I giorni del sole e del grano, opera scritta a Bellaria tra il
1927 e il 1928, sono una collezione di quadretti agresti in cui
Panzini, diventato finalmente “padrone”, racconta le sue
esperienze nella gestione di alcuni poderi. Un approdo quasi
obbligato, considerando, oltre all’amore che lo scrittore aveva
da sempre riservato alla letteratura classica sull’argomento
(Teocrito, Esiodo, Virgilio, con relative traduzioni), che
possedere del terreno era sempre stato un sogno di Panzini,
almeno dai tempi della rovina economica del padre. Sebbene nel
testo abbondino i riferimenti e le citazioni in latino dai
grandi autori del passato, sono totalmente assenti accenti
bucolici ed arcadici, poiché più che della vita
dei campi si parla del lavoro, duro, durissimo, quasi disumano,
di cui necessitano i terreni. Panzini compone una sorta di epica
della vita georgica, e in particolare della figura del
contadino, che qui viene tutt’altro che idealizzata,
bensì colta nella sua concretezza, nella terribile fatica
del suo lavoro. Panzini ci descrive un contadino scaltro, furbo,
egoista, tenacemente attaccato alla vita, infaticabile, un
“artista della terra” (cap. V). Artista, però, che, a
differenza dei pastori delle Bucoliche virgiliane non suona il
flauto, né tantomeno trascorre le sue giornate in ozio a
cantare le proprie disavventure sentimentali, ma impugna la
vanga e s’ammazza di fatica ogni santo giorno. Nonostante indugi
spesso e volentieri sugli aspetti più brutali e
animaleschi della realtà contadina, Panzini non cerca mai
di condannarla, ma intende descriverne i suoi caratteri
ancestrali, fuori dal tempo e dall’attualità, che
resistono alle trasformazioni della modernità. Senza
dubbio il personaggio più memorabile del libro è
Finotti il mezzadro di Panzini, inquilino della cassetta
adiacente alla “Casa Rossa”. Sebbene Panzini lo presenti
soltanto nella parte finale dell’opera, Finotti ne diventa quasi
il protagonista ed il simbolo. Di Finotti ci viene presentato
l’intero campionario di attività: dall’estirpazione delle
erbacce fino all’allevamento delle bestie e la cura della
stalla. Panzini dimostra nei riguardi del suo mezzadro una
ruvida simpatia, anche se non evita di segnalarne, per esempio
nella maniera attraverso cui “governa” la sua famiglia, le
spigolosità e le asprezze del carattere. Nell’ultimo
brano che riportiamo, Panzini, non senza un moto disappunto,
paventa, attraverso le parole di un giovane studente di scienze
economiche suo amico, la scomparsa di questi antichi e valorosi
“cavalieri della vanga”, destinati ad essere soppiantati dalla
nuova “agricoltura scientifica”.
Da I giorni del sole e del grano
“Quando l’uomo si presentò, tutti dissero:
- Pare un brigante.
Aveva un volto tagliente; si veniva dondolando alla brava sulle
altissime gambe; parlava a fronte alta, per iperboli grandiose,
mescolando il tu con il lei in deformate parole.
Se ne andò disdegnoso dicendo: - Loro che domandino alla
gente, per quanta ce n’è d’intorno, chi è Finotti;
e se ce n’è uno che dica male di me, o è un ladro
o una spia.
Il suo nome
è Giuseppe, che diventò Giuseppino, che
diventò Peppino.
E Peppino, per naturale sostituzione di consonanti labiali
(pi, beta, fi) diventò Fafino; e Fafino per aferesi, si
impicciolì in Fino; e Fino si inturgidì in
Finotto; ma essendo l’uomo gigantesco e scarno, quel tondo
vocale dell’«o» diè posto a quello smilzo
dell’«i», e cosi nacque Finotti: il quale, vergine
com’è di lettere, mai non crederebbe che il suo nome
fosse stato con tante osservanze manipolato dalla filologia.
«Un brigante? Un brigante alle proprie
dipendenze,» andavo pensando fra me, «non è
poi questo gran male. La storia insegna che molti uomini degni
ebbero briganti al proprio servizio. Bene è vero che
seguendo gli ammaestramenti della storia si rischia di perdere
il Regno dei Cieli. Ma lontano è il Regno dei
Cieli.»
Ohimé, Finotti non è un brigante. Quella
deformazione della sua persona ha nobile origine,
perché provenne dalla vanga, che molta terra, montagne
di terra - come dice lui - egli ha mosso in quarant’anni di
vita, di lui, non della vanga, che ogni anno rinnova.
- Poca carne - dice scoprendosi il costato - si è
attaccata a quest’ossa.
Uomini e donne che passano per la viottola, con amorevole
scherno lo salutano: - Non lascerete mai di lavorare, Finotti?
Non lo sapete che neanche il Signore li vuole più
adesso in Paradiso quelli che lavorano troppo?
Un campo di sabbia bruciata – come qui dicono – dove per
l’abbandono la natura aveva ripreso il suo impero e cresceva
il cardo selvaggio, lui con la vanga, profonda fino a tre
fitte, l’ha ridotto a gentilezza. Alma parens frugum! Si, in
poesia va bene; ma in prosa tu, o terra d’Italia, sei una
lenta, faticosa conquista.)
- Che venga a vedere - mi dice Finotti.
Credo sia qualche mostro. Sono le male erbe, le gramigne, che
egli, curvando la lunga schiena, estrae delicatamènte
fino alle ultime filamenta umide e palpitanti; e le nomina con
distinti nomi quelle gramigne come fossero serpi, chelidri,
anfesibene.
- Basta ne rimanga un pezzettino così sotto terra
perché le rinascano in primaviera.
Le stende al sole quelle male erbe; guarda il sole, il sole
che dà vita e dà morte.
- Due giorni di sole così - esclama ferocemente - e
sono morte stecchite.
Coraggioso molto è Finotti, ché mai per
intemperie di cielo si dichiara avvilito. Però dei
vetri ha una paura tremenda. - Se mi taglio un piede con un
vetro e poi mi viene un brutto male, dopo la mia famiglia chi
la mantiene?
Di giorno tuttavia è più coraggioso che non di
notte. La notte, infatti, - come dice Esiodo - è sacra
agli Dei Infernali.
Per la strada vicino alla chiesa di giorno ci passo, - mi
dice- ma di notte, nemmeno se mi fanno imperatore.
Ci passò una volta dopo l’Ave Maria. Vede un gattino
bianco, lo prende. Sangue di Dio! il gattino gli è
sparito dalle mani: lo riprende e sparisce ancora.
- Camminava sempre davanti a me. Quella era un’anima dei
morti. Cosa ne dice lei?
- Mah! C’è quel mio amico che si chiama Antonio o
Tonino B**, che si occupa con competenza pari a coscienza di
queste cose evanescenti che sono le anime. È un omino
piccolo che pare da nulla, ma lui le sa queste cose terribili
del mondo ignoto, e altre ancora del mondo noto. Se
verrà da queste parti, ti farò dare spiegazioni.
Un’altra volta, - dice - vengo a casa dalla veglia. Era
d’inverno e vedo su la neve un fantasma nero...
- Un’altra anima?
- No, era l’asino che si era slegato dalla stalla.
Propriamente un asino femmina. L’ha comperata da piccina, l’ha
allevata, l’ha domata lui: la lustra, la pulisce, la striglia,
la unge, la contempla, la insulta con amorevoli ragionamenti.
Molto si stima di questa sua allieva. Cresce bella e forte, ma
asina. - E quando si dice asino, si dice tutto.
È un suo motto preferito, più profondo di
significato che non suonino le parole: la immutabilità
della stirpe per variare di leggi e governi.
Finotti parla talvolta anche con l’asina:
- Ho capito quello che vuoi. To’ uno zuccherino.
E le butta, ma parsimoniosamente, una manata dì rosso
trifoglio o di verde erba medica.
Questo nutrimento prezioso spetta alla vacca che deve fare il
latte: la somara si deve accontentare della gramigna, e di
quello che il falcetto rade nei fossi. - Si nasce, - mi fa
osservare - con la passione alle bestie, -come dicesse:
«si nasce poeti »; ed è per questo che di
contadini che sappiano tener bene la stalla, ce n’è uno
su cento. Se lei vuol capire, non deve guardare soltanto se la
stalla l’è pulita, se le bestie hanno quella bella
schiena quadra: guardi se quando il contadino entra nella
stalla, le bestie gli fanno allegria. Sente come mi conosce?
È l’asina che parla.
Oltre alla stalla, sa governare bene anche la famiglia: ma
alla maniera dispotica di una volta. Finotti infatti dice che
lui, a casa sua, è spòtic, che vuol dire
«dispotico».
- Ma non sapete, voi, Finotti, - gli dice una dama - che non
usa più il dispotismo?
- Io dico, la mia signorina, che usa sempre: basta avere i
pugni buoni e i rognoni duri, con licenza parlando. Se non fai
così, non governi niente. Oh, se smetti di governare,
allora si. Ma non devi dire che governi tu!
Mi pare che Finotti entri in ragionamenti di alta filosofia
politica, pur evitando ogni allusione alla politica. In questo
egli è fornito della prudenza del serpente. Siamo
nell‘anno millenovecentoventisette, e in ogni osteria è
appeso il cartello dove sta scritto: «Qui non si parla
di politica, qui non si bestemmia».
La prima parte del divieto è osservata forse fin oltre
alla intenzione - io credo - del legislatore: ma la seconda
parte, bestemmiare...
- Guarda. Finotti, - gli osservo - che qui non si bestemmia.
- Bestemmia anche il brigadiere di finanza.
Non è una buona ragione. Bestemmia almeno piano. -
Allora non c’è più gusto.
L’alba serena è ferita qualche volta dalle interiezioni
di Finotti, è andato in bestia. Quando va in bestia,
Rosetta e Guerrino tremano, e lui dice ai figli:
- Mio padre mi ha tirato su così me, e ancora lo
ringrazio e lo benedico. Mi chiamava con un fischio come si fa
con i cani. Finché ho la salute, dovete ubbidire.
Quando avrò la stola sul petto, farete quel che vi
pare.
Anche la moglie trema e non risponde.
- Non voglio che rispondiate.
Ma non fiata nemmeno! Un tesoro di donna che sa anche di
conto, e di lettere, e di ago, e di fuso, e di telaio; e vanga
nel campo accanto al marito, e lavora placida e serena
dall’alba al tramonto. Dà del voi al marito, il voi di
maestà.
A me, poi, con voce più rabbonita, Finotti vuol dare
spiegazioni.
- A casa mia voglio che mi si porti rispetto. Ho ragione si o
no?
- Certamente; ma fosse l’uomo in tutte le case rispettato come
sei tu nella tua!
- Peggio per quelli che non si sanno far rispettare.
Rosetta, la figliuola, canta in cima alle frasche, canta fra
il trifoglio quando fa l’erba con la falcetta, canta quando fa
andare lo staccio sul tagliere, canta sempre; ma cantando
sempre, è sempre distratta, perciò ha smarrito
la cote, acutum rèddere quae ferrum valet, come dice
Orazio, e Finotti ha da rifare il filo alla fera, alla falce!
Come un poeta a cui sia tolta la penna! - E sapete che cosa
costa una pietra? Era una pietra tedesca!
Finotti diventa furibondo, minaccia di levarsi dai lombi la
cinghia e farne sferza ferrata con la fibbia. Rosetta strilla,
salta e fugge. In verità non l’ha mai percossa.
La domenica Finotti ringiovanisce. Seduto davanti a uno
specchietto, con un ben unto e riposto rasoio si rade la
barba.
- Questa saponetta, - mi dice, - è ancora quella che mi
ha regalata lei l’altra estate.
Talvolta vengono anche i suoi compari, faccioni ridenti di
sanità, a farsi togliere dal volto gli irti peli
cresciuti nella settimana. Bottega di barbiere è
l’ombra del melograno.
- Quand’ero fochista in Regia Marina, - racconta Finotti, -
facevo anche il barbiere.
Va a fare il bagno in mare, si veste d’un abito civile che
quasi mi dà soggezione. Un abito civile color blu,
tenuto nella cassa come in un reliquiario. Dopo il desinare va
a spasso alteramente con mezzo toscano in bocca.
Anche Rosetta si fa galante con la sottanina corta.
Ciò non incontra la simpatia di suo padre che dice: -
Cos’è ella ‘sta moda che fa vedere le vergogne anche a
chi non le vuol vedere? Io dico che è una gran brutta
moda. - Moda magistra vitae, testis temporum, — dico io a
Finotti.
- Le «vergogne »? Adesso nessuno usa più
questa antica parola.
Nella parola è l’anima.
Usa parole nuove anche tu, vecchio uomo, e la moda ti
parrà bella.
A mezzodì, mangiano fuori all’aperto. Troppo soffoco in
casa, troppe mosche! Se una mosca volando sopra quel mare di
brodaglia fumante che è la minestra, vi precipita, come
già Icaro nel mare, Finotti è capace di non
mangiare più. Pare impossibile che un uomo si fatto sia
cosi delicato!
La terrina della minestra è di quel coccio nero che
pare bùcaro etrusco; posa nel centro di una tovagliola;
la tovagliola posa su di un grande paniere di grossi giunchi,
rovesciato a modo di tavola:
attorno stanno tre o quattro piatti forati: sopra quella mensa
improvvisata il melograno apre graziosamente i suoi fiori
rossi.
Non è certo per invidia di quelle povere vivande che io
mi fermo a contemplare: quattro pomidori o melanzane
abbrustolite sul testo con una stilla di olio; ma per altra
misteriosa ragione che lui pare indovinare quando con voce
quasi affettuosa mi invita a rimanere: la dolce pace e
concordia quando si mangia, per cui una cipolla col sale pare
più saporosa e fa più buon pro di un fagiano,
cibo dei re.
- Rosa, va a to’ ‘na scranna, - dice Finotti, vedendomi li in
piedi a contemplare.
Si, deve indovinare qualche cosa, quando intento ai suoi
lavoretti nel campo, ripete: - Che venga qua, che stia un po’
con noialtri.
E parla delle patate che hanno perso la gamba, e tempo
è oramai di levarle, e della pioggia che quando non
vuol piovere non piove. Era venuta li che la si toccava con le
mani (le nubi) e poi è volata via.
E parla delle patate bianche, e di quelle gialle, e di quelle
rosse, e delle zuccare che mangian le patate. Già, di
che cosa deve parlare?
I ragionamenti forse che facciamo noi?
Valgon essi più delle patate?
Ah, poi le viti; le viti che son vecchie, che hanno fame, che
han tutte le gambe rognose e storte! Ma le raddrizzerà
lui le gambe storte! Le farà lui ringiovanire!
Che chirurgo! Taglia, taglia i seccumi. Senta, Signora mia,
che brutta parola: i seccumi! È una parola tecnica. Poi
scava un fossatello e lo riempie di nero nutrimento, poi vi
stende e seppellisce il tralcio più valido, e ne viene
fuori una punta che con un vinco egli ferma a una canna.
- Da qui a due anni vedrà!
Da qui a due anni vedrò?
Dicono, Signora, che c’è quel medico russo che porta
via i seccumi anche a noi. Ma ci crede lei?
- Una vite ben curata non muore mai - dice Finotti.
«Una vita bene spesa lunga è» dice
Leonardo.
E le zucche, Signora?
Un campo di zucche nel giugno come è bello! quelle
aeree grandi foglie sospese su le loro guide come ali materne
per proteggere le zucchettine che stanno sotto!
E parlando egli, una piacevole smemoratezza mi avvolge.
- Le gramigne, dunque? - domando.
- È una gran fatica estirparle.
Oh, buon uomo che tutta la vita non hai fatto altro che
estirpar le gramigne! Anch’io ho fatto come te. Tu hai mondato
il terreno, io non ho mondato niente.
Si, egli deve capire che se lui ha deformato lo scheletro per
aver smosso con la vanga montagne di terra, io ho deformata
qualche altra cosa per aver cercato quello che l’uomo non
troverà mai.
Per guadagnare qualche cosa di più che non dia quel
povero campo, a volte va ad opera presso una fornace; ma
più di una settimana lui non ci resiste.
Viene a casa la sera, che è feroce. Non è per il
lavoro, è per la disciplina, per la gerarchia, per il
caporale che è sempre dietro:
«forza, ragazzi!»
- A casa mia lavoro, se mi pare, e accendo la pipa quando mi
pare.
Eran le due dopo mezzodì.
Finotti attacca la somara al carretto e va a Cervia a
caricar dello strame, ché in quelle valli si compra a
buon prezzo. «Che se è brutto per i cristiani
patir la fame l’inverno, è più brutto
ancora» dice lui «veder patir le bestie »;
e lo strame serve da mangime e da letto.
Attacca e va.
- Ohi, Finotti, - gli dico, - se passi per Cesenatico, va a
salutarmi Marino Moretti, e gli dirai che mi venga a
trovare.
- Che me lo scriva su di un pezzo di carta. L’è un
nome che l’è fatica da ricordare.
Un cosi dolce nome!
Ritorna che era notte fatta.
- L’hai visto quel tale?
- Ho domandato dove stava: m’han detto: «E’ dorme
». «E se dorme?» E m’han detto: «Sta
attento, ché se lo svegli quando dorme, ti manda in
galera. Non sai che è un poeta?».
È cosi spaventoso per questa gente il nome di poeta?
Eppure tu non sei declamatorio, Marino Moretti, non sei
oratorio: hai lasciato fiorire le care rime al tempo della
giovinezza, e poi non più; vivi, quando ci vivi,
nella tua antica casa, ora solinga, con la riservatezza di
un anacoreta, eppure basta la terribile nominanza?
Marino è venuto a trovarmi, e gentile quale egli
è, ha lodato come Finotti tiene la casa, e intorno
alla casa:
- Ma tutto bello, tutto pulito!
- Questi, - dico a Finotti, - è Marino Moretti.
È un poeta; ma, come vedi, non è pauroso.
- Va, va, - dice Marino Moretti sorridendo in quel suo modo
strano, - che il vostro padrone, Finotti, è poeta
peggio di me.
«Marino, Marino, non mi rovinare. Credi tu di essere
nel canto di Stazio o nel canto di Guido Guinizzelli del
Purgatorio di Dante dove i poeti si fanno l’un l’altro
reciproco onore? Qui siamo in terra, e in terra di Romagna;
e Finotti deve discendere da quei romani che qui vennero
soldati e coloni. Fiera gente; ma il suggello della stirpe
che Orazio vi impresse, ancora rimane a distanza di duemila
anni: Grais ingenium, Grais dedit ore rotundo Musa loqui;
romani pueri longis ratiònibus assem discunt in
partes centurn diducere. Gente pratica, dico, che sa far di
conto anche se non ha studiato; ma aliena dalle fantasie.
Forse un po’ di mescolanza con l’iperbole gallica. Brava
gente, fattiva, che ha il senso della giustizia e della
libertà; ma della poesia proprio non mi pare.
Perciò non mi screditare col nome di poeta, tanto
più che io temo che ne sia trapelato qualche cosa,
perché ho sentito dire sul mio conto: - L’è
matt!»
Quel giovane signore è esuberante di
gioia vitale come tutti quelli della sua età. Studia
scienze economiche, e credo che i suoi genitori lo vogliano
avviare per la carriera diplomatica.
Aveva due spaventosi kniker-bockers, un pullover gaietto e
dorato come un serpente brasiliano: in testa un berretto
messo alla russa, a quarantacinque gradi.
Insomma un vestito internazionale.
Un pomeriggio gli venne vaghezza di vedere il piccolo podere
di Finotti. Io lo accompagnai, e Finotti, sospettoso come
tutti quelli della sua stirpe, ci veniva dietro.
Il giovane diceva: - Oh, guarda guarda che bella insalatina!
(Era erba medica.)
- Guarda quante mele rosse! (Erano pomodori!)
- Cos’è quello? Un pero? No? Allora un melo. (Era un
gelso.)
Lo faceva ex abubdantia festivitatis; ma Finotti sentiva.
Quando arrivò a capo del cantiere, vide la vanga
rimasta li ancora infissa nel solco.
Prese la vanga, e per gioco posò la bella scarpa di
cuoio giallo sul vangile, dove Finotti posa nudo il gran
piè. Fece mostra di affondare la triangolata cuspide
del lucido acciaio, poi la buttò.
E Finotti vedeva.
Il giorno dopo Finotti mi disse: - Quel suo amico
sarà andato a scuola, ma per me è un grande
ignorante. A me mi rugavano i minchioni.
Il giovane aveva disprezzato la sua fatica e la sua vanga, e
mi piacque farlo sapere al giovane; ma cosi per amabile
circonlocuzione.
- Una volta, - dissi, - prima che mutassero tutti i libri di
scuola, si leggeva come Dante udendo un fabbro smozzicare
cantando i suoi versi, si credette ricevere grandissima
ingiuria, e entrato nella bottega fece vendetta di tutti
quelli arnesi fabbrili. Cosi Finotti avrebbe fatto di lei se
un antico senso di ospitalità non lo avesse
trattenuto.
Finotti, come ogni contadino, è pacifico, ma è
anche violento. Non ha i nervi, ma può avere il
furore.
Il giovane mi guardò e non comprendeva.
- Lei ha fatto ingiuria alla sua vanga.
- Io ho fatto per ischerzo.
- E infatti che cosa varrebbe essere signori se non si
prendessero le cose in ischerzo? Ma Finotti è povero
e perciò è orgoglioso. La vanga...
La vanga ha la punta d’oro, - disse il giovane sorridendo.
- La vanga, - risposi io, - è di ferro. Per me, per
lei, ogni vanga è vanga. Per loro no. Per loro una
vanga è buona, una meno buona, così come noi
distinguiamo una penna scorrevole da una penna stizzosa e
arrugginita. Spesso ho visto brandire orgogliosamente la
vanga come il cavaliere agita la spada, anche ho visto nello
sforzo l’asta scricchiolare e scheggiarsi.
Qui, nel dialetto, serbando non so come la venusta parola
latina, chiamano ancora gli arnesi del lavoro armi, arma
armorum. La vanga è la spada del cavaliere della
terra.
Mi sentii rispondere cosi: - È un cavaliere che sta
per scomparire.
Questa volta fui io a non capire.
Cortesemente il giovane mi spiegò cosi:
- L’agricoltura a tipo patriarcale non è più
possibile, perché deve diventare agricoltura
scientifica, intensiva; perché l’agricoltura
intensiva e scientifica deve diventare agricoltura
specializzata; perché l’agricoltura specializzata
deve diventare agricoltura industriale. Poi c’è la
elettricità, poi c’è la chimica i cui
progressi sono destinati a rivoluzionare tutti i vecchi
sistemi. Conclusione: addio vanga, addio cavalieri della
vanga. -
Io non ho studiato economia pubblica, né scienze
sociali e perciò non ho saputo che cosa rispondere.
Ho pregato soltanto di non dire queste cose a Finotti: ne
rimarrebbe troppo avvilito.”