Petr Kropotkin

SCIENZA E ANARCHIA

a cura di Giampietro N. Berti
elèuthera


 Indice
Introduzione
 Nota bio-bibliografica
 I. La nascita dello Stato
 II. La Rivoluzione francese
 III. Questioni di metodo
 IV. L’aiuto reciproco in natura
 V. La solidarietà umana
 VI. L’etica
 VII. Piccolo è bello
 VIII. L’integrazione del lavoro
 IX. Il comunismo anarchico


NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Pëtr Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842 da famiglia principesca di antica tradizione, che nel periodo feudale aveva avuto una posizione preminente nel principato di Smolénsk. Dopo aver frequentato la scuola militare più esclusiva della Russia zarista – il Corpo dei Paggi a San Pietroburgo – nel 1862 sceglie di recarsi in Siberia come esploratore e geografo. In questi anni matura lentamente una posizione critica verso il potere assolutista, avvicinandosi dapprima alle idee liberali, poi a quelle socialiste. Nella primavera del 1872 decide di andare in Svizzera dove stabilisce importanti relazioni con gli internazionalisti del Giura e si avvicina alle idee anarchiche. Ritornato nel proprio Paese, si dedica completamente all’attività rivoluzionaria che culmina nel 1874 con il suo arresto e la prigionia nella fortezza di S. Pietro e Paolo. Riesce a fuggire due anni più tardi, raggiungendo l’Inghilterra e poi ancora la Svizzera, dove collabora attivamente alla Fédération Jurassienne, dando vita tra l’altro allo stesso giornale della Federazione, «Le Révolté». Espulso nel 1881 da questo Paese in seguito alle misure controrivoluzionarie prese dopo l’assassinio dello zar Alessandro II, emigra a Londra, poi a Thonon, nella Savoia. Qui finisce per essere arrestato e condannato a cinque anni di prigione per attività sovversiva. Rilasciato nel 1886 a seguito di una vasta campagna di stampa, promossa tra gli altri da Victor Hugo ed Ernest Renan, si reca nuovamente in Inghilterra, dove rimarrà fino al 1917.

Qui pubblica quasi tutte le sue opere principali, è tra i fondatori (nel 1886) di «Freedom» e collabora prolificamente a varie pubblicazioni 27anarchiche, in particolare (ininterrottamente fino al 1917) a «Freedom» e alle parigine «La Révolte» (1887-1894) e «Les Temps Nouveaux» (1897-1914). In questo suo lungo periodo londinese, collabora anche a varie pubblicazioni scientifiche e a varie voci dell’Encyclopaedia Britannica, per cui scrive tra l’altro la voce «Anarchismo».

Allo scoppio della prima guerra mondiale, Kropotkin, insieme ad un gruppo di altri anarchici molto conosciuti, prende posizione a favore dell’intervento militare contro gli Imperi centrali, da lui considerati il pericolo maggiore del momento. Questo suo appoggio alle potenze dell’Intesa provoca la rottura con il movimento anarchico internazionale, schierato nella sua stragrande maggioranza contro la guerra.

Nell’estate del 1917 Kropotkin ritorna in Russia, ma dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi è progressivamente emarginato dal nuovo potere comunista. Qui scrive L’Etica che uscirà postumo e incompiuto.

Muore nel 1921 e il suo funerale costituisce l’ultima grande manifestazione anarchica in quel Paese.

PRINCIPALI OPERE DI KROPOTKIN

Kropotkin ha scritto numerosissimi articoli, in parte integrati in volumi successivi o pubblicati anche come opuscoli. Qui ci limitiamo ad elencare le sue opere più importanti, indicando, oltre all’anno di pubblicazione originale, anche l’edizione italiana più recente a noi nota.

VOLUMI

Parole di un ribelle (1885), Casa Editrice Sociale, Milano 1921.

La conquista del pane (1892), Anarchismo, Catania 1978.

Campi, fabbriche, officine (1899), Antistato, Milano 1982 .

Memorie di un rivoluzionario (1899), Loescher, Torino 1980.

La scienza moderna e l’anarchia (1901), Il Risveglio, Ginevra 1913.

 Ideali e realtà nella letteratura russa (1905), Ricciardi, Napoli 1921.

Il mutuo appoggio (1902), Salerno, Roma 1982.

La grande rivoluzione (1909), Anarchismo, Catania 1975.

L’Etica (1922), La Fiaccola, Ragusa 1990.

OPUSCOLI

La legge e l’autorità (1896), La Fiaccola, Ragusa 1961.

La morale anarchica (1890), La Fiaccola, Ragusa 1984.

L’anarchia: la sua filosofia e il suo ideale (1896), Altamurgia, Ivrea 1973.

Lo Stato e il suo ruolo storico (1896), Anarchismo, Catania 1981.

Vari opuscoli e altri scritti sono raccolti nell’antologia: R.N. Baldwin (a cura di), Kropotkin’s Revolutionary Pamphlets (1922), Dover Publication, New York 1970.

[...]

 I

Il problema dello Stato è centrale nel pensiero anarchico. Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri autori non lo pone come un tema a sé stante perché gli dedica un’attenzione più storica che teoretica con un saggio pubblicato nel 1897 che porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico. In questo volume è soprattutto storicizzata la genesi, che viene collocata, «classicamente», all’inizio dell’età moderna. Con tale interpretazione egli opera un distacco netto dalla precedente tradizione anarchica, secondo cui l’entità statale è una forma meta-storica che riassume, par excellence, il principio informatore del dominio. Sulla scia della sinistra hegeliana, questa tradizione aveva infatti identificato nello Stato – come del resto nella religione – l’alienazione suprema del genere umano. Ora, tale concetto non si ravvisa nell’anarchico russo che, al contrario, vede nella formazione statale soltanto un momento politico storicamente ben definito e particolare del dominio dell’uomo sull’uomo. L’umanità, infatti, è vissuta per secoli senza conoscere questa forma politica.

Qual è dunque la natura politica, sociale ed economica dello Stato? Per Kropotkin la risposta è una sola: nell’essere costitutivamente l’intreccio organico delle funzioni coercitive operanti contro la società. Ciò è particolarmente evidente se si analizza il ruolo storico da 33questi assunto nel periodo che va dal XVI al XIX secolo. Si vedrà allora che la legislazione sulla proprietà, il meccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli, la difesa del territorio hanno rappresentato l’insieme concreto dell’organizzazione trasversale di tutti i privilegi costituiti senza distinzione di sorta. Ad esempio, lo sfruttamento economico determinato dal modo di produzione capitalistico non avrebbe potuto sussistere e svilupparsi senza l’aiuto dello Stato, specialmente per quanto riguarda l’originaria formazione dei grandi interessi dell’industria, del commercio e dell’agricoltura.

Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX secolo sono state tutte dirette a liberare la persona dal giogo del lavoro obbligatorio, la reazione dello Stato è stata sempre volta a rifondare la struttura gerarchica entro le stesse determinazioni storiche dell’economia, della società e della politica. Lo Stato, infatti, non è un’entità separata dalla vita degli individui, non costituisce la loro forma istituzionalmente alienata, la coscienza rovesciata della loro autentica socialità. Al contrario, esso consiste nell’essere parte integrante di ogni manifestazione individuale e collettiva. Precisamente, quale espressione funzionante della somma dei poteri esistenti si manifesta come principio organizzatore di tutte le espressioni particolari del conflitto, della violenza e della sopraffazione.

Lo Stato – riassunzione suprema della loro sinergia – acquista forma, identità e stabilità solo quando inizia l’irreversibile processo della delega di potere: allora i vincoli umani e comunitari si traducono in istituzioni con una vita propria, il costume lascia il posto alla legge, il governo finisce per assorbire l’amministrazione. Dalla sovrapposizione sinergica di tutte queste funzioni, dalla loro autonomizzazione prende vita la forma statale: si passa, appunto, dal sociale al politico.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana di Lo Stato e il suo ruolo storico del 1981, nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno.

LA NASCITA DELLO STATO

Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo con la parola Stato. La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere la società», di predicare il ritorno a una «guerra permanente di tutti contro tutti».

Eppure, ragionare così significa ignorare completamente i progressi compiuti nel campo della storia durante gli ultimi trent’anni; significa ignorare che l’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per 35le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando appena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che i periodi più gloriosi dell’umanità sono stati quelli in cui le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano in Comuni e in libere federazioni.

Lo Stato è solo una delle forme che la società ha assunto nel corso della storia; e non si possono confondere tra loro queste due entità.

Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo. Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è detto, bisogna mirare all’assenza del governo e non all’abolizione dello Stato.

A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si debbono identificare due nozioni di ordine diverso. L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea di governo. Essa comprende non solo l’esistenza di un potere collocato al di sopra della società, ma anche una concentrazione territoriale e una concentrazione di molte funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i membri della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione che a prima vista può sfuggire, ma che appare chiara quando si studiano le origini dello Stato.

Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’è che un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico, cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.

L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della parola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di riferimento per l’uomo di legge.

Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze, l’educazione e persino la religione. Da Roma provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell’impero risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l’onnipotente, l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ogni distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma, regnava sull’impero; e questo non era una confederazione di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.

Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammirano l’unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue leggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questa organizzazione.

Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni barbariche, la morte della vita locale, l’incapacità di resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna, spezzarono l’impero. Dalle sue rovine nacque una nuova civiltà, che oggi è la nostra.

Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della giovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusciremo a comprendere meglio l’essenza dello Stato. Si tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di quello che sarebbe possibile fare immergendoci nell’esame dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppure nell’esame del dispotismo orientale.

Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti demolitori barbari dell’impero romano, tentando di rintracciare l’evoluzione della nostra civiltà dalle sue origini fino alla fase statale.

La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era fatta un’idea molto elementare dell’origine delle società. All’inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro. Questa guerra rappresentava la condizione normale. Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenienti di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di mettersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra le famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una autorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso. Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamo appreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno mantenuto questa loro positiva immagine di sapienti pacificatori e civilizzatori della specie umana.

 uesta idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tutto il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti e di Rousseau, l’idea del «contratto sociale» diventò un’arma potente per combattere la monarchia di diritto divino. Però, malgrado i servizi resi in passato, questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.

In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali vivono in società. Nella lotta per la vita sono le specie sociali che vincono su quelle che non lo sono. In ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala, e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi vivessero già in società.

Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa preesisteva all’uomo.

Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologia chiarito perfettamente che il punto di partenza dell’umanità non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la sua apparizione che molto più tardi: trascorsero decine di migliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fase tribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamola pure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio – l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e di costumi molto anteriori alle istituzioni della famiglia patriarcale. [...]

Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari che invasero l’impero romano l’avevano attraversata, anzi ne uscivano appena allora.

Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni interessarono le tribù e le confederazioni tribali che abitavano l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla rapida essiccazione di questi altipiani, si riversarono sull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo di spingersi verso occidente.

Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive che ancora esistevano nella maggior parte degli insediamenti selvaggi d’Europa, dovettero necessariamente scomparire. La tribù era basata sulla comunanza di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva più esistere alcuna comunanza di origini in quelle agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali, durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi l’origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andava formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle tribù vicine.

Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso comune della terra, cioè del territorio sul quale una certa agglomerazione aveva finito per insediarsi.

Il possesso comune di un certo territorio – di valli e di colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei degli antenati avevano ormai perduto il loro significato, gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.

La comunità di villaggio, composta in parte o interamente di famiglie distinte – unite tutte però dal possesso comune della terra – divenne per i secoli che seguirono il necessario elemento di congiunzione. [...]

La comunità di villaggio si componeva, come si compone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano in base all’estensione delle famiglie, ai loro bisogni e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini, nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente, lo Stato ha loro permesso di occupare l’immenso territorio della Siberia. [...]

In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era sovrana. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il giudice – il solo giudice – in materia civile e penale. Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantava il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità si riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle due parti fosse stato chiarito dai giudici.

Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa fase offre di interessante. Basterà ricordare che tutte le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di diritto che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze) nei nostri codici, nonché tutte le forme di procedura giudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebbero la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo, ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che riportare alla luce un’istituzione dei barbari, dopo averla modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto consuetudinario.

Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni di libere comunità di villaggio.

Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione in comune della terra, sovrana come giudice e come legislatore del diritto consuetudinario, la comunità di villaggio rispondeva a una buona parte dei bisogni dell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavano ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era portato a fare appello al governo non appena un nuovo bisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere autonomamente l’iniziativa per unirsi, federarsi, creare un’intesa, grande o piccola, allargata o ristretta, che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si trovava letteralmente ricoperta da una rete di patti di fratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di «congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federazione. [...]

L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzione profondamente radicata, una pratica giornaliera; malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che avrebbero voluto che ogni disputa venisse portata davanti a loro o davanti ai loro emissari per approfittare della fred, un’ammenda pagata dal villaggio d’origine dei violatori della pace pubblica.

Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in potenti federazioni – germi delle nazioni europee – che sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e difendere reciprocamente il loro territorio considerato come un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile studiare queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole, ugro-finniche, malesi. [...]

Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si è voluto dipingere allo scopo di convalidare la necessità del potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la pace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi. È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro rispettivi territori, si è assistito all’attribuzione dei compiti di difesa territoriale contro nuove possibili invasioni di altri immigranti a particolari individui, i quali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri, di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro (allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono così i primi embrioni del potere militare.

D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene a poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui. Resta appena qualche vecchio che ha conservato nella memoria le strofe e i canti che raccontano i «precedenti» di cui si compone la legge consuetudinaria, e li recita nei giorni delle grandi feste davanti alla comunità riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie si forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di conservare insomma la «legge» nella sua purezza. Presso queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.

L’autorità di principi e re è già in germe in queste famiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzioni di quell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla costituzione di questa autorità che non la forza delle armi. L’uomo si è lasciato sottomettere più dal desiderio di punire secondo la «legge» che per diretta conquista militare. Infatti la prima «concentrazione di potere», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è stato quello tra il giudice e il capo militare, accordo che viene fatto contro la comunità di villaggio. Un solo uomo riveste queste due funzioni, circondandosi di uomini armati per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi nel suo ridotto, accumulando per sé e per la propria famiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame, terra – ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli abitanti del circondario.

L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete, non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo 42temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprio conto.

Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento, trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti che ci fa comprendere come degli uomini liberi diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare per il padrone, laico o religioso, del castello; come l’autorità si costituisca man mano al di sopra dei villaggi e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando contro questa dominazione crescente, ma come le loro lotte si infrangano contro le robuste mura del castello, contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.

Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo, l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore dell’Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono studiando la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenne ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e delle piccole teocrazie già esistevano e si andavano affermando sempre più.

Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone, celtico, germanico, slavo – che aveva spinto gli uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nella libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente, dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare, lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto l’Occidente.

Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei Comuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di villaggio e le fratellanze – rivoluzione che lo spirito federativo dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiò con mirabile accordo.

Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici accademici preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla minaccia che gravava su di essa: arrestò l’evoluzione dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine. Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi Comuni.

Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati allo spirito romano e preoccupati di far risalire le origini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a capire lo spirito del movimento comunalista del XII secolo. Questo movimento fu una forte affermazione dell’individuo, che giunse a costituire la società per mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito unitario e accentratore romano, con il quale si cerca ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento universitario. Questo movimento non si ricollega ad alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale, proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa nazione o a quella regione. [...]

La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata da sembrare del tutto incerta.

Un immenso movimento popolare – religioso quanto a forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitario e comunista quanto ad aspirazioni – si produsse nelle città e nelle campagne dell’Europa centrale. [...]

Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire a chiunque e montando una vecchia scarpa su di una picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano prete e giudice e si costituivano in libero Comune. Solo ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa papista o riformata – giacché Lutero incitava al massacro dei contadini ancor più violentemente dello stesso papa – mise fine a questo movimento che aveva per un certo periodo minacciato la formazione degli Stati nascenti.

Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di quell’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei «Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un secolo dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]

Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza. Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’ora in avanti, compiere la loro opera di distruzione.

Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate dagli storici stipendiati dallo Stato.

Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo Stato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sulle rovine della società feudale, le unioni nazionali, rese precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine. L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l’abbiamo continuato a credere anche in età adulta. Oggi invece arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità, le città medievali avevano lavorato, durante quattro secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione volontaria liberamente accettata, e in pratica vi erano riuscite.

La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città dell’Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita a Genova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavano per tutta l’Europa, come la Lega toscana, la Lega renana (che comprendeva sessanta città), le federazioni della Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia, delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commerciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave, tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del Mar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.

La prova vivente di tali raggruppamenti la si può vedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, si affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi cantoni), non diversamente da come si costituì, nello stesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poiché in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali, accadde che le città diedero man forte all’insurrezione dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che l’unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai giorni nostri.

Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare la federazione libera, che rappresenta una cosa orrenda per l’uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo Stato non può riconoscere un’unione liberamente accettata che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa, può accampare il diritto di servire da unione tra gli uomini. Di conseguenza, lo Stato doveva per forza distruggere le città basate sull’unione diretta tra i cittadini: doveva abolire ogni unione nella città, abolire la città stessa, e sostituire infine al principio federativo il principio di sottomissione e di disciplina. È questa la sostanza stessa dello Stato, che senza tale principio cesserebbe di esistere.

Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si riassume interamente in questa lotta dello Stato nascente contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono assediate, prese d’assalto, saccheggiate, e i loro abitanti decimati ed espulsi. Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed eccone le conseguenze.

Nel XV secolo l’Europa era piena di città prospere, i cui artefici – muratori, tessitori, cesellatori – producevano meravigliose opere d’arte, le cui università ponevano le fondamenta della scienza, le cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano tutti i mari e i fiumi.

Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città che erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti, che avevano posseduto – come Firenze – più scuole e più letti d’ospedale per abitante di quelli oggi posseduti da città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina. Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato si è impadronito delle loro ricchezze. L’industria, sotto la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne. Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo diventano assolutamente impraticabili.

Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa, finendo di distruggere le città che lo Stato non ha distrutto direttamente.


II

Al nodo storico cruciale della Rivoluzione francese Kropotkin dedica anni intensi di studio che alla fine producono un’opera di notevole rilievo: La Grande Rivoluzione. In questo testo l’anarchico russo delinea contemporaneamente la sua interpretazione storica del 1789 e la sua concezione di rivoluzione. Nella ricostruzione kropotkiniana della Rivoluzione francese possiamo osservare la preminenza delle masse anonime – soprattutto contadine – nei confronti delle singole personalità storiche, la subordinazione di ogni forma di soggettività politica all’emergenza oggettiva della corale socialità dal basso e dunque la supremazia della dimensione collettiva rispetto a quella individuale; inoltre, la concreta e strutturale tendenza del mutuo appoggio manifestatasi attraverso la domanda prioritaria dell’uguaglianza sociale, la quale risulta più profonda e significativa della spinta ideale verso la libertà politica. In conclusione, la rivoluzione francese costituisce per Kropotkin la riflessione storica fondamentale da cui partire per studiare e costruire l’azione rivoluzionaria futura.
Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite molteplici rivoluzioni (aristocratica, costituzionale, girondina, giacobina), come è stato affermato dalle varie storio- 49grafie liberali, socialiste e democratiche, ma una sola rivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, che nel suo moto progressivo ha cercato la propria verità nel fondo spontaneo, popolare, comunista e anarchico che ha attraversato fin dall’inizio lo stesso evento rivoluzionario.
Questo giudizio costituisce la chiave di volta dell’interpretazione kropotkiniana della Rivoluzione francese: il «fondo» e l’«essenza» di questa rivoluzione non appartengono veramente alla borghesia, che è stata rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese è stata trascinata dall’ondata popolare, alla quale ha cercato di opporre la moderazione del costituzionalismo monarchico.
La svalutazione della volontà rivoluzionaria della borghesia attraversa tutta la ricostruzione storica dell’anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche nelle conquiste del liberalismo politico l’effetto di una spinta più grande e possente: la lotta popolare per il comunismo, nella forma ancora rozza della semplice, diretta distribuzione egualitaria dei beni.
L’opera kropotkiniana ha influenzato largamente il pensiero rivoluzionario contemporaneo. Lenin, ad esempio, l’apprezzava molto. Ancora nel 1970 ne è stata tirata in Unione Sovietica un’edizione di 43.700 copie. Nella storiografia di sinistra del secondo dopoguerra La Grande Rivoluzione ha avuto ulteriori echi. Nelle opere di Daniel Guérin (La lutte de classe sous la Première République 1793-1797 e Bourgeois et bras nus 1793- 1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molte intuizioni dell’anarchico russo.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’antologia La società aperta, a cura di Herbert Read, nella traduzione (rivista) di Annamaria Savegnago.

 LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivoluzione francese. Una, la corrente delle idee, il prorompere di nuove idee sulla riorganizzazione politica dello Stato, proveniva dalla borghesia. L’altra, la corrente dell’azione, proveniva dalle masse popolari, dai contadini e dai proletari delle città, che volevano ottenere miglioramenti immediati e tangibili della loro condizione economica. E quando queste due correnti si incontrarono in un obiettivo inizialmente comune, quando praticarono per un certo periodo un appoggio mutuo, il risultato fu la rivoluzione.

I filosofi del XVIII secolo avevano già da tempo cominciato a scalzare le fondamenta delle società civili dell’epoca, dove il potere politico e una parte immensa delle ricchezze apparteneva all’aristocrazia e al clero, 51mentre la gran massa del popolo altro non era se non la bestia da soma delle classi al potere. Proclamando la sovranità della ragione, predicando la fiducia nella natura umana e dichiarando che quest’ultima, pur corrotta dalle istituzioni che nel corso della storia avevano ridotto l’uomo in servitù, avrebbe ciononostante riacquisito tutte le sue qualità una volta riconquistata la libertà, questi filosofi avevano aperto nuovi orizzonti all’umanità. Decretando l’uguaglianza di tutti gli uomini, senza distinzione di nascita, chiedendo a ogni cittadino, fosse egli re o contadino, obbedienza alla legge, che si suppone esprima la volontà della nazione quando è stata emanata dai rappresentanti del popolo, e infine chiedendo la libertà di contratto tra uomini liberi, nonché l’abolizione delle servitù feudali, e formulando tutte queste richieste, collegate tra loro dal metodo e dallo spirito sistematico caratteristici del pensiero francese, i filosofi avevano senza dubbio preparato, almeno nelle menti degli uomini, la caduta del vecchio regime.

Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente a provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passare dalla teoria all’azione, dal concepire un ideale nella propria immaginazione al metterlo in pratica nei fatti. E ciò che interessa oggi da un punto di vista storico sono le circostanze che, in un dato momento, resero possibile alla nazione francese di fare questo sforzo: dare inizio alla realizzazione dell’ideale. [...]

La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spazio di pochi anni, di istituzioni che ci avevano messo dei secoli a mettere radici nel suolo e che sembravano tanto solide e immutabili che persino i più accesi riformatori a malapena osavano attaccarle nei loro scritti. È la caduta, lo sgretolarsi in un breve lasso di tempo di tutto ciò che fino a quel momento costituiva l’essenza stessa della vita sociale, religiosa, politica ed economica di una nazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e delle nozioni condivise sulle complesse relazioni tra le varie componenti dell’insieme umano.

È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie, nei rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto diventano realtà e cominciano così ad espandersi tra le nazioni vicine, sconvolgendo il mondo e consegnando all’epoca successiva le sue parole d’ordine, i suoi problemi, la sua scienza, le sue linee di sviluppo economico, politico e morale.

Per arrivare a un risultato di tale importanza, perché un movimento assuma le proporzioni di una rivoluzione (come successe in Inghilterra nel 1648 e nel 1688 e in Francia nel 1789 e nel 1793), non è sufficiente che un movimento di idee, non importa quanto radicate, si manifesti tra le classi colte; e non è sufficiente che le rivolte, non importa quanto frequenti o estese, si producano in seno al popolo. È necessario che l’azione rivoluzionaria proveniente dal popolo coincida con il movimento di pensiero rivoluzionario proveniente dalle classi colte. Deve, cioè, esserci un’unione dei due. [...]

Eppure la storia di questo doppio movimento è ancora da scrivere. La storia della Grande Rivoluzione francese è stata scritta e riscritta innumerevoli volte e da molti punti di vista differenti; ma sino a questo momento gli storici si sono dedicati a raccontare soprattutto la storia politica, la storia delle conquiste della borghesia a scapito del partito della Corte e di quanti difendevano le istituzioni della vecchia monarchia. Così, conosciamo molto bene il risveglio del pensiero che precede la rivoluzione. Conosciamo i princìpi che dominarono durante la rivoluzione e che si tradussero nella sua opera legislativa. Siamo estasiati davanti alle grandi idee che lanciò in tutto il mondo e che il XIX secolo ha poi cercato di realizzare nei Paesi civili. In breve, la storia parlamentare della rivoluzione, le sue guerre, la sua politica e la sua diplomazia, sono state studiate e raccontate in tutti i particolari. Ma la storia popolare della rivoluzione rimane ancora da fare. La parte avuta nella rivoluzione dal popolo delle campagne e delle città non è mai stata studiata e narrata nella sua interezza. Delle due correnti che fecero la rivoluzione, la corrente del pensiero è conosciuta, ma l’altra, quella dell’azione popolare, 53non è stata ancora nemmeno abbozzata.

Sta a noi, i discendenti di quelli che i contemporanei chiamavano gli «anarchici», studiare questa corrente popolare evidenziandone quantomeno i tratti essenziali. [...]

Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a reclamare l’abolizione dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto di continuare a pagarli; fu la Comune a riprendere ai proprietari terrieri quelle terre che precedentemente erano comuni, a resistere ai nobili, a lottare contro i preti, a proteggere i patrioti e più tardi i sans-culottes, ad arrestare i nobili emigrati che tornavano o il re che scappava.

Nelle città, fu la Comune municipale a ricostruire ogni aspetto della vita, ad arrogarsi il diritto di scegliere i giudici, a modificare di propria iniziativa la ripartizione delle tasse e, più tardi, seguendo gli sviluppi della rivoluzione, a divenire l’arma dei sans-culottes nella loro lotta contro la monarchia e i cospiratori monarchici e contro gli invasori tedeschi. In tempi ancora successivi, nell’Anno II della Repubblica, furono sempre le Comuni che si assunsero il compito di redistribuire le ricchezze.

E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi a detronizzare il re e a divenire, dopo il 10 agosto, il nucleo reale, la vera forza della rivoluzione, che manterrà il proprio vigore soltanto fino a quando la Comune sopravviverà.

L’anima della Grande Rivoluzione fu dunque nelle Comuni, e senza questi focolai sparsi su tutto il territorio, la rivoluzione non avrebbe mai avuto la forza di abbattere il vecchio regime, di respingere l’invasione tedesca e di rigenerare la Francia.

Sarebbe però sbagliato rappresentarsi le Comuni di quel tempo come i moderni corpi municipali ai quali i cittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto alle elezioni, ingenuamente affidano l’amministrazione di tutti i propri affari, senza occuparsi più di niente. La folle fiducia nel governo rappresentativo che caratterizza la nostra epoca non esisteva durante la Grande Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari non si separerà mai dal popolo. Attraverso i suoi «distretti», «sezioni» o «tribù», costituiti come altrettanti organi di amministrazione popolare, rimarrà del popolo; ed è appunto questo che darà la forza rivoluzionaria a tali organismi.

Dal momento che è l’organizzazione e la vita dei «distretti» e delle «sezioni» di Parigi che sono meglio conosciute, sarà appunto degli organismi di questa città che parleremo, tanto più che studiando la vita delle «sezioni» parigine impariamo a conoscere con buona approssimazione anche la vita delle migliaia di Comuni della provincia.

Fin dall’inizio della rivoluzione, ma già da quando gli eventi avevano spinto Parigi a prendere l’iniziativa alla vigilia del 14 luglio, il popolo, con la sua meravigliosa attitudine per l’organizzazione rivoluzionaria, si stava già organizzando in vista della lotta che avrebbe dovuto sostenere, e della quale sentì immediatamente l’importanza. [...]

Dopo la presa della Bastiglia, vediamo subito i distretti agire come organi riconosciuti dell’amministrazione municipale. [...]

Fu per mezzo dei distretti che, d’allora in poi, Danton, Marat e tanti altri furono messi nella possibilità di ispirare le masse popolari parigine con il soffio della rivolta; e fu così che le masse si abituarono a fare a meno dei corpi rappresentativi e cominciarono a mettere in pratica l’autogoverno.

Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, i distretti avevano ordinato ai loro delegati di preparare, d’accordo con il sindaco di Parigi, Bailly, un piano di organizzazione municipale che doveva poi essere nuovamente sottoposto ai distretti. Ma in attesa di questo schema, i distretti andarono avanti allargando la sfera delle proprie funzioni a seconda delle necessità.

Quando l’Assemblea nazionale cominciò a discutere l’ordinamento municipale, lo fece, com’era logico aspettarsi da un corpo così eterogeneo, con un’esasperante lentezza. «Dopo due mesi», dice Lacroix, «il primo articolo del nuovo piano municipale doveva ancora essere scritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene come «questi ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e da questo momento cominciò a manifestarsi verso l’Assemblea dei rappresentanti della Comune un’ostilità sempre più marcata di una parte dei suoi rappresentati. Ma quello che è importante notare è che, mentre cercavano di dare una forma legale al governo municipale, i distretti cercavano al contempo di mantenere la propria indipendenza. Essi cercavano l’unità d’azione, ma non sottomettendosi a un comitato centrale, bensì all’interno di una confederazione.

«Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive ancora Lacroix [Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al contempo da un forte sentimento di unità comunalista e da una tendenza non meno forte verso l’autogoverno. […] Parigi non vuol essere una federazione di sessanta repubbliche, ognuna delle quali ritagliata a caso in un proprio territorio: la Comune è una, è composta dall’insieme di tutti i suoi distretti [...]. Non si trova un solo esempio di un distretto che pretenda di vivere appartato dagli altri [...]. Ma accanto a questo principio assodato, se n’è manifestato un altro [...], e cioè che la Comune deve legiferare e amministrare se stessa quanto più direttamente possibile; il governo rappresentativo deve essere ridotto al minimo; tutto ciò che nella Comune può essere fatto direttamente deve essere fatto senza alcun intermediario, senza alcuna delega, o da delegati ridotti al ruolo di mandatari con delega univoca, che agiscono sotto il continuo controllo dei mandanti […]. È ai distretti, ai cittadini riuniti in assemblee generali di distretto, che appartiene il diritto ultimo di legiferare e di amministrare nella Comune».

Appare così evidente che i princìpi dell’anarchismo, espressi qualche anno dopo in Inghilterra da William Godwin, datano già dal 1789, e che essi hanno avuto origine non in speculazioni teoriche ma nei fatti della Grande Rivoluzione. [...]

Una nuova Francia è nata da questi quattro anni di rivoluzione. Per la prima volta dopo secoli il contadino mangia a sazietà. Raddrizza la schiena! Osa parlare! Bisogna leggere i rapporti particolareggiati sul ritorno di Luigi XVI a Parigi, quando viene riportato prigioniero da Varennes, nel giugno del 1791, dai contadini, e chiedersi: «Una cosa simile, un tale interesse per la cosa pubblica, una tale devozione, e una totale indipendenza di giudizio e di azione, potevano essere possibili prima del 1789?». Stava nascendo una nuova nazione, proprio come oggi vediamo nascere una nuova nazione in Russia e in Turchia.

Ed è grazie a questa rinascita che la Francia sarà in grado di reggere tutte le guerre della Repubblica e di Napoleone, e di portare i princìpi della Grande Rivoluzione in Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Germania sino ai confini della Russia. E quando, dopo tutte quelle guerre, dopo aver visto le armate francesi arrivare sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di trovare la Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta alla miseria, troviamo invece che le campagne – persino quelle dell’Est e del Giura – sono molto più prospere di quello che erano ai tempi in cui Pétion, mostrando a Luigi XVI le rive lussureggianti della Marna, gli chiese se ci fosse in nessun’altra parte del mondo un regno più bello di quello.

L’energia interiore accumulatasi nei villaggi è tale che in pochi anni la Francia diventerà un Paese di contadini benestanti, e ben presto si scoprirà che nonostante tutto il sangue versato e le perdite subite, la Francia, in termini di produttività, è il Paese più ricco d’Europa. E la sua ricchezza non la ricava dalle Indie o dal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal suo suolo, dal suo amore per la terra, dalla sua abilità e 57industriosità. È il Paese più ricco grazie alla redistribuzione della sua ricchezza, ed è ancora più ricco grazie alle possibilità che offre per il futuro.

È stato questo l’effetto della rivoluzione. E se uno sguardo distratto non vede nella Francia di Napoleone che l’amore per la gloria, lo storico si rende conto che persino le guerre condotte dalla Francia in quel periodo sono state intraprese per assicurare i frutti della rivoluzione, ovvero le terre riprese ai signori, ai preti e ai possidenti, e le libertà sottratte al dispotismo e alla monarchia. Se la Francia è disposta in quegli anni a dissanguarsi a morte soltanto per impedire a tedeschi, inglesi e russi di imporre un Luigi XVIII, ciò è avvenuto perché non vuole che il ritorno dei nobili emigrati possa significare che i ci-devants, «quelli di prima», si riprendano le terre bagnate dal sudore dei contadini e le libertà bagnate dal sangue dei patrioti. E la Francia combatte così bene per ventitré anni che, quando alla fine è costretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli le proprie condizioni: che i Borboni regnino pure, ma le terre dovranno rimanere a coloro che se le sono riprese dai signori feudali. E lo stesso Terrore bianco dei Borboni non oserà toccarle. Il vecchio regime non sarà più restaurato.

Questo è ciò che si conquista facendo una rivoluzione. Ma ci sono altre cose che vanno evidenziate. Nella storia dei popoli arriva un momento in cui s’impone un mutamento profondo di tutta la vita nazionale. Nel 1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo stanno morendo: non è più possibile mantenerli, bisogna rinunciarvi.

A questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzione. C’è sempre un momento in cui la riforma è ancora possibile. Ma se non si è approfittato di quel momento, se si è opposta un’ostinata resistenza alle esigenze del nuovo modo di vivere, sino al punto di far scorrere il sangue nelle strade, come il 14 luglio 1789, allora non può esserci che la rivoluzione. E una volta che la rivoluzione ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sino alle sue estreme conseguenze, cioè sino al punto più alto che, in sintonia con lo spirito dei tempi, sarà capace di raggiungere, pur se solo temporaneamente.

Se si rappresenta il lento progredire di un periodo di evoluzione con una linea tracciata su un grafico, si constaterà che questa linea gradualmente, anche se lentamente, si innalza. Ma ecco che sopraggiunge una rivoluzione e la linea s’impenna facendo un improvviso balzo verso l’alto. In Inghilterra la linea mostrerebbe un’impennata al tempo della Repubblica puritana di Cromwell; in Francia s’impennerebbe al tempo della Repubblica sans-culotte del 1793. Tuttavia, l’andamento non può mantenersi a questo livello; tutte le forze ostili si coalizzano contro e, dopo aver raggiunto questi picchi, le repubbliche crollano e le linee scendono. Segue la reazione e, quantomeno in politica, la linea del progresso precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo e quando torna la pace – nel 1815 in Francia e nel 1688 in Inghilterra – entrambi i Paesi si trovano a un livello molto più alto di quello che avevano prima delle loro rivoluzioni.

Si torna all’evoluzione, e la nostra linea ricomincia a salire lentamente. Ma questa ascesa parte da un livello molto più elevato di quello rilevato prima della turbolenza, e quasi sempre la sua crescita sarà più rapida. Questa è una legge del progresso umano, ed anche del progresso individuale. E la storia della Francia moderna, che passa attraverso la Comune per arrivare alla Terza Repubblica, conferma proprio questa legge.

L’opera della Rivoluzione francese non si limita solo a ciò che ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, ma la si ritrova anche nei princìpi che ha tramandato al secolo successivo, nell’orientamento con cui ha contrassegnato il futuro.

Una riforma è sempre un compromesso con il passato, mentre il progresso ottenuto tramite una rivoluzione è sempre una promessa di progresso futuro. Se la Grande Rivoluzione francese riassume in sé un secolo di evoluzione, sarà poi lei a impostare il programma d’evoluzione che segnerà il corso del XIX secolo. […]

I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie istituzioni l’eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione. Tutto ciò che essa non ha potuto mettere in pratica, tutte le grandi idee messe in circolo durante quel periodo turbolento ma che la rivoluzione non ha potuto o saputo applicare, tutti i tentativi di ricostruzione sociologica nati durante la rivoluzione, tutto questo costituirà il contenuto dell’evoluzione che seguirà a tale rivoluzione. A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui questa evoluzione darà vita quando cercherà di mettere in pratica il programma ereditato dall’ultimo sommovimento. Poi, una nuova grande rivoluzione avrà luogo in qualche altra nazione, ed essa fisserà, a sua volta, i punti di riferimento dell’epoca successiva.

È stato appunto questo il cammino della storia.

Due grandi conquiste, in effetti, hanno caratterizzato il secolo seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambe hanno avuto la propria origine nella Rivoluzione francese, che a sua volta portava avanti l’opera della Rivoluzione inglese, ampliandola e rinvigorendola con tutto il progresso fatto dopo che la borghesia inglese aveva tagliato la testa al suo re trasferendone il potere al parlamento. Queste due grandi conquiste sono l’abolizione della servitù e l’abolizione dell’assolutismo, conquiste che hanno conferito all’individuo libertà personali inimmaginabili per il servo della gleba e per il suddito del sovrano assoluto, ma che allo stesso tempo hanno portato anche allo sviluppo della borghesia e del regime capitalistico.

III

Il testo kropotkiniano più importante relativo alle questioni metodologiche è La scienza moderna e l’anarchia, uscito per la prima volta a Parigi nel 1913. L’opera riassume i temi attinenti al rapporto fra anarchismo e scienza e stabilisce il primato assoluto della conoscenza e della ragione nel processo di emancipazione umana. Kropotkin inserisce la tradizione anarchica nell’alveo dell’Illuminismo, con l’intento di operare una rottura radicale con la cultura storicistica e, in modo particolare, con l’hegelismo. Egli vuole portare l’anarchismo fuori dall’ambito della filosofia idealistica e, in generale, fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica, irrazionale. La critica alla dialettica hegeliana e marxista è, a questo proposito, emblematica.

L’anarchismo, per non imboccare la strada inconcludente della mistificazione del reale, deve rimanere saldamente agganciato alla grande cultura razionalistica nata con l’Illuminismo. Specificamente, l’identificazione è fra il metodo anarchico e quello induttivo delle scienze naturali. Lo scopo è quello di evidenziare, nell’accostamento metodologico, la sostanziale analogia fra natura e anarchia. In questo modo lo sperimentalismo scientifico per il suo carattere di «apertura», di «modificabilità», per il suo costituzionale antidogmatismo svolge, in un 61certo senso, una funzione analoga a quella svolta dal pluralismo all’interno del procedimento proprio dell’anarchismo. L’analogia fra sperimentalismo e pluralismo è data dalla comune natura di essere entrambi un metodo regolativo più che costitutivo rispetto al problema di una costruzione sociale e di un pari sviluppo scientifico.

Kropotkin però non si limita ad una identificazione attinente all’ambito metodologico, ma amplia tale identificazione al campo più vasto dell’idea anarchica e del concetto di natura, fondendo così scienza e anarchia in una Weltanschauung di forte significato generalizzante. A questo proposito Kropotkin fa coincidere il metodo scientifico con la metodologia anarchica fondata sulla coerenza logica ed etica fra mezzi e fini. L’adeguamento dei mezzi ai fini vuol significare che la scienza deve essere completamente al servizio di una volontà, di un’idea. Se si considera come in questa metodologia si evidenzia la dimensione più rivoluzionaria dell’anarchismo, è possibile a questo punto vedere il senso di tale coniugazione e dunque il tentativo di superare la stessa concezione meramente deterministica dell’identificazione fra scienza e anarchia. Il rapporto della necessaria coerenza tra metodo e scopo ci dice infatti che i fini non possono essere raggiunti che attraverso l’adeguamento dei mezzi alla natura dei fini stessi. Ciò comporta un intervento volontario e cosciente della mano rivoluzionaria nella modificazione continua della prassi, un intervento che non fa altro che rimandare ad una considerazione fondamentale: e cioè che gli scopi – anche se estrapolati da tendenze latenti del presente – devono essere collocati volontariamente a dispetto di ogni contingenza. Sono, in altri termini, immessi coscientemente nel processo storico come obiettivi determinati.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione di Ginevra del 1913 de La scienza moderna e l’anarchia.

QUESTIONI DI METODO

Benché l’anarchia, in ciò simile a tutte le correnti rivoluzionarie, sia nata in seno al popolo, nel tumulto della lotta e non nello studio di un pensatore, è però utile capire dove si colloca fra le diverse correnti del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Come si pone di fronte a queste diverse correnti? A quale fa riferimento di preferenza? Quale metodo di ricerca adopera per avallare le sue conclusioni? In altre parole, a quale scuola di filosofia del diritto appartiene l’anarchia? Con quale corrente della scienza moderna presenta le maggiori affinità?

Di fronte all’entusiasmo per la metafisica economica che abbiamo visto recentemente nei circoli socialisti, questa questione è di qualche interesse. Cercherò, quindi, di rispondervi brevemente e nel modo più semplice possibile, evitando i termini difficili ogni volta che si possono evitare.

Il movimento intellettuale del XIX secolo ha le sue origini nell’opera dei filosofi inglesi e francesi elaborata tra la metà e la fine del secolo precedente. Il risveglio del pensiero determinatosi in quell’epoca ispirò a questi pensatori il desiderio di raccogliere tutte le umane conoscenze in un sistema generale: il sistema della natura. Rifiutando interamente la scolastica e la metafisica medievale, ebbero il coraggio di posare il loro sguardo su tutta la natura – il mondo delle stelle, il nostro sistema solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli animali e delle società umane sulla sua superficie – come su una serie di fatti che possono essere studiati allo stesso modo in cui si studiano tutte le scienze naturali.

Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico – il metodo induttivo-deduttivo – quei pensatori intrapresero l’esame di tutto ciò che la natura ci offre, tanto del mondo stellare o animale quanto di quello delle credenze e delle istituzioni umane, in modo del tutto eguale a quello che avrebbe adoperato un naturalista per studiare problemi di fisica.

Essi annotavano dapprima con pazienza i fatti e quando, in seguito, si mettevano a trarne delle generalizzazioni, lo facevano per via induttiva. Avanzavano, naturalmente, talune ipotesi, ma a queste ipotesi non attribuivano maggiore importanza di quella che Darwin aveva attribuito alla sua ipotesi sull’origine delle nuove specie nella lotta per l’esistenza, o che Mendeleeff aveva attribuito alla sua ipotesi sulla tavola periodica degli elementi. Essi non vi vedevano che delle supposizioni, le quali offrivano una spiegazione provvisoria facilitando l’aggregazione dei fatti e il loro esame, ma non dimenticavano affatto che tali supposizioni dovevano essere confermate dalla compatibilità con una moltitudine di altri fatti e che andavano spiegate anche per via deduttiva. Queste non potevano diventare «leggi» (cioè generalizzazioni provate) se non dopo essere stata sottoposte a tale verifica e solo dopo che le cause dei 64rapporti costanti da loro espressi fossero state spiegate.

Quando il centro del movimento filosofico del XVIII secolo passò dalla Scozia e dall’Inghilterra alla Francia, i filosofi francesi, con la propensione per la sistematicità che è loro propria, si misero a ricostruire su un piano generale e secondo gli stessi princìpi, tutte le conoscenze umane, naturali e storiche. Quello che tentarono fu di fondare il sapere generale – la filosofia dell’universo e della sua vita – con un metodo strettamente scientifico, respingendo quindi tutte le costruzioni metafisiche dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomeni con l’azione di quelle forze fisiche (vale a dire meccaniche) che avevano ritenuto sufficienti a spiegare l’origine e l’evoluzione del globo terrestre. […]

Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolo non cambiavano di metodo quando nei loro studi passavano dal mondo delle stelle a quello delle reazioni chimiche, o dal mondo fisico e chimico a quello della vita delle piante e degli animali, o a quello delle dinamiche economiche e politiche della società, o delle forme evolutive delle religioni, e così via. Il metodo era sempre lo stesso. A tutte le branche della scienza essi applicavano sempre il metodo induttivo. E poiché non trovarono mai, tanto nello studio delle religioni quanto nell’analisi del senso morale e del pensiero in generale, anche un solo punto in cui tale metodo si rivelasse insufficiente e un altro se ne imponesse; poiché non si videro mai costretti a ricorrere né a concezioni metafisiche (dio, anima immortale, forza vitale, imperativo categorico ispirato da un essere superiore, ecc.), né a qualsivoglia metodo dialettico, essi cercarono di spiegare tutto l’universo e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA. [...]

Quale posto occupa dunque l’anarchia nel grande movimento intellettuale del XIX secolo? La risposta a questa domanda è venuta delineandosi in base a quanto abbiamo già detto precedentemente. L’anarchia è una concezione dell’universo basata su un’interpretazione meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire cinetica, ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tutta la natura, ivi compresa la vita delle società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali, e in base a questo metodo ogni conclusione scientifica dev’essere verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia di sintesi, che includa tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali; senza però cadere negli errori nei quali incorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer.

È dunque evidente che per ciò stesso l’anarchia, di fronte a tutte le questioni poste dalla vita moderna, deve necessariamente dare risposte diverse e assumere atteggiamenti diversi da quelli di tutti gli altri partiti politici, non eccettuato in buona misura il Partito socialista, che non si è ancora sbarazzato delle vecchie finzioni metafisiche.

Indubbiamente, l’elaborazione di una concezione meccanica complessiva della natura e delle società umane non è che ai suoi esordi per quanto riguarda gli aspetti sociologici, che trattano appunto della vita e dell’evoluzione delle società. Tuttavia, il poco che si è fatto finora presenta già – talvolta addirittura in modo inconscio – il carattere che abbiamo indicato. Nella filosofia del diritto, nella teoria della morale, nell’economia politica e nello studio della storia dei popoli e delle istituzioni, gli anarchici hanno già dimostrato di non accontentarsi di soluzioni metafisiche, ma di voler dare alle loro conclusioni un fondamento naturalista. Essi non si lasciano suggestionare dalla metafisica di Hegel, di Schelling e di Kant, dai commentatori del diritto romano e del diritto canonico, dai dotti professori di diritto dello Stato o dall’economia politica dei metafisici; piuttosto, cercano di rendersi esattamente conto dei vari problemi emersi in questi campi, rifacendosi agli studi con la prospettiva naturalista compiuti negli ultimi quaranta-cinquanta anni.

Proprio come la filosofia materialista (meccanica, o meglio cinetica) ha abbandonato le concezioni metafisiche del tipo «Spirito universale», «Forza creatrice della natura», «Attrazione simpatica della materia», «Incarnazione dell’Idea», «Finalità della Natura e sua Ragion d’essere», «Inconoscibile», «Umanità» intesa nel senso di entità animata dal «Soffio dello Spirito», ecc., mentre gli embrioni delle generalizzazioni occultate dietro queste parole sono stati tradotti nel linguaggio concreto dei fatti, così noi ci sforziamo di fare altrettanto quando ci mettiamo ad esaminare i fatti della vita in società.

Quando i metafisici vogliono persuadere il naturalista che la vita intellettuale e passionale dell’uomo si svolge secondo «le leggi immanenti dello Spirito», il naturalista scrolla le spalle e continua la sua indagine paziente dei fenomeni della vita, dell’intelligenza, delle passioni, al fine di dimostrare che tutti questi possono essere ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli cerca di scoprire le loro leggi naturali.

Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchico che secondo Hegel «ogni evoluzione rappresenta una tesi, un’antitesi e una sintesi», oppure che «il diritto ha per fine l’instaurazione della giustizia, che rappresenta la sustanziazione materiale dell’Idea suprema», o ancora quando gli si chiede qual è secondo lui «lo scopo della vita», anche l’anarchico scrolla le spalle e si domanda: «Come mai, nonostante lo sviluppo attuale delle scienze naturali, si possono trovare ancora uomini tanto arretrati da credere a simili baggianate? Uomini tanto retrogradi che parlano ancora la lingua del selvaggio primitivo, il quale ‘antropomorfizzava’ la natura, credendola governata da esseri fatti a somiglianza dell’uomo?».

Gli anarchici non subiscono il fascino delle «parole altisonanti» poiché sanno che queste parole servono sempre a coprire l’ignoranza – cioè l’investigazione incompiuta – o, il che è peggio, la superstizione. Ecco perché, quando si parla loro questo linguaggio, passano oltre, senza fermarsi, portando avanti il loro studio delle concezioni sociali e delle istituzioni del passato e del presente in base al metodo naturalista. E così scoprono che lo sviluppo della vita sociale è infinitamente più complesso (e ben più interessante dal punto di vista pratico) di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alle formulazioni precedenti.

Recentemente, si è molto sentito parlare del metodo dialettico, che i socialdemocratici raccomandano per elaborare l’ideale socialista. Noi non accettiamo affatto questo metodo, che del resto non è riconosciuto da nessuna scienza naturale. Al naturalista moderno questo «metodo dialettico» ricorda qualcosa di molto vecchio, di già vissuto e che fortunatamente la scienza ha dimenticato da un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIX secolo – in meccanica, astronomia, fisica, chimica, biologia, psicologia o antropologia – si deve al metodo dialettico. Tutte invece sono frutto del metodo induttivodeduttivo, il solo veramente scientifico. E poiché l’uomo è parte della natura, poiché la sua vita personale e sociale è anch’essa un fenomeno della natura – alla stessa stregua della crescita di un fiore o dell’evoluzione della vita sociale di formiche e api – non vi è alcuna ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un gruppo di castori a una città umana, noi si debba abbandonare il metodo che ci ha servito così bene fino a questo momento per cercarne un altro nell’arsenale della metafisica.

Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo nelle scienze naturali si è rivelato talmente efficace che, nel corso del XIX secolo, la scienza ha fatto in cento anni più progressi che nei due millenni precedenti. E da quando si è cominciato (nella seconda metà di quel secolo) ad applicare questo metodo anche allo studio delle società umana, non ci si è mai minimamente trovati nella necessità di doverlo rigettare per far ritorno alla scolastica medievale resuscitata da Hegel. [...]

Aggiungiamo ancora una parola. L’indagine scientifica non è fruttuosa se non a condizione di avere un obiettivo determinato, d’essere, cioè, intrapresa con l’intenzione di trovare una risposta a una questione chiara e ben definita. Qualsiasi ricerca sarà tanto più fruttuosa quanto meglio verranno identificate le relazioni esistenti fra la questione posta e le linee fondamentali della nostra concezione generale dell’universo. Quanto più una data questione rientra in questa concezione generale, tanto più facile ne sarà la soluzione.

Orbene, la questione che l’anarchia si propone di risolvere potrebbe esprimersi come segue: «Quali sono le forme sociali che in una data società, e per estensione a tutta l’umanità, possono meglio garantire il massimo di benessere e, di conseguenza, il massimo di vitalità? Quali forme sociali favoriscono meglio l’accrescimento di questo benessere, il suo sviluppo quantitativo e qualitativo consentendogli così di divenire quanto più completo e generale possibile (cosa che, sia detto fra parentesi, ci dà anche la formula del progresso)?». Il desiderio di aiutare in questo senso l’evoluzione determina le caratteristiche proprie all’anarchico nella sua attività sociale, scientifica, artistica, ecc. […]

Gli anarchici, guidati da diverse considerazioni d’ordine storico, politico ed economico, come pure dagli insegnamenti della vita moderna, giungono, come si è detto, a una concezione della società ben differente da quella cui si rifanno i vari partiti politici, che mirano tutti ad arrivare al potere.

Noi ci rappresentiamo una società in cui le relazioni tra i suoi membri non sono più regolate dalle leggi, eredità d’un passato d’oppressione e barbarie, o da qualsivoglia autorità, eletta o al potere per diritto ereditario, ma da impegni reciproci liberamente presi e sempre revocabili, come pure da usi e costumi liberamente concordati. Questi costumi, però, non devono essere pietrificati e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione, ma è bene che abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi ai nuovi bisogni, ai progressi del sapere e delle invenzioni, e al crescere d’un ideale sociale sempre più 69razionale ed elevato.

Quindi, nessuna autorità che imponga agli altri la propria volontà. Nessun governo dell’uomo sull’uomo. Nessuna immobilità nella vita, ma un’evoluzione continua, alcune volte più rapida, altre volte più lenta, proprio come nella vita della natura. Piena libertà d’azione all’individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacità naturali, della sua individualità, di ciò che può avere d’originale, di personale. In altre parole, nessuna azione imposta all’individuo sotto minaccia d’una punizione sociale, qualunque essa sia, o d’una pena soprannaturale, mistica: la società non chiede nulla all’individuo che questi non abbia liberamente consentito di fare nel momento stesso in cui lo fa. E inoltre, uguaglianza completa di diritti per tutti.

Noi siamo dunque a favore di una società di uguali, senza alcuna coercizione di sorta, e malgrado quest’assenza di coercizione non temiamo affatto che gli atti antisociali di alcuni individui possano assumere in una società di uguali proporzioni pericolose. Una società di uomini liberi saprà salvaguardarsi meglio delle nostre società attuali, che demandano la difesa della moralità sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (università del crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro complici. Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti.

È evidente che, sino ad oggi, non è mai esistita una società che abbia praticato questi princìpi. Ma in ogni tempo l’umanità ha manifestato una tendenza ad una loro realizzazione. Ogni volta che certi settori della società riuscivano, per un certo periodo, a rovesciare le autorità che li opprimevano, o a cancellare le ineguaglianze esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia, governo di certe caste o classi); ogni volta che una nuova luce di libertà e d’uguaglianza si sprigionava nella società, il popolo, gli oppressi, cercavano di mettere in pratica, anche solo parzialmente, i princìpi appena enunciati.

Possiamo dire, quindi, che l’anarchia è uno specifico ideale di società che differisce in modo essenziale da quanto è stato preconizzato sino ad oggi dalla maggior parte dei filosofi, degli intellettuali e degli uomini politici, che hanno tutti avuto la pretesa di governare gli uomini e di dar loro delle leggi. Non è mai stata l’ideale dei privilegiati, ma è spesso stata l’ideale più o meno cosciente delle masse.

Nondimeno, sarebbe falso affermare che questa concezione della società sia un’utopia dato che nel linguaggio ordinario si attribuisce a questa parola l’idea di qualche cosa che non si può realizzare. [...]

Nel nostro caso è ancora più errato parlare d’utopia in quanto le tendenze da noi identificate hanno già avuto una parte assai importante nella storia della civiltà, poiché sono esse che hanno dato origine al diritto consuetudinario, diritto che ha dominato in Europa dal V al XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno nuovamente affermando in quelle società che per più di tre secoli hanno sperimentato lo Stato. È su questa osservazione, la cui importanza non sfuggirà allo storico della civiltà, che ci basiamo per considerare l’anarchia come un ideale possibile, realizzabile. [...]

«Utopisti» sono stati coloro che, guidati solamente dai loro desideri, non hanno voluto tener conto delle tendenze nuove che si facevano strada; sono stati coloro che hanno attribuito troppa stabilità alle cose del passato, senza chiedersi se non fossero semplicemente il risultato di certe condizioni storiche temporanee. [...]

Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato cessassero d’esistere, lo Stato stesso non avrebbe più ragion d’essere. E una volta che i rapporti tra gli uomini non fossero più quelli tra sfruttati e sfruttatori, nuove forme di aggregazione sorgerebbero. La vita si semplificherebbe se il meccanismo che permette ai ricchi di sfruttare il lavoro dei poveri venisse disattivato.

L’idea di comunità indipendenti per aggregazioni in base al territorio e di ampie federazioni di mestiere per aggregazioni in base alla funzione sociale – dove le due s’intersecano e cooperano al fine di soddisfare i bisogni della società – permette agli anarchici di concepire in modo concreto, reale, la possibile organizzazione di una società emancipata. Non ci resta che aggiungere le aggregazioni in base alle affinità personali – aggregazioni innumerevoli, che possono variare all’infinito, essere di lunga durata o effimere, costituirsi in base alle necessità del momento e per gli scopi più disparati – che già abbiamo visto sorgere nella società attuale al di fuori dei raggruppamenti politici e professionali.

Questi tre tipi di aggregazione, che s’intrecciano tra loro in una grande rete, consentirebbero di soddisfare tutti i bisogni sociali: il consumo, la salute, l’istruzione, la protezione reciproca dalle aggressioni, il mutuo appoggio, la difesa del territorio, e anche la soddisfazione dei bisogni di tipo scientifico, artistico, letterario, ludico. Un insieme pieno di vita e sempre pronto a rispondere con nuovi adattamenti ai nuovi bisogni e alle nuove influenze dell’ambiente sociale e intellettuale.

Se una società di questo tipo si sviluppasse su un territorio abbastanza vasto e popolato da permettere una gran varietà di inclinazioni e bisogni, sarebbe subito evidente che la coercizione di un’autorità, qualunque essa sia, sarebbe del tutto inutile. Inutile tanto per mantenere la vita economica della società che per impedire la maggior parte degli atti antisociali.

In effetti, il più grave impedimento a sviluppare e mantenere nello stato attuale il senso morale, necessario alla vita in società, risiede innanzi tutto nell’assenza dell’uguaglianza. Senza uguaglianza – «senza uguaglianza di fatto», come si diceva nel 1793 – è assolutamente impossibile che il sentimento di giustizia si generalizzi. La giustizia non può che essere egualitaria, mentre i sentimenti egualitari in questa nostra società stratificata in classi sono smentiti in ogni istante e in ogni situazione. È necessario praticare l’uguaglianza perché i sentimenti di giustizia verso tutti entrino nei costumi, nelle consuetudini. Ed è appunto quello che accadrà in una società di uguali.

Allora, il bisogno di un’autorità coercitiva, o piuttosto il desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbe più sentire. Si maturerebbe la convinzione che la libertà dell’individuo non ha bisogno di essere limitata, come lo è oggi, dal timore di una punizione, legale o mistica, oppure dall’ubbidienza ad individui ritenuti superiori o ad entità metafisiche create dalla paura o dall’ignoranza; cosa che porta nella società attuale alla servitù intellettuale, alla riduzione dell’iniziativa personale, al decadimento del senso morale, all’arresto del progresso.

In un contesto egualitario, l’uomo potrebbe lasciarsi guidare con fiducia dalla propria ragione, che essendosi sviluppata in questo stesso ambiente avrebbe necessariamente l’impronta delle abitudini sociali che gli sono proprie. E potrebbe dunque proporsi di conseguire il pieno sviluppo di tutte le sue facoltà, il pieno sviluppo, cioè, della sua individualità. All’opposto di quell’individualismo preconizzato ai nostri giorni dalla borghesia come un mezzo «adatto alle nature superiori» per arrivare al pieno sviluppo dell’essere umano, che altro non è se non un inganno. Questo individualismo è anzi l’ostacolo più sicuro allo sviluppo di individualità forti. […]

Quando un economista ci viene a dire: «In un mercato assolutamente aperto, il valore delle merci si misura in base alla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre queste merci» (si veda Ricardo, Proudhon, Marx e tanti altri), non accettiamo quest’asserzione come un articolo di fede solo perché è stata enunciata da tali autorità, oppure perché appare «massimamente socialista» affermare che il lavoro è la vera misura dei valori mercantili. È possibile che sia vero, diciamo. Ma non vi accorgete che, facendo questa affermazione, ammettete implicitamente che il valore e la quantità del lavoro necessario sono proporzionali, proprio come la velocità di un corpo che cade è proporzionale ai secondi di durata della caduta? Viene così affermata una certa relazione quantitativa fra queste due grandezze. E allora, avete forse fatto delle misurazioni, delle osservazioni quantitativamente misurate, che sole potrebbero confermare una tale asserzione a proposito delle quantità?

Dire che in generale il valore di scambio aumenta se la quantità di lavoro necessario è maggiore, è ammissibile. Ed è da parecchio tempo che Adam Smith si è espresso in questo senso. Ma concludere che, per conseguenza, le due quantità sono proporzionali, e che una è la misura dell’altra, significa commettere un errore grossolano. Grossolano come affermare, ad esempio, che la quantità di pioggia che cadrà domani sarà proporzionale alla quantità di millimetri che il barometro segnerà al di sotto della media stabilita per il tal luogo e per la tal stagione. Chi per primo ha notato che esiste una certa correlazione tra il basso livello del barometro e la quantità di pioggia che cade, o chi per primo ha constatato che una pietra caduta da una grande altezza acquista una velocità superiore a una pietra caduta da appena un metro, ha fatto delle scoperte scientifiche (come appunto ha fatto Adam Smith per il valore). Ma l’uomo che venisse dopo di essi ad affermare che la quantità di pioggia caduta si misura da quanto il barometro è sceso al di sotto della media, oppure che lo spazio percorso da una pietra che cade è proporzionale alla durata della caduta e si misura secondo questa, ci direbbe delle bestialità. E proverebbe inoltre che il metodo di ricerca scientifica gli è assolutamente estraneo e che il suo lavoro non è scientifico, per quanto zeppo sia di parole riprese dal gergo della scienza.

Notiamo inoltre che se a mo’ di scusa ci si nascondesse dietro la mancanza di dati precisi per stabilire, grazie a misurazioni esatte, il valore d’una data merce e la quantità di lavoro necessaria per produrla, questa scusa non sarebbe affatto unica. Conosciamo nelle scienze esatte migliaia di casi simili, di correlazioni nelle quali 74vediamo nettamente che una data quantità dipende da un’altra, che una s’accresce quando l’altra pure s’accresce. Come nel caso, ad esempio, della rapidità di sviluppo d’una pianta che dipende, fra l’altro, dalla quantità di calore e di luce che la pianta riceve, o come in quello del rinculo d’un cannone che aumenta quando aumenta la quantità di polvere bruciata nella carica.

Tuttavia, quale scienziato degno di questo nome avrà la ridicola pretesa di affermare – prima d’aver misurato in quantità i loro rapporti – che, di conseguenza, la rapidità di crescita d’una pianta e la quantità di luce ricevuta, oppure il rinculo del cannone e la carica di polvere bruciata, sono quantità proporzionali; che l’una aumenta due, tre, dieci volte se l’altra aumenta nella stessa proporzione, cioè se, in altre parole, si commisurano, come viene affermato per il valore e il lavoro da Ricardo in poi?

E ancora, chi mai, dopo aver fatto l’ipotesi, la supposizione, che un rapporto di tal genere esista fra le due dette quantità, oserebbe presentare questa ipotesi come una legge? Non ci sono che economisti o giuristi – uomini che non hanno alcuna idea di ciò che viene concepito come «legge» nelle scienze naturali – a fare simili affermazioni.

Generalmente, il rapporto fra due quantità è estremamente complesso, come è appunto nel caso del valore e del lavoro; nello specifico, il valore di scambio e la quantità di lavoro non sono mai proporzionali l’uno all’altra, l’uno non misura mai l’altra. È ciò che aveva già fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che il valore di scambio di ogni oggetto si misura con la quantità di lavoro necessaria per produrre questo oggetto, si è visto costretto ad aggiungere (in seguito ad uno studio dei valori mercantili) che se ciò avveniva nel regime di scambio primitivo, non era più così nel regime capitalista. Cosa perfettamente vera. Il regime capitalista del lavoro obbligato e dello scambio finalizzato al profitto distrugge questi semplici rapporti e introduce parecchi nuovi fattori che alterano i rapporti tra lavoro e valore di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare economia politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire lo sviluppo della scienza economica.

L’osservazione appena fatta per il valore s’applica a quasi tutte le affermazioni economiche che oggi circolano come verità stabilite (specialmente tra i socialisti che amano definirsi scientifici) e che vengono presentate, con impagabile ingenuità, come leggi naturali. Non solamente la maggior parte di queste pretese leggi sono del tutto erronee, ma siamo pure convinti che coloro che ci credono se ne accorgerebbero subito da sé se solo arrivassero a comprendere la necessità di verificare le loro affermazioni quantitative con delle ricerche altrettanto quantitative.

Del resto, tutta l’economia politica si presenta a noi anarchici sotto un aspetto differente da quello attribuitole dagli economisti, siano essi borghesi o socialdemocratici. Essendo il metodo scientifico induttivo assolutamente estraneo a entrambi, non si rendono affatto conto di cosa sia una «legge naturale», malgrado la predilezione che hanno per questa espressione. Essi non s’accorgono che ogni legge di natura ha un carattere condizionale, che si esprime sempre così: «Se nella natura si presentano queste condizioni, il risultato sarà questo o quest’altro… Se una linea retta interseca un’altra linea retta, in modo da formare degli angoli uguali dalle due parti del punto d’intersezione, le conseguenze saranno le seguenti… Se i movimenti che esistono nello spazio interplanetario agiscono in modo esclusivo sopra due corpi, e se dunque non si incontrano altri corpi agenti su questi due a una distanza che non sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi si avvicinano a quella data velocità (legge della gravitazione universale)». E così di seguito, ma sempre con il suo se, sempre con una condizione.

Di conseguenza, tutte le pretese leggi e teorie dell’economia politica non sono in realtà che affermazioni che rispondono a quanto segue: «Ammettendo che si trovi sempre in un dato Paese una quantità considerevole di persone che non possono vivere né un mese e neppure quindici giorni senza accettare le condizioni di lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di imposte), o che saranno loro offerte da quelli che lo Stato riconosce come proprietari del suolo, delle officine, delle ferrovie, ecc., ecco le conseguenze che ne risulteranno…».

Fino ad oggi, l’economia politica non è stata altro che una enumerazione di ciò che succede in simili condizioni: senza però enumerare e analizzare le condizioni stesse, senza esaminare come queste condizioni agiscano in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. E se anche capita che queste condizioni vengano ricordate in un certo frangente, un momento dopo sono già dimenticate. Ma gli economisti non si limitano solo a simili dimenticanze, bensì rappresentano i fatti che si producono in seguito a queste condizioni come leggi fatali e immutabili.

Quanto all’economia politica socialista, è vero che essa critica alcune di queste conclusioni, oppure ne spiega altre in modo diverso, ma ugualmente commette la stessa dimenticanza e, ad ogni modo, non si è ancora tracciata un proprio cammino, rimanendo su quello vecchio. Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato di riprendere le definizioni dell’economia politica metafisica e borghese per dire: «Vedete bene che, anche accettando le vostre definizioni, si arriva a provare che il capitalista sfrutta l’operaio», cosa che suonerà forse bene in una polemica, ma che non ha nulla a che vedere con la scienza.

In generale, riteniamo che la scienza dell’economia politica vada costituita in modo diverso: deve essere trattata come una scienza naturale e proporsi una nuova meta; deve occupare in rapporto alle società umane un posto simile a quello che la fisiologia occupa in rapporto alle piante e agli animali: deve diventare insomma una fisiologia della società. Il suo scopo deve essere lo studio dei bisogni sempre crescenti della società e dei diversi mezzi impiegati per soddisfarli; deve analizzare questi mezzi per vedere fino a che punto sono stati una volta e sono oggi appropriati allo scopo; e in ultimo – poiché lo scopo finale di ogni scienza è la previsione e l’applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo che Bacone l’ha affermato) – essa dovrà studiare i mezzi per meglio soddisfare la somma dei bisogni moderni e ottenere con la minore spesa d’energia (con economia) i migliori risultati per l’umanità in generale.

Si capisce, così, perché noi si arrivi a conclusioni tanto differenti, sotto molti aspetti, da quelle cui giunge la maggior parte degli economisti borghesi o socialdemocratici; perché non riconosciamo il titolo di «leggi» a certe correlazioni da loro indicate; perché la nostra «esposizione» del socialismo differisce dalla loro; perché deduciamo, dallo studio delle tendenze e delle direzioni di sviluppo attualmente osservabili nella vita economica, conclusioni del tutto differenti dalle loro per quanto concerne il desiderabile e il possibile; o in altri termini, perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentre essi giungono al capitalismo di Stato e al salariato collettivista.

Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi. Ma per verificare chi di noi ha torto o ragione non serve fare dei commentari bizantini su ciò che questo o quello scrittore ha detto o voluto dire, né parlarci della trilogia di Hegel, né soprattutto continuare a far uso del metodo dialettico.

Per verificarlo non si può che mettersi a studiare i rapporti economici allo stesso modo in cui si studiano i fatti delle scienze naturali.

IV

L’opera più importante di Kropotkin, Il mutuo appoggio, è stata pubblicata per la prima volta a Londra nel 1902 e costituisce l’approdo di una lunga ricerca iniziata una quindicina d’anni prima. La ricerca kropotkiniana vuole dimostrare l’inconsistenza scientifica di quella linea culturale del bellum omnium contra omnes che va da Hobbes a Huxley, secondo cui la legge della vita si compendia nella lotta tra le specie e tra gli individui all’interno della stessa specie; linea che porta a riconoscere l’ineluttabilità dell’affermarsi dei più forti. La valenza politica di questa credenza «universale», che alla fine del XIX secolo è riformulata sotto il nome di «darwinismo sociale», si rintraccia nella giustificazione ideologica al capitalismo più sfrenato e dunque la sua importanza supera di gran lunga la cifra specificamente scientifica della stessa teoria. È evidente che Kropotkin considera centrale demistificare questa concezione conflittualistica del mondo: qualora infatti risultasse che essa risponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare ad una società anarchica che, al contrario, pone l’armonia, l’uguaglianza e l’amore tra gli esseri umani quali premesse indispensabili per il suo stesso costituirsi.

Situandosi all’opposto dell’assunto darwiniano, o meglio della sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto 79tra gli individui all’interno della stessa specie costituisca la condizione generale dell’evoluzione, anche se ammette l’esistenza del conflitto tra le specie. Kropotkin vede una correlazione strettissima tra la pratica del mutuo appoggio e la tendenza associativa, nel senso che queste forme sono aspetti di un’unica realtà: quella della vita in generale. La vita animale è di per se stessa eminentemente sociale. L’associazione è la regola, la legge della natura, perché si riscontra in tutti i gradi dell’evoluzione.

Il «mutuo appoggio», come potente forza evolutiva, opera oltretutto anche a livello interspecifico come «simbiosi» (e, come simbiosi, è stata recentemente ipotizzata addirittura la formazione di organuli intracellulari, come i mitocondri!).

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione (rivista) di Camillo Berneri.

L’AIUTO RECIPROCO IN NATURA

Il concetto di lotta per l’esistenza come fattore dell’evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin e da Wallace, ci ha messi in grado di includere un vasto insieme di fenomeni in un’unica generalizzazione, che è ben presto divenuta la base stessa delle nostre speculazioni filosofiche, biologiche e sociologiche. Un’immensa varietà di fatti – adattamento della funzione e della struttura degli organismi viventi al proprio ambiente; evoluzione fisiologica e anatomica; progresso intellettivo e sviluppo morale – che venivano spiegati un tempo con tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin in un’unica concezione generale. Egli vi ha identificato uno sforzo continuo, una lotta contro le circostanze avverse, per lo sviluppo degli individui, delle razze, delle specie e delle società, teso al massimo della pienezza, 81della varietà e dell’intensità di vita. Può anche darsi che, da principio, lo stesso Darwin non si sia reso perfettamente conto dell’importanza ben più generale del fattore da lui primariamente individuato solo per spiegare una serie di fatti relativi all’accumularsi di variazioni individuali nelle specie nascenti. Ma egli stesso aveva previsto che il termine che stava introducendo nella scienza avrebbe perso il suo significato filosofico, e più vero, se fosse stato impiegato esclusivamente nel senso più ristretto: quello di una lotta fra singoli individui per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primi capitoli della sua memorabile opera insisteva perché il termine fosse preso nel suo «senso largo e metaforico, che comprende l’interdipendenza degli esseri viventi e che comprende inoltre (cosa ancor più importante) non soltanto la vita dell’individuo ma anche il successo della sua discendenza» (L’origine delle specie, cap. III). [...]

La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le teorie che trattano dei rapporti umani. Invece di svilupparla secondo gli indirizzi che le erano propri, i suoi continuatori l’hanno sempre più ridotta. E mentre Herbert Spencer, partendo da osservazioni indipendenti ma analoghe, ha tentato di allargare la discussione ponendo il grande quesito su chi sono i più adatti (in modo particolare nell’appendice alla terza edizione di Princìpi di etica), gli innumerevoli seguaci di Darwin hanno ridotto la nozione di lotta per l’esistenza al suo più angusto significato. Essi sono arrivati a concepire il mondo animale come un mondo di lotta perpetua fra individui affamati, assetati di sangue, facendo risuonare la letteratura contemporanea del grido di guerra «Guai ai vinti», come se fosse questa l’ultima parola della moderna biologia. E per interessi personali hanno elevato questa lotta «spietata» all’altezza di principio biologico, al quale anche l’uomo deve sottomettersi, sotto pena di soccombere in un mondo fondato sul reciproco sterminio. Lasciando da parte gli economisti, che di scienze naturali non sanno che qualche parola presa a prestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna rico- 82noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwin hanno fatto del loro meglio per consolidare queste false idee. [...]

[Viceversa] quando studiamo gli animali, non soltanto nei laboratori e nei musei ma anche nelle foreste e nelle praterie, nelle steppe e sulle montagne, ci accorgiamo subito che, benché in natura siano fortemente presenti la guerra e lo sterminio fra specie diverse, e soprattutto fra differenti classi di animali, vi si ritrova al contempo altrettanto se non più mutuo appoggio, mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali appartenenti alla stessa specie, o almeno allo stesso gruppo sociale. La socialità è una legge della natura tanto quanto la lotta reciproca. È senza dubbio molto difficile valutare, anche approssimativamente, l’importanza percentuale di queste due serie di fatti. Ma se ricorriamo a una testimonianza indiretta e domandiamo alla natura: «Quali sono i più adatti: coloro che sono continuamente in lotta tra loro, o coloro che si aiutano l’un l’altro?», vediamo che i più adatti sono, senza dubbio, gli animali che hanno acquisito abitudini di solidarietà. Essi hanno maggiori probabilità di sopravvivere e raggiungono, nelle loro rispettive classi, il più alto sviluppo delle capacità intellettive e fisiche. Se gli innumerevoli fatti che possono esser citati a sostegno di questa tesi vengono presi in considerazione, possiamo affermare con certezza che il mutuo appoggio è una legge della vita animale tanto quanto la lotta reciproca, ma che, come fattore dell’evoluzione, il primo ha probabilmente un’importanza decisamente maggiore in quanto favorisce lo sviluppo delle abitudini e dei caratteri più adatti ad assicurare la preservazione e lo sviluppo della specie, oltre a procurare con una minor perdita di energia una maggior quantità di benessere e di felicità per ciascun individuo. […]

Quando si comincia a studiare la lotta per l’esistenza sotto i suoi due aspetti, quello proprio e quello metaforico, ciò che colpisce subito è l’abbondanza di dati sul mutuo appoggio, e non soltanto per quanto riguarda l’allevamento della prole, come riconosce la maggior parte degli evoluzionisti, ma anche la sicurezza dell’individuo e il procacciamento del cibo necessario. In molte categorie del regno animale l’aiuto reciproco è la regola. Si va scoprendo il mutuo appoggio anche fra gli animali più in basso nella scala evolutiva, ed è lecito aspettarsi che, prima o poi, i ricercatori che studiano al microscopio la vita elementare individuino forme di mutuo appoggio incosciente anche fra i microrganismi. Vero è che la nostra conoscenza degli invertebrati, a eccezione delle termiti, delle formiche e delle api, è estremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che concerne gli animali inferiori possiamo raccogliere alcuni dati, opportunamente verificati, di cooperazione. Le innumerevoli società di cavallette, farfalle, cicindelidi, cicale, ecc., sono in realtà pochissimo conosciute, ma il fatto stesso della loro esistenza indica che esse devono essere organizzate più o meno secondo gli stessi princì- pi delle società temporanee di formiche e api finalizzate alle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo fenomeni di mutuo appoggio perfettamente osservabili fra i necrofori. Questi hanno bisogno di materia organica in decomposizione per deporvi le uova e per assicurare il nutrimento delle larve. Ma questa materia organica non deve decomporsi troppo rapidamente, così hanno l’abitudine di sotterrare nel suolo i cadaveri di piccoli animali di ogni specie che incontrano sul proprio cammino. Di norma vivono isolati, ma quando uno di loro scopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli riuscirebbe difficile seppellire da solo, chiama quattro, sei o persino dieci altri necrofori per portare a termine l’operazione riunendo gli sforzi; se necessario, trasportano il cadavere in un terreno morbido e ve lo seppelliscono, dando prova di molto buon senso e senza poi entrare in conflitto per scegliere colui che avrà il privi- 84legio di deporre le uova nel corpo sepolto. [...]

Anche da questa breve rassegna possiamo vedere come la vita in società non costituisca l’eccezione nel mondo animale: essa è piuttosto la regola, la legge della natura che raggiunge il suo completo sviluppo nei vertebrati superiori. Le specie che vivono isolate o in piccole famiglie sono relativamente poche e il numero dei loro membri limitato. Sembra anzi molto probabile che, tranne qualche eccezione, gli uccelli ed i mammiferi che attualmente non sono gregari, vivessero in società prima che l’uomo invadesse il globo, intraprendendo una guerra permanente contro di essi o semplicemente distruggendo le loro fonti primarie di nutrimento. «Non ci si associa per morire», è stata l’acuta osservazione di Espinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certe regioni dell’America quando questo Paese non era ancora stato modificato dall’uomo, ha scritto nel medesimo senso.

La socialità si riscontra nel mondo animale in tutti i gradi dell’evoluzione, e secondo la grande idea di Herbert Spencer, brillantemente sviluppata in Colonie animali di Périer, nel regno animale essa è all’origine stessa dell’evoluzione. Ma via via che si sale nella scala evolutiva, possiamo notare come la socialità divenga sempre più cosciente: essa perde il suo carattere puramente fisico, cessa di essere semplicemente istintiva, e diventa razionale. Nei vertebrati superiori è periodica, ovvero gli animali vi ricorrono per la soddisfazione di un bisogno particolare: la continuazione della specie, le migrazioni, la caccia o la reciproca difesa. Si produce anche accidentalmente, ad esempio quando alcuni uccelli s’associano contro un predatore o quando alcuni mammiferi, sotto la pressione di circostanze eccezionali, si aggregano per migrare. In quest’ultimo caso è una vera e propria deroga volontaria ai costumi abituali. L’aggregazione appare qualche volta a due o più gradi: la famiglia dapprima, poi il gruppo, ed infine l’associa- 85zione di gruppi abitualmente sparpagliati, ma che si riuniscono in caso di necessità, come abbiamo visto presso i bisonti e presso altri ruminanti. Questa associazione può prendere anche forme più sofisticate, assicurando maggiore indipendenza all’individuo senza privarlo dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti i roditori, l’individuo ha una sua tana particolare nella quale può ritirarsi quando preferisce restare solo, ma queste tane sono disposte in villaggi e in città così da assicurare a tutti gli animali che vi abitano i vantaggi e le gioie della vita sociale. Infine, presso varie specie come i topi, le marmotte, le lepri, ecc., la vita sociale è mantenuta nonostante il carattere litigioso e alcune tendenze egoistiche del singolo individuo. Tuttavia, questa associazione non è imposta, come nel caso delle formiche e delle api, dalla struttura fisiologica degli individui, ma è coltivata per i benefici che derivano dal mutuo appoggio o per i piaceri che essa procura. Questo, naturalmente, si realizza in tutti i gradi possibili e con la maggiore varietà di caratteri individuali e specifici, e la varietà stessa degli aspetti che assume la vita in società è una conseguenza, e per noi una prova in più, della sua generalità.

Solo recentemente la socialità, vale a dire il bisogno dell’animale di associarsi con i suoi simili, l’amore della società per la sua stessa salvaguardia, combinato alla «gioia di vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoologi l’attenzione che meritano. […]

Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita in società sia l’arma più potente nella lotta per l’esistenza presa nel senso più ampio del termine, e sarebbe agevole portare ulteriori prove, ammesso che fosse necessario. La vita in comune rende gli insetti, gli uccelli e i mammiferi più deboli capaci di lottare e di proteggersi contro i più temibili carnivori o contro i rapaci; essa favorisce la longevità; rende le specie in grado di allevare la loro prole con un minimo dispendio di energia, e di mantenere altresì un numero sufficiente di membri anche se la loro natalità è ridottissima; consente agli animali gregari di migrare in cerca di nuovi habitat. Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza, la rapidità, la colorazione mimetica, l’astuzia, la resistenza alla fame e alla sete, ricordati da Darwin e Wallace, siano qualità che rendono l’individuo o la specie più adatti in certe circostanze, affermiamo che, in ogni circostanza, la socialità rappresenta un grande vantaggio nella lotta per l’esistenza. Le specie che, volontariamente o no, abbandonano quest’istinto associativo, sono condannate a regredire. Viceversa, gli animali che meglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori probabilità di sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, e questo anche se sono inferiori ad altri animali in ciascuna delle facoltà enumerate da Darwin e Wallace, con l’eccezione di quella intellettiva. I vertebrati superiori, e gli uomini in particolare, sono la prova migliore di quest’asserzione. Quanto alla facoltà intellettiva, se tutti i darwinisti sono d’accordo con Darwin nel pensare che è l’arma più possente nella lotta per la vita e il fattore più potente di ulteriore evoluzione, non potranno non ammettere altresì che l’intelligenza è una qualità eminentemente sociale. Il linguaggio, l’imitazione e le esperienze accumulate sono altrettanti elementi di progresso intellettuale che mancano all’animale non sociale. Così, troviamo in cima alle differenti classi di animali le formiche, i pappagalli e le scimmie, che uniscono tutte un alto grado di socialità con un alto grado di sviluppo intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque gli animali più socievoli, e la socialità appare come uno dei principali fattori dell’evoluzione, sia direttamente, assicurando il benessere della specie e diminuendo nel contempo l’inutile dispendio di energia, sia indirettamente, favorendone lo sviluppo intellettivo.

È inoltre evidente che la vita in società sarebbe assolutamente impossibile senza un corrispondente incremento dei sentimenti sociali, e particolarmente di un certo senso di giustizia collettiva che tende a divenire consuetudinario. Se ciascun individuo commettesse costantemente abusi a suo personale vantaggio, senza che gli altri intervenissero in favore di chi ne viene leso, nessuna vita sociale sarebbe possibile. Sentimenti di giustizia si sviluppano quindi, più o meno, presso tutti gli animali che vivono in gruppi. [...]

Se la visione sviluppata nelle pagine precedenti è valida, il quesito che necessariamente ne deriva è fino a che punto questi fatti sono congruenti con la teoria della lotta per l’esistenza così come l’hanno esposta Darwin, Wallace e i loro discepoli. Cercherò ora di dare brevemente una risposta a questo quesito. Innanzi tutto nessun naturalista può dubitare che l’idea di una lotta per l’esistenza estesa a tutta la natura organica non sia la più importante generalizzazione dell’ultimo secolo. La vita è lotta, e in questa lotta il più adatto sopravvive. Ma davanti a domande come: «Quali sono le armi più adatte a sostenere questa lotta?», le risposte differiscono grandemente a seconda dell’importanza data ai due diversi aspetti di questa lotta, di cui uno è proprio, la lotta per il nutrimento e la sicurezza dei singoli individui, mentre l’altro è la lotta che Darwin descriveva come «metaforica», lotta molto spesso collettiva contro le circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia, in seno a ciascuna specie, una certa competizione effettiva per il nutrimento, quantomeno in certi periodi. Ma la questione è sapere se la lotta ha le proporzioni sostenute da Darwin o anche da Wallace, e se questa lotta ha esercitato nell’evoluzione del regno animale il compito che le si attribuisce.

L’idea che permea l’opera di Darwin è certamente quella di una reale competizione all’interno di ogni gruppo animale per il cibo, la sicurezza individuale e la riproduzione. Il grande naturalista parla spesso di regioni così piene di vita animale che non potrebbero contenerne di più; da questa sovrappopolazione deriva la necessità della competizione. Ma quando cerchiamo nella sua opera prove concrete di questa lotta, dobbiamo confessare che non le troviamo sufficientemente convincenti. Se facciamo riferimento al paragrafo intitolato La lotta per la vita è più aspra tra gli individui e le sottoclassi della stessa specie, non vi riscontriamo quell’abbondanza di prove e di esempi che solitamente troviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individui della stessa specie non è confermata, in questo stesso paragrafo, da alcun esempio: è data per scontata. E la lotta tra le specie strettamente imparentate non è provata che da cinque esempi, di cui uno almeno (concernente due specie di tordi) sembra ora da porsi in dubbio. Ma quando cerchiamo maggiori particolari per stabilire fino a che punto il declinare d’una specie sia stato causato dall’espandersi di un’altra specie, Darwin con la sua buona fede abituale ci dice: «Possiamo vagamente intravedere perché la competizione debba essere più accanita tra specie simili che quasi occupano la stessa collocazione in natura; ma probabilmente in nessun caso riusciremo a dire con precisione perché una specie trionfi su un’altra nella grande battaglia della vita».

Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto un titolo leggermente modificato, La lotta per la vita tra gli animali e le piante strettamente imparentati è spesso delle più aspre, fa la seguente osservazione che dà tutt’altro aspetto ai fatti sopra citati [i corsivi sono miei]: «In alcuni casi, si ha senza dubbio una vera guerra tra le due specie, in cui la più forte uccide la più debole, ma questo non è in alcun modo necessario, e ci possono essere casi in cui la specie più debole trionferà fisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapida, per la sua maggiore resistenza ai mutamenti climatici, o per la sua superiore abilità nello sfuggire ai comuni nemici».

In questi casi ciò che viene chiamata competizione può non essere affatto una vera competizione. Una specie soccombe non perché sia sterminata o affamata da un’altra specie, ma perché non s’adatta bene alle nuove condizioni, mentre l’altra ci si adatta. Di nuovo, l’espressione «lotta per la vita» è qui impiegata in senso metaforico, e non può averne altro. Quanto all’effettiva competizione tra individui della stessa specie, di cui si parla in un altro passo relativo ad una mandria in Sud America durante un periodo di siccità, il valore dell’esempio è diminuito dal fatto che si tratta di animali domestici. In condizioni simili, i bisonti migrano allo scopo d’evitare la lotta. Per quanto dura sia la lotta delle piante – cosa abbondantemente provata – non possiamo che ripetere l’osservazione di Wallace, il quale fa rilevare che «le piante vivono dove possono», mentre gli animali hanno in larga misura la possibilità di scegliere il proprio habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino a che punto la competizione esiste realmente in ogni specie animale? Su cosa viene basata questa opinione?

Occorre fare la stessa osservazione anche a proposito dell’argomento indiretto a favore di un’implacabile competizione e di una lotta per la vita in seno ad ogni specie, argomento che si basa sullo «sterminio delle varietà transitorie» così di frequente ricordato da Darwin. Si sa che per lungo tempo Darwin si è arrovellato sulla difficoltà che individuava nell’assenza di una ininterrotta catena di forme intermedie tra le specie prossime, e che ha poi identificato la soluzione di questa difficoltà nel supposto sterminio delle forme intermedie. Tuttavia, un’attenta lettura dei differenti capitoli nei quali Darwin e Wallace parlano di tale soggetto, ci porta ben presto alla conclusione che non bisogna intendere «sterminio» nel senso letterale della parola; la stessa osservazione fatta da Darwin sull’espressione «lotta per la vita» s’applica anche alla parola «sterminio»: non deve essere presa in senso proprio, bensì «in senso metaforico».

Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio è popolato da animali al massimo della sua capacità e che, di conseguenza, si scatena un’aspra competizione tra tutti i suoi abitanti per assicurarsi il cibo quotidiano, allora la comparsa di una nuova varietà vincente significherebbe in molti casi (benché non sempre) la comparsa di individui capaci di appropriarsi di una quota superiore alla loro porzione di mezzi di sussistenza. Il risultato sarebbe che, affamandole, questi individui trionferebbero prima sulla varietà primitiva che non possiede le nuove modificazioni e poi sulle varietà intermedie che non le posseggono al medesimo grado. È possibile che dapprima Darwin si sia rappresentato in questo modo la comparsa di nuove varietà, o almeno l’impiego frequente della parola «sterminio» dà questa impressione. Ma Darwin e Wallace conoscevano troppo bene la natura per non accorgersi che questo processo di cose non è il solo possibile, e oltretutto non è affatto necessario.

Se le condizioni fisiche e biologiche d’una data regione, l’estensione dell’area occupata da una specie e le abitudini dei membri di questa specie restassero invariate, la comparsa subitanea d’una nuova varietà in tali condizioni potrebbe significare l’annientamento per fame e lo sterminio di tutti gli individui non sufficientemente dotati delle nuove qualità proprie alla nuova varietà. Ma un tale concorso di circostanze è precisamente ciò che in natura non si vede. Ogni specie tende continuamente a estendere il proprio territorio; le migrazioni verso nuovi spazi sono la regola, tanto presso la lenta lumaca quanto presso il rapido uccello; le condizioni fisiche si trasformano incessantemente in ogni regione; e le nuove varietà animali in un gran numero di casi, se non nella maggioranza, si formano non grazie allo sviluppo di nuove armi capaci di strappare il nutrimento ai propri simili – il nutrimento non è che una delle centinaia di condizioni necessarie alla vita – ma, come lo stesso Wallace mostra in un interessante paragrafo sulla «divergenza dei caratteri», grazie all’adozione di nuove abitudini, allo spostamento verso nuovi habitat e all’assunzione di nuovi alimenti. In questi casi non ci sarà sterminio e neppure competizione, poiché il nuovo adattamento porta ad attenuare la competizione, ammesso che effettivamente ci fosse. Tuttavia ci sarà, dopo un certo periodo, assenza di forme 91intermedie, semplicemente per effetto della sopravvivenza dei meglio dotati rispetto alle nuove condizioni; e ciò sempre nell’ipotesi dello sterminio delle forme primitive. È appena necessario aggiungere che se ammettiamo con Spencer, con tutti i lamarckiani e con Darwin stesso, l’influsso moderatore dell’ambiente sulle specie, diventa ancor meno necessario ammettere lo sterminio delle forme intermedie. […]

Fortunatamente la competizione non è la regola né nel mondo animale né nel genere umano. Negli animali è ristretta a periodi eccezionali, mentre la selezione naturale trova occasioni decisamente migliori per operare. Condizioni migliori sono appunto create dalla eliminazione della competizione per mezzo del reciproco aiuto e del mutuo appoggio. Nella grande lotta per la vita – per una vita di massima pienezza e intensità a fronte di un minimo dispendio di energia – la selezione naturale cerca sempre i mezzi per evitare la competizione per quanto è possibile. [...]

È questa la tendenza della natura, sempre presente pur se non sempre pienamente realizzata. È questa la parola d’ordine che ci viene dal cespuglio e dalla foresta, dal fiume e dall’oceano: «Unitevi! Praticate il mutuo appoggio! Esso è il mezzo più sicuro per dare a tutti e a ciascuno il massimo di sicurezza, è la migliore garanzia di esistenza e di progresso fisico, intellettuale e morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che quegli animali che hanno raggiunto la più elevata posizione nelle loro rispettive classi mettono in pratica. Ma è pure ciò che l’uomo, anche l’uomo più primitivo, ha fatto; ed è proprio per questo che l’uomo ha potuto raggiungere la posizione che occupa attualmente, come vedremo nel capitolo seguente, consacrato al mutuo appoggio nelle società umane.

V

Lo stesso paradigma interpretativo che regge l’idea dell’aiuto intraspecifico costituisce anche la base teorica del concetto di solidarietà, le cui linee di fondo sono ricavate, non a caso, dal Mutuo appoggio, con la differenza però che qui l’attenzione è rivolta al mondo storico-umano. La filosofia kropotkiniana della storia è debitrice dell’evoluzionismo in quanto afferma l’esperienza comune dell’umanità, nel senso che le necessità della vita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso del tempo gli uomini finiscono per percorrere canali pressoché uniformi.

Secondo Kropotkin la storia dell’uomo non ha fondazione autonoma, non è creatrice di proprie forme e di proprie leggi, perché è una variabile della più grande storia della natura; come questa, a sua volta, non è altro che l’espressione dinamica della vita intesa nel senso universale del termine. Le leggi di questa si impongono alle vicende degli uomini e perciò, da questo punto di vista, la lotta tra libertà e autorità, tra uguaglianza e disuguaglianza si delinea quale momento di una continua opposizione trasversale tale da determinare tutti i possibili comportamenti storici. Ne consegue che nel pensiero kropotkiniano non c’è un concetto di lotta sociale inteso quale lotta di classe, appunto perché il conflitto 93non è precipuo di una specifica situazione spazio-temporale, ma scaturisce da una contrapposizione universale: il mutuo appoggio e la lotta sono momenti che attraversano tutta la storia dell’uomo essendo insiti alle leggi della vita; anzi, sono la vita stessa intesa sul piano storico-umano.

Per mettere in luce la pratica della solidarietà, egli sceglie l’età medievale e moderna perché, a suo giudizio, questo periodo mostra con maggior chiarezza lo spirito comunitario. L’età comunale raffigura, in generale, un modello societario fondato sull’autonomia e sulla decentralizzazione. Testimonia un’epoca di libertà e di creatività popolare, di autonoma iniziativa individuale e di spontanea edificazione collettiva, premesse fondamentali per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo del potere da parte del popolo. La linfa vitale della storia, la sua ricorrente fecondità creativa, si rinviene nelle masse popolari anonime che con le loro migliaia di atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva hanno contribuito alla costruzione societaria, a stratificare cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata di pratiche, di consuetudini e di saperi che globalmente costituiscono il work in progress della perfettibilità umana.

La sua tesi si riallaccia comunque, senza soluzione di continuità, con l’idea proudhoniana dell’autonomia del sociale rispetto all’eteronomia del politico; vuole confermare l’esistenza di una spontanea autofondazione della società quale premessa storica decisiva per concepire la possibilità di una sua edificazione anarchica.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione (rivista) di Camillo Berneri.

LA SOLIDARIETÀ UMANA

Nel precedente capitolo è stata brevemente analizzata l’immensa parte avuta dal mutuo appoggio nell’evoluzione del mondo animale. Occorre ora gettare uno sguardo sulla parte avuta da questo stesso fattore nell’evoluzione del genere umano. Abbiamo visto come siano rare le specie animali che vivono isolate e come numerose siano quelle che vivono in società per la difesa reciproca, per la caccia, per immagazzinare le provviste, per allevare la prole o semplicemente per godere della vita in comune. Abbiamo anche visto che sebbene avvengano guerre tra le diverse classi di animali e le diverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessa specie, la concordia e il mutuo appoggio sono la regola all’interno dei gruppi e delle specie; e abbiamo anche visto che le specie che meglio sanno unirsi ed evitare la 95competizione hanno le maggiori probabilità di sopravvivere e di svilupparsi ulteriormente. Queste prosperano, mentre le specie non sociali deperiscono.

Sarebbe dunque del tutto contrario a quello che sappiamo della natura se gli uomini facessero eccezione a una regola così generale, e cioè che una creatura disarmata, come fu l’uomo alla sua origine, avesse trovato sicurezza e progresso non nel mutuo soccorso, come gli altri animali, ma nella sfrenata competizione per il vantaggio personale senza riguardo per gli interessi della specie. Per una mente abituata all’idea di unità in natura, una tale affermazione sembra assolutamente insostenibile. Tuttavia, per quanto improbabile e non filosofica sia, non ha mai mancato di partigiani. Vi sono sempre stati pensatori che hanno giudicato con pessimismo il genere umano. Essi lo conoscono più o meno superficialmente nei limiti della loro esperienza; sanno della storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attenti alle guerre, alle crudeltà, all’oppressione, e a nient’altro. E ne concludono che il genere umano non è altro che una fluttuante aggregazione di individui sempre pronti a battersi l’uno contro l’altro e trattenuti dal farlo solo grazie all’intervento di una qualche autorità.

È stato appunto questo l’atteggiamento assunto da Hobbes. E se alcuni dei suoi successori del XVIII secolo si sono sforzati di provare che in nessuna epoca della sua esistenza, neppure nella più primitiva, l’uomo ha vissuto in uno stato di guerra permanente, ma che è stato sociale anche allo «stato di natura», e che è stata l’ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze naturali, a spingere il genere umano agli orrori delle prime epoche storiche, la scuola di Hobbes ha continuato ad affermare, al contrario, che il preteso «stato di natura» altro non era se non una guerra permanente tra individui accidentalmente riuniti dal semplice capriccio della loro bestiale esistenza.

È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes, ha fatto progressi e che per ragionare su questo soggetto abbiamo ora basi più sicure di quelle a disposizione di Hobbes e di Rousseau per le loro speculazioni. Ciononostante, la filosofia di Hobbes ha ancora numerosi ammiratori, tanto che ultimamente tutta una scuola di pensatori, applicando la terminologia di Darwin più che le sue idee fondamentali, ne ha tratto degli argomenti favorevoli alle opinioni di Hobbes sull’uomo primitivo, riuscendo persino a dar loro parvenza scientifica. Huxley, come si sa, si è messo a capo di questa scuola e, in un articolo scritto nel 1888, ha presentato gli uomini primitivi come delle tigri o dei leoni, privi di qualsiasi concezione etica, capaci di spingere la lotta per l’esistenza fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vita di «sfrenato combattimento continuo». Per citare le sue parole, «al di fuori dei ristretti e temporanei legami familiari, la guerra hobbesiana di tutti contro tutti era lo stato normale dell’esistenza».

Si è fatto notare più d’una volta che l’errore principale di Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo, è stato di supporre che il genere umano sia cominciato sotto forma di piccole famiglie isolate, un po’ simili alle famiglie «limitate e temporanee» dei grandi carnivori, mentre ora si sa in modo certo che non è avvenuto così. Beninteso, non abbiamo testimonianze dirette sul modo di vivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno certi dell’epoca della loro prima comparsa, anche se attualmente i geologi sono inclini a individuarne le prime tracce nel pliocene o addirittura nel miocene, sedimenti dell’era terziaria. Ma abbiamo il metodo indiretto che ci permette di gettare qualche luce su questa remota antichità.

Un’indagine minuziosa delle istituzioni sociali dei popoli primitivi è stata fatta durante gli ultimi quarant’anni, ed essa ha individuato nelle istituzioni attuali tracce di istituzioni molto più antiche, scomparse da lungo tempo, che tuttavia hanno lasciato indiscutibili segni della loro esistenza anteriore. Tutta una scienza consacrata alle origini delle istituzioni umane s’è così sviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan, Morgan, Edwin Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lubbock e parecchi altri, stabilendo con certezza che l’umanità non ha incominciato sotto forma di piccole famiglie isolate.

Lungi dall’essere una forma primitiva di organizzazione, la famiglia è un prodotto molto tardivo dell’evoluzione umana. Per quanto indietro ci si possa spingere con la paleoetnologia, troviamo uomini che vivono in società, in gruppi simili a quelli dei mammiferi superiori; ed è poi stata necessaria un’evoluzione estremamente lenta e lunga per condurre questo tipo di società all’organizzazione clanica, che è passata a sua volta attraverso un’altra lunghissima evoluzione prima che i germi della famiglia, poligama o monogama, potessero apparire. Dunque, sono stati i gruppi, le bande, le tribù – e non le famiglie – le forme primitive di organizzazione umana presso gli antenati più remoti. Cosa cui è arrivata l’etnologia dopo laboriose ricerche, arrivando a dimostrare semplicemente quello che uno zoologo avrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori – eccetto qualche carnivoro e qualche primate, come gli orangutan e i gorilla, la cui decadenza è indubitabile – vive in piccole famiglie isolate erranti nella foresta. Tutti vivono in società. E lo stesso Darwin, peraltro, avendo ben capito che i primati solitari non avrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, ne ha indotto che l’uomo discende da una specie relativamente debole, ma sociale, quale è quella degli scimpanzé piuttosto che da una specie più forte, ma non sociale, quale è quella dei gorilla. La zoologia e la paleoetnologia sono così d’accordo nel ritenere che il branco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vita sociale. Le prime società umane non sono state altro che uno sviluppo ulteriore di quelle forme associative che avevano costituito l’essenza stessa della vita presso gli animali superiori. [...]

Non si può studiare l’uomo primitivo senza essere profondamente colpiti dalla socialità della quale dà pro-va fin dai primi passi della vita. Tracce di società umane sono state trovate nei reperti dell’età paleolitica e neolitica, e quando studiamo i selvaggi contemporanei, il cui genere di vita è ancora quello dell’uomo neolitico, li troviamo strettamente uniti dall’antichissima organizzazione clanica, che permette loro di mettere insieme le capacità individuali, altrimenti deboli, di godere della vita in comune e così di progredire. In natura, l’uomo non è un’eccezione, ma si conforma anche lui al grande principio del mutuo appoggio, che dà le migliori probabilità di sopravvivenza a quelli che sanno meglio aiutarsi nella lotta per l’esistenza. Tali sono le conclusioni alle quali siamo giunti nel precedente capitolo.

Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto di civiltà e ci rivolgiamo alla storia, che ha già qualche cosa da dire su questo periodo, siamo colpiti dalle lotte e dai conflitti che rivela. Gli antichi legami sembrano essere interamente spezzati: si vedono clan combattere altri clan, tribù contro tribù, individui contro individui. Dal caos e dallo scontro di queste forze ostili, il genere umano esce diviso in caste, asservito a despoti, separato in Stati sempre pronti a farsi guerra. Basandosi su questa storia del genere umano, il filosofo pessimista conclude trionfalmente che la guerra e l’oppressione sono l’essenza stessa della natura umana, che gli istinti di guerra e di rapina dell’uomo possono esser contenuti entro certi limiti solo da una forte autorità che lo costringa alla pace, concedendo a un pugno degli uomini più nobili l’opportunità di progettare per il genere umano una vita migliore per il futuro.

Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli esseri umani in periodo storico è stata sottoposta ad una più accurata analisi, com’è avvenuto recentemente in numerosi e pazienti studi sulle istituzioni dei tempi remoti, questa vita appare sotto un aspetto del tutto differente. Se lasciamo da parte le idee preconcette della maggior parte degli storici e la loro marcata predilezione per gli aspetti drammatici della storia, ci rendiamo conto che sono propri i documenti che studiamo ad 99esagerare la parte di vita umana votata alle lotte trascurandone i lati pacifici. I giorni sereni e soleggiati sono perduti di vista nelle tormente e negli uragani. Anche nella nostra epoca i voluminosi documenti che accumuliamo per i futuri storici con la nostra stampa, i nostri tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anche con i nostri romanzi e le nostre opere poetiche, sono gravati della stessa parzialità. Essi trasmettono alla posterità le più minuziose descrizioni di ogni guerra, battaglia o scaramuccia, di ogni contestazione, di ogni atto di violenza, di ogni sorta di sofferenza individuale, mentre riportano a malapena qualche traccia degli innumerevoli atti di solidarietà e affetto che ognuno di noi conosce per esperienza personale. Riportano a malapena ciò che forma l’essenza stessa della nostra vita quotidiana: i nostri istinti e i nostri costumi sociali. Non c’è da stupirsi se le testimonianze del passato sono state così inesatte. Coloro che hanno compilato gli annali, infatti, non hanno mai mancato di raccontare le più piccole guerre o calamità sofferte dai loro contemporanei senza prestare alcuna attenzione alla vita delle masse; che pure hanno vissuto lavorando pacificamente, mentre solo un piccolo numero di uomini guerreggiavano fra di loro. I poemi epici, le iscrizioni monumentali, i trattati di pace… quasi tutti i documenti storici hanno il medesimo carattere: trattano della violazione della pace, non della pace stessa. Cosicché lo storico, per quanto ben intenzionato, fa inconsciamente un quadro inesatto dell’epoca che si sforza di illustrare. Per trovare la proporzione reale tra i conflitti e la consociazione, occorre ricorrere all’analisi minuziosa di migliaia di piccoli fatti e di indicazioni accessorie, conservate accidentalmente tra le reliquie del passato; occorre poi interpretarle con l’aiuto dell’etnologia comparata e, dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che ha diviso gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra le istituzioni che li tenevano uniti.

Ben presto occorrerà riscrivere la storia con una nuova prospettiva, al fine di tener conto di questi due aspetti della vita umana e di apprezzare la parte rappresentata da ciascuno dei due nell’evoluzione. Nell’attesa, possiamo trarre profitto dall’immenso lavoro preparatorio fatto recentemente con l’intento di ritrovare le linee principali di quel secondo aspetto fino ad ora così trascurato. Dai tempi storici meglio conosciuti possiamo già trarre qualche esempio della vita delle masse, con l’intento di rilevarvi la parte rappresentata dal mutuo appoggio; e per non estendere troppo il lavoro, possiamo dispensarci dal risalire fino agli Egizi o anche fino all’antichità greca e romana. L’evoluzione del genere umano non ha infatti avuto il carattere di una successione ininterrotta: parecchie volte si è esaurita in una data regione, presso un certo popolo, ed è rinata altrove, tra altri popoli. Però, ad ogni nuovo inizio ricomincia con le stesse istituzioni claniche che abbiamo già rilevato presso i selvaggi. Se dunque consideriamo l’ultima rinascita, quella degli inizi della nostra attuale civiltà, tra quelli che i Romani chiamavano i «Barbari», avremo tutta la scala dell’evoluzione, cominciando dalle gentes e terminando con le istituzioni dei nostri tempi. Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine che seguono. […]

Nessun periodo della storia può meglio mostrare il potere creatore delle masse popolari quanto il X e l’XI secolo, allorché i villaggi fortificati e le loro piazze del mercato, «oasi nella foresta feudale», hanno cominciato a liberarsi dal giogo dei signorotti, preparando lentamente la futura organizzazione delle città. Sfortunatamente, è un periodo sul quale le informazioni storiche sono particolarmente rare: conosciamo i risultati, ma sappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati ottenuti.

Al riparo delle loro mura, le assemblee popolari delle città – sia completamente indipendenti, sia rette dalle principali famiglie nobiliari o mercantili – conquistavano e conservavano il diritto di eleggere il defensor, il 101difensore militare della città, e il supremo magistrato, o quantomeno di scegliere tra quelli che aspiravano a tale carica. In Italia i giovani Comuni licenziavano continuamente i loro defensores o domini, combattendo quelli che rifiutavano di andarsene. La stessa cosa accadeva a Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme (Bohemicae gentis magni et parvi, nobiles et ignobiles) prendevano parte all’elezione; nelle citta russe le assemblee popolari, le vyeches, eleggevano regolarmente i loro duchi – tutti regolarmente della famiglia Rurik – e stipulavano insieme le loro convenzioni, esautorandoli però se ne erano scontenti. Alla stessa epoca, nella maggior parte delle città dell’Europa occidentale e meridionale la tendenza era di prendere per defensor un vescovo eletto dalla città stessa; e molti vescovi si sono messi alla testa della resistenza per proteggere le «immunità» cittadine e difendere le loro libertà, tanto che, dopo la morte, molti sono stati santificati divenendo i patroni delle loro città, come san Uthelred di Winchester, san Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di Ratisbona, san Heribert di Colonia, san Adalbert di Praga e così via. Anche molti abati e monaci sono diventati santi patroni delle città per aver sostenuto i diritti del popolo. Con questi nuovi defensores – laici o ecclesiastici – i cittadini hanno conquistato la piena autorità giuridica e amministrativa per le loro assemblee popolari. [...]

Tuttavia, oltre all’idea di comunità rurale, occorreva un altro elemento capace di dare a questi centri in cerca di libertà l’unità di pensiero, azione e iniziativa che ha fatto la loro forza nel XII e XIII secolo. La diversità crescente di arti e mestieri, nonché l’estensione del commercio a Paesi lontani, hanno fatto desiderare una nuova forma di aggregazione, il cui elemento necessario sono state le corporazioni. Si sono scritte molte opere su queste associazioni che sotto il nome di corporazioni, gilde, fratellanze – o druzhestya, minne, artels in Rus- 102sia, esnaifs in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia, ecc. – si sono sviluppate in modo considerevole nel Medio evo tanto da rappresentare una parte sostanziale nell’emancipazione delle città. Ma ci sono voluti più di sessant’anni perché gli storici riconoscessero l’universalità di questa istituzione e il suo vero carattere. Solo oggi, dopo che centinaia di statuti corporativi sono stati pubblicati e studiati e dopo che i loro rapporti originari con i collegiae romani e le antiche unioni della Grecia e dell’India sono stati riconosciuti, possiamo parlarne con piena cognizione di causa e possiamo affermare con certezza che queste fratellanze rappresentano uno sviluppo degli stessi princìpi che abbiamo visto in azione tra le gentes e nelle comunità rurali. [...]

Così, quando un certo numero di artigiani – muratori, carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. – si riunivano per costruire ad esempio una cattedrale, essi appartenevano tutti a una città con il suo ordinamento politico, e inoltre ciascuno apparteneva alla propria arte, ma tutti si consociavano altresì per l’impresa comune, che conoscevano meglio di chiunque, e s’organizzavano in un corpo, stringendo forti legami, quantunque temporanei, e fondando una gilda per l’erezione della cattedrale. Anche oggi possiamo riscontrare questi stessi fatti nel çof dei Cabili: essi hanno la loro comunità rurale, ma questa associazione non basta per tutti i bisogni politici, commerciali e personali dell’unione ed essi costituiscono quindi una fratellanza più stretta nel çof.

Quanto ai caratteri sociali delle gilde medievali, qualsiasi statuto può darne un’idea. Prendiamo ad esempio lo skraa di qualche primitiva gilda danese: vi leggiamo dapprima un’esposizione dei sentimenti di fraternità generale che devono regnare nella gilda, poi vengono le regole relative all’auto-giurisdizione in caso di litigio tra due fratelli, o tra un fratello e un esterno; infine vengono enumerati i doveri sociali dei fratelli. Se la casa di un fratello è distrutta dal fuoco, o se egli ha perduto il suo bastimento, o ancora se ha sofferto durante un pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire in suo aiuto. Se un fratello cade gravemente ammalato, altri due fratelli devono vegliare presso il suo letto fino a che non sia fuori pericolo; se muore, devono sotterrarlo – faccenda non da poco in tempi di pestilenze – accompagnandolo in chiesa e alla tomba. Dopo la sua morte devono soccorrere i suoi figli se sono nel bisogno, mentre molto spesso la vedova diventa una «sorella» della gilda.

Questi due caratteri fondamentali s’incontrano in tutte le fratellanze formate non importa a quale scopo. Sempre i membri devono trattarsi in modo fraterno, tanto da chiamarsi appunto fratelli e sorelle, e sono tutti uguali di fronte alla gilda. Essi possiedono in comune il cheptel (bestiame, terre, bastimenti, fondi agricoli). Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di dimenticare gli antichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente di non litigare nuovamente, devono convenire che nessuna lite deve degenerare in vendetta o condurre a un processo davanti ad altra corte che non sia il tribunale della fratellanza. Se uno è implicato in una contesa con qualcuno estraneo alla gilda, questa lo deve sostenere, sia che abbia torto sia che abbia ragione; ovvero, tanto nel caso che venga ingiustamente accusato di aggressione quanto nel caso che sia realmente l’aggressore, i fratelli lo devono sostenere e condurre le cose a una conclusione pacifica. A meno che non si tratti di un’aggressione occulta – nel qual caso verrebbe proscritto – la fratellanza lo difende. Se i parenti dell’uomo leso vogliono vendicarsi prontamente dell’offesa con una nuova aggressione, la fratellanza gli procura un cavallo per fuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e un acciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompagnano per proteggerlo, e nello stesso tempo si occupano di comporre il conflitto. Inoltre, i fratelli si presentano davanti alla corte di giustizia per sostenere sotto giuramento la veridicità delle dichiarazioni del loro fratello, e se viene riconosciuto colpevole, non lo abbandonano a completa rovina, né lo fanno diventare schiavo: se egli non può pagare il compenso dovuto, lo pagano loro, come facevano le gentes nelle epoche precedenti. Ma se qualcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli della gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza «con la fama di uomo da nulla» (tha scal han maeles af brödrescap met nidings nafn).

Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e a poco a poco si estenderanno a tutti gli aspetti della vita medievale. Infatti, si conoscono gilde in tutte le professioni immaginabili: gilde di servi, gilde di uomini liberi e gilde miste di servi e uomini liberi; gilde formate per uno scopo specifico, quale la caccia, la pesca o un’impresa commerciale, e disciolte quando questo scopo specifico viene raggiunto; gilde che invece per certe professioni o certi mestieri durano secoli. Via via che le attività si diversificano, il numero delle gilde cresce. Così, non ci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o contadini uniti da questi legami, ma ci sono pure gilde di preti, di pittori, di maestri di scuola primaria e di docenti universitari, gilde per rappresentare la «passione», per costruire una chiesa, per occuparsi dei «misteri» di una data scuola o di particolari arti e mestieri, e persino gilde di mendicanti, di boia e di «donne perdute», tutte organizzate sotto il doppio principio dell’autogiurisdizione e del mutuo appoggio. Per la Russia abbiamo la prova manifesta che il suo consolidamento è stato tanto opera dei suoi artels, o associazioni di cacciatori, di pescatori e di mercanti, quanto del germogliare delle comunità rurali; e ancor oggi il Paese è pieno di artels. [...]

Un’istituzione così adatta a soddisfare i bisogni consociativi, senza privare l’individuo della sua iniziativa, non poteva che estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà si era presentata quando si era cercata una forma che permettesse di federare le unioni delle gilde senza invadere il campo di quelle delle comunità rurali e di federare le une e le altre in un tutto armonico. Quando questa combinazione venne trovata, e un insieme di circostanze favorevoli permise alle città di affermare la propria indipendenza, esse lo fecero con un’unità di pensiero che non può che suscitare la nostra ammirazione, persino nel secolo delle strade ferrate, dei telegrafi e della stampa. Ci sono pervenute centinaia di «carte» con le quali le città proclamavano la loro indipendenza e in tutte – nonostante l’infinita varietà di particolari correlati ad un’emancipazione più o meno completa – si ritrova la stessa idea dominante: un’organizzazione cittadina basata sulla federazione di piccole comunità rurali e di gilde. [...]

Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secolo per tutto il continente, toccando sia le città più ricche sia i villaggi più poveri. E se possiamo dire che, in generale, le città italiane furono le prime a liberarsi, non possiamo identificare alcun centro dal quale il movimento si sarebbe propagato. Molto spesso un piccolo borgo dell’Europa centrale prendeva l’iniziativa per la sua regione e i grandi agglomerati accettavano la carta della piccola città come modello per la loro. […]

L’auto-giurisdizione era il punto essenziale, e autogiurisdizione significava auto-amministrazione. Ma il Comune non era semplicemente una parte «autonoma» dello Stato (queste parole ambigue non erano ancora state inventate): era esso stesso uno Stato. Aveva diritti di guerra e di pace, di federazione e di alleanza con i vicini; era sovrano nei propri affari e non interferiva con quelli degli altri. Il potere politico supremo poteva essere rimesso interamente a un foro democratico, come era il caso a Pskov, la cui assemblea popolare (vyeche) inviava e riceveva ambasciatori, stipulava trattati, accettava e rifiutava principi, o ne faceva a meno per decenni. Oppure il potere veniva esercitato, o usurpato, da un’aristocrazia a volte nobiliare a volte mercantile, come avveniva in centinaia di città dell’Italia e del centro Europa. Il principio, tuttavia, rimaneva immutato: la città era uno Stato e, cosa ancor più notevole, quando il potere della città veniva usurpato da un’aristocrazia nobiliare o mercantile, la vita interna della città ne risentiva marginalmente e il carattere democratico della vita quotidiana non scompariva: perché l’uno e l’altro dipendevano molto poco da ciò che si potrebbe chiamare la forma politica dello Stato.

Il segreto di questa apparente anomalia è che una città medievale non era uno Stato accentrato. Durante i primi secoli della sua esistenza, la città poteva a malapena essere chiamata uno Stato per quanto riguardava la sua organizzazione interna, perché il Medio evo non conosceva l’attuale accentramento delle funzioni né tanto meno l’accentramento territoriale del nostro tempo. Ogni gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...]

La città medievale ci appare così come una doppia federazione: innanzi tutto quella di tutte le unità domestiche all’interno di territori delimitati – la strada, la parrocchia, il quartiere – e poi quella degli individui uniti da giuramento in gilde secondo le loro professioni. Mentre la prima era un prodotto della comunità rurale, origine della città, la seconda era una creazione posteriore la cui esistenza derivava dalle mutate condizioni.

Garantire la libertà, l’auto-amministrazione e la pace era lo scopo principale della città medievale, e il lavoro, come vedremo tra poco parlando delle gilde di mestiere, ne era la base. Ma la «produzione» non assorbiva tutta l’attenzione degli economisti del Medio evo. Con il loro spirito pratico, essi compresero che il «consumo» doveva essere garantito al fine di ottenere la produzione; di conseguenza, il principio fondamentale di ogni città era di provvedere alla sussistenza comune e all’alloggio tanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft und gemach armer und richer). L’acquisto di viveri e di altri beni di prima necessità (carbone, legna, ecc.) prima che fossero passati per il mercato o in condizioni particolarmente favorevoli dalle quali altri fossero esclusi – in una parola la preemptio – era assolutamente vietata. Tutto doveva passare dal mercato ed essere offerto in acquisto a tutti fino a quando la campana non avesse chiuso il mercato. Solo a quel punto il venditore al minuto poteva comprare ciò che restava, e anche allora il suo profitto doveva rimanere nei limiti di un «onesto guadagno». Di più, quando il frumento veniva comprato all’ingrosso da un fornaio dopo la chiusura del mercato, ogni cittadino aveva comunque il diritto di reclamare, al prezzo all’ingrosso, una parte di tale frumento (circa due kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasse prima della chiusura delle contrattazioni; a sua volta, ogni panettiere poteva reclamare lo stesso diritto nel caso fosse un cittadino a comprare il frumento per rivenderlo. Nel primo caso il frumento non aveva che da essere portato al mulino della città per essere macinato a un prezzo convenuto, e il pane poteva poi essere cotto nel forno comunale. Insomma, se una carestia colpiva la città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a parte queste calamità, finché sono esistite le città libere, nessuno vi è morto di fame, come disgraziatamente oggi avviene anche troppo spesso. [...]

Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, più vediamo che non era una semplice organizzazione politica per la difesa di determinate libertà. Era un tentativo, su ben più vasta scala rispetto alla comunità rurale, di organizzare una stretta unione di assistenza e appoggio mutuo per il consumo, per la produzione e per la vita sociale nel suo insieme, senza frapporre gli impedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà di espressione al genio creatore di ciascun gruppo nelle arti, nei mestieri, nelle scienze, in commercio e in politica. Vedremo meglio fino a che punto questo tentativo ha avuto successo quando analizzeremo, nel capitolo seguente, l’organizzazione del lavoro nella città medievale e le relazioni delle città con la popolazione delle campagna circostanti. […]

I risultati di questo nuovo progresso dell’umanità nella città medievale furono immensi. All’inizio del secolo XI le città europee erano piccoli raggruppamenti di capanne miserabili, ornati solamente di chiese basse e tozze delle quali il costruttore sapeva appena fare la volta. Le arti – vi erano solo tessitori e fabbriferrai – erano ad uno stadio primitivo; il sapere non si trovava che in qualche raro monastero. Trecentocinquant’anni più tardi il panorama europeo era mutato. Il territorio era disseminato di città benestanti circondate da spesse mura, munite di torri e porte, ciascuna delle quali era un’opera d’arte. Le cattedrali, d’uno stile grandioso e riccamente decorate, innalzavano verso il cielo i loro campanili di una purezza di forme e di un ardire di immaginazione che oggi ci sforzeremmo inutilmente di raggiungere. Le arti e i mestieri avevano raggiunto in molte attività un grado di perfezione che oggi non possiamo vantarci di aver superato se diamo maggior valore all’abilità inventiva dell’operaio e alla perfezione del suo lavoro che non alla rapidità di esecuzione. Le navi delle città libere solcavano i mari europei in tutte le direzioni, e sarebbe bastato solo uno sforzo ulteriore per varcare gli oceani. Su vasti spazi di territorio il benessere aveva sostituito la miseria, e il sapere si era sviluppato e diffuso. Si andavano elaborando i metodi scientifici e ponendo le basi della fisica, si stava preparando il cammino per tutte le invenzioni meccaniche delle quali il nostro secolo è così orgoglioso. Tali furono i magici cambiamenti compiuti in Europa in meno di quattrocento anni. E se ci si vuol rendere conto delle perdite subite dall’Europa dopo la distruzione delle città libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV o il XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi la Scozia, la Germania, le pianure d’Italia, è scomparsa, le strade sono cadute nell’abbandono, le città sono spopolate, il lavoro è asservito, l’arte è in decadenza, e lo stesso commercio è in declino.

Se anche le città medievali non ci avessero lasciato alcun documento scritto a testimonianza del loro splendore, ma solo i monumenti architettonici che vediamo ancor oggi in tutta Europa, dalla Scozia all’Italia e da Girona in Spagna a Breslavia in territorio slavo, potremmo comunque affermare che il periodo in cui le città ebbero una vita indipendente fu quello del più alto sviluppo dello spirito umano dall’era cristiana fino al XVIII secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro del Medio evo raffigurante Norimberga con le sue torri e i suoi campanili slanciati, ciascuno dei quali porta l’impronta di un’arte liberamente creatrice, abbiamo qualche difficoltà a pensare che trecento anni prima la città non era che un ammasso di misere capanne. E la nostra ammirazione non fa che crescere quando entriamo nei particolari dell’architettura e dei fregi di ciascuna delle innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzi municipali, delle porte di città ecc., presenti in Europa e che arrivano ad est fino alla Boemia e alle città, oggi morte, della Galizia polacca. Non è unicamente l’Italia, questa patria delle arti, ma tutta l’Europa ad essere ricoperta da tali monumenti. Il fatto stesso che tra tutte le arti sia proprio l’architettura – arte sociale per eccellenza – a toccare il suo più alto sviluppo è significativo. Per arrivare al grado di perfezione che ha raggiunto, quest’arte non poteva che essere il prodotto d’una vita eminentemente sociale.

L’architettura medievale ha raggiunto la sua grandezza non soltanto perché fu il fiorire spontaneo di un mestiere, come è stato detto recentemente; non soltanto perché ogni costruzione, ogni decorazione architettonica era l’opera di uomini che conoscevano con l’esperienza delle proprie mani gli effetti artistici che si possono ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, o anche semplicemente da travi e calcina; non soltanto perché ogni monumento era il risultato dell’esperienza collettiva accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’architettura medievale fu grande perché derivò da una grande idea. Come l’arte greca, essa scaturì da una concezione di fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva un’audacia che non si può acquistare se non con lotte audaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il vigore impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, un palazzo comunale, simboleggiavano la grandezza di un insieme del quale ciascun muratore e ciascun tagliatore di pietra era un costruttore. Un monumento del Medio evo non era uno sforzo temporaneo, dove migliaia di schiavi eseguivano la parte loro assegnata dall’immaginazione di un solo uomo: tutta la città vi contribuiva. L’alto campanile svettava su una costruzione che aveva in sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vita della città; non era una costruzione assurda come la torre in ferro alta 300 metri di Parigi o come quella fabbrica in pietra fatta per nascondere la bruttezza d’una armatura di ferro, come la Tower Bridge a Londra. Come l’Acropoli di Atene, la cattedrale di una città del Medio evo era innalzata con l’intenzione di glorificare la grandezza della città vittoriosa, di simboleggiare l’unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimere la fierezza di ogni cittadino per una città che era la sua propria creazione. Spesso, compiuta la seconda rivoluzione dei nuovi mestieri, si videro le città innalzare nuove cattedrali proprio per esprimere la nuova unità, più profonda ed estesa, che veniva allora alla luce. [...]

Tutte le arti erano progredite in modo analogo nelle città medievali. Le arti del nostro tempo non sono, per la maggior parte, che una continuazione di quelle sviluppatesi in quest’epoca. La prosperità delle città fiamminghe era basata sulla fabbricazione di bei tessuti di lana. Firenze all’inizio del XIV secolo, prima della peste nera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000 panni di stoffa di lana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini d’oro. La cesellatura dei metalli preziosi, l’arte del fondere, i bei ferri lavorati furono creazioni dei «misteri» medievali, che riuscirono a eseguire, ciascuno nel proprio campo, tutto ciò che era possibile fare a mano, senza l’aiuto di un potente motore. [...]

È vero, come dice Whewell, che nessuna di queste scoperte era stata il risultato di qualche nuovo principio. E tuttavia la scienza del Medio evo aveva fatto qualcosa di più che la scoperta propriamente detta di nuovi princìpi: aveva preparato la scoperta di tutti i nuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scienze meccaniche. Aveva cioè abituato il ricercatore ad osservare i fatti e a ragionarci sopra. Era la scienza induttiva, quantunque non avesse ancora pienamente capito l’importanza e il potere del metodo induttivo; comunque sia, essa poneva già le basi della meccanica e della fisica. Francesco Bacone, Galileo e Copernico sono stati i discendenti diretti di un Ruggero Bacone e di un Michele Scoto, proprio come la macchina a vapore è stato un prodotto diretto delle continue ricerche nelle università italiane dell’epoca sul peso dell’atmosfera e degli studi tecnici e matematici fatti a Norimberga.

Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze e delle arti nella città medievale? Non basta citare le cattedrali nel campo dell’abilità tecnica o la lingua italiana e i poemi danteschi nel campo del pensiero per dare immediatamente la misura di ciò che la città medievale ha creato durante i suoi quattro secoli di vita?

Le città del Medio evo hanno reso un immenso servizio alla civiltà europea: le hanno impedito di avviarsi verso le teocrazie e gli Stati dispotici dell’antichità; le hanno dato la diversità, la fiducia in se stessa, lo spirito d’iniziativa e le immense energie intellettuali e materiali che possiede ancor oggi e che sono la miglior garanzia della sua capacità di resistere ad una nuova invasione che venga da Oriente. Ma perché dunque questi centri di civiltà, che avevano tentato di rispondere a bisogni così profondi della natura umana e che erano così pieni di vita, non sopravvissero più a lungo? Forse perché furono colpiti da debolezza senile nel XVI secolo e, dopo aver respinto tanti assalti esterni e aver reagito inizialmente con vigore alle lotte interne, alla fine soccombettero sotto questo duplice attacco?

Varie cause hanno contribuito a questo risultato; alcune avevano le loro radici in un lontano passato, altre rimandavano a colpe commesse dalle città stesse.

Verso la fine del XV secolo, vennero costituiti alcuni potenti Stati che si rifacevano al vecchio modello romano. In ogni regione, qualche signore feudale, più abile, più avido di ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoi vicini, era riuscito ad assicurarsi più ricchi possedimenti personali, un più alto numero di contadini per le sue terre e di cavalieri per il suo seguito, un più consistente tesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto come sua residenza un gruppo di villaggi ben situati, dove non si era ancora sviluppata la libera vita municipale – Parigi, Madrid o Mosca – e con il lavoro dei suoi servi ne aveva fatto delle città regie fortificate. Là attirava compagni d’arme, cui concedeva villaggi con liberalità, e mercanti, cui offriva la sua protezione per il commercio. Si andava così formando il germe d’un futuro Stato, che gradatamente avrebbe cominciato ad assorbire altri centri simili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza di giureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi usciti dalla borghesia e versati nello studio del diritto romano, che detestavano in pari grado l’alterigia dei signori e ciò che chiamavano lo «spirito ribelle» dei contadini. Trovavano ripugnante la forma stessa della comunità rurale, che i loro codici ignoravano, e i princìpi federativi, che consideravano un’eredità dei «barbari»; viceversa, appoggiavano un cesarismo, sostenuto dalla menzogna del consenso popolare e dalla forza delle armi, e lavoravano alacremente per quelli che promettevano di attuarlo.
La Chiesa cristiana, una volta avversaria della legge romana e ora sua alleata, lavorò nello stesso senso. Essendo fallito il tentativo di costituire in Europa l’Impero teocratico, i vescovi più intelligenti e più ambiziosi diedero il loro appoggio a quelli sui quali contavano per ricostruire il potere dei re d’Israele o degli imperatori di Costantinopoli. La Chiesa consacrò questi primi dominatori, li incoronò come rappresentanti di Dio sulla Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo spirito politico dei suoi ministri, le sue benedizioni e le sue maledizioni, le sue ricchezze e l’influenza che aveva conservato tra i poveri. I contadini che le città non avevano potuto o voluto liberare, vedendo come queste non riuscissero a metter fine alle interminabili guerre tra nobili, guerre per le quali pagavano un alto prezzo, volgevano allora le loro speranze verso re, imperatori e principi; così, mentre li aiutavano a schiacciare i potenti signori feudali, li aiutavano anche a costruire lo Stato centralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei Turchi, le guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribili guerre che ben presto scoppiarono tra i centri della nascente sovranità – tra Ile de France e Borgogna, Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia, Lituania e Polonia, Mosca e Tver, ecc. – contribuirono tutte allo stesso risultato: vennero costituiti potenti Stati e alle città toccò ora resistere non solamente a vaghe alleanze di signori, ma anche a centri di potere saldamente organizzati che avevano armate di servi a loro disposizione.

Il peggio fu che queste autocrazie in ascesa trovarono appoggi grazie anche alle divisioni che si erano formate in seno alle città stesse. L’idea fondamentale della città medievale era grande, e tuttavia non era abbastanza vasta. L’aiuto e il sostegno reciproco non potevano essere limitati ad una piccola associazione, ma dovevano estendersi al territorio circostante, senza tuttavia che questo assorbisse l’associazione. Ma sotto questo aspetto il cittadino del Medio evo aveva commesso fin da principio un grave errore. Invece di vedere nei contadini e negli operai che si riunivano sotto la protezione delle sue mura altrettanti ausiliari che avrebbero contribuito alla prosperità della città – come fu effettivamente il caso – tracciarono una profonda divisione tra le famiglie della vecchia borghesia e i nuovi venuti. Ai primi furono riservati tutti i benefici derivanti dal commercio e dalle terre comunali; niente fu invece lasciato agli ultimi, eccetto il diritto di servirsi liberamente dell’abilità delle loro mani. La città fu così divisa: da una parte i «borghesi» o «il Comune», e dall’altra «gli abitanti». Il commercio, che era dapprima comunale, diventò il privilegio di alcune famiglie di mercanti e di artigiani; non vi era ormai che un passo da fare perché divenisse un privilegio individuale o di un gruppo di oppressori, e questo inevitabile passo fu fatto.

Tale divisione si andò consolidando tanto nella città propriamente detta che nei villaggi circostanti. Il Comune aveva ben tentato, inizialmente, di emancipare i contadini, ma le sue guerre contro i signori divennero, come abbiamo già detto, guerre per liberare la città dai signori anziché per liberare i contadini. La città lasciò al signore i suoi diritti sui contadini, a condizione che non la molestasse più e divenisse un concittadino. Ma i nobili «adottati» dalla città, e ora residenti nelle sue mura, non fecero che portare la loro tradizionale bellicosità nella cinta stessa della città. Benché non tollerassero di sottomettersi a un tribunale di semplici artigiani e di mercanti, continuarono nelle loro antiche ostilità tra famiglie, nelle loro guerre private portate nelle vie cittadine. Ogni città aveva ora i suoi Colonna e i suoi Orsini, i suoi Overstolze e i suoi Wise. Grazie alle cospicue rendite delle terre che avevano conservate, si circondarono di numerosi clienti, feudalizzando i costumi e le abitudini della città stessa. E quando i dissensi cominciarono a farsi sentire tra gli artigiani, offrirono le loro spade e le loro compagnie d’armi per risolvere le liti invece di lasciare che i dissensi trovassero soluzioni più pacifiche, come tradizionalmente accadeva nei tempi passati. […]

Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior parte delle città fu di prendere per base della loro ricchezza il commercio e l’industria a detrimento dell’agricoltura. Ripeterono in tal modo l’errore già commesso dalle città della Grecia antica, e proprio per questo caddero negli stessi delitti. Estraniatesi dal mondo agricolo, un gran numero di città si trovarono necessariamente trascinate in una politica avversa ai contadini. Questo divenne sempre più evidente al tempo di Eduardo III e delle jacqueries in Francia, delle guerre ussite e delle guerre contadine in Germania. D’altra parte, la politica commerciale le impegnava in imprese lontane, tanto che colonie furono fondate dalle città italiane nel sud-est, dalle città tedesche nell’est, dalle città slave nell’estremo nord-est.

Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie per le guerre coloniali e ben presto anche per la difesa della città stessa. Fu necessario sottoscrivere prestiti in proporzioni talmente smisurate da demoralizzare completamente i cittadini; e la conflittualità interna imperò a ogni elezione nella quale la politica coloniale, di cui beneficiavano solo alcune famiglie, era in gioco. La divisione tra ricchi e poveri diventò più profonda e, nel secolo XVI, in ogni città l’autorità regia trovò alleati solleciti e l’appoggio dei poveri.

Ci fu ancora un’altra causa nella rovina delle istituzioni comunali, più profonda e insieme di ordine più elevato delle precedenti. La storia delle città medievali rappresenta uno dei più grandiosi esempi del potere delle idee e dei princìpi sui destini del genere umano, e dell’estrema diversità nei possibili esiti che accompagnano ogni profonda trasformazione delle idee prevalenti. La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovranità di ogni gruppo e la costituzione del corpo politico dal semplice al complesso, erano le idee prevalenti nel secolo XI. Ma nelle epoche successive le opinioni si modificarono profondamente. Gli studiosi di diritto romano e i prelati della Chiesa, strettamente alleati dall’epoca di Innocenzo III, riuscirono a neutralizzare l’idea – l’antica idea greca – che aveva presieduto alla fondazione delle città. Durante due-trecento anni predicarono dall’alto del pulpito, insegnarono nelle università, pronunciarono dal banco del tribunale, che occorreva cercare la salvezza in uno Stato fortemente centralizzato, posto sotto un’autorità semi-divina. Questa si sarebbe incarnata in un uomo dotato di pieni poteri, un dittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la società; in nome della salute pubblica, questi avrebbe potuto commettere qualunque specie di violenza: bruciare uomini e donne sul rogo, farli perire a seguito di indescrivibili torture, sprofondare intere province nella più abbietta miseria. E non esitarono a mettere in pratica queste teorie con inaudita crudeltà, ovunque potesse arrivare la spada del re, o il fuoco della Chiesa, o tutti e due insieme. Con questi insegnamenti e questi esempi, costantemente ripetuti fino a condizionare l’opinione pubblica, lo spirito stesso dei cittadini fu modellato in modo nuovo. Ben presto nessuna autorità fu trovata eccessiva, nessuna esecuzione a fuoco lento parve troppo crudele se compiuta «per la sicurezza pubblica». E con questa nuova attitudine di spirito, e questa nuova fede nella potenza di un uomo, il vecchio principio federalista svanì e il genio creatore delle masse si estinse. L’idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo Stato accentrato trovò nelle città una facile preda.

Nel XV secolo Firenze offre il miglior esempio di questo mutamento. Nelle epoche precedenti, una rivoluzione popolare era il segnale d’un nuovo slancio. Ora, quando spinto dalla disperazione il popolo insorge, non ha più idee costruttive, nessuna nuova idea lo illumina. Un migliaio di rappresentanti entrano nel consiglio comunale invece di quattrocento; cento uomini entrano nella signoria invece di ottanta. Ma una rivoluzione di cifre non vuol dir niente. Lo scontento del popolo cresce e nuove rivolte scoppiano. Allora si fa appello a un salvatore, al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e tuttavia il disgregamento del corpo comunale continua, peggio che mai. Quando, dopo una nuova rivolta, il popolo di Firenze si rivolge all’uomo più popolare della città, Gerolamo Savonarola, il monaco risponde: «Popolo mio, sai bene che non posso occuparmi degli affari di Stato... purifica la tua anima, e se in questa disposizione di spirito riformerai la tua città, allora, popolo di Firenze, avrai inaugurato la riforma di tutta l’Italia!». Vengono bruciate le maschere di carnevale e i cattivi libri, si fa decretare una legge di carità, un’altra contro l’usura… ma la democrazia di Firenze resta tal quale. Lo spirito del tempo antico è ormai morto. Per aver avuto troppa fiducia nel governo, i cittadini hanno cessato d’aver fiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie. Allo Stato non resta che farsi avanti e schiacciare le ultime libertà.

E tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si è del tutto inaridita nelle moltitudini, ma ha continuato a scorrere anche dopo questa disfatta. Si è ingrossata di nuovo con una forza formidabile agli appelli comunisti dei primi propagatori della Riforma, e ha continuato a scorrere anche dopo che le masse, non essendo riuscite a realizzare quell’esistenza che speravano di inaugurare sotto l’ispirazione della religione riformata, sono nuovamente cadute sotto la dominazione di un potere autocratico. Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca di una nuova manifestazione, che non sarà più lo Stato, né la città del Medio evo, né la comunità rurale dei barbari, né il clan dei selvaggi, ma che parteciperà di tutte queste forme, pur superandole grazie a una concezione più ampia e profondamente umana.

VI

Per Kropotkin l’idea del bene e del male esistnell’umanità, nel senso che il sentimento morale non si configura come una semplice irruzione soggettiva dell’anima, ma come la verità della sua datità biologiconaturale giunta al punto del suo auto-riconoscimento razionale. Perciò diventa legittima la fondazione di un’etica basata sulle scienze naturali, o meglio sulla ricerca «etologica» delle leggi del comportamento umano derivato dallo studio naturalistico dei costumi; ciò che, in termini attuali, può essere definita la «scuola adattiva» della cultura. La dimensione positivistica ed evoluzionistica di tale concezione si rende evidente quando si afferma che è possibile colmare la profonda sfasatura esistente tra lo sviluppo delle scienze naturali e quello delle scienze morali, tra le prime che hanno fatto immensi progressi e le seconde che sono rimaste arretrate ad uno stadio di elaborazione metafisica, compenetrando queste due dimensioni in un’unica Weltanschauung.

A questo proposito ecco che cosa ha recentemente scritto uno scienziato notissimo a livello mondiale (e che non ha nulla a che vedere con la scuola socio-biologica), Luca Cavalli Sforza: «Oggi la moralità non è più considerata una prerogativa della nostra specie. Gli studi effettuati da trent’anni a questa parte sulla vita sociale 119di numerose specie di animali – in particolare mammiferi – e soprattutto su scimmie e primati indicano che il senso della giustizia [il tondo è mio], di simpatia e di empatia sono diffusi anche fra parecchi animali. Non solo: se vogliamo comprendere l’origine di questi fenomeni nella nostra stessa specie ci conviene guardare al lontano passato, alla lunghissima evoluzione che i nostri antenati hanno diviso con gli antenati delle scimmie attuali».

In conclusione viene confermato quanto sostenuto da Kropotkin: la socialità non è una scelta dei protagonisti, ma una necessità della specie, non discende dalla volontà dei singoli, ma dalla loro appartenenza alla collettività. E la società, a sua volta, è il risultato dell’evoluzione spontanea della natura, perché deriva da un lento ma irreversibile sviluppo delle potenzialità libertarie ed egualitarie latenti negli esseri viventi, per cui soltanto la piena coscienza scientifica di questa tendenza naturale trasforma la sua datità deterministica in una possibilità progettuale di liberazione: gli individui si liberano solo attraverso il pieno riconoscimento della loro inscindibile appartenenza alla specie e dunque della loro ineliminabile dimensione collettiva.

Per Kropotkin il punto centrale è rappresentato dall’idea di giustizia quale pratica immanente alle relazioni sociali. Con il progredire della società, infatti, si fa largo anche il concetto di uguaglianza. Così equità e uguaglianza tendono a coincidere con il sentimento innato di socialità, e in questo senso la giustizia non è un valore soggettivo, o una mera formulazione ideale, ma un fatto intrinseco alle leggi della vita sociale, la quale non può svolgersi se non viene esplicata la reciprocità fra i suoi membri.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana de L’etica del 1972, nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno e Vincenzo Di Maria.

L’ETICA

Lo scopo principale dell’etica realistica moderna è [...] di dare una definizione del fine morale cui tendiamo. Ma questo fine, o questi fini, quale che sia il carattere ideale che essi comportano e quale che sia la lontananza della loro realizzazione, devono nonostante tutto appartenere al mondo reale.

La morale non può avere per scopo qualche cosa di «trascendente», cioè di superiore a ciò che in realtà esiste, come vogliono certi idealisti; il suo scopo deve essere reale. È nella vita, e non in uno stato successivo al decorso naturale della vita, che dobbiamo trovare la nostra soddisfazione morale.

Quando Darwin ha formulato la sua teoria della «lotta per l’esistenza» e ha presentato questa lotta come il fattore principale dell’evoluzione, egli ha sollevato anco- 121ra una volta il vecchio problema della moralità o della possibile immoralità della natura. L’origine delle nozioni di bene e male, che ha occupato il pensiero filosofico dopo lo Zend-Avesta, è stata nuovamente posta sul tappeto con maggiore energia e profondità. I darwinisti hanno considerato la natura come un vasto campo di battaglia dove i più deboli vengono sterminati dai più forti, dai più abili, dai più astuti. In queste condizioni la natura non può insegnare all’uomo che la lotta, il corpo a corpo.

Queste idee, come sappiamo, si sono diffuse largamente. Partendo da esse il filosofo evoluzionista ha dovuto però risolvere una grave contraddizione da lui stesso introdotta nella sua filosofia. In base a questa filosofia, infatti, non ci si può dichiarare assolutamente certi che l’uomo sia in possesso di un’idea superiore del «bene» e che la credenza nel trionfo graduale del bene sul male sia profondamente radicata nella natura umana. Pertanto, questa dottrina è tenuta a spiegare da dove proviene la nozione di bene, la credenza nel progresso. Essa non può adagiarsi sul comodo guanciale epicureo che il poeta Tennyson descrive con le seguenti parole: «In un modo qualsiasi il bene si troverà come risultato definitivo del male». La dottrina evoluzionistica non può concepire la natura «tinta di sangue» – red in tooth and clow (con gli artigli e i denti rossi di sangue), come la descrivono Tennyson e il darwinista Huxley – sempre in lotta contro il bene, negazione vivente del bene, e affermare nello stesso tempo che «in ultima analisi» il principio del bene trionferà. Deve, quantomeno, spiegare questa contraddizione.

Se uno studioso riconosce che la sola lezione che l’uomo da se stesso può ricavare dalla natura è la lezione della violenza, egli dovrà nello stesso tempo riconoscere l’esistenza di qualche altra influenza, esterna alla natura, soprannaturale, che ispira all’uomo l’idea di «bene supremo» e conduce verso un fine superiore lo sviluppo dell’umanità. E così facendo, annullerà il suo stesso tentativo di spiegare l’evoluzione dell’umanità con il solo gioco delle forze naturali.

In realtà, le posizioni della teoria evoluzionistica sono lontane dall’essere così poco solide; esse non conducono affatto alle contraddizioni in cui è caduto Huxley. Lo studio della natura, come ha dimostrato Darwin stesso nella sua seconda opera, L’origine dell’uomo, è lontano dal confermare la prospettiva pessimista di cui abbiamo appena parlato. La concezione di Tennyson e di Huxley è incompleta, unilaterale e, conseguentemente, falsa; la anti-scientificità diventa chiara se si pensa al fatto che Darwin parla, in un capitolo del suo libro, di un aspetto assai differente della vita e della natura.

La natura stessa, egli dice, ci mostra, accanto alla lotta, un’altra categoria di fatti con un significato assolutamente diverso: il mutuo appoggio all’interno della stessa specie; questi fatti hanno una importanza superiore a quelli precedenti perché sono necessari a mantenere la prosperità della specie.

Questa tesi estremamente importante, che la maggior parte dei darwinisti si rifiuta di tenere in conto e che Alfred Russel Wallace è arrivato persino a negare, io ho cercato invece di svilupparla, citando a tal proposito una gran quantità di fatti in una serie di articoli in cui ho dimostrato l’enorme importanza del mutuo appoggio per la sopravvivenza delle specie animali e dell’umanità, e soprattutto per il loro sviluppo progressivo, per la loro evoluzione.

Senza cercare di attenuare il fatto che numerosi animali si nutrono di specie appartenenti ad altre classi del mondo animale o di specie più piccole della stessa famiglia zoologica, ho dimostrato che in natura la lotta è spesso circoscritta a una lotta fra specie differenti, ma che all’interno di ciascuna specie, e spesso all’interno di un raggruppamento formato da specie diverse ma viventi in comune, il mutuo appoggio è la regola generale. È per questo che il lato sociale della vita animale svolge in natura un ruolo molto più importante che il mutuo sterminio, avendo oltretutto un’estensione più vasta. Il numero delle specie sociali tra i ruminanti, nella maggior parte dei roditori, presso numerosi uccelli, nelle api, nelle formiche ecc., cioè le specie che non vivono cacciandosi a vicenda, è in effetti considerevolissimo, e il numero di individui che comprende ciascuna di queste specie è estremamente alto. Inoltre, presso tutte le fiere e tutti i rapaci, soprattutto quelli che non sono in via di estinzione a seguito dello sterminio condotto dall’uomo o per altre ragioni, viene praticato in certa misura il mutuo appoggio. Il mutuo appoggio è di fatto dominante in natura. [...]

Essendo necessario alla conservazione, alla prosperità e allo sviluppo di ciascuna specie, il mutuo appoggio è diventato ciò che Darwin ebbe a definire un istinto permanente costantemente in azione presso tutti gli animali sociali, ivi compreso, naturalmente, l’uomo.

Questo istinto, che si manifesta fin dai primordi dell’evoluzione del regno animale, è, senza dubbio, profondamente radicato presso tutti gli animali, inferiori e superiori, come l’istinto materno; anzi si traduce in un vantaggio nei casi in cui è dubbia l’esistenza di un istinto materno, come nei molluschi, in certi insetti e nella maggior parte dei pesci.

Così Darwin aveva pienamente ragione quando affermava che l’istinto della mutua attrazione si manifesta presso gli animali sociali in modo più costante dell’istinto egoista alla conservazione personale. Egli vi vedeva, come sappiamo, il rudimento di una coscienza morale: fatto che, malauguratamente, i darwinisti hanno troppo spesso dimenticato.

Ma non è tutto: questo istinto, una volta apparso, sarà l’origine dei sentimenti di benevolenza e di accettazione parziale del singolo nel suo gruppo, diventando il punto di partenza di tutti i sentimenti superiori. È infatti su questa base che si svilupperanno i sentimenti più elaborati di giustizia, equità, uguaglianza e, infine, di ciò che abbiamo convenuto chiamare abnegazione. [...]

Comprendiamo così non soltanto che la natura non ci dà lezioni di comportamento amorale, ovvero di indifferenza riguardo la morale, indifferenza che, essendo un principio estraneo alla natura, dovrebbe combattere per dominarla, ma che al contrario la nozione di bene e di male, i ragionamenti sul «bene supremo», sono improntati alla natura stessa. Essi non sono che i riflessi, nei ragionamenti dell’uomo, di ciò che egli ha visto presso gli animali; nel corso della vita sociale queste impressioni vanno a comporre la nozione generale di bene e di male. E non si tratta di punti di vista personali di qualche individuo, ma dei sentimenti della maggioranza. Questi giudizi ci confermano gli elementi di giustizia e di mutua attrazione, quale che sia il soggetto presso cui si riscontrano; è qualcosa di analogo alle nozioni di meccanica che, dedotte dalle osservazioni fatte sulla superficie terrestre, si applicano benissimo ai problemi degli spazi celesti.

Non possiamo non ammettere la stessa cosa quando si parla dello sviluppo del carattere e delle istituzioni umane. Anche l’evoluzione dell’uomo si effettua tramite la natura, da cui riceve un impulso positivo. Le stesse istituzioni di assistenza e di mutuo appoggio create all’interno della società mostrano all’uomo, con sempre maggiore evidenza, quale potenza può generarsi attraverso il loro impiego. Con un simile mezzo di azione sociale la fisionomia morale dell’uomo si elabora in modo più pieno. Ricerche storiche recenti permettono di concepire la storia dell’umanità, per ciò che concerne l’elemento etico, come un’evoluzione del bisogno, caratteristico dell’uomo, di organizzare la sua esistenza sulla base del mutuo appoggio. Tanto nei clan che, più tardi, nelle comunità rurali, nelle repubbliche e nelle città libere, queste forme sociali diventeranno, malgrado alcuni periodi di regresso, le fondamenta del nuovo progresso.

S’intende che dobbiamo rinunciare all’idea di studiare la storia dell’umanità nel senso di una catena ininterrotta, di un’evoluzione che va dall’età della pietra fino all’epoca attuale. Lo sviluppo della società non è avvenuto senza interruzioni. Più volte si è stati costretti a ricominciare: in India, in Egitto, in Mesopotamia, in Grecia, a Roma, nella penisola scandinava, nell’Europa occidentale; ogni volta partendo da tribù primitive e in seguito da comunità rurali. Se consideriamo ciascuna di queste linee di sviluppo, una dopo l’altra, vedremo soprattutto nell’Europa occidentale, dopo la caduta dell’Impero romano, un graduale estendersi delle nozioni di aiuto e di soccorso reciproco, prima dalla tribù alla città, poi alla nazione e infine all’unione internazionale delle nazioni. D’altra parte, a dispetto delle fasi di regresso che a diverse riprese si sono manifestate presso le stesse nazioni più civili, si può constatare una tendenza a estendere sempre più i benefici delle idee correnti sulla giustizia e sul reciproco aiuto tra gli uomini. Questa tendenza è portata avanti in seno ai popoli civili dagli esponenti del pensiero più avanzato e da quei movimenti popolari che vogliono attuare il progresso ponendo in essere alcune di quelle concezioni che sembra desiderabile attendersi dallo sviluppo futuro dell’evoluzione.

Il fatto stesso che le fasi di regresso verificatesi periodicamente presso i diversi popoli siano considerate dalla parte più colta della società come dei fenomeni passeggeri, verosimilmente evitabili in avvenire, dimostra come il criterio etico sia collocato su un livello più elevato. Man mano che aumentano nella società civile i mezzi per soddisfare i bisogni dell’insieme della popolazione, aprendo in tal modo la via a una migliore comprensione della giustizia per tutti, le esigenze etiche diventano necessariamente sempre più elevate.

Così, ponendosi dal punto di vista di un’etica scientifica e realistica, l’uomo può non soltanto credere nel progresso morale, ma fondare questa credenza su delle basi scientifiche, malgrado tutte le lezioni di pessimismo che riceve. La credenza nel progresso che all’inizio non era che una semplice ipotesi, si trova ora pienamente confermata dalla conoscenza; e d’altro canto non bisogna dimenticare che l’ipotesi precede sempre la scoperta scientifica.

Se la filosofia dell’empirismo, che si fonda sulle scienze naturali, non ha potuto, fino a oggi, provare l’esistenza di un progresso continuo delle regole morali (che si può considerare come uno degli elementi fondamentali dell’evoluzione), lo si deve, in gran parte, ai filosofi speculativi, cioè non scientifici. Sono questi che hanno insistentemente negato l’origine naturale del senso morale, abbandonandosi a infinite sottili dissertazioni per attribuirgli un’origine soprannaturale. Il loro lavoro si è talmente dilatato, fino alla «predestinazione dell’uomo», allo «scopo della nostra esistenza», ai «fini della natura e della Creazione», che una reazione doveva necessariamente prodursi contro tutte queste idee mitologiche e metafisiche. Contemporaneamente, gli evoluzionisti moderni, dopo aver mostrato l’esistenza nel regno animale di un’aspra lotta per la vita tra le diverse specie, si sono visti nell’impossibilità di ammettere che un fenomeno così brutale, origine di tante sofferenze per gli esseri viventi, potesse essere un’espressione della volontà dell’Essere Supremo. Così hanno finito per negare l’esistenza di un qualsiasi elemento morale. Ciò non significa che ora, quando si comincia a considerare lo sviluppo graduale delle specie, delle razze umane, delle istituzioni umane e dei princìpi stessi dell’etica nel senso di un’evoluzione naturale, non diventi possibile studiare, senza cadere nella filosofia del soprannaturale, le diverse forze che presiedono a queste evoluzioni, ivi compresa la forza naturale della morale che è costituita dal mutuo appoggio e dalla crescente attrazione reciproca.

Perseverando in questo senso, si attua una grande conquista per la filosofia. Siamo così in diritto di concludere che lo studio della natura e della storia, giustamente inquadrato, denuncia l’esistenza costante di una doppia tendenza: da un lato la tendenza alla socialità; dall’altro, come risultato di questa, l’aspirazione a una maggiore intensità di vita, da cui il bisogno di una maggiore felicità per l’individuo, e l’aspirazione verso un progresso rapido dal punto di vista fisico, intellettuale e morale.

Questa duplice aspirazione è caratteristica della vita in generale, costituendo una delle proprietà fondamentali e uno degli attributi necessari a qualsiasi aspetto della vita nel nostro pianeta o altrove. Non si tratta di un tentativo della metafisica di inficiare la «universalità della legge morale», né di una semplice supposizione. Senza un aumento costante della socialità, cioè dell’intensità della vita e della varietà di sensazioni che essa apporta, la vita stessa è impossibile. Qui appunto risiede l’essenza centrale dell’esistenza. Se questa condizione viene meno, la vita stessa ne viene menomata avviandosi alla propria distruzione. Siamo davanti ad una vera e propria legge di natura.

Ne risulta che la scienza, lungi dal misconoscere i fondamenti dell’etica, dà al contrario un contenuto concreto alle nebulose affermazioni metafisiche dell’etica trascendentale, cioè soprannaturale. Man mano che la scienza penetra sempre più a fondo nella natura essa dona all’etica evoluzionistica una certezza filosofica incontestabile, là dove il pensatore trascendentale non poteva fondarsi che su ipotesi assai vaghe.

Un altro rimprovero spesso mosso al pensiero fondato sullo studio della natura, è ancor meno giustificato. Sarebbe un modo di pensare che non può che condurre alla conoscenza di una fredda verità matematica. Le conoscenze di questo tipo avrebbero poca influenza sulle nostre azioni. Lo studio della natura ci può tutt’al più ispirare l’amore per la verità, ma solo la religione può ispirare un’emozione superiore, come quella della «infinita bontà».

Non è difficile provare che tale affermazione è infondata ed è per conseguenza falsa. L’amore per la verità costituisce già in sé una buona meta, la «migliore» di tutta la dottrina morale. E i credenti che siano anche persone intelligenti lo comprendono benissimo. Quanto alla nozione di bene e all’aspirazione verso questo bene, la «verità» di cui parliamo – il riconoscimento del mutuo appoggio come carattere fondamentale dell’esistenza di tutti gli esseri viventi – è chiaramente una verità ispiratrice destinata un giorno a esprimere degnamente la poesia della natura, in quanto aggiunge alla conoscenza di questa un nuovo tratto: l’umanitarismo. Goethe, con la perspicacia del suo genio panteista, ne comprese tutta l’importanza filosofica quando lo zoologo Eckermann gliene fece cenno nel corso di una conversazione.

Man mano che studiamo più da vicino l’uomo primitivo, constatiamo sempre più che dalla vita degli animali, con i quali viveva in stretta comunanza, egli acquisì le prime lezioni sulla coraggiosa difesa dei propri simili, sull’abnegazione a favore del gruppo, sull’amore illimitato per la famiglia, sull’utilità generale della vita in società. Le nozioni di «virtù» e di «vizio» non sono soltanto umane, ma zoologiche.

Non è necessario insistere sull’influenza che le idee hanno sulle nozioni morali, come pure sull’influenza inversa che le nozioni morali hanno sulla fisionomia intellettuale di ciascuna epoca. L’aspetto e lo sviluppo intellettuale di un’epoca possono qualche volta prendere una direzione completamente falsa sotto la pressione di circostanze esterne diverse: sete di ricchezza, guerre, ecc.; esse possono, durante il corso della storia, rimbalzare in una nuova direzione e raggiungere, in questo modo, un livello più elevato. Ma nell’uno o nell’altro caso, la vita intellettuale di un’epoca esercita sempre una profonda influenza sull’insieme delle nozioni morali di una società. La stessa cosa è vera anche quando si tratta di un individuo.

È altrettanto certo che i pensieri, le idee, sono delle forze, per usare l’espressione di Fouillée; essi diventano forze etiche, morali, quando sono giusti e sufficientemente diffusi per esprimere la vita della natura nel suo insieme e non soltanto in uno dei suoi aspetti. È per questo che quando si tratta di creare una morale suscettibile di determinare un’influenza duratura sulla società, bisogna cominciare a stabilirne le basi per mezzo di verità solidissime. Questo costituisce uno dei principali ostacoli all’elaborazione di un sistema etico completo, capace di soddisfare le esigenze del nostro tempo. La causa è data dallo stato infantile in cui si trova ancora la scienza della società. La sociologia ha riunito da poco i suoi materiali; essa comincia soltanto ora a studiarli allo scopo di stabilire la direzione probabile della futura evoluzione dell’umanità. Essa urta continuamente contro una gran quantità di pregiudizi inveterati.

L’etica moderna ha per compito principale quello di cercare, con la riflessione filosofica, ciò che vi è di comune tra le due categorie di sentimenti contrapposti che esistono nell’uomo; essa aiuta così a trovare non un semplice compromesso o un accordo tra i due, ma la loro sintesi, la loro generalizzazione. Alcuni di questi sentimenti portano gli uomini a dominare i loro simili in vista di scopi personali; altri, all’inverso, li portano a unirsi tra di loro per attendere con uno sforzo comune all’attuazione di ciò che non è possibile realizzare da soli. I primi rispondono a un bisogno fondamentale dell’uomo: il bisogno della lotta; i secondi rispondono a un altro bisogno egualmente fondamentale: quello dell’unione e della reciproca attrazione. Questi due gruppi di sentimenti non possono non entrare in conflitto, ma è assolutamente necessario trovare la loro sintesi, sotto una forma qualsiasi. Ciò è tanto più necessario per l’uomo moderno in quanto, se non ha delle convinzioni precise che lo mettano in grado di riconoscere il suo posto in questo conflitto, egli rischia di perdere la sua potenza attiva. Egli non può ammettere che la lotta per il predominio, la guerra al coltello tra gli individui e le nazioni, sia l’ultima parola della scienza; d’altra parte egli non crede che la questione possa essere risolta predicando la fratellanza e l’abnegazione, come il cristianesimo ha fatto per secoli senza mai arrivare però né alla fratellanza tra i popoli o tra gli uomini, né alla reciproca tolleranza tra le diverse dottrine cristiane. Quanto alla dottrina comunista, la maggioranza non vi crede per la stessa ragione su esposta. Così lo scopo principale dell’etica è attualmente quello di aiutare l’uomo a trovare una soluzione a questa fondamentale contraddizione. A tal proposito, rivolgeremo ora l’attenzione ad un’analisi dettagliata dei mezzi ai quali gli uomini hanno fatto ricorso nei secoli per arrivare al più alto grado di benessere per tutti senza paralizzare, al contempo, l’energia personale di ciascuno. Allo scopo di giungere alla sintesi voluta, dobbiamo studiare egualmente le tendenze analoghe che si rivelano nella nostra società, i primi tentativi ancora timidi come le possibilità latenti. Poiché nessun nuovo movimento si produce senza risvegliare un certo entusiasmo, necessario a vincere l’inerzia intellettuale, la nuova etica avrà per compito fondamentale quello di suggerire all’uomo un ideale capace di risvegliare l’entusiasmo, donando agli uomini la forza necessaria per realizzare nella vita reale ciò che può conciliare l’energia individuale con il lavoro per il bene di tutti.

Questa necessità di un ideale legato alla realtà ci porta a considerare la principale obiezione opposta a questi sistemi etici non religiosi. Essi mancherebbero dell’autorità necessaria, si dice, le loro finalità non risveglierebbero che il semplice sentimento del dovere, dell’obbligo. È perfettamente vero che l’etica empirica non ha mai preteso, come suo carattere vincolante, ciò che fonda, ad esempio, i dieci comandamenti di Mosé. È altrettanto vero che quando Kant propone l’«imperativo categorico» come fondamento della legge morale – «agisci in modo tale che l’aspirazione della volontà possa divenire il principio di una legge suscettibile di applicazione universale» – egli intende dimostrare che questa regola non ha bisogno di alcuna sanzione superiore per essere riconosciuta come universalmente vincolante. Essa è, continua Kant, una forma necessaria del pensiero, una categoria della nostra ragione; non è dedotta da alcuna considerazione utilitaristica.

Ma la critica moderna, dopo Schopenhauer, ha mostrato che Kant sbaglia. Egli non ha provato per quali ragioni l’uomo si dovrebbe sottomettere a questo «imperativo», ed è curioso che il ragionamento conduca lo stesso Kant all’idea che la sola ragione che permette al suo «imperativo» di aspirare al generale riconoscimento è la sua utilità sociale. Eppure le pagine in cui Kant dimostra che in nessun caso le considerazioni di utilità devono essere date come base per la morale sono le più belle che abbia scritto. In realtà egli ha composto uno splendido elogio del sentimento del dovere, ma non è riuscito a trovare a questo sentimento altra base che la conoscenza intima dell’uomo e il suo desiderio di conservare un’armonia tra le sue idee e i suoi atti.

La morale empirica non cessa certamente di controbattere all’ingiunzione religiosa espressa dalle parole «Io sono il signore Dio tuo»; ma la contraddizione profonda che continua ad esistere tra le prescrizioni del cristianesimo e la vita reale delle società che si definiscono cristiane toglie comunque all’accusa in questione tutta la sua forza. Bisogna dire che la morale empirica non è completamente priva di un carattere condizionante. I diversi sentimenti e atti che, dopo August Comte, si chiamano «altruisti» possono essere facilmente suddivisi in due categorie. I primi, assolutamente necessari se si vuole vivere in società, non dovrebbero mai essere definiti altruisti: essi contengono un carattere di reciprocità e sono compiuti dall’individuo esclusivamente nel proprio interesse, come avviene per tutti gli atti dettati dall’istinto di conservazione. Accanto a questi atti ne esistono altri che non presuppongono alcuna reciprocità. Chi li compie dà la sua forza, la sua energia, il suo entusiasmo, senza attendere nulla in cambio, senza presupporre alcuna ricompensa. Sono proprio questi atti i grandi fattori di perfezionamento morale che è possibile definire obbligatori. Queste due categorie di atti sono costantemente confusi da tutti gli autori che trattano di morale, ed è per questo che si rilevano così tante contraddizioni nelle questioni relative all’etica.

È facile, tuttavia, uscire da questa confusione. È chiaro fin dall’inizio che non bisogna confondere il dominio dell’etica con quello della legislazione. L’etica non dà risposta alcuna a questo problema: una legislazione è, o meno, necessaria? La morale è al di sopra di questo problema. Si conoscono numerosi studiosi di etica che negano la necessità di una qualsiasi legislazione e si appellano direttamente alla coscienza umana; agli inizi della Riforma, questi pensatori esercitarono una notevole influenza. Il compito dell’etica non è quello di insistere sui difetti dell’uomo e rimproverargli i suoi «peccati»: essa deve fare opera positiva, indirizzandosi ai suoi migliori istinti. L’etica definisce e spiega i princìpi fondamentali senza i quali né gli animali né gli uomini avrebbero potuto vivere in società. Successivamente, fa appello a qualcosa di superiore: all’amore, al coraggio, alla fratellanza, al rispetto di se stessi, a una vita conforme all’ideale. Infine, dice all’uomo che se vuole vivere una vita nella quale tutte queste forze trovino piena espressione, deve rinunciare una volta per tutte a credere che sia possibile vivere senza tener conto dei bisogni e dei desideri dei suoi simili. L’etica insegna che ci si avvicina a questa vita solo quando si stabilisce una certa armonia tra l’individuo e coloro che lo circondano. E aggiunge: «Guardate la natura, studiate il passato dell’uomo, vi troverete la verità». Quando l’uomo, per una ragione qualsiasi, esita non sapendo come agire in un caso determinato, l’etica gli viene in aiuto mostrandogli come lui stesso vorrebbe che gli altri agissero nei suoi riguardi nelle stesse circostanze.

Anche in questo caso, l’etica non indica alcuna linea di condotta in modo rigido, perché l’uomo deve misurare da sé il valore dei diversi argomenti. A chi è incapace di sopportare uno scacco, è inutile consigliare il rischio. Allo stesso modo è inutile predicare a un giovane pieno di energia la prudenza dell’età matura. Egli ribatterà con le parole profondamente giuste con le quali Egmont si rivolge al vecchio conte Oliver nel dramma di Goethe, ed avrà ragione: «Come se fossero posseduti da spiriti invisibili, i corsieri luminosi del tempo trasportano il leggero veicolo del nostro destino; non ci resta che tenere coraggiosamente le redini e guidare il carro, a sinistra, per evitare una pietra, a destra, per evitare una frana. Dove siamo condotti? Non si sa. Noi sappiamo soltanto da dove veniamo». [...]

Ma lo scopo principale dell’etica non è quello di dare consigli individuali. Essa tende piuttosto a prospettare all’insieme degli uomini un fine supremo, un ideale che li guidi e li inciti ad agire istintivamente nella direzione voluta, meglio di qualsiasi consiglio. Proprio come lo scopo dell’educazione è di abituare a effettuare quasi inconsciamente una moltitudine di ragionamenti appropriati, così lo scopo dell’etica è di creare un’atmosfera sociale in grado di far comprendere alla maggioranza degli uomini, in modo assolutamente abitudinario, cioè senza esitazioni, gli atti che conducono al benessere di tutti e al massimo di felicità per ciascuno.

È questo lo scopo finale dell’etica. Per raggiungerlo, dobbiamo sbarazzare le teorie etiche dalle contraddizioni interne.

Così, ad esempio, la morale che predica la «benevolenza» per misericordia e per pietà, porta in sé una mortale contraddizione. Essa comincia con il proclamare la necessità della giustizia per tutti, cioè l’uguaglianza o una fratellanza perfetta, che poi è la stessa cosa dell’uguaglianza, o almeno un’uguaglianza di diritto. Successivamente si affretta ad aggiungere che è inutile perseguire questo scopo: l’uguaglianza è irrealizzabile... Quanto alla fratellanza, che poi è la base di tutte le religioni, non bisogna prenderla alla lettera: è solo una parola poetica usata da predicatori entusiasti. «La disuguaglianza è una legge di natura», affermano i predicatori religiosi che, in questo caso, evocano la natura. Ma noi consigliamo di domandare delle lezioni alla natura piuttosto che alla religione, la quale ha preteso di sottomettere la natura. Ma diventando troppo evidente la disuguaglianza tra gli uomini, continuando le ricchezze a essere accaparrate da una piccola minoranza delimitata, la maggioranza degli uomini è ridotta a vivere nella più grave miseria. Essere in favore del povero è allora un vero e proprio dovere sacro, purché ciò non intacchi la propria situazione privilegiata. Una morale simile può certamente mantenersi per qualche tempo, o anche per parecchio tempo se viene sostenuta dalla religione così come l’interpreta la Chiesa imperante. Ma dal momento in cui l’uomo applica alla religione il suo spirito critico e cerca di stabilire dei convincimenti concreti per mezzo della ragione, e non per mezzo della fede e dell’obbedienza evangelica, questa contraddizione interna non può reggere a lungo: egli cercherà di separarsene, e prima lo fa meglio è; la contraddizione interna è la morte dell’etica, un verme che rode e distrugge tutta l’energia di un uomo.

La moderna teoria della morale è basata su una condizione fondamentale: essa non deve intralciare l’attività spontanea dell’individuo, neanche per uno scopo elevato quale potrebbe essere il bene della società o della specie. Wundt, nella sua eccellente esposizione delle dottrine etiche, fa osservare che dopo «il secolo dei lumi», alla metà del XVIII secolo, quasi tutti i sistemi morali sono diventati individualistici. Ma questo punto di vista è vero solo in parte, in quanto i diritti dell’individuo sono stati difesi con grande energia solo in campo economico. E anche qui la libertà individuale è stata, in pratica come in teoria, più apparente che reale. Quanto agli altri settori – politico, intellettuale, artistico – si può dire che man mano che l’individualismo economico si è affermato con maggiore energia, l’assoggettamento dell’individuo all’organizzazione militare dello Stato e al suo sistema di istruzione, per non parlare della disciplina intellettuale necessaria a mantenere le istituzioni esistenti, è costantemente aumentato. Anche la maggior parte dei riformatori sociali di tendenze estremiste ammettono ora, come premessa necessaria delle loro previsioni future, una maggiore ingerenza dello Stato nel raggio di azione dell’individuo.

Questa tendenza non ha mancato di sollevare proteste, formulate da Godwin agli inizi del XIX secolo e da Spencer nella seconda metà dello stesso secolo; essa ha portato Nietzsche ad affermare che è meglio rifiutare la morale, se non le si può trovare altra base che il sacrificio dell’individuo a favore del genere umano. Questa critica delle dottrine morali correnti costituisce una delle caratteristiche intellettuali della nostra epoca, tanto più che il suo movente principale non è tanto un’aspirazione all’indipendenza economica (come è avvenuto nel XVIII secolo per tutti i difensori dei diritti dell’individuo, Godwin escluso), quanto invece il desiderio appassionato di indipendenza individuale in vista della creazione di un nuovo e migliore ordine sociale, dove il benessere di tutti diventerà la base per il completo sviluppo dell’individuo.

Uno sviluppo insufficiente dell’individuo conduce invece a una mentalità gregaria, caratterizzata da mancanza di iniziativa e di forza creatrice personale. Ciò costituisce uno dei difetti peculiari del nostro tempo. L’individualismo economico non ha rispettato le sue promesse: non ha condotto al rigoglioso sbocciare della personalità... D’altro canto, nel settore sociale l’opera creatrice si è manifestata con estrema lentezza e l’imitazione resta il grande sistema di diffusione delle innovazioni fatte dal progresso. Le nazioni moderne ripetono la storia delle popolazioni barbare e delle città medievali, che copiavano le une dalle altre i loro movimenti politici, religiosi ed economici, e le loro «carte della libertà». Nazioni intere hanno di recente assimilato con sorprendente rapidità la civiltà industriale e militare europea, e queste riedizioni – non ancora riordinate – di antichi modelli mostrano in modo chiarissimo la superficialità di ciò che chiamiamo cultura e come tutto si basi su semplici modelli imitativi.

È ora naturale porsi questa domanda: le dottrine morali attualmente diffuse non hanno contribuito a questa subordinazione imitativa? Non si sono date troppo da fare a costruire un uomo che sia «automa di idee», nel senso indicato da Herbart, un essere immerso nella contemplazione e che cova dentro tutte le tempeste delle passioni? Non è giunto il momento di difendere i diritti dell’uomo pieno di energia, capace di amare con forza ciò che è degno di amore e di odiare ciò che merita l’odio, sempre pronto a combattere per l’ideale che esalta il suo amore e giustifica le sue antipatie? I filosofi del mondo antico proposero una particolare interpretazione della «virtù», diffusa anche oggi, nel senso di una «saggezza» che incoraggia l’uomo a «sviluppare la bellezza del suo animo» piuttosto che a lottare contro i mali del suo tempo a fianco dei suoi «simili». Più tardi si chiamò virtù la «non resistenza al male», e per lunghi secoli la «salute dell’anima», unita alla rassegnazione e all’attitudine passiva verso il male, ha costituito l’essenza dell’etica cristiana. Ne sono scaturiti una serie di sottili argomenti in favore dell’«individualismo virtuoso» e l’apologia di una indifferenza monastica verso i mali della società. Fortunatamente, comincia a farsi sentire una reazione contro questo tipo di virtù egoista. E una domanda si fa avanti: l’attitudine passiva a contatto del male non è una vigliaccheria criminale? Non aveva ragione lo Zend-Avesta quando affermava che la lotta attiva contro Ahriman è la condizione prima della virtù? Il progresso morale è necessario, ma è impossibile senza il coraggio morale.

Nel groviglio dei problemi posti dalla dottrina morale, questi sono quelli che abbiamo potuto discernere nell’attuale conflitto di idee. Tutti portano a una conclusione fondamentale: la richiesta di un nuovo modo di intendere la morale, in particolare i suoi princìpi essenziali che devono essere assai flessibili per dare nuova vita alla nostra civiltà; e ancora, la richiesta di liberarla dalle sopravvivenze extranaturali e trascendentali, come pure dalle ristrette idee dell’utilitarismo borghese.

Gli elementi per questa nuova visione della morale esistono già. L’importanza della socialità e del mutuo appoggio nell’evoluzione animale e nella storia dell’umanità può, mi sembra, essere ammessa come una verità scientifica stabilita, e non più ipotetica. Possiamo inoltre considerare come provato il fatto che man mano che il mutuo appoggio diventa, nella società, un costume consolidato, realizzato per così dire istintivamente, questa pratica conduce allo sviluppo del sentimento di giustizia, con il suo senso di uguaglianza o equità come corollario obbligato, e all’attitudine a contenere i propri impulsi nel nome di questa uguaglianza. L’idea che i diritti individuali sono inviolabili, allo stesso modo dei diritti naturali di tutti gli altri, si sviluppa man mano che scompaiono le distinzioni di classe. Questa idea diventa una nozione corrente quando una corrispondente trasformazione si fa sentire nelle istituzioni sociali.

Un certo grado di identificazione degli interessi propri dell’individuo con quelli del suo gruppo ha dovuto necessariamente esistere agli inizi della vita sociale; esso si manifesta anche presso gli animali inferiori. Ma con il radicarsi dei rapporti di uguaglianza e di giustizia nelle società umane, si è preparato il terreno per lo sviluppo e l’estensione ulteriori di questi rapporti. Grazie a questi l’uomo si è abituato a capire e a rilevare le ripercussioni dei suoi atti sull’intera società, incominciando a trattenersi dal danneggiare gli altri, anche nel caso di dover rinunciare a soddisfare un proprio desiderio; egli arriva ora a identificare i suoi sentimenti con quelli degli altri, che si dimostrano pronti a donargli le proprie forze senza attendere nulla in cambio. Questo genere di sentimenti e di abitudini non egoiste, che si designano ordinariamente con i nomi assai inesatti di altruismo e abnegazione, merita a parer mio solo il nome di morale, benché la maggior parte dei pensatori continui a confonderlo ancor oggi con il semplice senso di giustizia.

Il mutuo appoggio, la giustizia, la morale, sono i gradi ascendenti degli stati psichici che si sono resi evidenti grazie allo studio del mondo animale e dell’uomo. Essi sono una necessità organica, che ha in sé una propria giustificazione e che conferma tutta l’evoluzione del mondo animale, dai primi scalini (sotto forma di colonie di molluschi) su per la successiva scala evolutiva fino alle più perfezionate società umane. Possiamo dire che in questo vi è una legge generale e universale dell’evoluzione organica, che agisce in modo che il mutuo appoggio, la giustizia e la morale siano profondamente radicati nell’uomo con tutta la potenza degli istinti innati. Il primo dei tre, l’istinto del mutuo appoggio, è evidentemente il più forte; il terzo, il più tardo ad apparire, è un sentimento incostante e considerato quello meno obbligante. [...]

Questa è la solida base che la scienza può fornirci per l’elaborazione e la giustificazione di un nuovo sistema etico. Invece di proclamare il «fallimento della scienza», dobbiamo quindi esaminare come sia possibile edificare un’etica scientifica con gli elementi acquisiti a questo scopo dalle ricerche moderne fondate sulla teoria dell’evoluzione. […]

La nozione di «giustizia», che ha avuto agli inizi lo stesso significato di vendetta, si riallaccia direttamente all’osservazione degli animali. È assai probabile però che la stessa idea di ricompensa e castigo (giusto e ingiusto) nei confronti degli animali, sia nata nell’uomo primitivo dalla considerazione che gli animali si vendicano dell’uomo che non li tratta come occorre. Questo pensiero è così profondamente radicato nello spirito dei selvaggi del mondo intero che lo si deve considerare come una delle nozioni fondamentali dell’umanità. A poco a poco questa nozione si è espansa ed è diventata l’idea del Gran Tutto, in cui tutte le parti si riuniscono in base a princìpi di mutuo appoggio. Questo Gran Tutto sorveglia gli atti di tutti gli esseri viventi e, in ragione di questa reciprocità, ha il compito di punire le azioni malvagie.

Da questa nozione è nata l’idea delle Erinni e delle Moire presso i Greci, delle Parche presso i Romani, di Karma presso gli Indù. La leggenda greca delle gru di Ibycus, che lega il mondo degli uomini a quello degli uccelli, e le innumerevoli leggende orientali sono l’espressione poetica di questa stessa idea. Più tardi esse si sono estese ai fenomeni celesti: nei libri sacri più antichi dell’India, i «Veda», le nuvole sono, ad esempio, esseri viventi analoghi agli animali.

Ecco ciò che l’uomo primitivo ha visto nella natura, ecco gli insegnamenti che ne ha ricevuto. Sotto l’influenza del nostro insegnamento scolastico, che ignora sistematicamente la natura ed estrinseca gli atti più normali dell’esistenza facendo ricorso alla superstizione o alle astrusità metafisiche, noi abbiamo cominciato a dimenticare queste grandi lezioni. Ma per i nostri antenati dell’età della pietra, la socialità e il mutuo appoggio all’interno della tribù dovevano essere fatti del tutto abituali e generali in quanto non poteva esserci per loro altra rappresentazione della vita.

L’idea dell’uomo come essere isolato è un frutto della civiltà più avanzata, un prodotto delle leggende create in Oriente tra uomini che rifuggivano la società. Lunghi secoli sono stati sprecati per diffondere nell’umanità questa idea astratta. Agli occhi degli uomini primitivi l’esistenza di un essere isolato appariva così estranea, così rara e contraria alla natura degli esseri viventi, che quando vedevano la tigre, il tasso o il toporagno condurre una vita isolata, oppure un albero crescere solo fuori dalla foresta, restavano tanto colpiti da affidare le loro impressioni alla leggenda per spiegare un fenomeno talmente strano. Non si sono mai create leggende per spiegare la vita in società, ma sempre per spiegare un esempio di vita isolata. Spesso, se l’eremita non era un saggio che si ritirava temporaneamente dal mondo, per meglio meditare sui suoi destini, e non era neppure uno stregone, era allora un bandito cacciato dal suo gruppo per qualche grave violazione dei costumi stabiliti dalla vita comunitaria. Esso aveva compiuto un atto talmente in contrasto con il modo di esistenza abituale che la società lo aveva espulso. Frequentemente si trattava di uno stregone cui si attribuivano poteri sulle forze del male e in rapporto con i cadaveri, fonti di infezione. Per questo si aggirava solo nella notte perseguendo nell’oscurità i suoi disegni malvagi.

Tutti gli altri esseri vivono in società ed è con questo orientamento che lavora lo spirito dell’uomo: la vita sociale, cioè noi e non io, ecco il modo di esistenza naturale. Si tratta della vita stessa in azione. Per questo «noi» deve essere stata la forma di pensiero comune dell’uomo primitivo, una «categoria» del suo spirito, come direbbe Kant.

Con questa identificazione, o meglio con questa dissoluzione dell’«io» nella tribù e nella popolazione, vengono gettati i rudimenti di tutto il pensiero etico, di tutte le nozioni morali. L’affermazione dell’individualità è venuta molto più tardi. Ancora adesso, la personalità, l’«individuo», quasi non esistono nella mentalità dei selvaggi primitivi. Il primo posto appartiene nel loro spirito al clan, con i suoi costumi ben definiti, i suoi pregiudizi, le sue credenze, le sue difese, le sue abitudini, i suoi interessi.

È in questa identificazione costante dell’umanità con il tutto che si rinviene l’origine dell’etica; per conseguenza è da essa che sono nate le idee di giustizia e le idee ancora più elevate di morale. [...]

La natura è stata quindi la prima ad insegnare all’uomo la morale. Non quel genere di natura che descrivono i filosofi nel chiuso dei loro studi, o i naturalisti che non la studiano se non attraverso gli esemplari senza vita dei musei; ma la natura di cui si sono occupati i grandi iniziatori della zoologia descrittiva studiandola sul continente americano (con una popolazione all’epoca ancora ridotta), in Africa e in Asia, cioè studiosi come Audubon, Asara, Wied, Brehm e altri. Ci riferiamo, pertanto, a quella natura cui pensava Darwin quando ha scritto, ne L’origine dell’uomo, una breve esposizione dell’origine del senso morale nell’individuo.

È fuor di dubbio che l’istinto di socialità ereditato dall’uomo, e pertanto profondamente radicato in lui, ha dovuto via via svilupparsi e fortificarsi a seguito anche dell’aspra lotta per l’esistenza. […]

I primi elementi di questa morale si trovano, come si è detto, nel sentimento di socialità. L’istinto gregario, il bisogno di aiuto reciproco, esistono presso tutti gli animali e si sono sviluppati in seguito nelle società umane primitive. D’allora in poi diventa naturale che l’uomo, grazie all’esistenza del linguaggio che sviluppa la memoria e crea la tradizione, stabilisca regole di vita molto più complesse di quelle esistenti presso gli animali. Successivamente, con la nascita della religione, anche nelle sue forme più grossolane, un nuovo elemento viene introdotto nell’etica umana, elemento che contribuisce a darle una certa stabilità e, più tardi, un certo spirito e un certo idealismo.

Con l’evolversi della vita sociale, la nozione di equità nelle relazioni reciproche viene a prendere un posto via via più grande. I primi rudimenti della giustizia, sotto forma di parità di trattamento, si osservano già presso gli animali, in particolare i mammiferi. Infatti la madre allatta diversi piccoli senza discriminazioni, mentre nei giochi si hanno delle regole stabilite e obbligatorie per tutti indistintamente. Ma il passaggio dall’istinto di socialità, cioè dalla semplice attrazione, dal semplice bisogno di vivere in mezzo ai propri simili, alla concezione della necessità della giustizia nei rapporti reciproci si effettua nell’uomo, nell’interesse stesso della vita sociale. In ogni società infatti i desideri e le passioni di un individuo urtano contro i desideri e le passioni degli altri individui anche loro membri della società. Questi conflitti condurrebbero fatalmente a continue discordie e alla disgregazione finale della società senza la nozione, elaborata al contempo tra gli uomini (così come era già stata elaborata tra taluni animali), di uguaglianza tra tutti i membri della società. Questa nozione fa nascere, a poco a poco, quella di equità, che esprime, come dice la stessa parola (aequitas), un’idea di uguaglianza. È per questo che gli antichi rappresentavano la giustizia sotto l’aspetto di una donna con gli occhi bendati e una bilancia in mano. [...]

È certo che in tutte le società, a qualsiasi grado di evoluzione si trovino, vi sono sempre stati e sempre vi saranno individui che vogliono approfittare della loro forza, della loro abilità, del loro acume o del loro coraggio per sottomettere le volontà altrui; e alcuni raggiungono lo scopo. Se ne trovano certamente anche presso i popoli primitivi, come presso tutti i popoli e tutte le razze, a tutti i livelli di civiltà. Ma, a tutti i livelli, vediamo anche che, per controbilanciare le loro azioni, compaiono dei costumi diretti a impedire l’espandersi dell’individuo a spese della società. Tutte le istituzioni che l’umanità ha elaborato nelle diverse epoche – il clan, la comunità rurale, la città, le repubbliche con le loro assemblee popolari, l’autonomia delle parrocchie e delle province, il governo rappresentativo ecc. – tutte avevano lo scopo di proteggere la società contro la volontà individuale di questi uomini e contro la nascita del loro potere. […]

Tutta la storia dell’umanità può essere considerata, in definitiva, come la manifestazione di due tendenze: da una parte, la tendenza degli individui o dei gruppi a impadronirsi del potere per sottomettere le grandi masse al loro dominio; dall’altra, la tendenza a mantenere l’uguaglianza (almeno tra le persone di sesso maschile) e a resistere a questa conquista del potere, o almeno a limitarla, cioè a mantenere la giustizia all’interno del clan, della tribù o della federazione dei clan.

Quest’ultima tendenza si manifesta in maniera nettissima anche in seno alle città libere del Medio evo, soprattutto durante i secoli successivi all’emancipazione dai signori feudali. Le città libere erano in ultima analisi delle unioni difensive di cittadini che si mettevano insieme per lottare contro i feudatari vicini. Ma ben presto la popolazione di queste città si divise in strati. Inizialmente, il commercio era praticato dalla città intera, e infatti i prodotti delle industrie urbane e le merci acquistate nelle campagne erano esportate dalla città stessa, tramite alcuni mandatari, e il profitto restava alla città nel suo complesso. A poco a poco, però, da sociale il commercio divenne privato, arricchendo non solo le città ma in particolare i liberi mercanti (mercatori libri) che, soprattutto dopo le Crociate, intrapresero un attivo commercio con l’Oriente. Successivamente nacque la classe dei banchieri alla quale si rivolgevano, in caso di bisogno, non solo i nobili cavalieri decaduti ma, via via, le stesse città.

È così che all’interno delle città, un tempo libere, si era andata costituendo una classe aristocratica di mercanti che le dominava e che dava il suo sostegno al papa o all’imperatore, nell’intento di avere dalla loro questa o quella città, oppure a un re o a un principe che, interessato alla conquista di una città, si appoggiava ai ricchi mercanti oltre che alla popolazione più povera. Gli Stati centralizzati moderni si sono formati in questo modo. […] L’assoggettamento delle piccole unità alle più forti e la concentrazione del potere vennero poi completati con la formazione dei grandi Stati politici.

Naturalmente una tale trasformazione, fondamentale per la vita pubblica come per le rivolte religiose o le guerre, non mancò di imprimere il suo modello all’insieme delle idee morali di ogni Paese e di ogni epoca. Un giorno sarà fatto uno studio dell’evoluzione morale in rapporto alle modificazioni della vita sociale. Per adesso questo campo viene lasciato dalla scienza delle idee e delle dottrine morali (l’etica) a un’altra scienza (la sociologia), che è la scienza della vita e dell’evoluzione delle società. Per evitare di oscillare tra questi due campi è bene, per il nostro lavoro, limitarci a quello di stretta competenza dell’etica.

Presso tutti gli uomini, per quanto rudimentale sia il loro grado di sviluppo, come presso certi animali sociali, constatiamo – come abbiamo fatto personalmente – certi tratti che attengono alla morale. In tutti i gradi dell’evoluzione umana troviamo la socialità e il sentimento comunitario. Alcuni uomini si mostrano più pronti ad aiutare gli altri, qualche volta anche a rischio della loro stessa vita. Queste qualità contribuiscono a mantenere e sviluppare la vita sociale che, a sua volta, assicura a tutti la vita stessa e il benessere. Esse vengono man mano considerate, anche nelle epoche più remote, non solo qualità desiderabili ma necessarie. I vecchi saggi, gli stregoni dei popoli primitivi e, più tardi, i preti raffigurano questi tratti della natura umana come effetti di ordini venuti dall’alto, emanati da forze misteriose, che siano dei o un creatore unico. Ma fin dai tempi più remoti, in particolare dopo l’epoca della fioritura delle scienze in Grecia, cioè da più di 2500 anni, alcuni pensatori si sono posti il problema dell’origine naturale di quei sentimenti e di quelle idee morali che impediscono agli uomini di compiere in generale atti nocivi per i loro simili o per i legami societari. Essi hanno cercato, in altri termini, una spiegazione naturale a ciò che si chiama morale dell’uomo e a ciò che in tutte le società è indiscutibilmente considerato come desiderabile.

Tentativi di questo genere sembra siano stati fatti anche in epoche molto remote, e infatti se ne trovano tracce anche in Cina e in India. Ma solo quelli della Grecia antica sono arrivati fino a noi in forma scientifica. In Grecia, per quasi quattro secoli, tutta una serie di pensatori – Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro e, più tardi, gli stoici – hanno esaminato seriamente, da un punto di vista filosofico, le fondamentali questioni che seguono:
• da dove provengono nell’uomo le regole morali in grado di contrastare le sue passioni e spesso di frenarle?
• da dove deriva il sentimento obbligante della morale, sentimento che si manifesta anche presso uomini che negano le regole morali esistenziali?
• si tratta forse del frutto della nostra educazione, di cui saremmo incapaci di sbarazzarci, come affermano attualmente alcuni pensatori e come hanno già affermato in passato alcuni negatori della morale?
• oppure la coscienza dell’uomo è frutto della natura stessa? E in questo caso, non si è radicata nel corso della sua vita in società durante migliaia e migliaia di anni?
• e se è così, bisogna allora sviluppare questa coscienza, oppure sarebbe meglio distruggerla e incoraggiare il sentimento opposto, l’egoismo, secondo cui l’ideale dell’uomo di cultura è negare ogni morale?

Dopo più di duemila anni i pensatori lavorano ancora su questi problemi, inclinando periodicamente ora verso l’una ora verso l’altra delle soluzioni prospettate.

Dai loro lavori è nata una scienza: l’etica.

VII

In Campi, fabbriche, officine non è delineato soltanto il concetto di piccola comunità, ma anche quello di integrazione fra città e campagna quale risoluzione sintetica del trinomio uomo-natura-ambiente. Per Kropotkin un piano della libertà e dell’uguaglianza deve esplicarsi attraverso due aspetti complementari: l’integrazione in ogni individuo del lavoro manuale con quello intellettuale, l’integrazione geografico-sociale della città con la campagna. I due aspetti sono complementari perché mirano al superamento di due forme dello stesso fenomeno del dominio, così com’è concepito dal più classico schema anarchico, vale a dire quale rapporto che va dall’alto al basso, dal centro alla periferia, dal punto più alto della piramide alla linea più bassa della base.

In questo senso diventa logico modellare le istituzioni umane sui ritmi naturali della crescita sociale, immettendo nella creazione culturale delle forme continuamente adattabili e funzionali al senso spontaneo dello sviluppo collettivo. La rete di questa comunità si compone di un’infinita varietà di associazioni federate di tutte le dimensioni e gradi, locali, regionali, nazionali e internazionali – temporanee o permanenti – per tutti gli scopi possibili. Come nella vita organica, l’armonia risulta dall’assestamento e riassestamento, dall’equilibrio continuo di forze e di influenze diverse secondo una radicale insorgenza dal basso, una irreversibile immanenza del sociale che deve rendere impossibile ogni costruzione politica imposta dall’alto.

In altri termini, i problemi della convivenza non vanno risolti attraverso mega-strutture, ma riformulando completamente le domande di una socialità integrata e controllabile, interrogando questa rispetto ai bisogni effettivi della comunità che si trova a vivere in un determinato contesto fisico, sotto un determinato clima e perciò carica di un determinato passato. Scrive Lewis Mumford in La città nella storia: «Con quasi mezzo secolo di anticipo sul pensiero tecnico ed economico contemporaneo, Kropotkin aveva intuito che la duttilità e l’adattabilità delle comunicazioni e dell’energia elettrica, unite alla possibilità di un’agricoltura intensiva e biodinamica, avevano posto le basi di un’evoluzione urbana più decentrata da svolgersi attraverso piccole comunità basate sul contatto umano diretto e provviste dei vantaggi della città oltre che di quelli della campagna. Kropotkin si rese conto che i nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, uniti alla possibilità di trasmettere l’energia elettrica attraverso una rete e non mediante una linea unidimensionale, mettevano le piccole comunità sullo stesso piano della supercongestionata metropoli per quanto concerneva la possibilità delle attrezzature tecniche essenziali. [...] Prendendo come base la piccola comunità, egli colse l’opportunità di una vita locale più responsabile e più sensibile, che lasciasse maggior campo d’azione a quegli aspetti umani trascurati e frustrati dall’organizzazione di massa».

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana di Campi, fabbriche, officine del 19822 , nella traduzione (rivista) di Franco Marano.

PICCOLO È BELLO

Le due attività sorelle dell’agricoltura e dell’industria non sono sempre state così estranee l’una all’altra come lo sono oggi. C’è stato un tempo, e quel tempo non è molto lontano, in cui entrambe erano intimamente legate: i villaggi ospitavano allora una molteplicità di officine e gli artigiani delle città non abbandonavano l’agricoltura; molte città non erano altro che villaggi industriali. Se la città medievale ha costituito la culla di quelle industrie che confinavano con l’arte e che avevano lo scopo di soddisfare i bisogni delle classi più agiate, era pur sempre la produzione rurale a soddisfare i bisogni delle masse, come avviene attualmente in Russia e in buona parte anche in Germania e in Francia. Ma più tardi, con l’avvento delle turbine, del vapore, con lo sviluppo della meccanica, i legami che una volta vincolavano la fattoria all’officina si sono spezzati. Le fabbriche sono cresciute e i campi sono stati abbandonati. Ci si è andati aggregando lì dove la vendita dei prodotti risultava più facile, o dove le materie prime e il combustibile potevano essere ottenuti a miglior prezzo. Nuove città sono state costruite e le vecchie si sono rapidamente estese, mentre i campi venivano progressivamente disertati. Milioni di contadini, strappati a viva forza dai campi, si sono raccolti nelle città in cerca di lavoro, dimenticando ben presto i vincoli che una volta li univano alla terra. E noi, nella nostra ammirazione per i prodigi compiuti dalla nuova organizzazione industriale abbiamo trascurato i vantaggi della vecchia, in cui chi dissodava il suolo era al tempo stesso un lavoratore industriale. Abbiamo così condannato alla sparizione tutti quei settori dell’industria che un tempo solevano prosperare nei villaggi, condannando a sua volta nell’industria tutto ciò che non somigliava alla grande fabbrica.

È vero, i risultati sono stati straordinari per quanto riguarda l’aumento delle capacità produttive dell’uomo Ma si sono rivelati terribili per milioni di esseri umani, precipitati nella miseria, che nelle nostre città hanno potuto contare su mezzi di sussistenza precari. Inoltre, nel suo complesso, la nuova organizzazione ha provocato le stesse condizioni anomale che ho cercato di tratteggiare nei primi due capitoli. Siamo stati cacciati, così, in un vicolo cieco, e mentre si va delineando l’imperiosa necessità di un cambiamento totale degli attuali rapporti tra lavoro e capitale, si è reso anche inevitabile un completo rimodellamento di tutta la nostra organizzazione industriale: i Paesi industriali devono tornare all’agricoltura, devono trovare i mezzi più opportuni per combinarla con l’industria, e devono farlo senza perdere tempo.

Interrogarci, in specifico, sulla possibilità di una tale combinazione è lo scopo delle pagine che seguono. È possibile da un punto di vista tecnico? È auspicabile? Esistono, nell’attuale realtà industriale, caratteri tali da garantirci che un cambiamento nella direzione accennata potrebbe trovare gli elementi necessari alla sua realizzazione? Sono queste le domande che ci si pongono. E per rispondere non c’è, ritengo, altro mezzo che studiare quell’immenso ma trascurato e sottovalutato settore industriale che va sotto il nome di officine rurali, lavorazioni a domicilio e artigianato, e studiarlo non nelle opere degli economisti, troppo inclini a considerarlo come una forma superata d’industria, ma nella loro stessa esistenza, nelle loro lotte, nei loro fallimenti e nelle loro conquiste.

Chi non ne ha fatto l’oggetto di uno studio specifico difficilmente si rende conto della molteplicità di forme organizzative riscontrabile nelle piccole industrie. Esistono, innanzi tutto, due grandi categorie: le industrie attive nei villaggi in connessione con l’agricoltura e quelle attive nelle città o nei villaggi senza alcuna connessione con la terra, nelle quali i lavoratori traggono appunto i propri guadagni esclusivamente dall’attività industriale.

In Russia, in Francia, in Germania, in Austria, ecc., milioni e milioni di lavoratori rientrano nella prima categoria. Possiedono e lavorano la terra, allevano una o due vacche, molto spesso dei cavalli, e coltivano i campi, o i frutteti, o gli orti, considerando il lavoro industriale come un’occupazione secondaria. Soprattutto in quelle regioni in cui l’inverno dura a lungo e non è assolutamente possibile lavorare la terra per parecchi mesi l’anno, questa forma di piccola industria è largamente diffusa. In Inghilterra, al contrario, ci imbattiamo nell’estremo opposto. Sono poche infatti in questo Paese le piccole industrie sopravvissute in connessione con l’agricoltura; e tuttavia centinaia di botteghe e piccole officine si rintracciano nei sobborghi e nei bassifondi delle grandi città come Sheffield e Birmingham, dove grandi masse di popolazione si procacciano da vivere con una molteplicità di attività artigianali. Tra questi due estremi abbiamo evidentemente una gran varietà di forme intermedie, a seconda dei legami più o meno stretti che continuano a sussistere con la terra. Vi sono dunque grossi paesi e persino città popolate da lavoratori occupati in piccole industrie, anche se la maggior parte di loro coltiva un orticello, un frutteto o un campo, oppure si avvale semplicemente di un qualche diritto sui pascoli comuni, a differenza di quelli che vivono esclusivamente dei propri redditi industriali.

Quanto alla commercializzazione dei prodotti, le piccole industrie offrono la stessa varietà di organizzazione. E anche qui abbiamo due grandi settori. Nel primo il lavoratore vende il proprio prodotto direttamente al grossista; è il caso degli ebanisti, dei tessitori e dei fabbricanti di giocattoli. Nell’altra grande categoria il lavoratore produce per un «padrone», e questi vende il prodotto a un grossista o agisce semplicemente da intermediario raccogliendo a sua volta le commissioni da qualche grossa azienda. È questa «l’organizzazione del sudore» propriamente detta, in cui troviamo una miriade di piccole industrie. È il caso di parte dei fabbricanti di giocattoli, dei sarti che lavorano per grandi ditte di confezioni, molto spesso per quelle di Stato, delle donne che cuciono e abbelliscono i gambali per i calzaturifici, e che spesso trattano con la fabbrica come con un intermediario del «sudore», ecc. In tale organizzazione per la commercializzazione dei prodotti si riscontrano ovviamente tutte le gradazioni possibili di feudalizzazione e sottofeudalizzazione del lavoro.

E ancora, quando si considerano gli aspetti industriali o, piuttosto, tecnici delle piccole industrie, si scopre ben presto la stessa varietà di caratteri. Anche qui abbiamo due grandi settori: da una parte le lavorazioni a domicilio – vale a dire quelle esercitate in casa dal lavoratore, con l’aiuto della famiglia o di un paio di salariati – e quelle esercitate in officine distaccate. In entrambi i settori, ci si imbatte in tutte le varietà appena menzionate per quanto riguarda la connessione con la terra e con i diversi modi di disporre del prodotto. Tutte le attività possibili – la tessitura, la lavorazione del legno, del metallo, dell’osso, della gomma, ecc. – possiamo ritrovarle sotto la categoria delle lavorazioni a domicilio, con tutte le possibili gradazioni tra la forma prettamente «domestica» di produzione, l’officina e la fabbrica.

Così, accanto alle attività industriali esercitate interamente in casa da uno o più membri della famiglia, vi sono le attività industriali in cui il proprietario tiene una piccola officina annessa alla casa e vi lavora con tutta la famiglia o con pochi «aiutanti», e cioè dei salariati. In alcuni casi l’artigiano dispone invece di un’officina a parte, dotata di energia idraulica, come nel caso dei fabbricanti di coltelli di Sheffield. In altri, diversi lavoratori si mettono insieme in una piccola fabbrica di loro proprietà, o affittata in associazione, o dove possono lavorare per un certo affitto settimanale. E in ognuno di questi casi possono lavorare direttamente per il commerciante, o per un piccolo padrone, o per un intermediario.

Uno stadio ulteriore di questo sistema è la grande fabbrica, specialmente di abiti già confezionati, in cui centinaia di donne pagano un tanto per la macchina da cucire, il gas, i ferri a gas, ecc., e a loro volta ricevono un tanto per ogni capo di abbigliamento che cuciono o per ogni parte di esso. Immense fabbriche del genere esistono in Inghilterra, e si è appreso dalle testimonianze rese davanti alla «Commissione del sudore», che in tali laboratori le donne vengono terribilmente sfruttate, al punto che il prezzo completo di ogni capo di vestiario leggermente rovinato viene dedotto dai loro bassissimi salari a cottimo.

E, infine, c’è la piccola officina (spesso con presa d’energia motrice a nolo) in cui il piccolo imprenditore impiega da 3 a 10 lavoranti salariati, vendendo il prodotto a un commerciante o a un imprenditore più grosso: con tutte le possibili gradazioni tra un’officina del genere e la fabbrica di piccole dimensioni, in cui a volte alcuni salariati (tra i 5 e i 20) vengono impiegati da un produttore indipendente. Nell’industria tessile, la tessitura viene spesso fatta dal nucleo familiare o da un piccolo imprenditore che impiega talvolta solo un ragazzo talvolta diversi tessitori. Questi, dopo avere avuto il filato da un grosso imprenditore, paga un operaio specializzato per metterlo sul telaio e crea quanto occorre per tessere un determinato, e a volte molto sofisticato, disegno; dopo avere tessuto la stoffa o i nastri con il suo telaio, o con un telaio preso a nolo, viene pagato per ogni pezzo di stoffa secondo una scala molto complicata di compensi pattuiti tra padroni e lavoranti. Quest’ultima forma, come vedremo tra poco, oggi è largamente diffusa, soprattutto nelle industrie della lana e della seta, e continua a esistere accanto alle grandi fabbriche in cui 50, 100 o 5.000 salariati, a seconda dei casi, lavorano con il macchinario dell’imprenditore e vengono pagati a salari giornalieri o settimanali.

Le piccole industrie sono dunque un mondo che, in modo abbastanza sorprendente, continua a esistere anche nei Paesi più industrializzati, fianco a fianco con le grandi fabbriche. E in questo mondo dobbiamo ora penetrare per gettarvi un’occhiata: solo un’occhiata perché occorrerebbero pagine e pagine per descriverne l’infinita varietà non solo di attività e organizzazione ma anche di interrelazione con l’agricoltura e con le altre industrie.

La maggior parte delle attività artigianali, fatta eccezione per alcune di quelle connesse con l’agricoltura, si trovano, dobbiamo riconoscerlo, in posizione decisamente precaria. I guadagni sono molto bassi e l’impiego è spesso incerto. La giornata lavorativa è più lunga di due, tre o quattro ore rispetto a quella delle fabbriche ben organizzate, e in certe stagioni raggiunge una durata quasi inverosimile. Le crisi sono frequenti e si protraggono per anni. Inoltre, il lavoratore è molto più alla mercé del commerciante o dell’imprenditore, e l’imprenditore è alla mercé del grossista. Entrambi rischiano di divenire schiavi di quest’ultimo, indebitandosi con lui. In alcune delle attività artigianali, soprattutto nella fabbricazione di tessuti comuni, i lavoratori sopravvivono in condizioni spaventosamente misere.

Ma chi pretende che tale miseria costituisca la regola si sbaglia del tutto. Chiunque abbia vissuto, ad esempio, tra gli orologiai della Svizzera e ne conosca intimamente il modo di vivere, ammetterà che le condizioni di questi lavoratori sono di gran lunga superiori, sotto ogni riguardo, morale e materiale, alle condizioni di milioni di operai di fabbrica. Persino durante la crisi dell’orologeria, che ebbe luogo tra il 1876 e il 1880, le loro condizioni sono rimaste di gran lunga preferibili alle condizioni degli operai di fabbrica durante una qualsiasi crisi dell’industria laniera o cotoniera; e gli stessi lavoratori ne erano ben coscienti.

Ogni volta che scoppia una crisi in qualche settore artigianale, non manca chi profetizza che quel mestiere si avvia a scomparire. Durante la crisi di cui, vivendo tra gli orologiai svizzeri, io stesso fui testimone nel 1877, l’impossibilità di salvaguardare questa attività di fronte alla concorrenza degli orologi fatti a macchina era l’argomento principe della stampa. Le stesse cose furono dette, nel 1882, a proposito dell’industria serica di Lione, e di fatto ovunque si sia avuta una crisi dell’artigianato. E tuttavia, nonostante le tetre profezie e le ancor più tetre prospettive per i lavoratori, quella forma d’industria non è ancora scomparsa. E anche quando ne scompare qualche settore, qualcosa comunque rimane: alcuni rami continuano ad esistere come piccole industrie (orologeria di precisione, sete più raffinate, velluti di prima qualità, ecc.), o al posto dei vecchi nascono nuovi settori a essi connessi, o ancora la piccola industria, avvantaggiandosi di un motore meccanico, assume una nuova forma. La scopriamo quindi dotata di straordinaria vitalità. Essa passa attraverso varie modifiche, si adatta a nuove condizioni, lotta senza abbandonare la speranza in tempi migliori. In ogni caso, le sue non sono le caratteristiche di un’istituzione in decadenza. In alcune attività industriali la fabbrica ha senza dubbio la meglio, ma vi sono altri settori in cui i laboratori artigianali mantengono le loro posizioni. E nella stessa industria tessile che tanti vantaggi presenta per il sistema industriale – specialmente in conseguenza dell’ampio impiego lavorativo di donne e bambini – il telaio a mano compete ancora con quello meccanico.

Nel complesso, la trasformazione dell’artigianato in grande industria procede con una lentezza che non può non sorprendere anche coloro che sono convinti della sua necessità. Oltretutto, a volte assistiamo anche al processo inverso: di tanto in tanto, ovviamente, e solo per un certo periodo. Non dimenticherò mai il mio stupore quando constatai a Verviers, una trentina di anni fa, come la maggior parte delle fabbriche di stoffe di lana – immensi edifici affacciati sulla strada con più di cento finestre l’uno – fosse immersa nel silenzio e il loro costoso macchinario lasciato ad arrugginire, mentre le stoffe venivano tessute a mano nelle case dei tessitori per i proprietari di quelle stesse fabbriche. Abbiamo qui, naturalmente, solo un fatto occasionale, che si spiega interamente col carattere spasmodico dell’industria e con le gravi perdite sostenute dai proprietari delle fabbriche allorché non sono in grado di farle funzionare tutto l’anno. E tuttavia questo dimostra gli ostacoli con cui la trasformazione deve fare i conti. Quanto all’industria serica, essa continua a diffondersi per l’Europa nella sua forma d’industria rurale, mentre centinaia di nuove attività artigianali compaiono ogni anno, e non trovando nessuno che le eserciti nei villaggi – come avviene in questo Paese – trovano rifugio nei sobborghi delle grandi città, come abbiamo appena appreso dall’inchiesta sull’ «organizzazione del sudore».

Oggi, i vantaggi offerti dalla grande fabbrica in confronto all’artigianato si presentano da sé per quanto riguarda l’economia di lavoro e soprattutto – ed è questo il punto principale – le possibilità sia di vendita sia di rifornimento delle materie prime a prezzo inferiore. Come possiamo allora spiegarci la persistenza dell’artigianato? Molte cause, la maggior parte delle quali non è possibile valutare in scellini, giocano a favore dell’artigianato, e queste cause le coglieremo meglio dalle dimostrazioni che seguono. Devo dire, però, che una panoramica anche breve delle innumerevoli attività industriali esercitate su piccola scala in questo Paese e sul continente, sconfinerebbe alquanto dallo scopo di questo capitolo. Quando ho cominciato a studiare l’argomento, una trentina di anni fa, non immaginavo neppure, dalla scarsa attenzione prestatagli dagli economisti ortodossi, quale vasta, complessa, importante e interessante organizzazione sarebbe apparsa alla fine di un’indagine più accurata. [...]

Gli artigiani rappresentano, dunque, un importante fattore della vita industriale nella stessa Gran Bretagna, anche se molti di loro si sono insediati in città. Ma se troviamo in questo Paese così poche industrie rurali rispetto al continente, non dobbiamo immaginare che la loro scomparsa sia dovuta a una più intensa concorrenza delle fabbriche: la causa principale è stata l’esodo forzato dai villaggi.

Come tutti sanno dall’opera di Thorold Rogers, la crescita della struttura industriale in Inghilterra è intimamente connessa con quell’esodo forzato. Interi settori industriali, che fino ad allora avevano prosperato, sono stati stroncati dallo spopolamento forzato delle campagne. Le officine, ancor più delle fabbriche, si moltiplicano dovunque si trovi manodopera a basso costo, e l’aspetto specifico di questo Paese è che la manodopera più a buon mercato – vale a dire la gran massa dei poveri – si trova nelle grandi città. [...]

In realtà, la diffusione delle officine artigiane a fianco delle grandi fabbriche non ci deve affatto stupire: essa rappresenta una necessità economica. L’assorbimento delle piccole officine da parte delle aziende più grandi è un fatto che aveva già colpito gli economisti negli anni Quaranta dello scorso secolo, soprattutto nelle industrie tessili. Questo processo va tuttora avanti in molti altri settori e interessa soprattutto un certo numero di aziende molto grandi impegnate nella metallurgia e nelle forniture militari ai vari Stati. Ma c’è un altro processo che va avanti parallelamente a questo e che consiste nella creazione continua di nuove industrie, di solito avviate su piccola scala. Ogni nuova fabbrica chiama in vita una quantità di nuove piccole officine, in parte per sopperire al proprio fabbisogno e in parte per sottomettere il suo prodotto a una trasformazione ulteriore. Così, per citare un solo esempio, i cotonifici hanno creato un’enorme domanda di rocchetti di legno e di bobine, e migliaia di uomini del Lake District si sono messi a fabbricarli, prima a mano e più tardi con l’aiuto di qualche semplice macchinario. Solo di recente, dopo che sono stati spesi anni a inventare e perfezionare i macchinari, si è cominciato a produrre i rocchetti su scala industriale. E ancora oggi, essendo le macchine molto costose, una gran quantità di rocchetti viene comunque fabbricata in piccole officine, con un modesto aiuto delle macchine, mentre le fabbriche stesse sono relativamente piccole e raramente occupano più di 50 operai, in maggioranza bambini. Quanto alle bobine di forma irregolare, vengono ancora fatte a mano o, in parte, con l’aiuto di piccole macchine continuamente inventate dagli operai stessi. Perciò nuove industrie sorgono a soppiantare le vecchie e ognuna passa per lo stadio preliminare della piccola scala prima di raggiungere quello della grande fabbrica; e tanto più è attivo lo spirito creativo di una nazione, tanto più arriviamo a questa fioritura di industrie. In proposito, abbiamo l’esempio delle innumerevoli piccole fabbriche di biciclette sorte recentemente in questo Paese e rifornite di pezzi già pronti dalle fabbriche più grandi. Un altro esempio comune è la produzione domestica o in piccole officine di scatole per fiammiferi, stivali, cappelli, dolciumi, generi di drogheria, ecc.

Inoltre, la grande fabbrica, generando nuovi bisogni, stimola la nascita di nuove attività artigianali. Il basso prezzo dei cotoni e delle lane, della carta e dell’ottone, ha creato centinaia di nuove piccole industrie. Le nostre case sono piene dei loro prodotti, per la maggior parte oggetti di creazione abbastanza moderna. E mentre alcuni di questi sono ora prodotti in serie nelle grandi fabbriche, tutti sono passati per lo stadio della piccola officina prima che la domanda fosse abbastanza alta da richiedere l’organizzazione della grande fabbrica. Quante più nuove invenzioni ci saranno, tante più piccole industrie del genere si creeranno; e ancora, quanto più se ne creeranno, tanto più si diffonderà lo spirito creativo, la cui mancanza è così giustamente avvertita in questo Paese (da W. Armstrong tra i tanti). Non dobbiamo stupirci, perciò, se vediamo in questo Paese così tante piccole industrie, dobbiamo piuttosto rimpiangere che tanta gente abbia abbandonato i villaggi a causa delle cattive condizioni della terra e che sia migrata in massa nelle città, a scapito dell’agricoltura.

In Inghilterra, come dappertutto, le piccole industrie rappresentano un fattore importante della vita industriale; ed è soprattutto nell’infinita varietà delle piccole industrie, dove si utilizzano i prodotti semilavorati delle grandi industrie, che si sviluppa lo spirito creativo e si elaborano i rudimenti delle future grandi industrie. Le piccole officine di biciclette, con le centinaia di piccoli perfezionamenti che hanno introdotto, hanno svolto, sotto i nostri stessi occhi, la funzione di cellule originarie per la grande industria automobilistica, e più tardi per quella aeronautica. I piccoli produttori di marmellate dei villaggi sono stati i precursori e i padri delle grandi fabbriche di conserve che oggi impiegano centinaia di lavoratori, e così via.

Di conseguenza, affermare che le piccole industrie sono destinate a scomparire, mentre ne vediamo apparire di nuove ogni giorno, significa semplicemente ripetere l’affrettata generalizzazione di chi, all’inizio del XIX secolo, stava assistendo alla sostituzione del lavoro manuale con il lavoro meccanizzato nell’industria cotoniera: una generalizzazione che, come abbiamo visto e come vedremo ancora meglio nelle pagine che seguono, non trova alcuna conferma nell’analisi delle industrie, grandi e piccole, e che viene rovesciata dai censimenti delle fabbriche e delle officine. Lungi dal manifestare una tendenza a scomparire, le piccole industrie mostrano al contrario la tendenza verso un ulteriore sviluppo, dato che la fornitura municipale di energia elettrica – come quella che c’è, ad esempio, a Manchester – permette al proprietario di una piccola fabbrica di fruire di energia motrice a basso costo, esattamente nella quantità richiesta in ogni dato momento, e di pagare solo quanto è stato effettivamente consumato.

La varietà di piccole industrie che s’incontra in Francia è infinita e rappresenta un aspetto quanto mai importante dell’economia nazionale. Si calcola, in effetti, che metà della popolazione francese viva di agricoltura e un terzo di industria, e che questo terzo si trovi equamente distribuito tra grande e piccola industria. A questo andrebbe aggiunto un numero considerevole di contadini che si dedicano alla piccola industria senza abbandonare l’agricoltura; e i guadagni supplementari che questi contadini ne ricavano sono così importanti che in diverse parti della Francia la proprietà contadina non potrebbe essere mantenuta senza l’aiuto delle industrie rurali.

I piccoli proprietari rurali sanno che cosa li aspetterebbe il giorno in cui diventassero manodopera di fabbrica in città, e finché gli usurai non riusciranno a spodestarli delle loro terre e case, e il villaggio non perderà i diritti sui pascoli o sui boschi comunali, si tengono ben stretti a questa combinazione di industria e agricoltura. Non possedendo, nella maggior parte dei casi, animali per arare la terra, fanno ricorso a un espediente largamente diffuso, se non universale, tra i piccoli proprietari terrieri francesi, anche nei distretti puramente rurali. Chi dei contadini possiede un aratro e un tiro di cavalli, dissoda a turno tutti i campi. Nello stesso tempo, grazie al perpetuarsi di uno spirito comunitario, del quale ho parlato altrove, un ulteriore sostegno viene trovato nel pascolare e nel torchiare il vino in comune o in altri svariati modi di mutuo appoggio esistenti tra i contadini. E dovunque si mantenga lo spirito comunitario di villaggio, le piccole industrie persistono, mentre non si risparmiano sforzi per coltivare intensamente i piccoli poderi.

Orticoltura da mercato e frutticoltura spesso vanno di pari passo con le piccole industrie. E dovunque si ricavi un po’ di benessere da un suolo relativamente improduttivo, lo si deve quasi sempre a una combinazione delle due attività sorelle.

Nello stesso tempo, è possibile notare come le piccole industrie si adattino straordinariamente ai nuovi bisogni e a un sostanziale progresso tecnico dei metodi di produzione. Nelle regioni boschive del Perche e del Maine troviamo ogni genere di industrie del legno, le quali, evidentemente, possono essere mantenute solo grazie alla proprietà comunale dei boschi. Nei pressi della foresta di Perseigne c’è un piccolo borgo, Fresnaye, interamente popolato da lavoratori del legno.

A Thiers, dove si producono le posaterie più a buon mercato, la divisione del lavoro, il basso affitto delle piccole officine rifornite di forza motrice dal fiume Durolle o da piccoli motori a gas, l’apporto di un’infinità di attrezzi meccanici inventati all’occorrenza, e la combinazione esistente tra lavoro meccanico e lavoro manuale hanno condotto a una tale perfezione l’apparato tecnico di questa attività industriale che ci si chiede se l’organizzazione di fabbrica possa economizzare ulteriormente il lavoro. Per dodici miglia attorno a Thiers, in ogni direzione, tutti i ruscelli sono punteggiati di piccole officine che danno lavoro ai contadini senza che questi smettano di coltivare i campi.

La canestreria è anch’essa un’importante attività artigianale in diverse parti della Francia, e precisamente nell’Aisne e nell’Alta Marna. In quest’ultimo dipartimento, a Villaines, sono tutti canestrai, «e ogni canestraio fa parte di una società cooperativa», come osserva Ardouin Dumazet. «Non ci sono imprenditori; tutto il prodotto viene portato ogni quindici giorni ai magazzini della cooperativa e lì venduto per conto dell’associazione. A questa appartengono circa 150 famiglie, e ciascuna possiede una casa e dei vigneti». A Fays-Billot, sempre nell’Alta Marna, 1.500 canestrai fanno parte di un’altra associazione, mentre a Thiérache, dove parecchie migliaia di uomini esercitano la stessa attività, non è stata formata alcuna associazione e di conseguenza i guadagni sono nettamente più bassi.

A Héricourt, un’infinità di piccole industrie è sorta accanto alle grandi fabbriche di ferramenta. La città si riversa nei villaggi, dove la popolazione fabbrica macinacaffè, macinapepe, macchine per tritare il mangime per il bestiame, così come selle, piccoli articoli di ferramenta, o persino orologi. Altrove, dove la fabbricazione dei vari pezzi dell’orologio è stata monopolizzata dalle fabbriche, le officine hanno cominciato a fabbricare pezzi di bicicletta, e più tardi di automobile. In breve, troviamo qui tutto un mondo di industrie di tipo moderno e, con esse, di invenzioni realizzate per semplificare il lavoro manuale.

Ogni casa contadina, ogni fattoria e ogni métayerie delle zone collinose del Beaujolais e del Forez era un tempo una piccola officina, e si potevano vedere, come ha scritto Reybaud nel 1863, ragazzi di vent’anni intenti a ricamare delicate mussoline dopo aver finito di pulire le stalle delle fattorie, senza che quel delicato lavoro risentisse della combinazione di due occupazioni così disparate. Al contrario, la delicatezza del lavoro e l’estrema varietà dei disegni erano le caratteristiche tipiche delle mussoline di Tarare e la ragione del loro successo. Tutte le testimonianze concordavano nel riconoscere che, quando l’agricoltura trovava sostegno nell’industria, la popolazione agricola godeva di un certo benessere.

Ciò che più merita la nostra ammirazione non è tanto lo sviluppo delle grandi industrie – le quali, dopotutto, qui come altrove, sono in gran parte di origine internazionale – quanto le doti creative e inventive e le capacità di adattamento della gran massa di queste industriose popolazioni. A ogni passo, nei campi, negli orti, nei frutteti, nei piccoli caseifici, nelle officine, nelle centinaia di piccole invenzioni fatte per queste attività, è possibile notare lo spirito creativo del popolo. In queste regioni si capisce meglio perché la Francia, prendendo la popolazione nel suo complesso, venga considerata la più ricca nazione d’Europa.

Il centro principale dell’artigianato in Francia è tuttavia Parigi. Lì troviamo, accanto alle grandi fabbriche, un’impressionante varietà di officine per la fabbricazione di merci di ogni genere, destinate sia al mercato interno sia all’esportazione. Le officine artigianali di Parigi prevalgono a tal punto sulle fabbriche che la media degli operai occupati nelle 98.000 fabbriche e officine parigine è inferiore alle sei unità, mentre il numero di persone impiegate nelle officine con meno di cinque operai è quasi il doppio del numero di persone impiegate negli stabilimenti più grandi. In effetti, Parigi è un grande alveare dove centinaia di migliaia di uomini e donne fabbricano in piccole officine ogni possibile genere di merci che richiedono abilità, gusto e creatività. Queste piccole officine, di cui tanto si loda il gusto artistico e la rapidità di lavorazione, stimolano necessariamente la capacità mentale dei produttori; e possiamo tranquillamente affermare che se gli operai di Parigi sono generalmente considerati, e a ragione, intellettualmente più sviluppati degli operai di qualsiasi altra capitale europea, ciò lo si deve in gran parte al tipo di lavoro che fanno: un lavoro che implica gusto artistico, abilità e soprattutto un’inventiva sempre pronta a creare nuovi tipi di merci e ad accrescere di continuo e perfezionare le tecniche di produzione. Ed è assai probabile che se incontriamo una popolazione lavorativa molto evoluta anche a Vienna o Varsavia, di nuovo ciò dipende in gran parte dal notevole sviluppo delle piccole industrie dello stesso genere, le quali stimolano l’inventiva contribuendo grandemente a sviluppare l’intelligenza del lavoratore.

Le conclusioni da trarne sono state così formulate da Lucien March: «In definitiva, durante gli ultimi cinquant’anni si è avuta una notevole concentrazione di fabbriche nei grandi agglomerati», ma «questa concentrazione non impedisce la persistenza di una certa quantità di piccole imprese, le cui dimensioni medie non crescono che molto lentamente». Quest’ultimo fatto, in realtà, lo abbiamo già rilevato dal nostro breve schizzo sulla Gran Bretagna, e possiamo soltanto chiederci se – così stando le cose – la parola «concentrazione» sia indovinata. Ciò che vediamo in realtà è la comparsa, in alcuni settori dell’industria, di un certo numero di grandi stabilimenti, e soprattutto di fabbriche di media grandezza. Ma questo non impedisce minimamente che continui a esistere un gran numero di piccole fabbriche, in settori diversi, o negli stessi settori dove sono comparse le grandi fabbriche (tessili, metalmeccaniche), o nei settori connessi e derivati da quelli principali, come l’industria dell’abbigliamento che trae origine da quella tessile. Quanto alle grandi deduzioni sulla «concentrazione» effettuate da certi economisti, si tratta di semplici ipotesi, utili naturalmente a stimolare la ricerca, ma destinate a rivelarsi alquanto nocive quando vengono presentate come leggi economiche, mentre in realtà non sono affatto confermate da un’accurata osservazione dei fatti.

Sfortunatamente, la discussione su questo importante argomento ha spesso assunto in Germania un carattere appassionato e persino di polemica personale. Da un lato, gli elementi ultraconservatori della politica tedesca hanno cercato, riuscendovi in certa misura, di fare dell’artigianato e delle lavorazioni a domicilio un’arma per assicurare il ritorno ai «bei tempi andati». Hanno persino approvato una legge intesa a reintrodurre le superate, chiuse e patriarcali corporazioni – da assoggettare alla stretta supervisione e tutela dello Stato – guardando a questa legge come a un’arma contro la socialdemocrazia. Dall’altro lato, i socialdemocratici, giustamente contrari a queste misure ma a loro volta propensi a considerare astrattamente le questioni economiche, attaccano ferocemente tutti coloro che non si piegano a ripetere le stereotipate frasi a effetto come «l’artigianato è in declino» e «prima scompare meglio è» perché così darà spazio alla concentrazione capitalistica, la quale, secondo il credo socialdemocratico, «farà ben presto la sua stessa rovina». E in questa avversione per le piccole industrie naturalmente concordano con gli economisti della scuola ortodossa, contro i quali si scagliano su quasi tutti gli altri punti.

Il fondamento di questo credo si trova in uno dei capitoli conclusivi del Capitale di Marx (il penultimo), in cui l’autore parlava della concentrazione del capitale scorgendovi la «fatalità di una legge naturale». In quegli anni Quaranta questa idea della «concentrazione del capitale», originata da quanto avveniva nelle industrie tessili, ricorreva di continuo negli scritti di tutti i socialisti francesi, specialmente in Considérant, e nei loro seguaci tedeschi, che se ne servivano come di un argomento a favore della necessità di una rivoluzione sociale. Ma Marx era un pensatore troppo grande per non accorgersi dei susseguenti sviluppi della vita industriale, imprevedibili nel 1848; e se fosse vissuto oggi, sicuramente non avrebbe chiuso gli occhi davanti alla formidabile fioritura di tanti piccoli imprenditori e ai patrimoni della classe media realizzati in mille modi all’ombra dei moderni «milionari». Molto probabilmente avrebbe anche notato l’estrema lentezza con cui procede la rovina delle piccole industrie: lentezza non prevedibile cinquanta o quarant’anni fa, dal momento che nessuno era in grado di immaginare allora le possibilità future dei trasporti o la crescente varietà della domanda, né l’attuale economicità della fornitura di piccole quantità di energia motrice. Essendo un pensatore, avrebbe studiato questi fatti, e molto probabilmente avrebbe mitigato l’assolutezza delle sue formulazioni originarie, come in realtà fece una volta a proposito delle comunità di villaggio in Russia. Sarebbe quanto mai auspicabile che i suoi seguaci facessero minore affidamento su formule astratte – buone solo come parole d’ordine nelle lotte politiche – e cercassero di imitare il loro maestro nelle analisi dei fenomeni economici concreti.

È evidente che in Germania un certo numero di attività artigianali sono oggi destinate a scomparire, ma ce ne sono altre, al contrario, dotate di grande vitalità, e tutte le probabilità depongono a favore della loro persistenza e del loro ulteriore sviluppo per molti anni a venire. Nella fabbricazione di certe stoffe tessute a milioni di metri, e meglio producibili con l’aiuto di un macchinario complicato, la concorrenza del telaio a mano contro il telaio meccanico non rappresenta che una semplice sopravvivenza, mantenibile per qualche tempo in determinate condizioni locali, ma destinata a scomparire.

Lo stesso si può dire di molti settori delle industrie siderurgiche, della fabbricazione di ferramenta, terraglie, ecc. Ma dovunque siano necessari l’intervento diretto del gusto e dell’inventiva, dovunque debbano essere di continuo introdotti nuovi generi di merci che richiedono un rinnovamento continuo di macchine e attrezzi allo scopo di soddisfare la domanda (come nel caso di tutti i tessuti alla moda, anche se fabbricati per rifornire le masse), dovunque vi sia una gran varietà di merci e un’ininterrotta invenzione di nuovi prodotti (come nel caso dei giocattoli, della fabbricazione di strumenti, orologi, biciclette e così via), e infine dovunque sia il senso artistico del singolo lavoratore a realizzare i prodotti migliori (come è il caso in centinaia di settori di piccoli articoli di lusso), là c’è ampio spazio per le attività artigianali, le officine rurali, le lavorazioni a domicilio, e simili. In queste industrie occorrono evidentemente più aria fresca, più idee, più visioni generali e più cooperazione. E dove lo spirito d’iniziativa è stato destato in un modo o nell’altro, vediamo le industrie marginali assumere nuovo sviluppo, proprio come avviene in Germania o, l’abbiamo appena visto, in Francia.

In Germania, in quasi tutte le attività marginali la condizione dei lavoratori è unanimemente descritta come la più miserabile, e i tanti ammiratori della centralizzazione che troviamo in Germania insistono sempre su tale miseria per predicare e auspicare la scomparsa di «queste sopravvivenze medievali» che la «concentrazione capitalistica» deve soppiantare per il bene del lavoratore. La verità, tuttavia, è che quando confrontiamo le miserabili condizioni dei lavoratori delle industrie marginali con le condizioni dei salariati delle fabbriche, nelle stesse regioni e nelle stesse attività, notiamo come la stessa identica miseria domini tra i lavoratori di fabbrica. Essi vivono, nei bassifondi delle città invece che in campagna, di salari che vanno dai 9 agli 11 scellini la settimana, lavorano undici ore al giorno, e sono oltretutto soggetti alla miseria straordinaria in cui li precipitano le crisi ricorrenti. È solo dopo essere passati attraverso sofferenze di ogni genere nelle lotte contro i proprietari delle fabbriche che alcuni lavoratori sono riusciti, più o meno, qua e là, a strappare ai propri datori di lavoro un «salario che consenta di vivere», e questo solo in certe attività.

Accogliere positivamente tutte queste sofferenze, vedendo in esse l’azione di una «legge naturale» e il cammino necessario verso la necessaria concentrazione delle industrie, sarebbe semplicemente assurdo. Ma sostenere che la pauperizzazione di tutti i lavoratori e la rovina di tutte le industrie artigianali rappresentino il cammino necessario verso una più elevata forma di organizzazione industriale, significa non solo affermare più di quanto si sia autorizzati ad affermare in base all’imperfetto stato attuale della conoscenza economica, ma anche dimostrare un’assoluta mancanza di comprensione del senso delle leggi sia economiche sia naturali. Al contrario, chiunque abbia studiato la questione della crescita delle grandi industrie non può non concordare con Thorold Rogers, che considerava le sofferenze inflitte alle classi lavoratrici a quello scopo come assolutamente non necessarie, anzi inflitte per favorire gli interessi temporanei di pochi ma non certo quelli della nazione.

Un fatto domina in tutte le indagini condotte sulla condizione delle piccole industrie, e lo riscontriamo tan- to in Germania quanto in Francia o in Russia. In un enorme numero di attività a pesare contro la piccola industria e a favore della grande fabbrica non sono la superiorità dell’organizzazione tecnica o le economie realizzate sul prezzo dell’energia, ma sono le più vantaggiose condizioni di vendita del prodotto e di acquisto delle materie prime di cui le grandi aziende dispongono. Dovunque questa difficoltà sia stata superata – per mezzo dell’associazione, o grazie ad un mercato certo per la vendita dei prodotti – si è sempre scoperto, primo, che le condizioni dei lavoratori o degli artigiani migliorano immediatamente e, secondo, che si realizza un rapido progresso nelle caratteristiche tecniche delle rispettive industrie. Nuovi procedimenti sono stati introdotti per migliorare il prodotto oppure per accelerarne la fabbricazione; nuovi strumenti meccanici sono stati inventati; si è fatto ricorso a nuove energie motrici; l’attività è stata riorganizzata in modo da diminuire i costi di produzione.

Al contrario, dovunque gli indifesi, isolati operai o artigiani continuano a rimanere alla mercé dei grossisti – che sempre, sin dai tempi di Adam Smith, «apertamente o tacitamente» operano di concerto per abbassare i prezzi a un livello quasi da fame, e tale è il caso per la stragrande maggioranza delle piccole industrie e delle attività artigiane – la loro condizione è così penosa che solo l’aspirazione dei lavoratori a una relativa indipendenza, e il fatto di sapere che cosa li aspetti in fabbrica, impedisce loro di unirsi alle file degli operai di fabbrica. Sapendo che nella maggioranza dei casi l’avvento della fabbrica significherebbe la perdita completa del lavoro per la maggior parte degli uomini e l’assunzione in fabbrica di bambini e ragazze, essi fanno l’impossibile per impedire che facciano la loro comparsa nel villaggio.

Quanto alle associazioni di villaggio, alla cooperazione, e simili, non bisogna mai dimenticare quanto gelosamente i governi tedesco, francese, russo e austriaco abbiano fino a oggi impedito ai lavoratori, e soprattutto ai lavoratori rurali, di partecipare a qualsiasi associazione con finalità economiche. In Francia i sindacati contadini sono stati ammessi solo con la legge del 1884. Tenere il contadino al livello più basso possibile, per mezzo di tasse, servitù della gleba e simili, è stata ed è ancora la politica della maggior parte degli Stati continentali. È stato solo nel 1876 che la Germania ha permesso una certa estensione dei diritti di associazione; e ancor oggi, una semplice associazione cooperativa per la vendita di prodotti artigianali viene subito considerata una «associazione politica» e assoggettata di conseguenza alle usuali limitazioni, come l’esclusione delle donne e così via. Un impressionante resoconto della politica relativa alle associazioni di villaggio è stato fatto dal professor Issaieff, il quale ha pure parlato delle severe misure prese dai grossisti del settore giocattoli per impedire ai lavoratori di entrare in rapporto diretto con i compratori stranieri.

Quando si prende in attenta considerazione la vita delle piccole industrie e la loro lotta per la sopravvivenza, ci si accorge che non è vero che esse periscano perché «si può economizzare ricorrendo a un centinaio di cavalli-vapore invece che a un centinaio di piccoli motori». Questo inconveniente non si manca mai di citarlo, benché sia stato facilmente eliminato a Sheffield, a Parigi e in molti altri luoghi dove si affittano officine dotate di volano, alimentato da una macchina centrale o più spesso, come opportunamente osservato dal professor W. Unwin, dalla trasmissione elettrica dell’energia. Esse periscono non perché nella produzione di fabbrica si può realizzare una notevole economia – in casi molto più frequenti di quanto di solito si supponga avviene persino il contrario – ma perché il capitalista che impianta una fabbrica si emancipa dai grossisti e dai dettaglianti di materie prime; e soprattutto si emancipa dai compratori del suo prodotto trattando direttamente con chi compra all’ingrosso e con l’esportatore; o ancora, perché concentra in una sola azienda le differenti fasi della fabbricazione di un dato prodotto.

A questo proposito sono quanto mai istruttive le pagine che Schulze-Gäwernitz ha dedicato all’organizzazione dell’industria cotoniera in Inghilterra, e alle difficoltà con cui si sono dovuti confrontare i proprietari di cotonifici tedeschi dal momento che dipendevano da Liverpool per il cotone greggio. E ciò che caratterizza l’industria del cotone, domina anche in tutti gli altri settori.

Se i posatieri di Sheffield che oggi lavorano nelle loro minuscole officine, dotate del volano di cui si è detto, fossero incorporati in una sola grande fabbrica, il principale vantaggio che si realizzerebbe nella fabbrica non sarebbe un’economia nei costi di produzione a pari qualità di prodotto; anzi, in una società per azioni i costi potrebbero persino aumentare. E tuttavia il prodotto netto aziendale (salari inclusi) probabilmente sarebbe superiore alla somma degli attuali redditi dei singoli lavoratori grazie ad un minor costo nell’acquisto del ferro e del carbone, e alle facilitazioni relative alla vendita del prodotto. La grande azienda troverebbe perciò i suoi vantaggi non in quei fattori imposti attualmente dalle necessità tecniche dell’industria, ma negli stessi fattori eliminabili da un’organizzazione cooperativa. Tutte queste sono nozioni elementari per gli esperti del settore.

È quasi inutile aggiungere che un vantaggio ulteriore per il grande imprenditore è che può trovare il modo di vendere anche un prodotto di qualità assai inferiore, purché ce ne sia da vendere una quantità considerevole. Tutti quelli che hanno familiarità con il commercio sanno, in verità, come un’enorme massa degli scambi mondiali consista di scarti, di robaccia inviata in Paesi lontani. Intere città, come abbiamo appena visto, non producono altro che merce scadente.

Al contempo, va considerato come un fatto fondamentale della vita economica europea che il fallimento di un certo numero di piccole industrie, di attività artigianali e di lavorazioni a domicilio, sia stato provocato dalla loro incapacità di organizzare la vendita dei prodotti e non la loro produzione. Lo stesso fenomeno ricorre in ogni fase della storia economica. L’incapacità di organizzare la vendita senza cadere schiavi del mercante fu un fenomeno determinante nelle città medievali, che a poco a poco finirono sotto il giogo economico e politico delle corporazioni commerciali semplicemente perché non furono in grado di mantenere la vendita dei loro prodotti nelle mani della comunità nel suo complesso, o di organizzare la vendita di un nuovo prodotto nell’interesse della comunità. Quando il mercato di tali prodotti divenne da una parte l’Asia e dall’altra il Nuovo Mondo, il destino non poteva che essere questo, e dal momento che il commercio aveva cessato di essere comunale ed era diventato individuale, le città divennero preda delle rivalità tra le principali famiglie mercantili.

E ancor oggi, quando vediamo le società cooperative avviate con successo sulla strada della produzione, mentre cinquant’anni fa mostravano invariabilmente scarse capacità produttive, possiamo concludere che la causa dei passati fallimenti risiedeva non nella loro incapacità di organizzare adeguatamente la produzione, ma nella loro incapacità di operare come venditori ed esportatori del prodotto fabbricato. I loro successi attuali, al contrario, sono pienamente garantiti dalla disponibilità di una rete di distribuzione. La vendita è stata semplificata e la produzione resa possibile organizzando prima di tutto il mercato.

Queste sono alcune delle conclusioni ricavabili da uno studio delle piccole industrie in Germania e altrove. E si può tranquillamente dire, riguardo alla Germania, che se non verranno prese misure per sottrarre i contadini alla terra, come purtroppo è avvenuto in questo Paese, se al contrario il numero dei piccoli proprietari terrieri si moltiplicherà, inevitabilmente questi si rivolgeranno alle più svariate piccole industrie in aggiunta all’agricoltura, come hanno fatto e ancora fanno in Francia. Qualunque passo si faccia per risvegliare la vita intellettuale nei villaggi, o per garantire i diritti dei contadini e del contado sulla terra, porterà necessariamente avanti la crescita industriale nei villaggi.

Se si vuol estendere questa ricerca ad altri Paesi, la Svizzera offre un vasto campo per osservazioni quanto mai interessanti. Vi si nota la stessa vitalità in una molteplicità di piccole industrie; e va citato quanto è stato fatto nei diversi cantoni per sostenere le piccole industrie con tre diversi tipi di provvedimenti: la promozione della cooperazione; un’ampia diffusione dell’istruzione tecnica nelle scuole; l’introduzione di nuovi settori di produzione artigianale in diverse parti del Paese; e la fornitura di forza motrice a buon mercato nelle case per mezzo di trasmissione idraulica o elettrica dell’energia ricavata dalle cascate. Un altro libro di grandissimo interesse e valore si potrebbe scrivere su questo argomento, soprattutto sull’impulso dato a una quantità di piccole industrie, vecchie e nuove, per mezzo della fornitura a buon mercato di energia motrice. Un tale libro sarebbe anche di grande interesse in quanto mostrerebbe in quale misura la combinazione di agricoltura e industria, da me descritta nella prima edizione di questo libro come «la fabbrica tra i campi», sia progredita ultimamente in Svizzera, cosa che non può mancare di colpire anche il viaggiatore occasionale.

I fatti che abbiamo brevemente passato in rassegna mostrano, in certo modo, i benefici che si potrebbero trarre da una combinazione tra agricoltura e industria se quest’ultima arrivasse al villaggio non nel suo aspetto attuale di fabbrica capitalistica, ma in quello di produzione industriale socialmente organizzata, con il pieno supporto del macchinario e della preparazione tecnica. In effetti, l’aspetto più evidente delle piccole industrie è che un relativo benessere si riscontra solo dove sono combinate con l’agricoltura, dove i lavoratori sono rimasti proprietari del suolo e continuano a coltivarlo. Anche tra i tessitori francesi o moscoviti, che pure devono fare i conti con la concorrenza della fabbrica, domina un relativo benessere grazie al fatto che non sono stati costretti a separarsi dalla terra. Al contrario, non appena le forti tasse o l’impoverimento dovuto a una crisi hanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonare il suo ultimo pezzo di terra all’usuraio, la miseria ha fatto il suo ingresso nella casa. Lo sfruttatore diviene onnipotente, si fa ricorso a uno sfibrante superlavoro e l’intera industria cade spesso in rovina.

Fatti del genere, come anche la pronunciata tendenza di alcune fabbriche a spostarsi nelle aree rurali, che si fa sempre più palese e che ha trovato ultimamente espressione nel movimento delle «Città-giardino», sono molto indicativi. Naturalmente, sarebbe un grosso errore immaginare il ritorno dell’industria al suo stadio manuale allo scopo di combinarsi con l’agricoltura. Ogni volta che è possibile risparmiare lavoro umano per mezzo di una macchina, la macchina è benvenuta e va impiegata; e non c’è quasi settore dell’industria in cui il lavoro meccanico non possa essere introdotto con grande vantaggio, almeno in alcune fasi della produzione. Nell’attuale stato caotico dell’industria, chiodi e temperini a basso prezzo si possono ancora fare a mano, e i cotoni comuni si possono ancora tessere col telaio a mano. Ma una anomalia del genere non durerà: la macchina prenderà il posto del lavoro manuale nella fabbricazione delle merci comuni. Nello stesso tempo, però, il lavoro manuale estenderà il proprio dominio sulla rifinitura artigianale di molte merci che vengono oggi interamente prodotte in fabbrica, e rimarrà sempre un fattore importante per la nascita di migliaia di nuove produzioni industriali.

Ma ecco sorgere alcuni quesiti: perché i cotoni, le stoffe di lana e le sete, oggi tessuti a mano nei villaggi, non dovrebbero essere tessuti a macchina negli stessi villaggi senza che per questo si tralasci il lavoro nei campi? Perché centinaia di industrie a domicilio, oggi esercitate interamente a mano, non dovrebbero far ricorso a macchine che risparmino il lavoro, come già avviene nella fabbricazione delle maglie e in molti altri campi? Non c’è ragione perché i piccoli motori non debbano avere un uso molto più generalizzato di oggi, dovunque non ci sia bisogno di una fabbrica; e non c’è ragione perché il villaggio non debba avere la sua piccola fabbrica, dovunque il lavoro di fabbrica sia preferibile, come già si vede di tanto in tanto in certi villaggi della Francia.

Ma c’è di più. Non c’è ragione per cui la fabbrica, con la sua energia motrice e il suo macchinario, non debba appartenere alla comunità, come già avviene per la forza motrice nelle già menzionate officine e piccole fabbriche della zona collinare francese del Giura. È evidente che oggi, sotto il sistema capitalistico, la fabbrica è la maledizione del villaggio dato che giunge a sottoporre i bambini a un lavoro eccessivo e a impoverire i suoi abitanti maschi; ed è del tutto naturale che essa incontri l’ostilità assoluta dei lavoratori quando questi riescono a mantenere l’organizzazione delle loro antiche attività (come a Sheffield o a Solingen), o quando non sono stati ridotti in completa miseria (come nel Giura). Ma con un’organizzazione sociale più razionale, la fabbrica non troverebbe ostacoli come questi: sarebbe un bene per il villaggio. E abbiamo già un’inequivocabile prova che dimostra come passi in questa direzione siano già stati fatti in alcune comunità rurali.

I vantaggi fisici e morali che l’uomo trarrebbe dividendo il suo lavoro tra il campo e l’officina si presentano da sé. La difficoltà starebbe, ci dicono, nella necessaria centralizzazione delle industrie moderne. Nell’industria, come anche in politica, la centralizzazione vanta molti ammiratori! Ma in entrambi i campi l’ideale dei centralizzatori sfortunatamente ha bisogno di essere riveduto. In effetti, se analizziamo le industrie moderne, scopriamo ben presto che per alcune di esse la collaborazione di centinaia, o persino di migliaia, di lavoratori raggruppati nello stesso posto è realmente necessaria. Le grandi fonderie e le imprese minerarie appartengono decisamente a questa categoria: i transatlantici non si possono costruire nelle officine di villaggio. Ma moltissime grosse fabbriche non sono altro che agglomerati, sotto un’amministrazione comune, di parecchie industrie distinte, mentre altre sono semplici agglomerati di centinaia di esemplari di un’identica macchina; e tali appunto sono la maggior parte delle nostre gigantesche filande e tessiture.

Essendo la fabbrica un’impresa strettamente privata, i suoi proprietari trovano vantaggioso tenere tutti i settori di una determinata industria sotto la propria amministrazione; in questo modo cumulano i profitti delle successive trasformazioni della materia prima. E quando diverse migliaia di telai meccanici si trovano riuniti in una sola fabbrica, il proprietario realizza un ulteriore vantaggio nella possibilità di controllare il mercato. Ma dal punto di vista tecnico i vantaggi di una simile accumulazione sono insignificanti e spesso incerti. Anche un’industria così centralizzata come quella cotoniera non ha risentito affatto dall’aver suddiviso le varie fasi di lavorazione di una data produzione in fabbriche distinte: lo si è visto a Manchester e nelle città vicine. Quanto alle piccole industrie, non si è riscontrato alcun inconveniente nella ulteriore suddivisione tra le officine della fabbricazione di orologi e di moltissimi altri prodotti.

Spesso sentiamo dire che un cavallo-vapore costa tanto in un piccolo motore e nettamente meno in un motore dieci volte più potente, o che una libbra di filato di cotone costa molto meno quando la fabbrica raddoppia il numero dei suoi fusi. Ma nell’opinione dei migliori ingegneri meccanici, come il professor W. Unwin, la distribuzione idraulica e soprattutto quella elettrica di energia da parte di una stazione centrale elimina il primo punto della questione. Quanto al secondo, calcoli del genere valgono solo per quelle industrie che preparano prodotti semilavorati per ulteriori trasformazioni. E quanto alle innumerevoli specie di merci che si avvalgono del lavoro specializzato, le si può meglio produrre in piccole fabbriche che impiegano poche centinaia o persino poche decine di operai. Ecco perché la «concentrazione» di cui tanto si parla spesso non è altro che un’unione di capitalisti allo scopo di controllare il mercato, non a quello di ridurre il costo dei processi tecnici.

Anche nelle condizioni attuali le fabbriche gigantesche presentano grandi inconvenienti dato che non sono in grado di modificare rapidamente il proprio macchinario in sintonia con le domande continuamente varianti del consumatore. Quanti fallimenti di grandi aziende, troppo note in questo Paese perché se ne faccia il nome, si devono a questo motivo durante la crisi degli anni tra il 1886 e il 1890! Quanto ai nuovi settori dell’industria che ho menzionato prima, essi devono sempre avviarsi su piccola scala, e possono prosperare tanto nelle piccole città come nelle grandi se gli agglomerati più piccoli dispongono di istituzioni che stimolino il gusto artistico e lo spirito di inventiva. I progressi raggiunti di recente nella fabbricazione dei giocattoli, come anche l’elevato grado di perfezione raggiunto nella fabbricazione di strumenti scientifici e ottici, di mobili, di piccoli articoli di lusso, di terraglie, costituiscono esempi significativi. L’arte e la scienza non sono più il monopolio delle grandi città, e ulteriori progressi si raggiungeranno diffondendole ovunque.

In buona parte, la distribuzione geografica delle industrie in un dato Paese dipende, ovviamente, da un complesso di condizioni naturali: è ovvio che certe località sono meglio indicate per lo sviluppo di determinate industrie. Le sponde del Clyde e del Tyne sono certamente quanto mai indicate come cantieri navali, e i cantieri navali devono essere circondati da una molteplicità di officine e di fabbriche. Le industrie trarranno sempre vantaggio dall’essere raggruppate, e raggruppate in armonia con gli aspetti naturali delle singole regioni. Ma dobbiamo ammettere che oggi esse non si trovano affatto raggruppate in base a questi criteri. Cause storiche – principalmente guerre di religione e rivalità nazionali – hanno avuto molto peso nella loro crescita e nella loro distribuzione attuale. Inoltre, i datori di lavoro sono stati guidati dalla valutazione delle possibilità di vendita e di esportazione: vale a dire, da considerazioni che vanno perdendo importanza via via che aumentano le possibilità di trasporto, e che sempre più ne perderanno quando i produttori produrranno per se stessi e non per clienti lontani.

Perché, in una società organizzata razionalmente, Londra dovrebbe rimanere il grande centro dell’industria conserviera e fabbricare ombrelli per quasi tutta la Gran Bretagna? Perché le innumerevoli piccole industrie di Whitechapel dovrebbero rimanere dove sono invece di diffondersi per tutto il Paese? Non c’è ragione alcuna per cui i mantelli indossati dalle signore inglesi debbano essere cuciti a Berlino e a Whitechapel invece che nel Devonshire o nel Derbyshire. Perché Parigi dovrebbe raffinare lo zucchero per quasi l’intera Francia? Perché metà degli stivali e delle scarpe che si usano negli Stati Uniti dovrebbe essere fabbricata nei 1.500 laboratori del Massachusetts? Non c’è assolutamente ragione per cui queste e altre anomalie del genere continuino ad esistere. Le industrie devono disseminarsi in tutto il mondo; e la disseminazione delle industrie in tutte le nazioni civili sarà necessariamente seguita da un’ulteriore disseminazione delle fabbriche nei territori di ciascuna nazione.

Nel corso di questa evoluzione, i prodotti naturali di ciascuna regione e le sue condizioni geografiche saranno certamente uno dei fattori che determineranno il tipo di industria destinata a svilupparsi in quell’area. Ma quando vediamo che la Svizzera è divenuta una grande esportatrice di locomotive e di navi a vapore, benché non abbia miniere di ferro né carbone per ottenere l’acciaio, e non abbia neppure porti per importarli; quando vediamo che il Belgio è riuscito a diventare un grande esportatore di uve, e che Manchester si è data da fare per diventare un porto, comprendiamo che nella distribuzione geografica delle industrie i due fattori del prodotto locale e di una vantaggiosa vicinanza col mare non costituiscono i fattori dominanti. Cominciamo a capire che, tutto considerato, il fattore intellettuale – lo spirito creativo, la capacità di adattamento, la libertà politica, ecc. – è quello che conta più di tutti gli altri.

Che ciascuna attività industriale tragga vantaggio dall’essere esercitata in stretto contatto con una gran varietà di altre attività industriali, il lettore lo ha già rilevato da numerosi esempi. Ogni industria richiede un ambiente tecnologizzato. Ma la stessa cosa si può dire anche dell’agricoltura.

L’agricoltura non si può sviluppare senza l’aiuto della meccanica, e l’uso di macchinari avanzati non può divenire generale senza un’industrializzazione diffusa: senza officine meccaniche facilmente accessibili al coltivatore del suolo, l’uso del macchinario agricolo non è possibile. Il fabbro del villaggio non basterebbe. Se il lavoro di una trebbiatrice dev’essere sospeso per una settimana o più perché uno dei denti della ruota si è rotto, e se per avere una nuova ruota bisogna mandare un corriere particolare nella provincia vicina, allora l’uso di una trebbiatrice diventa impossibile. Ma questo è proprio quanto vidi durante la mia infanzia nella Russia centrale; e abbastanza di recente ho trovato l’identico fatto menzionato in un’autobiografia inglese della prima metà del XIX secolo. Inoltre, in tutta la parte settentrionale della zona temperata, chi coltiva il suolo deve trovare una sorta di impiego industriale durante i lunghi mesi invernali. Cosa che è stata appunto realizzata con il grande sviluppo delle industrie rurali, delle quali abbiamo appena visto esempi così interessanti. Ma questo bisogno viene avvertito anche nel clima più mite delle isole della Manica, nonostante l’estensione raggiunta dall’orticoltura in serra. «Abbiamo bisogno di tali industrie. Potreste suggerircene qualcuna?», mi ha domandato uno dei miei corrispondenti di Guernsey.

Ma non è tutto. L’agricoltura ha così bisogno dell’aiuto di coloro che abitano nelle città che ogni estate migliaia di uomini lasciano i loro bassifondi urbani e vanno in campagna per la stagione dei raccolti. I poveri di Londra si recano a migliaia nel Kent e nel Sussex per la raccolta del fieno e del luppolo, giacché si valuta che il solo Kent abbia bisogno di 80.000 uomini e donne in più per raccogliere il solo luppolo; in Francia interi villaggi, e il loro artigianato, vengono abbandonati in estate perché i contadini si trasferiscono nelle parti più fertili del Paese; centinaia di migliaia di esseri umani vengono trasportati ogni estate nelle praterie del Manitoba e del Dakota. E ogni estate, molte migliaia di polacchi si riversano al tempo del raccolto nelle pianure del Mecklenburg, della Westfalia e persino della Francia; in Russia si verifica ogni anno un esodo di parecchie migliaia di uomini che da nord si spostano verso le praterie del sud per raccogliere le messi, tanto che molti industriali di San Pietroburgo riducono in questa stagione la produzione proprio perché gli operai ritornano ai villaggi natali per coltivare i loro appezzamenti.

L’agricoltura non può andare avanti in estate senza manodopera addizionale, ma essa necessita ancor di più di aiuti temporanei per migliorare il terreno e per decuplicarne la produttività. La dissodazione meccanica del suolo, il prosciugamento e la concimazione farebbero delle pesanti argille a nordovest di Londra un terreno molto più ricco di quello delle praterie americane. Per divenire fertili, quelle argille hanno bisogno solo del semplice, comune, lavoro umano, quello necessario per dissodare il suolo, collocare i tubi di drenaggio, polverizzare le fosforiti, e così via; e quel lavoro sarebbe di buon grado adempiuto dai lavoratori di fabbrica, a beneficio dell’intera società, se fossero adeguatamente organizzati in una libera comunità. Il suolo reclama un aiuto del genere e lo avrebbe con un’organizzazione adeguata, anche se per questo fosse necessario fermare in estate molte fabbriche. Non c’è dubbio che gli attuali proprietari di fabbrica considererebbero come una rovina dover fermare le fabbriche parecchi mesi l’anno, poiché il capitale investito in una fabbrica è destinato a pompare denaro tutti i giorni e tutte le ore, se possibile. Ma questo è il punto di vista dei capitalisti, non della comunità.

Quanto ai lavoratori, che in realtà dovrebbero essere coloro che gestiscono le industrie, sarà per loro salutare non fare lo stesso monotono lavoro per tutto l’anno, e abbandonarlo in estate, se davvero non si trovasse il modo di tenere in funzione la fabbrica organizzando dei turni.

La disseminazione delle industrie per tutto il Paese – in modo da portare la fabbrica tra i campi e da apportare all’agricoltura tutti quei benefici che essa trae sempre dalla combinazione con l’industria (come avviene sulla costa orientale degli Stati Uniti) – è certamente il primo passo da compiere, non appena si sia resa possibile una riorganizzazione delle nostre condizioni attuali. E questo passo – che viene già fatto qua e là, come abbiamo visto nelle pagine precedenti – lo impone una necessità che è tale per gli stessi produttori: lo impone la necessità, per ogni uomo e donna sana, di passare parte della vita nel lavoro manuale all’aria aperta; e diventerà ancora più necessario quando i grandi sommovimenti sociali, oggi divenuti inevitabili, verranno a perturbare l’attuale scambio internazionale spingendo ogni nazione a fare ricorso alle proprie risorse per mantenersi. L’umanità intera, come ogni singolo individuo, guadagneranno nel cambio, e il cambio sarà inevitabile.

Per noi, però, esso implica anche una completa modifica dell’attuale sistema educativo. Implica una società composta da uomini e donne capaci di lavorare con le proprie mani ma anche con il proprio cervello, e di farlo in più attività. È questa «integrazione di capacità», è questa «istruzione integrale», che intendo ora analizzare.

VIII

Kropotkin svolge una critica radicale al collettivismo, cioè a quel sistema che intende mantenere la remunerazione individuale a fianco di una socializzazione dei mezzi di produzione. Il collettivismo sia esso libertario o autoritario, non attuando una trasformazione vera dell’esistente, implica una conseguenza contraddittoria, perché gli esiti della rivoluzione sociale risultano limitati da forme più arretrate dell’opera demolitrice della rivoluzione medesima; esso, in altri termini, dimostra i suoi limiti rispetto al compito immane dell’emancipazione integrale.

Si pensi, ad esempio, al superamento della divisione gerarchica del lavoro sociale, vera base strutturale della disuguaglianza. Il regime collettivista, infatti, se da un lato intende socializzare i mezzi di produzione, dall’altro lascia intatta la diversa remunerazione individuale scaturita dalla differente qualità di lavoro erogata da ciascun membro della società. In tal modo, secondo Kropotkin, si costituisce la sanzione «socialista» della gerarchia sociale, la santificazione del principale ostacolo dell’obiettivo egualitario.

Come Bakunin, Kropotkin ritiene che il superamento della divisione gerarchica del lavoro sia la via maestra per l’abolizione delle classi. Ancora una volta, la norma 181del dover essere si coniuga con la constatazione dell’oggettività necessitante della sua utilità pratica. Ne deriva, in questo caso, l’idea del perseguimento dell’«uomo completo». L’integrazione del lavoro, infatti, mira a sviluppare un essere sociale «completo», mentre nello stesso tempo abolisce la gerarchia sociale che sta alla base di ogni disuguaglianza.

Vi è qui una perfetta analogia con il rapporto città- campagna. Infatti, come il lavoro intellettuale è dominante rispetto a quello manuale, così la posizione della città è dominante rispetto a quella della campagna: non si può, insomma, integrare l’uno senza integrare l’altro. Perciò l’integrazione fra lavoro manuale e intellettuale è perfettamente complementare, in senso anarchico, a quella fra centro e periferia.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana di Campi, fabbriche officine del 19822 , nella traduzione (rivista) di Franco Marano.

L’INTEGRAZIONE DEL LAVORO

In passato gli scienziati, soprattutto quelli che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo delle scienze naturali, non disdegnavano il lavoro e le attività manuali. Galileo si costruiva i telescopi da sé. Newton apprese da ragazzo l’arte di maneggiare gli utensili ed esercitava la sua giovane mente ideando le macchine più ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche ottiche, fu in grado di fabbricarsi da solo le lenti per i suoi strumenti e di costruire, sempre da solo, il famoso telescopio, che rappresentò, per quei tempi, un ottimo esempio di abilità tecnica. Leibniz si dedicava con passione all’invenzione di macchine: mulini a vento e carri senza cavalli ne impegnavano la mente tanto quanto le speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne botanico aiutando suo padre, esperto giardiniere, nei lavori di ogni giorno. In breve, per i grandi geni l’abilità manuale non costituiva un ostacolo alle ricerche teoriche: al contrario, le favoriva. D’altra parte, se in passato gli operai avevano ben poche occasioni di esercitare la scienza, molti di loro trovavano però uno stimolo intellettuale nelle svariate occupazioni delle officine non specializzate di allora; e alcuni ebbero la fortuna di intrattenere rapporti amichevoli con uomini di scienza. Watt e Rennie furono amici del professor Robinson; lo stradino Brindley, malgrado il suo salario di 14 scellini giornalieri, frequentava uomini istruiti ed ebbe così modo di sviluppare le proprie notevoli doti ingegneristiche; il rampollo di una famiglia benestante poteva «perder tempo» nella bottega di un carradore, preparandosi a divenire, più tardi, uno Smeaton o uno Stephenson.

Tutto questo è cambiato. Col pretesto della divisione del lavoro, abbiamo nettamente separato il lavoratore intellettuale dal lavoratore manuale. La massa degli operai non riceve oggi maggiore istruzione scientifica di quanta ne ricevessero le generazioni passate; anzi, è stata privata persino dell’istruzione che può dare la piccola officina, mentre i suoi figli e figlie, dai tredici anni in poi, vengono avviati in miniera o in fabbrica, e lì dimenticano ben presto quel poco che hanno potuto imparare a scuola. Quanto agli uomini di scienza, essi disprezzano il lavoro manuale. Pochi sarebbero in grado di costruire un telescopio, o anche uno strumento meno complesso! La maggior parte non sarebbe neppure capace di disegnare uno strumento scientifico, e una volta dato allo strumentista un vago suggerimento, lascia a lui il compito di creare l’apparecchio di cui ha bisogno. Per di più, hanno elevato il disprezzo per il lavoro manuale a livello di teoria. «All’uomo di scienza», affermano, «scoprire le leggi della natura, all’ingegnere applicarle, e all’operaio eseguire in acciaio o in legno, in ferro o in pietra, i progetti ideati dall’ingegnere. Egli deve lavorare con le macchine ideate per lui, ma non da lui. Non importa che non le capisca e non sia in grado di perfezionarle: lo scienziato e l’ingegnere penseranno al progresso della scienza e dell’industria».

Si potrebbe obiettare che, ciononostante, esiste una classe di uomini che non rientra in nessuna delle tre categorie appena delineate. Da giovani sono stati lavoratori manuali, e alcuni lo rimangono, ma grazie a fortunate circostanze sono riusciti ad acquisire una certa preparazione scientifica e hanno perciò combinato la scienza con il mestiere. Uomini del genere esistono, e siamo fortunati che sia rimasto un certo numero di individui sfuggiti alla tanto decantata specializzazione del lavoro perché è proprio a loro che l’industria deve le sue principali e più recenti invenzioni. Ma nella vecchia Europa rappresentano un’eccezione: sono gli irregolari, i «cosacchi» che hanno rotto le righe e sfondato le barriere tanto laboriosamente erette tra le classi. E sono così poco numerosi, in confronto alle sempre crescenti esigenze dell’industria – e della scienza – che tutto il mondo lamenta proprio la scarsità di uomini del genere.

Come si spiega, in effetti, la pressante richiesta di insegnamento professionale sorta simultaneamente in Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Russia, se non come la conseguenza di un generale malcontento verso l’attuale divisione tra scienziati, ingegneri e operai? Prestate orecchio a coloro che conoscono l’industria e sentirete che proprio questo è l’oggetto delle loro lamentele: «L’operaio, le cui mansioni sono diventate così specialistiche a causa della divisione permanente del lavoro, ha perduto ogni interesse intellettuale nel proprio lavoro, e ciò è avvenuto soprattutto nelle grandi industrie: egli ha perso le sue capacità creative. Una volta creava in continuazione. È ai lavoratori manuali – e non agli uomini di scienza o agli esperti di ingegneria – che si deve l’invenzione o il perfezionamento dei motori e di tutta quella massa di macchinari che hanno rivoluzionato l’industria negli ultimi cento anni. Ma da quando è sorta la grande fabbrica, l’operaio, depresso dalla monotonia del proprio lavoro, non crea più nulla. Che cosa potrebbe inventare, infatti, un tessitore impegnato soltanto a sorvegliare quattro telai, senza sapere nulla dei loro complicati movimenti o del modo in cui queste macchine sono state concepite? Che cosa potrebbe creare un uomo condannato per tutta la vita ad annodare alla massima velocità i capi di due fili e capace soltanto di fare un nodo?

«All’inizio dell’industria moderna, tre generazioni di operai sono stati capaci di inventare: oggi non lo fanno più. Quanto alle invenzioni degli ingegneri particolarmente esperti nella progettazione di macchine, o non sono affatto geniali, o non sono abbastanza pratiche. Mancano in tali invenzioni quei ‘nonnulla’ di cui parlava una volta a Bath sir Frederick Bramwell – quei nonnulla che si possono apprendere solo in officina e che permisero a Murdoch e agli operai di Soho di ricavare una macchina vera dai disegni di Watt. Solo chi conosce la macchina, non soltanto nei progetti e nei modelli ma nel respiro e nelle pulsazioni, solo chi inconsciamente la pensa mentre le sta vicino, può veramente perfezionarla. Smeaton e Newcomen erano certamente eccellenti ingegneri, ma nei loro motori un ragazzo doveva aprire la valvola del vapore a ogni colpo di pistone, e fu proprio uno di questi ragazzi a scoprire un giorno il modo di collegare la valvola al resto della macchina perché si aprisse automaticamente, mentre egli si allontanava per giocare con i compagni. Tuttavia, nei macchinari moderni i perfezionamenti improvvisati come questi non sono più possibili. E se per ulteriori invenzioni è diventata necessaria l’istruzione scientifica su larga scala, questa istruzione viene negata agli operai. E non c’è verso di superare tale difficoltà, a meno che istruzione scientifica e mestiere non vengano combinati; a meno che l’integrazione delle conoscenze non sostituisca le attuali specializzazioni».

Ecco la vera sostanza dell’attuale movimento a favore dell’insegnamento professionale. Ma invece di chiarire al pubblico le ragioni, forse incomprese, dell’attuale malcontento, invece di allargare l’orizzonte degli scontenti e discutere il problema in tutta la sua estensione, i promotori del movimento non oltrepassano, in genere, il punto di vista di un bottegaio. Alcuni si perdono in chiacchiere sulla necessità di annientare la concorrenza di tutte le industrie straniere; altri vedono nell’insegnamento professionale solo uno strumento per perfezionare leggermente la macchina di carne della fabbrica e promuovere alcuni operai alla classe superiore degli ingegneri.

Un simile ideale può bastare a loro, ma non certo a quanti, tenendo ben presenti gli interessi comuni della scienza e dell’industria, considerano entrambe come il mezzo per elevare il livello dell’umanità. Noi sosteniamo che, nell’interesse della scienza e dell’industria, come anche della società nel suo complesso, ogni essere umano, senza distinzione di nascita, dovrebbe ricevere un’istruzione tale da permettergli di unire una solida preparazione scientifica a una solida preparazione professionale. Riconosciamo, certo, la necessità di una preparazione specialistica, ma sosteniamo anche che la specializzazione viene dopo l’istruzione generale e che l’istruzione generale deve comprendere tanto la scienza quanto il mestiere. Alla divisione della società tra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali contrapponiamo l’unione di entrambi i tipi di attività; e invece che per l’«insegnamento professionale», che sottintende il mantenimento dell’attuale divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, siamo per l’éducation intégrale, l’istruzione integrale, che comporta la scomparsa di tale nociva distinzione.

In parole povere, lo scopo della scuola in un simile sistema dovrebbe essere il seguente: impartire un’istruzione tale che, nel lasciare la scuola all’età di diciottovent’anni, ragazzi e ragazze fossero provvisti di una solida preparazione scientifica – una preparazione che ne facesse dei validi lavoratori scientifici – e nello stesso tempo avessero in pugno le basi della preparazione professionale; inoltre, dovrebbero disporre di una particolare specializzazione in grado di assicurare loro un posto nel grande mondo della produzione manuale di ricchezza. So che molti troveranno questo scopo troppo ambizioso, o addirittura impossibile da raggiungere, ma spero che, se avranno la pazienza di leggere le pagine che seguono, si accorgano che non chiediamo nulla di irrealizzabile. In effetti, tale scopo è già stato raggiunto, e ciò che si è fatto in piccolo lo si potrebbe fare più in grande se cause economiche e sociali non impedissero l’attuazione di ogni seria riforma nella nostra società così infelicemente organizzata.

Lo spreco di tempo è l’aspetto dominante della nostra attuale istruzione. Non solo si insegnano un mucchio di cose inutili, ma ciò che inutile non è ci viene comunque insegnato in modo da farci sprecare su di esso quanto più tempo possibile. I nostri attuali metodi di insegnamento risalgono a un tempo in cui le doti richieste a una persona istruita erano estremamente limitate, e sono rimasti inalterati anche se la mole di nozioni da indirizzare alla mente dello scolaro, dopo che la scienza ha tanto esteso i suoi antichi confini, sia immensamente cresciuta. Di qui l’oppressività delle scuole, e sempre di qui l’urgenza di rivedere interamente sia gli argomenti sia i metodi di insegnamento in base alle nuove esigenze e agli esempi già forniti, qui e là, da singole scuole e da singoli educatori.

È evidente che gli anni dell’infanzia non andrebbero sprecati come oggi. I pedagoghi tedeschi hanno dimostrato come gli stessi giochi infantili possano servire a indirizzare alla mente dei bambini qualche nozione concreta di geometria e di matematica. I bambini che hanno realizzato i quadrati del teorema di Pitagora con dei pezzi di cartone colorato non considereranno il teorema, quando lo ritroveranno in geometria, come un semplice strumento di tortura inventato dagli insegnanti; e ciò sarà più vero se lo applicheranno come lo applicano i carpentieri. I complicati problemi di aritmetica, che hanno tanto tormentato la nostra infanzia, vengono facilmente risolti da bambini di sette-otto anni se posti sotto forma di interessanti giochi di pazienza. E se il Kindergarten – che i pedagoghi tedeschi spesso trasformano in una specie di caserma, dove ogni movimento del bambino è regolato in anticipo – è spesso divenuto una prigione per i piccoli, l’idea dalla quale è nato è ciononostante valida. In effetti, è quasi impossibile immaginare, senza averlo verificato, quante solide nozioni naturali, quante abitudini alla classificazione e quanto gusto per le scienze naturali possano essere indirizzati alle menti dei bambini. E se l’idea di una serie di corsi concentrici, adeguati alle diverse fasi di sviluppo dell’essere umano, venisse generalmente accolta nell’istruzione, il primo corso di ogni scienza, eccettuata la sociologia, potrebbe essere insegnato prima dei diecidodici anni, dando così una visione generale dell’universo, della Terra e dei suoi abitanti, e dei principali fenomeni fisici, chimici, zoologici e botanici, e lasciando la scoperta delle leggi di tali fenomeni a corsi successivi più approfonditi e specializzati.

D’altra parte, sappiamo tutti come i bambini amino costruirsi da soli i giocattoli e come imitino spontaneamente le occupazioni degli adulti quando li vedono al lavoro in officina o nel cantiere. Ma i genitori talvolta bloccano stupidamente questa passione, talvolta non sanno come utilizzarla. La maggior parte disprezza il lavoro manuale e preferisce far studiare ai bambini la storia romana, o i precetti di Franklin sul risparmio, anziché vederli al lavoro, buono «solo per le classi inferiori». E in questo modo fanno del loro meglio per rendere più difficile l’apprendimento successivo.

Poi arrivano gli anni della scuola, e il tempo viene di nuovo incredibilmente sprecato. Prendiamo, ad esempio, la matematica, che tutti dovrebbero conoscere in quanto costituisce la base di ogni successiva istruzione, e che pochi imparano veramente nelle nostre scuole. In geometria il tempo viene scioccamente sprecato con l’uso del metodo mnemonico. Nella maggioranza dei casi, il ragazzo legge e rilegge più volte la dimostrazione di un teorema, fino a quando non ha imparato a memoria la successione dei ragionamenti. È per questo che nove ragazzi su dieci, alla richiesta di dimostrare un semplice teorema due anni dopo aver lasciato la scuola, saranno incapaci di farlo, a meno che la matematica non sia la loro specializzazione. Essi avranno dimenticato le linee ausiliarie da tracciare non avendo mai imparato a scoprire le prove da soli. Nessuna meraviglia se più tardi, nell’applicare la geometria alla fisica, incontreranno tante difficoltà, se il loro progresso sarà disperatamente lento, e se pochi saranno in grado di padroneggiare la matematica più complessa.

Esiste, tuttavia, un altro metodo, che consente all’allievo di progredire, nel complesso, molto più velocemente e con il quale chi ha imparato la geometria non la dimenticherà più. Con questo sistema, ogni teorema viene posto come un problema; la soluzione non viene mai data in anticipo, ma l’allievo è costretto a trovarla da solo. Così, se si sono fatti degli esercizi preliminari con il regolo e il compasso, non c’è ragazzo o ragazza che non riesca a tracciare un angolo uguale a un altro dato angolo e a dimostrarne l’uguaglianza dietro pochi suggerimenti dell’insegnante; e se i problemi seguenti vengono dati in successione sistematica (esistono testi eccellenti in materia) e l’insegnante non costringe gli allievi ad andare più in fretta di quanto all’inizio siano in grado, questi passeranno da un problema all’altro con facilità sorprendente, una volta superata la difficoltà iniziale di indurre l’allievo a risolvere il primo e perciò ad acquistare fiducia nel suo stesso ragionamento.

Inoltre, ogni verità geometrica astratta va impressa nella mente anche nella sua forma concreta. Non appena gli allievi avranno risolto dei problemi sulla carta, li si spinga a risolverli anche sul campo da gioco con dei bastoncini e uno spago, e ad applicare la propria conoscenza in officina. Solo allora le linee geometriche assumeranno un significato concreto nella mente dei bambini; solo allora questi si accorgeranno che l’insegnante non li prende in giro quando chiede loro di risolvere i problemi con il regolo e il compasso senza ricorrere al goniometro; solo allora conosceranno la geometria.

«Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il vero 190modo per risparmiare tempo nell’insegnamento. Ricordo, come fosse ieri, in che modo la geometria acquistasse per me, improvvisamente, un nuovo significato, e come questo nuovo significato mi facilitasse ogni studio successivo. Fu mentre a scuola lavoravamo attorno a una mongolfiera, e io osservai come l’angolo in cima a ognuna delle venti strisce di carta che costituivano il pallone dovesse coprire meno d’un quinto di angolo retto. Ricordo poi come seni e tangenti cessassero di essere semplici segni cabalistici quando ci permisero di calcolare la lunghezza di un bastoncino nell’eseguire la sezione di un fortino, e come la geometria dello spazio si facesse semplice quando cominciammo a costruire un piccolo bastione con feritoie e barbette: occupazione che naturalmente ci fu subito proibita per lo stato in cui riducemmo i nostri vestiti. «Sembrate degli sterratori», ci rimproverarono i nostri sapienti insegnanti, mentre noi eravamo orgogliosi proprio di questo e di avere scoperto l’uso della geometria.

Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su semplici rappresentazioni grafiche, invece di fargliele fare direttamente, li costringiamo a sprecare un tempo prezioso; ne impegniamo inutilmente le menti; li abituiamo ai peggiori metodi di apprendimento; uccidiamo sul nascere l’indipendenza del pensiero; e molto raramente riusciamo a dar loro un’idea concreta di quanto insegniamo. Superficialità, ripetizioni a pappagallo, schiavitù e inerzia mentale: ecco i risultati del nostro metodo di insegnamento. Ai nostri bambini non insegniamo ad apprendere.

Anche l’insegnamento dei princìpi scientifici segue il medesimo deleterio sistema. Nella maggior parte delle scuole l’aritmetica viene insegnata in modo astratto, imbottendo le povere testoline di semplici regole. In questo Paese, negli Stati Uniti e in Russia, invece di accettare il sistema metrico decimale, si torturano ancora i bambini insegnando loro un sistema di pesi e misure superato già da un pezzo.

Il tempo che si spreca per la fisica è semplicemente indecente. Mentre i giovani comprendono molto facilmente i princìpi della chimica e le sue formule non appena passano a fare direttamente i primi esperimenti con ampolle e provette, trovano infinitamente difficile impadronirsi dell’introduzione meccanica alla fisica, in parte perché non conoscono la geometria, ma soprattutto perché vengono loro mostrate solo macchine costose invece di essere indotti a costruire direttamente i semplici apparecchi che illustrano i fenomeni studiati.

Invece di apprendere le leggi dell’energia per mezzo di semplici strumenti che anche un ragazzo di quindici anni sarebbe in grado di costruire, le imparano dai disegni, in modo completamente astratto. Invece di costruire direttamente una macchina di Atwood con un manico di scopa e il bilanciere di un vecchio orologio, o di verificare le leggi della caduta dei corpi facendo scivolare una chiave su una cordicella inclinata, si mostra loro un complicato apparecchio, e nella maggior parte dei casi lo stesso insegnante non riesce a spiegare il principio perdendosi in dettagli irrilevanti. In realtà, ogni apparecchio che serva ad illustrare le leggi fondamentali della fisica andrebbe costruito dagli stessi ragazzi.

Lo spreco di tempo è la caratteristica non solo dei nostri metodi di insegnamento scientifico, ma anche dei metodi usati nell’insegnamento professionale. Sappiamo bene quanti anni sprechi un ragazzo che fa tirocinio in officina. Ma lo stesso rimprovero lo si può rivolgere a maggior ragione a quelle scuole professionali che cercano di insegnare, tutto in una volta, un qualche mestiere particolare, invece di ricorrere ai metodi più completi e sicuri dell’insegnamento sistematico.

Ogni macchina, per quanto complicata, la si può ridurre a pochi elementi (piastre, cilindri, dischi, coni, ecc.) e a pochi attrezzi (scalpelli, seghe, rulli, martelli ecc.), e per quanto complicati siano i suoi movimenti, li si può ricondurre a poche variazioni del moto, come la trasformazione del moto circolare in rettilineo e simili, con una quantità di fasi intermedie. Allo stesso modo, ogni mestiere può essere scomposto in un certo numero di elementi. In ogni mestiere si deve saper fare una piastra a facce parallele, un cilindro, un disco, un foro quadrato e uno rotondo; si deve saper maneggiare un numero limitato di attrezzi, dato che tutti gli attrezzi sono semplici modifiche di una decina di tipi; e si deve saper trasformare un tipo di moto in un altro. È questa la base di tutti i mestieri meccanici, sicché la capacità di eseguire in legno quegli elementi primari e di trasformare i vari tipi di moto andrebbe considerata la vera base dell’ulteriore insegnamento di ogni mestiere meccanico. L’allievo fornito di tali capacità conosce già una buona metà di tutti i mestieri possibili.

Si tratti di un mestiere, di scienza o di arte, lo scopo principale della scuola non è di trasformare il principiante in uno specialista, ma di dargli una preparazione e buoni metodi di lavoro, e soprattutto di infondergli quella generale ispirazione che lo spingerà più tardi, in qualsiasi cosa faccia, a una sincera ricerca della verità, ad amare tutto ciò che è bello, sia nella forma sia nel contenuto, a sentire il bisogno di rendersi utile insieme a tutti gli altri uomini e portare così il suo cuore all’unisono con il resto dell’umanità.

Quanto ad evitare all’allievo la monotonia di un lavoro durante il quale non farebbe che cilindri e dischi, e mai macchine complete o altri oggetti utili, vi sono migliaia di mezzi per ovviare alla mancanza di interesse e uno di essi, utilizzato a Mosca, è degno di menzione. Si tratta di non attribuire un lavoro come semplice esercizio, ma di utilizzare qualsiasi cosa l’allievo faccia sin dalle prime lezioni. Ricordate con quale compiacimento, da bambini, vedevate il vostro lavoro utilizzato, anche solo come accessorio di qualcosa di utile? E così si faceva alla Scuola Professionale di Mosca. Ogni asse piallata dagli allievi veniva adoperata come accessorio di una macchina in una qualche officina. Quando un allievo, una volta ammesso al laboratorio di ingegneria, veniva messo a eseguire un blocco quadrangolare di ferro a lati paralleli e perpendicolari, quel blocco assumeva ai suoi occhi un certo interesse visto che una volta terminato, dopo aver verificato angoli e lati e corretto i difetti, non finiva sotto il banco, ma veniva passato a un altro allievo più esperto che vi aggiungeva una maniglia, lo verniciava e lo mandava al negozio della scuola come fermacarte. L’insegnamento sistematico acquistava così le dovute attrattive. (La vendita dei lavori eseguiti dagli allievi non era affatto trascurabile, soprattutto per i corsi avanzati dove si costruivano macchine a vapore. Proprio per questo la Scuola Professionale di Mosca, al tempo in cui la conobbi, era una delle più economiche del mondo. Pensione e insegnamento costavano molto poco. Ma provate a immaginare una scuola annessa a una fattoria dove si coltivassero e scambiassero derrate a prezzo di costo: quanto costerebbe in tal caso l’insegnamento?).

È evidente che la rapidità del lavoro è un fattore importantissimo per la produzione. E dunque non possiamo non chiederci se, con il sistema sopra accennato, si raggiunga la necessaria rapidità. Ma vi sono due generi di rapidità. C’è la rapidità che ebbi modo di osservare in una fabbrica di merletti di Nottingham: uomini maturi, mani e teste percorse da un tremito, annodavano febbrilmente i capi di due fili di cotone rimasti nelle bobine; a stento si riusciva a seguirne i movimenti. Ma il fatto stesso che una fabbrica richieda una rapidità di esecuzione come questa basta da solo a condannarla. Che cosa è rimasto dell’essere umano in quei corpi tremolanti? Quale sarà il loro futuro? Perché questo spreco di energie umane quando le stesse potrebbero produrre dieci volte il valore di quegli scarti? Questo genere di rapidità dipende esclusivamente dal basso costo degli schiavi di fabbrica; ci auguriamo dunque che nessuna scuola tenti mai di esigerla. Ma c’è anche la rapidità dell’operaio preparato che permette di risparmiare tempo, e ad essa si può arrivare facilmente con il tipo di istruzione da noi proposta. Per quanto semplice sia il suo lavoro, l’operaio istruito lo svolge meglio e più in fretta di quello non istruito.

Osserviamo, ad esempio, i gesti di un bravo operaio quando taglia qualcosa – diciamo un pezzo di cartone – e confrontiamoli con quelli di un operaio poco esperto. Quest’ultimo afferra il cartone, prende l’attrezzo così com’è, traccia una linea a casaccio e comincia a tagliare; a metà strada è già stanco e, quando ha finito, il suo lavoro non serve a nulla; il primo, invece, esaminerà il suo attrezzo e lo perfezionerà se necessario, traccerà la linea con esattezza, fisserà regolo e cartone, terrà l’attrezzo nel modo giusto, taglierà molto facilmente e consegnerà un lavoro ben fatto.

Ecco la vera rapidità, quella che consente di risparmiare tempo e lavoro; e il miglior modo d’arrivarci è un’istruzione di tipo veramente superiore. I grandi maestri dipingevano con rapidità prodigiosa, ma la loro rapidità derivava da un grande sviluppo dell’intelligenza e dell’immaginazione, da un profondo senso della bellezza, da una sofisticata percezione dei colori. Ed è proprio questo il genere di rapidità di lavoro di cui l’umanità ha bisogno.

Vi sarebbero ancora molte cose da dire sui compiti della scuola, ma mi limito ad aggiungere qualcosa sull’auspicabilità del tipo di istruzione brevemente tratteggiato nelle pagine precedenti. Certamente non mi illudo sulla realizzazione di una riforma radicale, o anche soltanto parziale, dell’istruzione finché le nazioni civili rimarranno legate all’attuale sistema, meschino ed egoistico, di produzione e di consumo. Tutto ciò che possiamo aspettarci, fino a quando dureranno le condizioni attuali, sono dei microscopici tentativi di riforma, fatti qua e là e marginali; tentativi che si fermeranno, ovviamente, molto lontano dai risultati auspicati, data l’impossibilità di riforme anche marginali quando sussiste un legame così stretto fra le molteplici funzioni di una nazione civile. Ma la potenza del genio costruttore della società dipende principalmente da quanto profonda è la sua opinione riguardo a ciò che andrebbe fatto e sul come realizzarlo. La necessità di rimodellare l’istruzione è una di quelle universalmente riconosciute, la più adatta a ispirare nella società quegli ideali senza i quali il ristagno, o addirittura la decadenza, si presentano inevitabili.

Supponiamo perciò che una comunità – una città, o un territorio di almeno qualche milione di abitanti – fornisca a tutti i suoi bambini, senza distinzione di nascita (e siamo abbastanza ricchi da concedercene il lusso), l’istruzione che abbiamo tratteggiato, senza chiedere loro in cambio null’altro all’infuori di quello che essi daranno una volta divenuti produttori di ricchezza. Supponiamo che questa istruzione venga introdotta e analizziamone le probabili conseguenze.

Non insisterò sull’aumento della ricchezza che risulterebbe dalla disponibilità di un giovane esercito di istruiti ed esperti produttori; e neppure mi dilungherò sui benefici sociali che deriverebbero sia dall’annullamento della distinzione attuale tra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali, sia dalla raggiunta comunanza di interessi e dall’armonia tanto necessaria in questi tempi di lotte sociali. Non mi dilungherò neanche sull’esistenza più completa di cui ogni singolo individuo godrebbe se gli si consentisse di servirsi appieno delle proprie capacità intellettuali e fisiche, né sui vantaggi che si ricaverebbero collocando il lavoro manuale al posto di onore che gli spetta nella società (mentre oggi rappresenta un marchio di inferiorità). E non insisterò neppure sulla scomparsa dell’attuale miseria e degradazione e delle loro conseguenze – immoralità, crimine, carceri, delazione e simili – che necessariamente seguirebbe. In breve, non entrerò adesso nella grande questione sociale, sulla quale tanto è stato scritto e tanto rimane ancora da scrivere. Voglio soltanto mettere in rilievo, in queste pagine, i benefici che la scienza stessa trarrebbe dal mutamento.

Alcuni diranno, naturalmente, che ridurre gli uomini di scienza al ruolo di lavoratori manuali provocherebbe il decadimento della scienza e del genio. Ma chi terrà conto delle considerazioni che seguono si renderà conto che è vero l’opposto, cioè che provocherebbe un tale risveglio della scienza e dell’arte, e un tale progresso dell’industria, che possiamo farcene solo una pallidissima idea grazie anche a ciò che sappiamo dell’epoca rinascimentale. È diventato un luogo comune magnificare i progressi della società durante il XIX secolo, ed è evidente che questo secolo, se confrontato ai precedenti, ha molte ragioni di vanto. Ma se teniamo presente che la maggior parte dei problemi che ha risolto erano già stati evidenziati, e le loro soluzioni previste, un centinaio di anni prima, dobbiamo riconoscere che il progresso non è stato così rapido come si sarebbe voluto e che qualcosa lo ha ostacolato.

La teoria meccanica del calore era stata perfettamente prospettata nel secolo precedente da Rumford e da Humphry Davy, e sostenuta anche in Russia da Lomonosoff. Eppure, ben più di mezzo secolo è passato prima che la teoria riapparisse nella scienza. Lamarck, ma anche Linneo, Geoffroy Saint-Hilaire, Erasmo, Darwin e parecchi altri si rendevano perfettamente conto della mutabilità della specie e si avviavano ad aprire la strada alla costruzione della biologia sui princìpi della mutazione; ma anche qui si dovettero perdere altri cinquant’anni prima che la mutazione tornasse alla ribalta. Va anche ricordato come le idee di Darwin fossero soprattutto portate avanti, e imposte all’attenzione del mondo accademico, da persone che non erano scienziati professionisti; e presso lo stesso Darwin la teoria dell’evoluzione ha avuto limiti ristretti per l’importanza preponderante attribuita a uno solo dei fattori dell’evoluzione.

In breve, non c’è una sola scienza che non risenta, nel suo sviluppo, della mancanza di uomini e donne dotati di una concezione filosofica dell’universo, pronti ad applicare il proprio spirito di ricerca in un dato campo, per quanto limitato, e sufficientemente provvisti di tempo per votarsi al lavoro scientifico. In una comunità come quella che noi immaginiamo, migliaia di lavoratori sarebbero pronti a rispondere a qualsiasi appello in nome della ricerca. Darwin spese quasi trent’anni della sua vita a raccogliere e analizzare i fenomeni necessari all’elaborazione della teoria sull’origine della specie. Se fosse vissuto in una società come quella da noi ipotizzata, gli sarebbe bastato fare appello a dei volontari che si dedicassero alla ricerca dei fenomeni e alla sperimentazione particolare, e migliaia di esploratori avrebbero risposto al suo appello. Decine di associazioni sarebbero sorte per dibattere e risolvere ciascuno dei problemi particolari implicati dalla teoria, così che in dieci anni se ne sarebbe avuta la verifica; e tutti i fattori dell’evoluzione, ai quali soltanto oggi si comincia ad accordare la necessaria attenzione, sarebbero apparsi in piena luce. Il progresso scientifico sarebbe stato dieci volte più rapido, e se pure il singolo non avrebbe gli stessi diritti alla gratitudine dei posteri che ha oggi, la massa sconosciuta avrebbe eseguito il lavoro più velocemente e dischiuso al progresso futuro prospettive maggiori di quante può aprirne il singolo in una vita intera.

Ma c’è un altro aspetto della scienza moderna che depone ancora più imperiosamente a favore del cambiamento che sosteniamo. Mentre l’industria, soprattutto dalla fine del secolo scorso e durante la prima parte dell’attuale, è andata moltiplicando le sue creazioni in misura tale da rivoluzionare la faccia stessa della Terra, la scienza è andata perdendo le sue capacità creative. Gli uomini di scienza non creano più nulla, o creano pochissimo. Non è sorprendente, in effetti, che la macchina a vapore, anche nei suoi princìpi fondamentali, la locomotiva, il battello a vapore, il telefono, il fonografo, il telaio meccanico, la macchina per merletti, il faro, la strada in macadam, la fotografia in bianco e nero e a colori, e migliaia di altre cose meno importanti, non siano state inventate da scienziati di professione? Eppure, nessuno di loro avrebbe rifiutato di associare il proprio nome a una qualsiasi di dette invenzioni. Uomini che avevano ricevuto, a scuola un’istruzione rudimentale, che avevano a malapena raccolto le briciole del sapere dalla tavola dei ricchi, e che effettuavano i propri esperimenti con i mezzi più primitivi – il commesso d’avvocato Smeaton, l’attrezzista Watt, il frenatore Stephenson, l’apprendista-gioielliere Fulton, il costruttore di mulini Rennie, il muratore Telford, e centinaia di altri di cui persino il nome rimane sconosciuto – sono stati, come dice giustamente Smiles, «i veri creatori della civiltà moderna». Al contrario, gli scienziati di professione, provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisire conoscenze e a sperimentare, hanno avuto ben poca parte nell’invenzione di quel formidabile complesso di apparecchi, macchine e motori che ha permesso all’umanità di utilizzare e di padroneggiare le forze della natura. (La chimica rappresenta, in genere, un’eccezione alla regola. Non sarà perché il chimico è in gran parte un lavoratore manuale? Inoltre, negli ultimi dieci anni si è notato un deciso risveglio della creatività scientifica, soprattutto in fisica: vale a dire, in un campo dove l’ingegnere e l’uomo di scienza hanno modo d’incontrarsi spesso). Il fatto è sorprendente, ma la sua ragione è molto semplice: quegli uomini – i Watt e gli Stephenson – sapevano qualcosa che i savants non sanno: sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente ne stimolava le capacità creative; conoscevano le macchine nei loro princìpi fondamentali e nel loro funzionamento; avevano respirato l’atmosfera dell’officina e del cantiere.

Ben sappiamo come gli uomini di scienza accoglieranno il rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggi della natura, lasciate che siano gli altri ad applicarle; si tratta semplicemente di dividere il lavoro». Ma una tale risposta è assolutamente falsa. La marcia del progresso segue la direzione opposta, poiché in novantanove casi su cento l’invenzione meccanica precede la scoperta della legge scientifica. Non è stata la teoria dinamica del calore a precedere la macchina a vapore, ma viceversa.

Quando già migliaia di macchine, da più di mezzo secolo, trasformavano il calore in moto sotto gli occhi di centinaia di professori; quando già migliaia di treni, bloccati da freni potenti, approssimandosi alle stazioni sprigionavano calore e spandevano sui binari fasci di 199scintille; quando già in tutto il mondo civile magli e perforatrici andavano rendendo incandescenti le masse di ferro loro sottoposte, allora e soltanto allora, Séguin in Francia e Mayer in Germania si arrischiarono a formulare la teoria meccanica del calore con tutte le sue conseguenze. Ma in aggiunta, gli uomini di scienza ignorarono il lavoro di Séguin e quasi spinsero Mayer alla pazzia aggrappandosi ostinatamente al loro misterioso fluido calorico. Peggio ancora, definirono «non scientifica» la prima enunciazione di Joule sull’equivalente meccanico del calore.

Non fu la teoria dell’elettricità a darci il telegrafo. Quando il telegrafo venne inventato, tutto ciò che sapevamo sull’elettricità si riduceva a pochi fatti raccolti alla meno peggio nei nostri libri; ancora oggi la teoria dell’elettricità non è pronta ma aspetta sempre il suo Newton, nonostante i brillanti tentativi degli ultimi anni. Anche la conoscenza empirica sulle leggi della corrente elettrica si trovava al suo stadio primitivo quando pochi audaci stesero un cavo in fondo all’Atlantico, malgrado lo scetticismo degli uomini di scienza ufficiali.

Il termine «scienza applicata» è assolutamente scorretto, poiché nella gran maggioranza dei casi le invenzioni, lungi dall’essere un’applicazione della scienza, creano al contrario un nuovo ramo di scienza. I ponti americani non sono affatto stati un’applicazione della teoria dell’elasticità: l’hanno preceduta, e tutto ciò che possiamo dire a favore della scienza è che, in questo particolare settore, teoria e pratica si sono sviluppate in modo parallelo, aiutandosi reciprocamente. E ancora, non è stata la teoria degli esplosivi a portare alla scoperta della polvere da sparo: la polvere da sparo la si è usata per secoli prima che l’azione dei gas in un fucile fosse sottoposta ad analisi scientifica. E così via.

Naturalmente esiste un certo numero di casi in cui la scoperta o l’invenzione ha coinciso con la semplice applicazione di una legge scientifica (ad esempio con la scoperta del pianeta Nettuno); ma nell’immensa maggioranza dei casi la scoperta o l’invenzione hanno degli inizi niente affatto scientifici. Esse rientrano molto più nel dominio delle arti – in quanto le arti prevalgono sulla scienza, come Helmholtz ha così bene dimostrato in una delle sue famose conferenze – e solo dopo che l’invenzione è stata fatta la scienza interviene a interpretarla. È ovvio che ogni invenzione si avvale delle cognizioni e delle idee accumulate in precedenza, ma nella maggioranza dei casi è in anticipo sulla conoscenza e balza nell’ignoto, aprendo così alla ricerca un insieme del tutto nuovo di fenomeni. Questo carattere dell’invenzione, che consiste nell’essere in anticipo sulle cognizioni del proprio tempo e non nell’applicare semplicemente una legge, la rende identica, nei processi intellettuali, alla scoperta; ne consegue che chi è lento nelle invenzioni lo è anche nelle scoperte.

Nella maggior parte dei casi l’inventore, per quanto ispirato dallo stato generale della scienza in un dato momento, parte con pochissimi punti fermi a disposizione. I fenomeni scientifici che sono stati alla base dell’invenzione della macchina a vapore, o del telegrafo, o del fonografo, erano estremamente elementari. Sicché possiamo affermare che quanto conosciamo attualmente è già sufficiente per risolvere tutti i grandi problemi all’ordine del giorno: motori non a vapore, immagazzinaggio di energia, trasmissione di potenza, o macchine volanti. Se questi problemi non sono stati ancora risolti, lo si deve soltanto alla mancanza di spirito creativo, alla scarsità di uomini istruiti che ne siano dotati, e all’attuale separazione tra scienza e industria. [Lascio di proposito queste righe come nella prima edizione: tutte le invenzioni nominate sono già state realizzate]. Da un lato, abbiamo uomini dotati di capacità creative, ma privi sia della necessaria preparazione scientifica sia dei mezzi atti a una sperimentazione che duri lunghi anni; dall’altro, abbiamo uomini preparati e in grado di sperimentare, ma privi di spirito creativo a causa della loro istruzione troppo astratta, troppo scolastica, troppo libresca, e dell’ambiente in cui vivono (per non parlare del sistema dei brevetti, che divide e disperde gli sforzi degli inventori, anziché combinarli).

Lo slancio dell’ingegno, che ha caratterizzato gli operai all’inizio della moderna era industriale, è mancato ai nostri scienziati di professione. E continuerà a mancare finché essi rimarranno estranei al mondo, perduti tra le loro polverose librerie; finché non si trasformeranno anch’essi in operai tra gli operai, alla vampa del forno in fonderia, alla macchina in fabbrica, al tornio nell’officina meccanica, marinai tra i marinai sul mare e pescatori sui pescherecci, boscaioli nella foresta, zappatori nei campi.

I nostri critici d’arte – Ruskin e la sua scuola – ci hanno ripetuto di recente che è inutile aspettarci un risveglio dell’arte finché il lavoro manuale rimarrà quello che è; e ci hanno dimostrato come l’arte greca e l’arte medievale fossero figlie del lavoro manuale, come l’uno alimentasse l’altra. Altrettanto si può dire dei rapporti tra il lavoro manuale e la scienza: separarli significa farli decadere entrambi. Quanto alle grandi ispirazioni, purtroppo tanto trascurate nella maggioranza delle recenti discussioni sull’arte (e assenti anche nella scienza), possiamo aspettarcele soltanto da un’umanità che, spezzate le sue attuali catene, si avvii verso gli alti princìpi della solidarietà, liberandosi dell’attuale dualismo tra senso morale e filosofia.

È evidente, comunque, che non tutti gli uomini e le donne potranno trarre uguale piacere dall’impegno scientifico. La varietà delle inclinazioni è tale che alcuni troveranno maggiore soddisfazione nella scienza, altri nell’arte, e altri ancora in qualcuno degli innumerevoli rami di produzione della ricchezza. Ma quali che siano le sue occupazioni preferite, ciascuno sarà tanto più utile nel proprio settore quanto più disporrà di una seria preparazione scientifica. E di chiunque si tratti – scienziato o artista, fisico o chirurgo, chimico o sociologo, storico o poeta – molti benefici trarrebbe dal passare parte della sua vita in officina o in fattoria (anzi, in officina e in fattoria) a contatto con la quotidianità del lavoro umano, soddisfatto e consapevole di adempiere ai propri doveri di produttore non privilegiato di ricchezza.

Come comprenderebbero meglio l’umanità, lo storico e il sociologo, se la conoscessero non soltanto dai libri, non soltanto da un esiguo numero di suoi rappresentanti, ma nel suo complesso, nella sua vita, nel suo lavoro e nelle sue attività quotidiane! Come sarebbe più efficace la medicina se, confidando più sull’igiene che sulle ricette, i giovani dottori fossero gli infermieri dei malati e gli infermieri ricevessero l’istruzione dei nostri attuali dottori! E come percepirebbe meglio, il poeta, le bellezze della natura, come conoscerebbe meglio il cuore umano, se avesse modo di osservare la levata del sole, contadino tra i contadini, o di lottare contro la tempesta, marinaio tra i marinai, a bordo di una nave, se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, del dolore e della gioia, della lotta e della conquista!

La cosiddetta «divisione del lavoro» è nata in un sistema che ha condannato le masse, tutto il giorno e tutta la vita, alla dura fatica dello stesso gravoso genere di lavoro. Ma se consideriamo l’esiguità dei veri produttori di ricchezza della nostra attuale società, e come il loro lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione a Franklin allorché diceva che in genere basterebbe lavorare ognuno cinque ore al giorno per assicurare a tutti i membri di una nazione civile quegli agi oggi accessibili soltanto ai pochi.

Abbiamo fatto, però, qualche progresso dai tempi di Franklin, e alcuni di tali progressi, realizzati nel settore finora più arretrato della produzione – quello agricolo – li abbiamo segnalati nelle pagine che precedono. Anche in questo settore si può accrescere immensamente la produttività del lavoro e rendere facile e piacevole il lavoro stesso. Se ciascuno si accollasse la sua parte di produzione e la produzione venisse socializzata (come l’economia politica, se indirizzata al soddisfacimento dei bisogni sempre crescenti di tutti, ci consiglierebbe di fare), allora avremmo più di metà della giornata lavorativa da dedicare all’arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione preferita; e il nostro lavoro in quegli stessi settori sarebbe più proficuo se impiegassimo l’altra metà della giornata in un lavoro produttivo; questo se l’arte e la scienza fossero coltivate più per pura inclinazione che non per scopi commerciali. Inoltre, una società organizzata sul principio che tutti lavorano sarebbe abbastanza ricca per sollevare uomini e donne – una volta raggiunta una certa età, diciamo i quarant’anni o poco più – dall’obbligo morale di partecipare direttamente all’esecuzione del necessario lavoro manuale, e per consentir loro di votarsi interamente all’arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione. In questo modo sarebbero pienamente garantiti la libera ricerca in nuovi rami dell’arte e del sapere, la libera creazione e il libero sviluppo individuale. E una società come questa non conoscerebbe miseria in seno all’abbondanza, ignorerebbe la dualità di coscienza che permea la nostra vita e paralizza ogni nobile sforzo, e volerebbe libera verso le più alte regioni del progresso compatibile con la natura umana.

IX

Il testo dove Kropotkin espone la sua concezione del comunismo anarchico è La conquista del pane, opera che vede la luce nel 1892. Kropotkin afferma che l’unico regime privo di contraddizioni sociali è il comunismo. Diversamente dal collettivismo e dal mutualismo, esso supera tutte le disuguaglianze e le sperequazioni e rende giustizia a tutti perché, esplicandosi integralmente attraverso la semplice norma «da ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni», abolisce radicalmente la schiavitù del salario e, con essa, la dipendenza dal bisogno. Per la stretta e necessaria correlazione posta da Kropotkin tra lo sviluppo delle forze produttive e l’abolizione della proprietà privata, la ricchezza sociale sfuggirebbe alle leggi dell’economia politica per risultare una creazione collettiva rispondente alle necessità funzionali della società, intesa, questa, nella sua originaria esistenza spontanea di solidarismo naturalistico.

Questo comunismo è anarchico, nel senso che l’abolizione del salariato è contemporanea all’abolizione dello Stato. Il presupposto scientifico del comunismo non è dato da una verità economica, sia essa di carattere razionale, storico o culturale, ma dalla constatazione della sua perfetta rispondenza alle leggi dell’evoluzione naturale. Il comunismo è l’opposto dell’individualismo, esattamente come il mutuo appoggio è il contrario della lotta per l’esistenza. È attraverso il comunismo che la natura ha la sua logica continuità nella storia, per cui si deve dire che comunismo e mutuo appoggio sono due definizioni di una stessa realtà: la logica intrinseca della vita che preserva se stessa. Il presupposto solidaristico costituisce dunque la vera premessa del comunismo kropotkiniano, che pone la priorità etica rispetto a quella economica.

In questo senso sarebbe forse più opportuno parlare di comunalismo o comunitarismo, in quanto Kropotkin è particolarmente interessato alla logica profonda della vita comunitaria. Essa non si regge certo sul rapporto dello scambio economico, misurabile quantitativamente e razionalmente, ma sugli impulsi esistenziali che animano gli individui; impulsi che per la loro natura vanno al di là della prassi mercantile, che risulta sempre riduttiva rispetto all’insieme dei valori, delle speranze, delle fedi individuali e sociali.

In conclusione, il comunismo-comunitarismo non è soltanto desiderabile, ma è pure lo sbocco inevitabile della tendenza moderna dovuta all’incessante integrazione dell’economia e della società in un tutto organico e necessitante. Il comunismo quindi non è «il diritto al lavoro», e nemmeno il diritto della ripartizione «secondo le opere». È invece il superamento di ogni diritto, per la diretta soddisfazione dei bisogni. Questo grande rivolgimento sociale non può quindi essere l’esito di un’opera legislativa, bensì il frutto dell’azione spontanea delle grandi masse popolari. Kropotkin è convinto che sia possibile arrivare all’agiatezza generale perché esiste una ricchezza potenziale enorme, malamente utilizzata a causa della proprietà privata e della irrazionalità dell’assetto capitalistico.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana di La conquista del pane del 1975, nella traduzione (rivista) di Gabriella Gianfelici e Claudio Neri.

IL COMUNISMO ANARCHICO

Va riconosciuto e proclamato con forza che ognuno, qualunque sia stata nel passato la sua funzione, qualunque siano state la sua forza e la sua debolezza, le sue attitudini o le sue incapacità, possiede innanzi tutto il diritto alla vita; e la società deve spartire tra tutti, senza eccezioni, i mezzi di sussistenza di cui dispone. Si deve riconoscerlo, proclamarlo e agire di conseguenza! […]

I servizi resi alla società, tanto il lavoro nelle fabbriche o nei campi quanto le attività intellettuali, non possono essere valutati in termini monetari. Non si può determinare in riferimento alla produzione l’esatta misura di ciò che è stato impropriamente chiamato valore di scambio, né del valore d’uso. Se si prendono 207due individui che, anno dopo anno, lavorano entrambi cinque ore al giorno per la comunità in differenti lavori di cui sono entrambi soddisfatti, si può dire che, nel complesso, il loro lavoro è più o meno equivalente. Ma non si può frazionare il loro lavoro e dire che il prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del primo vale il prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del secondo.

Si può dire, in termini generali, che l’uomo che durante la sua vita si è privato della libertà per dieci ore al giorno ha dato alla società molto più di quello che se ne è privato per cinque ore al giorno o che non se ne è privato affatto. Ma non si può prendere ciò che ha fatto durante due ore e dire che quel prodotto vale due volte più del prodotto di un’ora di un altro individuo, e remunerarlo in proporzione. Questo vorrebbe dire misconoscere tutta la complessità dell’industria, dell’agricoltura, dell’intera esistenza della società attuale; vorrebbe dire ignorare fino a che punto il lavoro del singolo è il risultato dei lavori precedenti e attuali della società nel suo insieme. Vorrebbe dire credersi nell’età della pietra quando invece viviamo nell’età dell’acciaio.

Se si entra in una miniera di carbone, si vede un uomo addetto a una grande macchina che sovrintende alla salita e alla discesa della gabbia. Questi tiene in mano la leva che aziona nei due sensi la macchina; quando l’abbassa, la gabbia torna indietro in un batter d’occhio, ed egli la manda su e giù ad una velocità vertiginosa. Con la massima attenzione segue sul muro un indicatore che gli mostra, in scala, a quale altezza del pozzo si trova la gabbia in ogni istante del suo percorso; e quando l’indicatore ha raggiunto il livello voluto, ferma la corsa della gabbia né un metro più in alto né uno più in basso del punto desiderato. Non appena i vagoncini pieni di carbone sono stati scaricati e quelli vuoti agganciati, inverte la leva e rimanda la gabbia di nuovo nel pozzo.

Per otto o dieci ore consecutive l’addetto deve mantenere gli stessi alti livelli di attenzione. Se la sua mente dovesse distrarsi anche per un solo momento, la gabbia andrebbe ad urtare contro l’argano fracassando le ruote, strappando la corda, schiacciando gli uomini e bloccando tutto il lavoro della miniera. Se perdesse tre secondi ad ogni colpo di leva, l’estrazione nelle nostre moderne e avanzate miniere verrebbe ridotta tra le venti e le cinquanta tonnellate al giorno.

È dunque lui quello che fornisce il servizio più importante della miniera? O è il ragazzo che aziona dal basso il segnale per far risalire la gabbia? O il minatore, che ad ogni istante rischia la sua vita in fondo al pozzo e che forse un giorno sarà ucciso dal grisou? O l’ingegnere, che se non individua la vena di carbone fa scavare nella roccia per un semplice errore nei calcoli? O ancora il proprietario, che ha messo tutto il suo patrimonio nella miniera e che magari, contrariamente a tutte le prospezioni, ha deciso di scavare proprio in quel luogo per trovare il carbone migliore?

Tutti coloro che sono impegnati nella miniera contribuiscono, secondo le loro forze, energie, conoscenze, capacità e abilità, ad estrarre il carbone. E possiamo affermare che tutti hanno il diritto alla vita, a soddisfare i loro bisogni e anche le loro fantasie una volta che il necessario sia assicurato per tutti.

Ma come possiamo valutare la loro opera? E poi, il carbone che avranno estratto è interamente opera loro? Non è anche opera di quegli uomini che hanno costruito la ferrovia che conduce alla miniera e le strade che si dipartono da tutte le stazioni? Non è anche opera di coloro che hanno arato e seminato i campi, estratto il ferro, abbattuto gli alberi della foresta, costruito le macchine che bruciano il carbone, e così via?

Non è possibile distinguere tra i lavori di tutti questi uomini. Misurarli in base ai risultati porta all’assurdo. Frazionarli e misurarli in base alle ore impiegate porta all’assurdo. Non resta che una cosa: mettere i bisogni al di sopra del lavoro e riconoscere prima di ogni altra cosa il diritto alla vita e poi il diritto al benessere per 209tutti coloro che prendono parte alla produzione. […]

Ogni società che intende abolire la proprietà privata sarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in modo comunista anarchico. L’anarchia conduce al comunismo e il comunismo all’anarchia essendo entrambi espressione della tendenza predominante delle società moderne: la ricerca dell’uguaglianza.

C’è stato un tempo in cui una famiglia di contadini poteva considerare il grano che faceva crescere e gli abiti di lana che tesseva nella capanna come prodotti del proprio lavoro. Ma anche allora questo modo di vedere non era affatto corretto. C’erano strade e ponti fatti in comune, paludi prosciugate con il lavoro collettivo e pascoli comuni recintati da siepi che tutti mantenevano. Un miglioramento nei telai o nei tipi di tintura dei tessuti giovava a tutti; in quell’epoca una famiglia di contadini non poteva vivere da sola ma dipendeva in mille modi dal villaggio o dalla comunità rurale.

Oggi, poi, nell’attuale sistema industriale dove tutto è interdipendente, dove ogni ramo della produzione si interseca con tutti gli altri, la pretesa di attribuire un’origine individuale ai prodotti è assolutamente insostenibile. Se le industrie tessili o metallurgiche hanno raggiunto una sorprendente perfezione nei Paesi avanzati, lo devono allo sviluppo simultaneo di mille altre industrie, grandi e piccole; lo devono all’estensione della rete ferroviaria, alla navigazione transoceanica, all’abilità di milioni di lavoratori, ad un certo grado di cultura generale di tutta la classe operaia; lo devono, in definitiva, al lavoro umano eseguito da uno capo all’altro del mondo.

Gli italiani colpiti da colera durante gli scavi del canale di Suez o dall’anchilosi nelle gallerie del Gottardo, gli americani falciati dalle granate nella guerra per l’abolizione della schiavitù, hanno tutti contribuito allo sviluppo dell’industria cotoniera in Francia e in Inghilterra, non meno delle giovani ragazze che si sono consumate nelle manifatture di Manchester e Rouen, o dell’inventore che, ascoltando i suggerimenti di qualche lavoratore, ha apportato miglioramenti al telaio.

Come stimare, allora, la quota di ognuno alla produzione di quelle ricchezze che tutti contribuiamo ad accumulare?

Considerando la produzione da questo punto di vista generale e sintetico, a differenza dei collettivisti non riteniamo che una rimunerazione proporzionata alle ore di lavoro da ciascuno effettuate per la produzione delle ricchezze possa costituire l’obiettivo ideale o anche solo un passo avanti nella direzione giusta.

Senza qui entrare nel merito se il valore di scambio delle merci nella società attuale è effettivamente commisurato con la quantità di lavoro necessario per produrle (così come hanno affermato Smith e Ricardo, sulle cui tracce si è mosso Marx), ci basti dire al momento, riservandoci di tornarvi più tardi, che l’ideale collettivista ci sembra irrealizzabile in una società che considera gli strumenti di produzione come un patrimonio comune. Se è basata su questo principio, una tale società si vedrebbe costretta ad abolire subito tutte le forme di salariato.

L’individualismo moderato del sistema collettivista non potrebbe coesistere con un comunismo parziale, cioè con la socializzazione del suolo e degli strumenti di produzione. Una nuova forma di proprietà necessita di una nuova forma di rimunerazione. Una nuova forma di produzione non può convivere con le vecchie forme di consumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchie forme di organizzazione politica.

Il salariato è figlio della proprietà privata del suolo e degli strumenti di produzione, che è stata la condizione necessaria per lo sviluppo del modo di produzione capitalista, e che morirà con essa nonostante i tentativi di travestirlo sotto forma di «buoni di lavoro». Il possesso comune degli strumenti di produzione condurrà necessariamente al godimento comune dei frutti di questo lavoro comune.

Sosteniamo inoltre che il comunismo non solo è desiderabile ma che le società attuali, fondate sull’individualismo, sono comunque costrette a procedere verso il comunismo. […]

È questa, in breve, l’organizzazione che i collettivisti vorrebbero far nascere dalla rivoluzione sociale. Come si vede, i loro princìpi sono: proprietà collettiva degli strumenti di lavoro e rimunerazione di ognuno secondo il tempo impiegato a produrre, tenendo conto della produttività del suo lavoro. Quanto al regime politico, si tratterebbe di un sistema parlamentare modificato dal mandato imperativo per i rappresentanti eletti e dall’istituto del referendum, cioè da una votazione basata sull’opzione sì/no.

Diciamo subito che questo sistema ci sembra assolutamente irrealizzabile.

I collettivisti cominciano con il proclamare un principio rivoluzionario – l’abolizione della proprietà privata – ma lo negano contestualmente in quanto si ripropongono un’organizzazione della produzione e del consumo che ha le sue origini nella proprietà privata.

Proclamano un principio rivoluzionario ma ignorano le conseguenze che questo principio comporta. Dimenticano che il fatto stesso di abolire la proprietà privata degli strumenti di produzione – terra, fabbriche, vie di comunicazione, capitali – deve lanciare la società verso percorsi assolutamente inediti; deve sconvolgere completamente il sistema di produzione, tanto nei mezzi che nei fini; deve modificare tutte le relazioni quotidiane tra gli individui nel momento stesso in cui la terra, le macchine e tutto il resto vengono assunti come possesso comune.

«Niente proprietà privata» proclamano, e subito si affrettano a mantenerla nelle sue manifestazioni quotidiane. «Sarete una Comune per quanto riguarda la produzione: i campi, gli utensili, i macchinari, tutto ciò che è stato creato fino ad oggi – manifatture, ferrovie, porti, miniere ecc. – sarà vostro. E non si farà la minima distinzione sulla partecipazione di ognuno a questa proprietà collettiva. Ma già da domani comincerete a discutere puntigliosamente sulla parte che vi spetta nella creazione dei nuovi macchinari, nell’apertura delle nuove miniere. Comincerete a soppesare al grammo la quota di vostra spettanza in ogni nuova produzione. Conterete i vostri minuti di lavoro controllando attentamente che un minuto del vicino non abbia maggior potere d’acquisto del vostro. E poiché l’ora non dà la misura di niente, poiché in quella fabbrica un lavoratore può sorvegliare sei telai alla volta, mentre nell’altra non ne sorveglia che due, comincerete a misurare la forza muscolare, l’energia cerebrale e l’energia nervosa che avete speso. Calcolerete rigorosamente gli anni di apprendistato per valutare la parte di ognuno nella futura produzione. E tutto questo dopo aver dichiarato che non va tenuta in alcun conto la parte avuta nella produzione passata».

Ebbene, per noi è evidente che una società non può organizzarsi su due princìpi assolutamente opposti, due princìpi che si contraddicono continuamente. E la nazione, o la Comune, che si desse una tale organizzazione sarebbe costretta o a ritornare alla proprietà privata, o a trasformarsi immediatamente in società comunista.

Abbiamo già rilevato come alcuni pensatori collettivisti auspichino che venga stabilita una distinzione tra lavoro qualificato o professionale e lavoro semplice. Essi pretendono che l’ora di lavoro dell’ingegnere, dell’architetto o del medico venga contabilizzata come due o tre ore di lavoro del fabbro, del muratore o dell’infermiere. E la stessa distinzione, affermano, deve essere fatta tra tutti i tipi di lavoro che esigono un apprendistato più o meno lungo e il lavoro dei semplici braccianti.

Ebbene, stabilire questa distinzione equivale a mantenere tutte le disuguaglianze della società attuale. Vuol dire tracciare sin dall’inizio una demarcazione tra i lavoratori e coloro che pretendono di governarli. Significa dividere la società in due classi ben distinte: l’aristocrazia del sapere al di sopra della plebe dalle mani callose, dove quest’ultima sarà costretta a servire la prima e a lavorare con le proprie mani per nutrirla e vestirla, mentre questa, approfittando della sua libertà, imparerà a dominare chi la mantiene.

Non solo, vorrebbe dire riprendere un tratto distintivo della società attuale e rilegittimarlo in nome della rivoluzione sociale, erigendo così a principio un abuso che oggi si condanna nella vecchia traballante società.

Conosciamo bene le risposte che ci daranno: ci parleranno di «socialismo scientifico»; citeranno gli economisti borghesi – e anche Marx – per dimostrare che la scala salariale ha la sua ragion d’essere, poiché la «forza lavoro» dell’ingegnere è costata alla società più della «forza lavoro» dello sterratore. E infatti, gli economisti non hanno forse cercato di convincerci che se l’ingegnere viene pagato venti volte più dello sterratore è perché le spese «necessarie» per preparare un ingegnere sono più consistenti di quelle necessarie per preparare uno sterratore? E Marx non ha forse asserito che la stessa distinzione è altrettanto logica tra i diversi tipi di lavoro manuale? Né poteva arrivare ad altra conclusione avendo ripreso le teorie di Ricardo sul valore e avendo sostenuto che i prodotti vengono scambiati in proporzione alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrli.

Ma noi abbiamo idee chiare a tal proposito. Sappiamo che se l’ingegnere, lo scienziato e il dottore oggi sono pagati dieci o cento volte più del lavoratore, e se il tessitore guadagna tre volte più di un contadino e dieci volte più di una operaia di una fabbrica di fiammiferi, questo non avviene in ragione del loro «costo di produzione», ma in ragione di un monopolio dell’educazione, o di un ruolo produttivo. L’ingegnere, lo scienziato e il dottore sfruttano semplicemente un capitale – il loro diploma – come l’imprenditore borghese sfrutta la fabbrica o come il nobile sfruttava i titoli di nascita.

Quanto all’imprenditore che paga l’ingegnere venti volte più del lavoratore, lo fa in ragione di un calcolo molto semplice: se l’ingegnere può fargli risparmiare 4.000 sterline all’anno sui costi di produzione, questi in cambio lo paga 800 sterline. E se l’imprenditore ha un caporeparto che gli fa risparmiare 400 sterline sul lavoro di un’abile e tartassata manodopera, è ben contento di dargli tra le 80 e le 120 sterline l’anno. Ed è sempre disposto a spartire un 40 sterline in più quando si aspetta di guadagnarne 400 così facendo. È questa l’essenza del sistema capitalista. E lo stesso accade per le differenze tra i diversi mestieri manuali.

Che non ci si venga dunque a parlare di un «costo di produzione» che farebbe aumentare il costo del lavoro specializzato, e a sostenere di conseguenza che uno studente – il quale ha allegramente trascorso la sua gioventù all’università – ha diritto ad un salario dieci volte più elevato dello smunto figlio del minatore che si consuma in miniera fin dall’età di undici anni; o che un tessitore ha diritto ad un salario tre o quattro volte più elevato di quello di un bracciante agricolo. Le spese necessarie per preparare un tessitore non sono quattro volte più alte di quelle necessarie per preparare un contadino: semplicemente, il tessitore beneficia dei vantaggi che il suo ruolo produttivo matura nel commercio internazionale rispetto ai Paesi non ancora industrializzati, e come risultato dei privilegi accordati dallo Stato all’industria a scapito della coltivazione della terra.

Nessuno, poi, ha mai calcolato il costo di produzione di un produttore. E se un aristocratico nullafacente costa alla società ben più di un lavoratore, rimane ancora da sapere se – tutto compreso: mortalità infantile, anemia dilagante e morti premature – un robusto bracciante non costi alla società più di un esperto artigiano. Ci si vorrebbe far credere, ad esempio, che il salario di una sterlina e 3 scellini pagato all’operaia parigina, o i tre scellini pagati alla ragazza alvergnate che si acceca sui merletti, o il compenso di una sterlina e 8 scellini dato al contadino rappresentano i loro «costi di produzione». Sappiamo perfettamente bene che spesso si lavora per meno di questo, ma sappiamo anche che lo si fa esclusivamente perché, grazie alla nostra superba organizzazione, si rischia di morire di fame senza questi salari irrisori.

A nostro avviso la scala salariale è il complesso risultato delle imposte, dei sistemi di sovvenzione, del monopolio capitalista: in breve, dello Stato e del Capitale. È per questo che sosteniamo che tutte le teorie sulla scala salariale sono state inventate a posteriori per giustificare le ingiustizie già esistenti, ragion per cui non bisogna dar loro troppa importanza.

Non si asterranno nemmeno dal dirci che la scala salariale collettivista sarebbe nondimeno un progresso: «Vedere alcuni artigiani prendere una somma due o tre volte superiore a quella percepita dai lavoratori non specializzati», ci diranno, «è comunque meglio che vedere dei ministri intascare in un sol giorno quello che il lavoratore non riesce a guadagnare in un anno. Sarebbe pur sempre un grosso passo verso l’equità».

Viceversa, per noi questo sarebbe un regresso. Reintrodurre in una nuova società la distinzione tra lavoro semplice e lavoro specializzato altro non sarebbe che erigere a principio un fatto brutale, legittimato dalla rivoluzione, che oggi già subiamo e che troviamo ingiusto. Sarebbe come imitare quei signori dell’Assemblea costituente francese che il 4 agosto 1789 proclamavano l’abolizione dei diritti feudali, ma che l’8 agosto li reinstauravano imponendo imposte ai contadini per risarcire gli aristocratici, mettendo oltretutto queste imposte sotto la salvaguardia della rivoluzione. Sarebbe come imitare il governo russo che, al tempo della emancipazione dei servi della gleba, proclamava che certe terre sarebbero state d’ora in avanti appannaggio dell’aristocrazia, mentre prima queste stesse terre venivano considerate appannaggio dei servi della gleba.

O ancora, per citare un esempio più conosciuto, sarebbe come imitare la Comune del 1871 quando decideva di pagare i membri del Consiglio l’equivalente di 12 sterline e 6 scellini al giorno, mentre i Federati che si battevano in prima linea percepivano solo una sterlina e 3 scellini al giorno: una decisione peraltro acclamata come un atto di avanzata democrazia egualitaria. In realtà, la Comune non faceva che ratificare la vecchia disuguaglianza tra funzionario e soldato, governante e governato. Se si fosse trattato di una Camera dei deputati opportunista, tale decisione avrebbe anche potuto sembrare degna di ammirazione, ma trattandosi della Comune, non mettendoli in pratica essa veniva meno ai suoi princìpi rivoluzionari.

Nell’attuale sistema sociale, in cui un ministro percepisce 4.000 sterline all’anno, mentre il lavoratore deve accontentarsi di 40 sterline, o meno ancora, in cui il caporeparto è pagato due o tre volte più dell’operaio e in cui tra gli operai stessi ci sono tutti i gradi, dalle 8 sterline al giorno giù fino ai 3 scellini della ragazza di campagna, noi siamo contrari tanto all’elevato stipendio del ministro quanto alla differenza tra le 8 sterline dell’operaio e i 3 scellini della povera donna. E affermiamo: «Abbasso i privilegi dell’educazione, così come quelli della nascita». Siamo anarchici proprio perché questi privilegi ci ripugnano. E se già ci ripugnano in questa società autoritaria, come potremmo sopportarli in una società che nasce proclamando l’uguaglianza?

Proprio per questo certi collettivisti, comprendendo l’impossibilità di mantenere la scala salariale in una società ispirata dal soffio della rivoluzione, si affrettano a proclamare che i salari saranno uguali. Ma si scontrano con nuove difficoltà e la loro uguaglianza salariale diventa un’utopia irrealizzabile quanto le scale salariali degli altri collettivisti.

Una società che avrà preso possesso di tutta la ricchezza sociale e che avrà proclamato con forza il diritto di tutti a questa ricchezza – qualunque sia stato il loro contributo – sarà costretta ad abbandonare ogni sistema salariale, tanto in moneta che in buoni. […]

Proprio come guardiamo alla società e alla sua organizzazione politica da una prospettiva diversa da quella di tutte le scuole autoritarie – in quanto partiamo dal libero individuo per arrivare ad una libera società invece di partire dallo Stato per arrivare all’individuo – così ricorriamo allo stesso metodo per i problemi economici. Ovvero, affrontiamo i bisogni dell’individuo ed i mezzi ai quali ricorrere per soddisfarli prima di discutere di produzione, tasso di scambio, imposte, governo, ecc. A prima vista la differenza può sembrare minima, ma di fatto sconvolge tutti i canoni dell’economia politica ufficiale.

Se si consulta l’opera di qualunque economista, si può facilmente verificare come questa inizi con la PRODUZIONE, cioè l’analisi dei mezzi attualmente impiegati per creare la ricchezza: la divisione del lavoro, la struttura industriale, i suoi macchinari, l’accumulazione del capitale. Da Adam Smith a Karl Marx si sono tutti attenuti a questo percorso. Solo nelle parti successive del lavoro si affronta il CONSUMO, cioè i mezzi utilizzati nell’attuale sistema per soddisfare i bisogni dell’individuo; e anche così, ci si limita a spiegare come le ricchezze vengano ripartite tra coloro che se ne disputano il possesso.

Si dirà forse che tutto questo è logico, che prima di soddisfare i bisogni occorre cercare ciò che può soddisfarli. Ma prima di produrre alcunché, non bisogna sentirne il bisogno? Non è stata la necessità che all’inizio ha spinto l’uomo a cacciare, ad allevare il bestiame, a coltivare la terra, a fare utensili e, più tardi, a inventare le macchine? Non è l’analisi dei bisogni che dovrebbe indirizzare la produzione? Sarebbe quantomeno logico cominciare proprio dai bisogni e vedere poi come organizzare la produzione in modo da sopperire a tali bisogni.

Ed è appunto quello che intendiamo fare.

Ma dal momento in cui la si guarda da questa prospettiva, l’economia politica cambia totalmente. Cessa di essere una semplice descrizione dei fatti e diventa una scienza, che potremmo definire come lo studio dei bisogni dell’umanità e dei mezzi per soddisfarli con il minimo spreco possibile di forze umane. Ma la sua esatta denominazione sarebbe fisiologia della società e dovrebbe costituire una scienza parallela alla fisiologia delle piante o degli animali, che è anch’essa lo studio dei bisogni del mondo vegetale e animale e dei mezzi più vantaggiosi per soddisfarli. Nell’ambito delle scienze sociologiche, l’economia delle società umane deve occupare il posto che nelle scienze biologiche è occupato dalla fisiologia degli esseri organici.

Noi diciamo: ecco gli esseri umani riuniti in società. Tutti sentono il bisogno di abitare in case salubri. La capanna del selvaggio non li soddisfa più, chiedono un riparo solido e più o meno confortevole. Si tratta dunque di chiedersi se, tenuto conto della produttività del lavoro umano, ognuno potrà effettivamente avere la sua casa o se esiste qualcosa che può impedirlo. Non appena fatta questa domanda, ci rendiamo subito conto che ogni famiglia in Europa potrebbe perfettamente avere una casa confortevole, come se ne costruiscono in Inghilterra e in Belgio o negli insediamenti Pullman, oppure un appartamento equivalente. Un certo numero di giornate lavorative sarebbe sufficiente per ottenere una casetta ben arieggiata, ben disposta e con l’illuminazione a gas.

Invece, i nove decimi degli europei non hanno mai posseduto una casa confortevole perché in quasi tutte le epoche la gente comune ha dovuto lavorare giorno dopo giorno per soddisfare i bisogni dei suoi governanti, senza mai riuscire ad avere quel tanto in più, in tempo e in denaro, necessario per costruire o far costruire la casa sognata. E così non ha casa, e abiterà in catapecchie fino a che le attuali condizioni non verranno modificate.

Come appare evidente, noi procediamo in senso inverso rispetto agli economisti, i quali tendono a perpetuare le pretese leggi della produzione e a dimostrare, statistiche alla mano, che essendo il numero di abitazioni effettivamente costruite ogni anno insufficiente a soddisfare tutte le richieste i nove decimi degli europei devono abitare in catapecchie.

Occupiamoci ora del nutrimento. Dopo aver enumerato i vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro, gli economisti ci spiegano come questa divisione esiga che gli uni si applichino all’agricoltura e gli altri all’industria, che l’agricoltura produca tanto e tanto l’industria, che lo scambio avvenga secondo queste modalità… e continuano analizzando la vendita, i profitti, il prodotto netto o plusvalore, i salari, le tasse, il sistema bancario e così via.

Ma, dopo averli seguiti sin qui, non siamo per questo diventati più saggi; e se domandiamo loro: «Com’è possibile che così tanti milioni di esseri umani non hanno abbastanza pane quando ogni famiglia potrebbe produrre grano a sufficienza per nutrire dieci, venti e persino cento persone all’anno?», ci rispondono sempre con la stessa solfa – divisione del lavoro, salario, plusvalore, capitale, ecc. – e arrivano alla stessa conclusione: che la produzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni. Una conclusione che, anche se fosse vera, non risponde alle domande se l’uomo che lavora può o no produrre il pane che gli necessita e, se non può, cos’è che glielo impedisce.

Ci sono 350 milioni di europei, e ogni anno hanno bisogno di quel tanto di pane, carne, vino, latte, uova e burro, di quel tanto di abitazioni e indumenti: di quel minimo di loro bisogni. Sono in grado di produrlo? E se lo sono, resterà loro abbastanza tempo libero per l’arte, la scienza e il divertimento, in una parola per tutto ciò che non rientra nella categoria dello stretto necessario? Se la risposta è affermativa, cos’è che impedisce loro di realizzarlo? Cosa devono fare per eliminare gli ostacoli? È forse il tempo che gli manca? Che se lo prendano! Ma non perdiamo di vista l’obiettivo della produzione: soddisfare tutti i bisogni. Se i bisogni più impellenti dell’uomo restano insoddisfatti, che bisogna fare per aumentare la produttività del lavoro? O non sarà che magari ci sono altre cause? Non sarà, forse, che la produzione, avendo perso di vista i bisogni dell’uomo, ha preso una direzione assolutamente sbagliata e la sua intera struttura ne è stata viziata? Poiché siamo in grado di dimostrare che le cose stanno esattamente così, vediamo allora come riorganizzare la produzione in modo da soddisfare realmente tutti i bisogni.

Questo ci sembra il solo modo per affrontare correttamente la questione, il solo modo che consenta all’economia politica di diventare una scienza: la scienza della fisiologia sociale.

È evidente che finché questa scienza si occuperà di produzione così com’è espletata attualmente tanto nei Paesi avanzati che nelle comunità indù o tra le tribù primitive, difficilmente potrà esporre i fatti in modo molto diverso da come lo fanno gli odierni economisti, cioè come un trattato semplicemente descrittivo, analogo a quelli della zoologia e della botanica. Ma se questo trattato fosse scritto in modo da gettare luce sull’economia delle energie necessarie a soddisfare i bisogni umani, esso guadagnerebbe tanto in lucidità che in precisione. E proverebbe in modo indiscutibile lo spreco spaventoso di energie umane proprio al sistema attuale, dimostrando altresì che finché esisterà questo sistema i bisogni dell’umanità non saranno mai soddisfatti.

La prospettiva, come appare chiaro, cambia del tutto. Dietro il telaio che tesse tanti metri di tela, dietro la macchina che fora tante lastre d’acciaio e dietro la cassaforte che ingurgita i dividendi, dobbiamo vedere l’uomo, l’artigiano cui si deve la produzione, il più delle volte escluso dal banchetto che ha preparato per altri. Dobbiamo inoltre aver chiaro che le pretese «leggi» del valore e dello scambio non sono altro che una falsa spiegazione degli eventi così come si producono al giorno d’oggi, ma che le cose avverranno in modo del tutto differente quando la produzione verrà organizzata in modo tale da provvedere a tutti i bisogni della società.

Non c’è un solo principio di economia politica che non si modifichi totalmente se ci si pone nella nostra prospettiva.

Prendiamo, ad esempio, la sovrapproduzione, una parola che risuona ogni giorno nelle nostre orecchie. Non c’è infatti un solo economista, accademico o aspirante tale, che non abbia portato argomenti a favore della tesi che le crisi economiche sono dovute alla sovrapproduzione, ovvero che in un dato momento si arriva a produrre più cotone, stoffe e orologi di quanti ne servano. E non abbiamo forse tuonato tutti contro la rapacità dei capitalisti che si intestardiscono a produrre più di quello che si può consumare?

Ebbene, non appena si approfondisce il problema tutti questi ragionamenti appaiono errati. Infatti, è possibile individuare anche una sola merce tra quelle di uso universale di cui si produca più di quanto ne serva? Prendete in esame una per una tutte le merci spedite dai grandi Paesi esportatori e ben presto vi accorgerete che quasi tutte sono prodotte in quantità insufficiente per gli abitanti degli stessi Paesi esportatori. Non è un’eccedenza di cereali quella che il contadino russo invia in Europa: anche i migliori raccolti di grano e segala della Russia europea danno appena ciò che serve per la popolazione. E di norma, il contadino si priva del necessario quando vende il suo grano o la sua segala per poter pagare le tasse e l’affitto.

Non è un’eccedenza di carbone quella che l’Inghilterra invia ai quattro angoli del mondo, dato che non le restano per il consumo domestico interno che 750 kg. all’anno per abitante, tant’è che milioni di inglesi si privano del fuoco in inverno o lo mantengono quel tanto necessario a far bollire qualche verdura. In realtà, tralasciando gli inutili oggetti di lusso, in Inghilterra, ovvero nel maggior Paese esportatore, c’è solo una merce di uso universale – il cotone – che ha una produzione abbastanza alta tanto da eccedere, forse, i bisogni. Ma quando si guardano gli stracci che costituiscono gli indumenti di un buon terzo degli abitanti della Gran Bretagna, non si può fare a meno di chiedersi se il cotone esportato non sarebbe piuttosto utile per coprire i bisogni reali della popolazione.

Generalmente non è un surplus quello che si esporta, anche se in origine è verosimilmente stato così. La storia del calzolaio scalzo è vera per le nazioni come lo era un tempo per il singolo artigiano. Ciò che si esporta sono i beni necessari, e questo avviene perché i lavoratori, una volta pagato l’affitto e l’interesse del capitalista e del banchiere, con il solo salario non possono comprare quello che hanno prodotto.

Non solo dunque il bisogno sempre crescente di benessere resta insoddisfatto, ma spesso manca anche lo stretto necessario. Ragion per cui la sovrapproduzione non esiste, almeno non nel senso che le viene attribuito dai teorici dell’economia politica.

E passiamo ad un altra questione. Tutti gli economisti ci dicono che c’è una legge assolutamente assodata: «L’uomo produce più di quanto consumi». Dopo aver ricavato di che vivere dal prodotto del suo lavoro, gli resta sempre un’eccedenza, tanto che una famiglia di coltivatori produce ciò di cui nutrire più famiglie, e così via.

Per noi, questa frase così frequentemente ripetuta è priva di senso. Se intendesse dire che ogni generazione lascia qualche cosa alle generazioni future, la cosa sarebbe vera. Un agricoltore, ad esempio, pianta un albero che vivrà per trenta-quarant’anni, o forse un secolo, e i cui frutti verranno ancora raccolti dai nipoti di questo agricoltore. O magari dissoda qualche acro di terreno vergine, incrementando così in proporzione l’eredità delle generazioni a venire. Le strade, i ponti, i canali, le case e il mobilio sono altrettante ricchezze lasciate alle generazioni successive.

Ma non è questo che si intende. Quello che ci si dice è che il coltivatore produce più grano di quanto non gli serva per il consumo. Mentre bisognerebbe piuttosto dire che essendogli stata sottratta una buona parte dei suoi prodotti – dallo Stato sotto forma di tasse, dal prete sotto forma di decime e dal proprietario terriero sotto forma di affitto – si è andata creando una classe d’individui che, se un tempo consumava quello che produceva – ad eccezione della parte lasciata per gli imprevisti o le spese per rimboschire o costruire strade – oggi è costretta a vivere miseramente perché tutto il resto le è stato preso dallo Stato, dal prete, dal proprietario terriero e dall’usuraio.

Ci sembra quindi più corretto dire che il coltivatore consuma meno di quanto produce, perché è costretto a vendere la maggior parte del suo lavoro e a soddisfare i suoi bisogni con la scarsa parte restante.

Ci sia inoltre consentito osservare che se si prendono come punto di partenza per la nostra economia politica i bisogni dell’individuo, si arriva necessariamente al comunismo, cioè a un modo di organizzarsi che permette di soddisfare tutti i bisogni nel modo più completo ed economico. Mentre se partiamo dal modo attuale di produzione e miriamo solo al guadagno e al plusvalore, senza chiedersi se la produzione è in grado di soddisfare i bisogni, si arriva al capitalismo, o tutt’al più al collettivismo, ovvero a due forme diverse di salariato.