www.sapere.it
Scrittore e giornalista italiano (Fano 1883-Torino 1929).
Studiò alla scuola di Carducci e di Pascoli e fu amico di Renato Serra, del quale con G. De Robertis ha curato l'epistolario.
Scrittore vivace e di grande finezza, si occupò di storia, di
politica, di lingua e di stile (con saggi, di cui Teocrito, Ariosto,
minori e minimi è il suo esito migliore). Tra le sue opere più
pregevoli vanno ricordati i Racconti di guerra,
raccolta di corrispondenze giornalistiche in cui la sua aggressività
polemica si manifesta pienamente nell'accusa ai responsabili del
conflitto, polemica che ritrova nuovo e forse più aspro vigore in Teste di legno (1920), severa censura della classe politica italiana.
Come giornalista fu attivo fino al 1926, quando fu indotto al
silenzio da una condanna per oltraggio all'esercito, e scrisse, oltre
che per le riviste letterarieIl Marzocco e La Voce, per vari
quotidiani, specie La Stampa, sostenendo la politica giolittiana.
Postume le Cronache del Risorgimento e scritti letterari (1931).
www.treccani.it
DBI
di Gaspare De Caro
Nacque a Fano il 2 nov. 1883. Dal padre fu avviato sin dalla prima
giovinezza agli studi letterari, che proseguì poi,
nell'università di Bologna, alla scuola del Carducci, del
Pascoli, di Francesco Acri, di Severino Ferrari, laureandosi il 26
giugno 1906.
Suo compagno di studi era stato Renato Serra, al quale rimase legato
da una grande amicizia, alimentata dai comuni interessi culturali,
più vari e ricchi, forse, e più aperti a
preoccupazioni filosofiche nel Serra, ma altrettanto seri e vivaci e
alieni da ogni schematismo intellettuale nell'A. Questi, non solo
non aderì mai alla critica e agli orientamenti filosofici
crociani ma anche si sottrasse, per le sue costanti direttive
critiche di tradizione carducciana, alle suggestioni neoromantiche e
all'imperante psicologismo della nuova generazione letteraria
italiana, come alle nuove correnti del decadentismo europeo.
Perciò l'A. non fu molto popolare, sebbene fosse scrittore di
grande vivacità e finezza. Dopo alcuni scritti su Kipling e
De Amicis, uno studio su Alfredo Trombeni e l'unità d'origine
del linguaggio,del 1906, e un lungo saggio sull'Acri, l'A. si
trasferì a Firenze. Gli orientamenti della sua cultura, che
lo portarono poi a simpatizzare con il movimento della Ronda,pur non
scrivendo mai nella rivista romana, non gli impedirono di
collaborare ininterrottamente, dal dicembre 1908 al maggio 1913,
firmando col suo nome o con lo pseudonimo di "Cepperello'', alla
Voce del Prezzolini. Con i "romantici'' e i crociani della rivista
fiorentina l'A. ebbe in comune la esigenza di una revisione critica
del Risorgimento. Ma nella Voce l'A. scrisse sugli argomenti
più disparati, dalle questioni di costume a quelle
letterarie, ai problemi politici e pedagogici; di particolare
rilievo furono i suoi articoli su La lotta politica in Italia
dell'Oriani ch'egli giudicò assai duramente, ritenendola non
solo derivata, ma in parte addirittura plagiata dalla Storia delle
rivoluzioni italiane di Giuseppe Ferrari. Soprattutto ebbero ampia
risonanza i suoi scritti polemici sul giornalismo italiano
contemporaneo, tuttora tra le cose migliori sull'argomento.
Tuttavia, nonostante il lavoro in comune, l'A. rimaneva
culturalmente isolato tra gli scrittori abituali della Voce;sul
piano politico, poi, dopo un iniziale atteggiamento ostile, di
prevalente carattere moralistico, si era andato sempre più
accostando a Giolitti, non senza grande scandalo del Prezzolini. Con
questo e col Salvemini finì per entrare in polemica aperta e
vivacissima, accusandoli, non senza ragione, di dottrinarismo, di
trattare "le questioni sempre separate dagli uomini". In particolare
ne rifiutò le posizioni sulla questione della spedizione in
Libia, respingendone le argomentazioni di carattere economico e
sostenendo la necessità di un intervento che tutelasse il
prestigio italiano: "...la politica non è fatta solo di
calcoli economici e si può ben mandare una corazzata per uno
straccio di bandiera insultata'', scriveva nella Voce il 5ott. 1911.
Alla campagna libica l'A., che dal 1910 aveva cominciato a
collaborare alla giolittiana Stampa di Torino, partecipò come
inviato di questo giornale a Rodi e in Cirenaica. Al suo ritorno in
Italia divenne articolista di fondo del quotidiano torinese, in
sostituzione del Borgese: ormai l'interesse politico era prevalente
nell'A., che fu uno dei più autorevoli sostenitori di
Giolitti, sia dalle colonne della Stampa,sia da quelle dei vari
giornali di orientamento liberale-democratico, come La Nazione, Il
Tempo, Il Resto del Carlino, La Tribuna, Il Mattino.All'inizio della
guerra europea fu inviato della Stampa in Germania e scrisse una
serie di vivaci corrispondenze, raccolte poi nel volume Un mese in
Germania durante la guerra.Fu tenacemente avverso all'intervento
dell'Italia nel maggio 1915, perché riteneva che non fosse
nell'interesse del paese una decisione, secondo l'A. affrettata, e
anche per sfiducia nei politici Sonnino e Salandra e nel generale
Cadorna. Ma, soprattutto, gli repugnava il clima nuovo instaurato
dagli interventisti, che giudicava "soprattutto degli
irriflessivi'', un clima "delle dottrine eroiche'', delle concezioni
"tribunizie e retoriche", inconciliabile con il suo pacato
temperamento di umanista (cfr. Teste di legno).
Dopo la guerra, alla quale partecipò come combattente e come
giornalista (le sue corrispondenze, raccolte poi nel volume Racconti
di guerra,furono tra le sue cose letterariamente più
pregevoli), riprese le sue campagne di stampa, attaccando con grande
violenza, dopo la fine della censura, i ministri responsabili della
condotta della guerra, che accusò di avere esautorato lo
stato "a beneficio dei poteri militari e delle fazioni
interventiste". Anche nel dopoguerra l'A. rimase fedele a Giolitti,
nonostante una iniziale adesione, comunque durata poco, al Partito
popolare; del resto, anche questa simpatia dell'A. per i popolari fu
determinata dalla speranza, generale tra i liberali-democratici, che
il nuovo partito potesse divenire un efficace strumento della
politica di Giolitti: quando questa speranza venne meno, finì
anche la simpatia dell'A., che fu uno dei più irriducibili
oppositori di don Sturzo (gli scritti dell'A. relativi ai suoi
rapporti con il Partito popolare sono raccolti nel volume Fra'
Galdino alla cerca). Verso le altre forze politiche protagoniste
delle vicende del dopoguerra l'A. ebbe l'ostilità di chi le
riteneva responsabili della confusione politica in cui versava il
paese. Così detestò l'irrazionalismo dei nazionalisti,
e tanto più la demagogia del fascismo; ma fu altrettanto
ostile ai socialisti, sebbene non ne ritenesse pericolose le
velleità rivoluzionarie. Nel 1919 aveva assistito a Monaco di
Baviera all'insurrezione comunista del gennaio-febbraio, e ne aveva
tratto la convinzione dell'impossibilità di un analogo
esperimento in Italia, giacché "organizzare una rivoluzione
vuol dire organizzare uno stato". (Teste di legno,p.13), al quale
compito giudicava del tutto inetti i "bolscevichi" italiani.
Avversò nettamente anche il ministero Nitti, col quale gli
sembrò che lo stato fosse ridotto "in servitù dei
nuovi stati maggiori della plutocrazia e del demagogismo" (Teste
dì legno,p. 15). L'unico uomo politico capace di ristabilire
l'unità del paese gli sembrava ancora il vecchio statista
piemontese, che riteneva il più autorevole ed esperto
esponente della vecchia Italia dal cauto ed ordinato progresso,
l'accorto amministratore immune da "quell'aborrito à peu
près,così squisitamente italiano", (Cronache del
Risorgimento,p. 433) "l'ultimo temperamento di classico che l'Italia
abbia espresso dopo Alessandro Manzoni'' (ibid.,p 432). Al ritorno
di Giolitti al governo l'A. collaborò validamente, e il
ministro lo volle al suo fianco come capo dell'ufficio stampa della
Presidenza del consiglio durante il ministero del 1920-21. Nel 1924
l'A. fu candidato alle elezioni politiche nella lista giolittiana,
senza tuttavia turbarsi per il personale insuccesso, giacché
la sua accettazione della candidatura aveva voluto essere soltanto
un attestato di solidarietà con il vecchio capo liberale. Non
aveva cessato nel frattempo, e non cessò dopo le elezioni,
che segnarono il trionfo definitivo del fascismo, di criticare
energicamente dalle colonne della Stampa il governo e il suo capo,
verso il quale nutriva una personale avversione, che andava ai di
là delle divergenze politiche, avendone potuto valutare in un
pubblico contraddittorio a Torino l'inconsistenza culturale, la
superficialità enfatica, la teatrale aggressività. Le
sue campagne sulla Stampa ebbero larga eco, e non gli furono mai
perdonate dai fascisti, che alla prima occasione troncarono
definitivamente la sua attività giornalistica. Nel 1925,
durante le grandi manovre militari, l'A. mandò dal Canavese
una corrispondenza che i compiacenti organi polizieschi giudicarono
oltraggiosa per l'esercito: la Stampa fu censurata e sequestrata,
all'A. fu proibito di circolare liberamente in Piemonte. Processato,
quindi, a Napoli nel 1926, l'inevitabile condanna gli chiuse le
porte dei giornali italiani. Il segretario della federazione
fascista di Torino stabilì poi con un manifesto "l'obbligo
morale'' per ogni fascista di schiaffeggiare l'A. dovunque lo si
fosse incontrato. Da allora l'A. si limitò esclusivamente ai
suoi studi letterari, di cui il volume Teocrito, Ariosto, minori e
minimi raccoglie i frutti migliori; in particolare hanno grande
importanza le sue ricerche sull'Ariosto, che si conclusero in una
proposta per Una nuova edizione dell'Orlando Furioso.Merita inoltre
di essere ricordata la narrativa per l'infanzia, in cui l'A.
risolveva il suo vivace interesse pedagogico, rimasto sempre lontano
dai dibattiti teorici, anche se seguì con interesse la
riforma scolastica gentiliana. Era nelle intenzioni dell'A. una
ricerca storica sulle vicende della politica italiana dalla caduta
della Destra sino al crollo dello stato liberale, ma l'opera, che
avrebbe dovuto intitolarsi Il ritorno di Giolitti,rimase allo stato
di progetto. L'A. morì di setticemia a Torino il 10 dic.
1929.