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Alfredo Panzini


I giorni del sole e del grano

I giorni del sole e del grano, opera scritta a Bellaria tra il 1927 e il 1928, sono una collezione di quadretti agresti in cui Panzini, diventato finalmente “padrone”, racconta le sue esperienze nella gestione di alcuni poderi. Un approdo quasi obbligato, considerando, oltre all’amore che lo scrittore aveva da sempre riservato alla letteratura classica sull’argomento (Teocrito, Esiodo, Virgilio, con relative traduzioni), che possedere del terreno era sempre stato un sogno di Panzini, almeno dai tempi della rovina economica del padre. Sebbene nel testo abbondino i riferimenti e le citazioni in latino dai grandi autori del passato, sono totalmente assenti accenti bucolici ed arcadici, poiché più che della vita dei campi si parla del lavoro, duro, durissimo, quasi disumano, di cui necessitano i terreni. Panzini compone una sorta di epica della vita georgica, e in particolare della figura del contadino, che qui viene tutt’altro che idealizzata, bensì colta nella sua concretezza, nella terribile fatica del suo lavoro. Panzini ci descrive un contadino scaltro, furbo, egoista, tenacemente attaccato alla vita, infaticabile, un “artista della terra” (cap. V). Artista, però, che, a differenza dei pastori delle Bucoliche virgiliane non suona il flauto, né tantomeno trascorre le sue giornate in ozio a cantare le proprie disavventure sentimentali, ma impugna la vanga e s’ammazza di fatica ogni santo giorno. Nonostante indugi spesso e volentieri sugli aspetti più brutali e animaleschi della realtà contadina, Panzini non cerca mai di condannarla, ma intende descriverne i suoi caratteri ancestrali, fuori dal tempo e dall’attualità, che resistono alle trasformazioni della modernità. Senza dubbio il personaggio più memorabile del libro è Finotti il mezzadro di Panzini, inquilino della cassetta adiacente alla “Casa Rossa”. Sebbene Panzini lo presenti soltanto nella parte finale dell’opera, Finotti ne diventa quasi il protagonista ed il simbolo. Di Finotti ci viene presentato l’intero campionario di attività: dall’estirpazione delle erbacce fino all’allevamento delle bestie e la cura della stalla. Panzini dimostra nei riguardi del suo mezzadro una ruvida simpatia, anche se non evita di segnalarne, per esempio nella maniera attraverso cui “governa” la sua famiglia, le spigolosità e le asprezze del carattere. Nell’ultimo brano che riportiamo, Panzini, non senza un moto disappunto, paventa, attraverso le parole di un giovane studente di scienze economiche suo amico, la scomparsa di questi antichi e valorosi “cavalieri della vanga”, destinati ad essere soppiantati dalla nuova “agricoltura scientifica”.

Da I giorni del sole e del grano

“Quando l’uomo si presentò, tutti dissero:
- Pare un brigante.
Aveva un volto tagliente; si veniva dondolando alla brava sulle altissime gambe; parlava a fronte alta, per iperboli grandiose, mescolando il tu con il lei in deformate parole.
Se ne andò disdegnoso dicendo: - Loro che domandino alla gente, per quanta ce n’è d’intorno, chi è Finotti; e se ce n’è uno che dica male di me, o è un ladro o una spia.

Il suo nome è Giuseppe, che diventò Giuseppino, che diventò Peppino.
E Peppino, per naturale sostituzione di consonanti labiali (pi, beta, fi) diventò Fafino; e Fafino per aferesi, si impicciolì in Fino; e Fino si inturgidì in Finotto; ma essendo l’uomo gigantesco e scarno, quel tondo vocale dell’«o» diè posto a quello smilzo dell’«i», e cosi nacque Finotti: il quale, vergine com’è di lettere, mai non crederebbe che il suo nome fosse stato con tante osservanze manipolato dalla filologia.
«Un brigante? Un brigante alle proprie dipendenze,» andavo pensando fra me, «non è poi questo gran male. La storia insegna che molti uomini degni ebbero briganti al proprio servizio. Bene è vero che seguendo gli ammaestramenti della storia si rischia di perdere il Regno dei Cieli. Ma lontano è il Regno dei Cieli.»
Ohimé, Finotti non è un brigante. Quella deformazione della sua persona ha nobile origine, perché provenne dalla vanga, che molta terra, montagne di terra - come dice lui - egli ha mosso in quarant’anni di vita, di lui, non della vanga, che ogni anno rinnova. 
- Poca carne - dice scoprendosi il costato - si è attaccata a quest’ossa.
Uomini e donne che passano per la viottola, con amorevole scherno lo salutano: - Non lascerete mai di lavorare, Finotti? Non lo sapete che neanche il Signore li vuole più adesso in Paradiso quelli che lavorano troppo?
Un campo di sabbia bruciata – come qui dicono – dove per l’abbandono la natura aveva ripreso il suo impero e cresceva il cardo selvaggio, lui con la vanga, profonda fino a tre fitte, l’ha ridotto a gentilezza. Alma parens frugum! Si, in poesia va bene; ma in prosa tu, o terra d’Italia, sei una lenta, faticosa conquista.)
- Che venga a vedere - mi dice Finotti.
Credo sia qualche mostro. Sono le male erbe, le gramigne, che egli, curvando la lunga schiena, estrae delicatamènte fino alle ultime filamenta umide e palpitanti; e le nomina con distinti nomi quelle gramigne come fossero serpi, chelidri, anfesibene.
- Basta ne rimanga un pezzettino così sotto terra perché le rinascano in primaviera.
Le stende al sole quelle male erbe; guarda il sole, il sole che dà vita e dà morte.
- Due giorni di sole così - esclama ferocemente - e sono morte stecchite.
Coraggioso molto è Finotti, ché mai per intemperie di cielo si dichiara avvilito. Però dei vetri ha una paura tremenda. - Se mi taglio un piede con un vetro e poi mi viene un brutto male, dopo la mia famiglia chi la mantiene?
Di giorno tuttavia è più coraggioso che non di notte. La notte, infatti, - come dice Esiodo - è sacra agli Dei Infernali.
Per la strada vicino alla chiesa di giorno ci passo, - mi dice- ma di notte, nemmeno se mi fanno imperatore.
Ci passò una volta dopo l’Ave Maria. Vede un gattino bianco, lo prende. Sangue di Dio! il gattino gli è sparito dalle mani: lo riprende e sparisce ancora.
- Camminava sempre davanti a me. Quella era un’anima dei morti. Cosa ne dice lei?
- Mah! C’è quel mio amico che si chiama Antonio o Tonino B**, che si occupa con competenza pari a coscienza di queste cose evanescenti che sono le anime. È un omino piccolo che pare da nulla, ma lui le sa queste cose terribili del mondo ignoto, e altre ancora del mondo noto. Se verrà da queste parti, ti farò dare spiegazioni.
Un’altra volta, - dice - vengo a casa dalla veglia. Era d’inverno e vedo su la neve un fantasma nero...
- Un’altra anima? 
- No, era l’asino che si era slegato dalla stalla.
Propriamente un asino femmina. L’ha comperata da piccina, l’ha allevata, l’ha domata lui: la lustra, la pulisce, la striglia, la unge, la contempla, la insulta con amorevoli ragionamenti. Molto si stima di questa sua allieva. Cresce bella e forte, ma asina. - E quando si dice asino, si dice tutto.
È un suo motto preferito, più profondo di significato che non suonino le parole: la immutabilità della stirpe per variare di leggi e governi.
Finotti parla talvolta anche con l’asina:
- Ho capito quello che vuoi. To’ uno zuccherino.
E le butta, ma parsimoniosamente, una manata dì rosso trifoglio o di verde erba medica.
Questo nutrimento prezioso spetta alla vacca che deve fare il latte: la somara si deve accontentare della gramigna, e di quello che il falcetto rade nei fossi. - Si nasce, - mi fa osservare - con la passione alle bestie, -come dicesse: «si nasce poeti »; ed è per questo che di contadini che sappiano tener bene la stalla, ce n’è uno su cento. Se lei vuol capire, non deve guardare soltanto se la stalla l’è pulita, se le bestie hanno quella bella schiena quadra: guardi se quando il contadino entra nella stalla, le bestie gli fanno allegria. Sente come mi conosce?
È l’asina che parla.
Oltre alla stalla, sa governare bene anche la famiglia: ma alla maniera dispotica di una volta. Finotti infatti dice che lui, a casa sua, è spòtic, che vuol dire «dispotico».
- Ma non sapete, voi, Finotti, - gli dice una dama - che non usa più il dispotismo?
- Io dico, la mia signorina, che usa sempre: basta avere i pugni buoni e i rognoni duri, con licenza parlando. Se non fai così, non governi niente. Oh, se smetti di governare, allora si. Ma non devi dire che governi tu!
Mi pare che Finotti entri in ragionamenti di alta filosofia politica, pur evitando ogni allusione alla politica. In questo egli è fornito della prudenza del serpente. Siamo nell‘anno millenovecentoventisette, e in ogni osteria è appeso il cartello dove sta scritto: «Qui non si parla di politica, qui non si bestemmia».
La prima parte del divieto è osservata forse fin oltre alla intenzione - io credo - del legislatore: ma la seconda parte, bestemmiare...
- Guarda. Finotti, - gli osservo - che qui non si bestemmia. 
- Bestemmia anche il brigadiere di finanza.
Non è una buona ragione. Bestemmia almeno piano. - Allora non c’è più gusto.
L’alba serena è ferita qualche volta dalle interiezioni di Finotti, è andato in bestia. Quando va in bestia, Rosetta e Guerrino tremano, e lui dice ai figli:
- Mio padre mi ha tirato su così me, e ancora lo ringrazio e lo benedico. Mi chiamava con un fischio come si fa con i cani. Finché ho la salute, dovete ubbidire. Quando avrò la stola sul petto, farete quel che vi pare.
Anche la moglie trema e non risponde.
- Non voglio che rispondiate.
Ma non fiata nemmeno! Un tesoro di donna che sa anche di conto, e di lettere, e di ago, e di fuso, e di telaio; e vanga nel campo accanto al marito, e lavora placida e serena dall’alba al tramonto. Dà del voi al marito, il voi di maestà.
A me, poi, con voce più rabbonita, Finotti vuol dare spiegazioni.
- A casa mia voglio che mi si porti rispetto. Ho ragione si o no?
- Certamente; ma fosse l’uomo in tutte le case rispettato come sei tu nella tua!
- Peggio per quelli che non si sanno far rispettare.
Rosetta, la figliuola, canta in cima alle frasche, canta fra il trifoglio quando fa l’erba con la falcetta, canta quando fa andare lo staccio sul tagliere, canta sempre; ma cantando sempre, è sempre distratta, perciò ha smarrito la cote, acutum rèddere quae ferrum valet, come dice Orazio, e Finotti ha da rifare il filo alla fera, alla falce! Come un poeta a cui sia tolta la penna! - E sapete che cosa costa una pietra? Era una pietra tedesca!
Finotti diventa furibondo, minaccia di levarsi dai lombi la cinghia e farne sferza ferrata con la fibbia. Rosetta strilla, salta e fugge. In verità non l’ha mai percossa.
La domenica Finotti ringiovanisce. Seduto davanti a uno specchietto, con un ben unto e riposto rasoio si rade la barba.
- Questa saponetta, - mi dice, - è ancora quella che mi ha regalata lei l’altra estate.
Talvolta vengono anche i suoi compari, faccioni ridenti di sanità, a farsi togliere dal volto gli irti peli cresciuti nella settimana. Bottega di barbiere è l’ombra del melograno.
- Quand’ero fochista in Regia Marina, - racconta Finotti, - facevo anche il barbiere.
Va a fare il bagno in mare, si veste d’un abito civile che quasi mi dà soggezione. Un abito civile color blu, tenuto nella cassa come in un reliquiario. Dopo il desinare va a spasso alteramente con mezzo toscano in bocca.
Anche Rosetta si fa galante con la sottanina corta.
Ciò non incontra la simpatia di suo padre che dice: - Cos’è ella ‘sta moda che fa vedere le vergogne anche a chi non le vuol vedere? Io dico che è una gran brutta moda. - Moda magistra vitae, testis temporum, — dico io a Finotti.
- Le «vergogne »? Adesso nessuno usa più questa antica parola.
Nella parola è l’anima.
Usa parole nuove anche tu, vecchio uomo, e la moda ti parrà bella.
A mezzodì, mangiano fuori all’aperto. Troppo soffoco in casa, troppe mosche! Se una mosca volando sopra quel mare di brodaglia fumante che è la minestra, vi precipita, come già Icaro nel mare, Finotti è capace di non mangiare più. Pare impossibile che un uomo si fatto sia cosi delicato!
La terrina della minestra è di quel coccio nero che pare bùcaro etrusco; posa nel centro di una tovagliola; la tovagliola posa su di un grande paniere di grossi giunchi, rovesciato a modo di tavola:
attorno stanno tre o quattro piatti forati: sopra quella mensa improvvisata il melograno apre graziosamente i suoi fiori rossi.
Non è certo per invidia di quelle povere vivande che io mi fermo a contemplare: quattro pomidori o melanzane abbrustolite sul testo con una stilla di olio; ma per altra misteriosa ragione che lui pare indovinare quando con voce quasi affettuosa mi invita a rimanere: la dolce pace e concordia quando si mangia, per cui una cipolla col sale pare più saporosa e fa più buon pro di un fagiano, cibo dei re.
- Rosa, va a to’ ‘na scranna, - dice Finotti, vedendomi li in piedi a contemplare.
Si, deve indovinare qualche cosa, quando intento ai suoi lavoretti nel campo, ripete: - Che venga qua, che stia un po’ con noialtri.
E parla delle patate che hanno perso la gamba, e tempo è oramai di levarle, e della pioggia che quando non vuol piovere non piove. Era venuta li che la si toccava con le mani (le nubi) e poi è volata via.
E parla delle patate bianche, e di quelle gialle, e di quelle rosse, e delle zuccare che mangian le patate. Già, di che cosa deve parlare?
I ragionamenti forse che facciamo noi?
Valgon essi più delle patate?
Ah, poi le viti; le viti che son vecchie, che hanno fame, che han tutte le gambe rognose e storte! Ma le raddrizzerà lui le gambe storte! Le farà lui ringiovanire!
Che chirurgo! Taglia, taglia i seccumi. Senta, Signora mia, che brutta parola: i seccumi! È una parola tecnica. Poi scava un fossatello e lo riempie di nero nutrimento, poi vi stende e seppellisce il tralcio più valido, e ne viene fuori una punta che con un vinco egli ferma a una canna.
- Da qui a due anni vedrà!
Da qui a due anni vedrò?
Dicono, Signora, che c’è quel medico russo che porta via i seccumi anche a noi. Ma ci crede lei?
- Una vite ben curata non muore mai - dice Finotti.
«Una vita bene spesa lunga è» dice Leonardo.
E le zucche, Signora?
Un campo di zucche nel giugno come è bello! quelle aeree grandi foglie sospese su le loro guide come ali materne per proteggere le zucchettine che stanno sotto!
E parlando egli, una piacevole smemoratezza mi avvolge.
- Le gramigne, dunque? - domando.
- È una gran fatica estirparle.
Oh, buon uomo che tutta la vita non hai fatto altro che estirpar le gramigne! Anch’io ho fatto come te. Tu hai mondato il terreno, io non ho mondato niente.
Si, egli deve capire che se lui ha deformato lo scheletro per aver smosso con la vanga montagne di terra, io ho deformata qualche altra cosa per aver cercato quello che l’uomo non troverà mai.
Per guadagnare qualche cosa di più che non dia quel povero campo, a volte va ad opera presso una fornace; ma più di una settimana lui non ci resiste.
Viene a casa la sera, che è feroce. Non è per il lavoro, è per la disciplina, per la gerarchia, per il caporale che è sempre dietro:
«forza, ragazzi!»
- A casa mia lavoro, se mi pare, e accendo la pipa quando mi pare.

Eran le due dopo mezzodì. Finotti attacca la somara al carretto e va a Cervia a caricar dello strame, ché in quelle valli si compra a buon prezzo. «Che se è brutto per i cristiani patir la fame l’inverno, è più brutto ancora» dice lui «veder patir le bestie »; e lo strame serve da mangime e da letto.
Attacca e va.
- Ohi, Finotti, - gli dico, - se passi per Cesenatico, va a salutarmi Marino Moretti, e gli dirai che mi venga a trovare.
- Che me lo scriva su di un pezzo di carta. L’è un nome che l’è fatica da ricordare.
Un cosi dolce nome!
Ritorna che era notte fatta.
- L’hai visto quel tale?
- Ho domandato dove stava: m’han detto: «E’ dorme ». «E se dorme?» E m’han detto: «Sta attento, ché se lo svegli quando dorme, ti manda in galera. Non sai che è un poeta?».
È cosi spaventoso per questa gente il nome di poeta?
Eppure tu non sei declamatorio, Marino Moretti, non sei oratorio: hai lasciato fiorire le care rime al tempo della giovinezza, e poi non più; vivi, quando ci vivi, nella tua antica casa, ora solinga, con la riservatezza di un anacoreta, eppure basta la terribile nominanza?
Marino è venuto a trovarmi, e gentile quale egli è, ha lodato come Finotti tiene la casa, e intorno alla casa: 
- Ma tutto bello, tutto pulito!
- Questi, - dico a Finotti, - è Marino Moretti. È un poeta; ma, come vedi, non è pauroso.
- Va, va, - dice Marino Moretti sorridendo in quel suo modo strano, - che il vostro padrone, Finotti, è poeta peggio di me.
«Marino, Marino, non mi rovinare. Credi tu di essere nel canto di Stazio o nel canto di Guido Guinizzelli del Purgatorio di Dante dove i poeti si fanno l’un l’altro reciproco onore? Qui siamo in terra, e in terra di Romagna; e Finotti deve discendere da quei romani che qui vennero soldati e coloni. Fiera gente; ma il suggello della stirpe che Orazio vi impresse, ancora rimane a distanza di duemila anni: Grais ingenium, Grais dedit ore rotundo Musa loqui; romani pueri longis ratiònibus assem discunt in partes centurn diducere. Gente pratica, dico, che sa far di conto anche se non ha studiato; ma aliena dalle fantasie. Forse un po’ di mescolanza con l’iperbole gallica. Brava gente, fattiva, che ha il senso della giustizia e della libertà; ma della poesia proprio non mi pare. Perciò non mi screditare col nome di poeta, tanto più che io temo che ne sia trapelato qualche cosa, perché ho sentito dire sul mio conto: - L’è matt!»

Quel giovane signore è esuberante di gioia vitale come tutti quelli della sua età. Studia scienze economiche, e credo che i suoi genitori lo vogliano avviare per la carriera diplomatica.
Aveva due spaventosi kniker-bockers, un pullover gaietto e dorato come un serpente brasiliano: in testa un berretto messo alla russa, a quarantacinque gradi.
Insomma un vestito internazionale.
Un pomeriggio gli venne vaghezza di vedere il piccolo podere di Finotti. Io lo accompagnai, e Finotti, sospettoso come tutti quelli della sua stirpe, ci veniva dietro.
Il giovane diceva: - Oh, guarda guarda che bella insalatina! (Era erba medica.)
- Guarda quante mele rosse! (Erano pomodori!)
- Cos’è quello? Un pero? No? Allora un melo. (Era un gelso.)
Lo faceva ex abubdantia festivitatis; ma Finotti sentiva.
Quando arrivò a capo del cantiere, vide la vanga rimasta li ancora infissa nel solco.
Prese la vanga, e per gioco posò la bella scarpa di cuoio giallo sul vangile, dove Finotti posa nudo il gran piè. Fece mostra di affondare la triangolata cuspide del lucido acciaio, poi la buttò.
E Finotti vedeva.
Il giorno dopo Finotti mi disse: - Quel suo amico sarà andato a scuola, ma per me è un grande ignorante. A me mi rugavano i minchioni.
Il giovane aveva disprezzato la sua fatica e la sua vanga, e mi piacque farlo sapere al giovane; ma cosi per amabile circonlocuzione.
- Una volta, - dissi, - prima che mutassero tutti i libri di scuola, si leggeva come Dante udendo un fabbro smozzicare cantando i suoi versi, si credette ricevere grandissima ingiuria, e entrato nella bottega fece vendetta di tutti quelli arnesi fabbrili. Cosi Finotti avrebbe fatto di lei se un antico senso di ospitalità non lo avesse trattenuto.
Finotti, come ogni contadino, è pacifico, ma è anche violento. Non ha i nervi, ma può avere il furore.
Il giovane mi guardò e non comprendeva.
- Lei ha fatto ingiuria alla sua vanga.
- Io ho fatto per ischerzo.
- E infatti che cosa varrebbe essere signori se non si prendessero le cose in ischerzo? Ma Finotti è povero e perciò è orgoglioso. La vanga...
La vanga ha la punta d’oro, - disse il giovane sorridendo.
- La vanga, - risposi io, - è di ferro. Per me, per lei, ogni vanga è vanga. Per loro no. Per loro una vanga è buona, una meno buona, così come noi distinguiamo una penna scorrevole da una penna stizzosa e arrugginita. Spesso ho visto brandire orgogliosamente la vanga come il cavaliere agita la spada, anche ho visto nello sforzo l’asta scricchiolare e scheggiarsi.
Qui, nel dialetto, serbando non so come la venusta parola latina, chiamano ancora gli arnesi del lavoro armi, arma armorum. La vanga è la spada del cavaliere della terra.
Mi sentii rispondere cosi: - È un cavaliere che sta per scomparire.
Questa volta fui io a non capire.
Cortesemente il giovane mi spiegò cosi:
- L’agricoltura a tipo patriarcale non è più possibile, perché deve diventare agricoltura scientifica, intensiva; perché l’agricoltura intensiva e scientifica deve diventare agricoltura specializzata; perché l’agricoltura specializzata deve diventare agricoltura industriale. Poi c’è la elettricità, poi c’è la chimica i cui progressi sono destinati a rivoluzionare tutti i vecchi sistemi. Conclusione: addio vanga, addio cavalieri della vanga. -
Io non ho studiato economia pubblica, né scienze sociali e perciò non ho saputo che cosa rispondere. Ho pregato soltanto di non dire queste cose a Finotti: ne rimarrebbe troppo avvilito.”