscono l’incipit e un supporto filosofico fondamentale: «come la conoscenza scientifica creava, in certo modo, i fatti, così la volontà di credere creava la verità, così lo spirito doveva agire sul tutto».

Il pragmatismo magico è la sintesi di una lettura personale e fortemente arbitraria di quegli autori che meglio si adattano all’esigenza esistenziale di uscire dal pessimismo conoscitivo, in cui Papini era caduto in gioventù. Il pragmatismo magico non nasce dall’analisi puntuale del pragmatismo americano, ma si serve di esso per interpretare altri autori e inserire in una nuova filosofia elementi talvolta lontani e contraddittori ma con il minimo comune denominatore del primato dell’azione, della volontà e dell’onnipotenza, del soggetto nei confronti della realtà.

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Wikipedia

Giovanni Papini (Firenze, 9 gennaio 1881 – Firenze, 8 luglio 1956) è stato uno scrittore, poeta e aforista italiano.

Nacque in una famiglia artigiana da Luigi Papini, ex garibaldino e repubblicano ateo e anticlericale, ed Erminia Cardini, che lo fece battezzare all'insaputa del padre. Ebbe un'infanzia e un'adolescenza molto povere e solitarie, passate a leggere i libri della biblioteca del nonno prima e di quella pubblica poi. Si diplomò maestro nel 1899, insegnando per qualche anno, poi diventò bibliotecario. Attirato dalla letteratura, collaborò con le riviste fiorentine La Rivista, Sapientia e Il Giglio. Nel 1903, fondò assieme a Giuseppe Prezzolini, Giovanni Vailati e Mario Calderoni la rivista Leonardo, poi collaborò come redattore capo ne Il Regno del nazionalista Enrico Corradini. Iniziò a pubblicare alcuni racconti e saggi, fra cui Il crepuscolo dei filosofi (1905), nel quale criticò i sistemi filosofici di Immanuel Kant, Friedrich Hegel, Arthur Schopenhauer, Auguste Comte, Herbert Spencer e Friedrich Nietzsche, dichiarando infine la morte della filosofia stessa.

Nello stesso anno, pubblicò Il tragico quotidiano che sancì, assieme a Il pilota cieco (1907), la nascita delle cosiddette "novelle metafisiche", un genere letterario che innovò profondamente l'ambito novellistico.

Il distacco progressivo da Prezzolini, più incline a seguire Benedetto Croce, e i disaccordi con gli altri collaboratori segnarono la chiusura del Leonardo nel 1907. Sempre in quell'anno, Papini si sposò con Giacinta Giovagnoli.

Nel 1911, Papini fondò con Giovanni Amendola la rivista Anima, di tendenza teosofica, che ebbe solo un anno di vita. Nel 1912, pubblicò Le memorie d'Iddio, l'apice della sua protesta anticristiana e del suo nichilismo, in cui mette in scena un Dio che si augura la morte della fede e dunque la propria fine, pentito com'è di aver creato tanto male nel mondo. L'opera generò molto scalpore e costò all'autore un processo per oltraggio alla religione ma venne ricusata da Papini in tarda età, tanto da incaricare la figlia Viola di ricercare le copie ancora esistenti e darle alle fiamme.

Il 1º gennaio 1913 creò con Ardengo Soffici la rivista Lacerba, che uscì a Firenze. Appoggiò per poco il futurismo, che per lui: «è guerra contro l'accademia, contro l'università, contro lo scolarismo, contro la cultura ufficiale, è liberazione dello spirito dai vecchi legami, dalle forme troppo usate... è forsennato amore dell'Italia e della grandezza d'Italia... è odio smisurato contro la mediocrità, l'imbecillità, la vigliaccheria, l'amore dello status quo e del quieto vivere, delle transazioni e degli accomodamenti...»

Sempre nel 1913 pubblicò Un uomo finito, un'autobiografia scritta ad appena 30 anni di un giovane "nato con la malattia della grandezza", che si butta sullo studio per creare un'opera che possa superare Dante Alighieri e William Shakespeare in importanza. Sopravviene di tanto in tanto nel romanzo la delusione per l'impossibilità di raggiungere l'obiettivo troppo ambizioso.

Si batté per l'intervento italiano nella prima guerra mondiale. Celebre il suo articolo Amiamo la guerra, apparso su Lacerba in cui afferma: «Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. »

Il 22 maggio 1915, chiuse la rivista pochi giorni prima dell'entrata in guerra, dimostrandosi però ampiamente pentito del suo interventismo e dichiarando "di sentirmi quasi complice, benché inerme, di quella forsennata devastazione".

Nello stesso anno, pubblicò le prose poetiche Cento pagine di poesia, Buffonate e Maschilità. Nel 1916, con le sue Stroncature polemizzò con Boccaccio, Shakespeare e Goethe, ma anche con Croce, Gentile, Benelli (definito "ciabatta smessa del dannunzianesimo") e col "passerotto agevolino" Guido Mazzoni. Del 1917 sono i versi misticheggianti di Opera prima.

Dopo anni di profondi travagli spirituali, nel 1921 annunciò la sua conversione religiosa pubblicando la Storia di Cristo, che si rivelò essere un successo editoriale non solo in Italia: basato sulla testimonianza dei Vangeli canonici e anche di quelli apocrifi, narra della vita di Gesù per invocarne la grazia verso l'umanità corrotta.

Suscitò invece accese polemiche il Dizionario dell'omo salvatico (1923), scritto in collaborazione con Domenico Giuliotti, in cui si scaglia contro gli ebrei, i protestanti, le donne, il laicismo e la democrazia. Pubblicò poi Pane e vino (1926), Sant'Agostino (1929), Gog (1931) e Dante vivo (1933) .

Aderì al fascismo ma nel 1935 rifiutò l'offerta della cattedra di letteratura italiana all'Università di Bologna. Nel 1937, pubblicò il primo (poi rimasto unico) volume della Storia della letteratura italiana con la dedica Al Duce, amico della poesia e dei poeti. Poco dopo ricevette la nomina ad accademico d'Italia e la direzione dell'Istituto di Studi sul Rinascimento e della rivista La Rinascita.

Fu firmatario del Manifesto della razza nel 1938.

Dal 1942 è stato vice presidente dell'Unione Europea degli Scrittori. Nel 1943 si fece terziario francescano nel convento della Verna.

Dopo la seconda guerra mondiale, pur emarginato di fatto dal mondo della cultura ed appoggiato dai soli cattolici tradizionalisti, pubblicò libri che fecero ancora scalpore come le Lettere agli uomini di Celestino VI (1946), la Vita di Michelangelo (1949), Il libro nero (1951) e soprattutto Il diavolo (1953). Da ricordare anche La loggia dei busti e La spia del mondo (entrambi del 1955).

Collaborò anche al Corriere della Sera, pubblicandovi articoli quindicinali pubblicati postumi nel 1971 col titolo Schegge.

Debilitato dalla malattia, e pressoché cieco negli ultimi anni di vita, lavorò con l'aiuto della nipote a Giudizio universale, un progetto giovanile pubblicato postumo nel 1957.

Vennero pubblicati dopo la sua morte anche La felicità dell'infelice (1956), La seconda nascita (1958, in cui Papini ripercorre le sue vicissitudini fino alla conversione), Diario (1962) e Rapporto sugli uomini (1978).

Scrittore controverso fu apprezzato peraltro da Jorge Luis Borges che ritenne lo scrittore "immeritatamente dimenticato".

In filosofia fu seguace del pragmatismo e apprezzato da William James.