Mario Rapisardi

 

www.treccani.it

Poeta (Catania 1844 - ivi 1912).

R. cominciò con versi lirici in cui il facile canto è più o meno infrenato dalla disciplina umanistica (raccolti poi, insieme con altri, nelle Ricordanze, 1872); ma ben presto si volse, per le vie dischiuse in Italia dal Prati, agli ampi poemi d'ispirazione filosofica, per i quali ebbe l'occhio a Goethe, a Byron, a Lamartine e più tardi a V. Hugo. Tra le sue opere più significative si ricordano La Palingenesi, Giustizia, Poesie religiose, in cui R. si rivela il poeta di quell'ansia metafisica che fu ignota al suo avversario Carducci ed Epigrammi. Non meno importanti furono, inoltre, le traduzioni dai classici: non sarà inutile ricordare che il R. tradusse, oltre che Catullo e Orazio, Lucrezio; e non meno significativa è la sua traduzione del Prometeo liberato di Shelley).

Vita.

Nella città natale trascorse gran parte della vita, dal 1870 prof. di letteratura italiana nell'univ. di Catania. Un mattimonio infelice con la toscana Giselda Foianesi (da cui R. si separò per gli amori di lei con G. Verga), un'avventura (non ultima causa di quei dissapori coniugali) con la Contessa Lara, un più pacato e duraturo legame con Amelia Poniatowski Sabernich: ecco, nella vita passionale del poeta, quel che ha lasciato traccia più o meno profonda nella sua opera. Più fecondi d'ispirazione poetica furono in lui gli affetti nati dalla meditazione religiosa e filosofica. Notissima, e importante non solo per i numerosi scritti a cui diede occasione, ma per la ripercussione profonda che ebbe sull'animo del poeta, è la sua violenta polemica col Carducci, originata da un'allusione satirica di R. nel poema Lucifero e attizzata anche da scrittori ostili al Carducci, come P. Fanfani, dalla quale la reputazione letteraria di R. uscì compromessa.

Opere

Esordì con versi lirici (poi raccolti in Ricordanze, 1872), ma si volse ben presto ad ampi e macchinosi poemi d'ispirazione filosofica, per i quali ebbe a modello Goethe, Byron, Lamartine e più tardi V. Hugo. La palingenesi (1868) canta l'accordo tra fede e progresso, mentre Lucifero (1877) è il poema dell'anticlericalismo, in cui il diavolo simboleggia il progresso debellatore di ogni superstizione. Dopo Giustizia (1883), raccolta lirica d'ispirazione socialista, R. pubblicò Giobbe (1884), poema storico-filosofico in tre parti, in cui l'eroe biblico assurge a simbolo dell'intera umanità. Il pessimismo e la religiosità naturalistica di R. trovarono espressione più schietta nelle Poesie religiose (1887), mentre gli Epigrammi (1888) ritraggono voci e colori della vita quotidiana con pacata tristezza e amorosa attenzione alle piccole cose. L'ispirazione di queste raccolte si ritrova nella successiva L'asceta ed altri poemetti (1902), che insieme con esse costituisce il miglior risultato di R., mentre Atlantide (1894), ponderoso poema di fede socialista, è una ricaduta nella frigida allegoria e nella polemica superficiale. Traduttore di Catullo, Lucrezio, Orazio e P. B. Shelley, R. curò nel 1911 un'ed. complessiva della propria opera in versi (Poemi, liriche e traduzioni).

*

www.csssstrinakria.org/rapisardi.htm

Mario Rapisardi (Originariamente Rapisarda. Rapisardi si chiamò poi, in sottinteso omaggio a uno dei suoi autori preferiti, Leopardi) nacque a Catania il 25 febbraio 1844 in via Penninello 33 -traversa di via Etnea-. Nel marzo 1883 andò ad abitare nella zona di piazza S. Maria di Gesù, esattamente nel villino Caudullo, in via Cifali, e là rimase fino al luglio del 1885. Gli ultimi decenni della sua vita li trascorse nella casa di via Etnea 575"...aerea la casa spazia/fra gli orti e i campi aprici,/fra l'Etna e il mare, i miei due grandi amici".
Suo padre, un agiato procuratore legale, pur non impegnato politicamente, era di idee liberali e amico di alcuni dei rivoluzionari borbonici fucilati nel 1837. Mario, oltre ad amare la letteratura e la storia, suonava discretamente il violino e coltivava la pittura. Studiò dai gesuiti. Nel 1859 esordiva con l'Ode a Sant'Agata vergine e martire catanese. Lettore appassionato di Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi e di vari autori risorgimentali, scrisse, ancora adolescente, un Inno di guerra, agl'italiani e l'incompiuto poemetto Dione, nella cui prefazione esalta le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta, partecipando così all'atmosfera politica di quei mesi, che pose fine alla monarchia borbonica. Per contentare il padre, frequenta un corso di giurisprudenza, ma non giungerà a laurearsi. Invece lo interessa moltissimo lo studio dei classici greci e latini, che gli suggeriscono le prime traduzioni, le ricerche filologiche e filosofiche di carattere positivistico. Frutti di questo periodo formativo il poemetto Fausta e Crispo e i Canti.

Nel 1865 parte per Firenze, allora capitale del Regno, per il centenario della nascita di Dante Alighieri, cui dedicò l'ode declamata in quell'occasione, e qui, in un clima acceso da fermenti mazziniani e repubblicani, stringe amicizia coi poeti Dall'Ongaro, Prati, Aleardi, Fusinato, Maffei, col dotto Pietro Fanfani, con l'orientalista De Gubernatis e con altri importanti artisti e intellettuali.

Nel 1868 pubblica il suo primo poema, La Palingenesi, dove in 10 canti polimetri che è un canto a Roma, condanna la corruzione del clero e difende l'azione moralizzatrice di Lutero, prospettando col connubio arte-scienza il ritorno del cristianesimo alla purezza originaria. Così esordisce:"Sia principio da te, luce inconsumata/Di verità: coeva a Dio tu splendi/Per la notte dei tempi..." Il successo dell'opera ( Verga fu uno dei primi a congratularsi) echeggia anche all'estero (Victor Hugo è tra i più significativi estimatori: J'ai lu, Monsieur, votre noble poème. Vous avez dans les mains deux flambeaux: le flambeau de la Poésie et le flambeau de la Verité. Tous deux éclaireront l'avenir. L'avenir c'est Rome à l'Italie et Paris à l'Europe..., je vous envoie mon applaudissement fraternel.), mentre il municipio di Catania assegna all'autore una medaglia d'oro e il ministro Correnti lo chiama a insegnare letteratura italiana nell'ateneo catanese.

Gracile, ispirato, romantico, ombroso, geniale e incompreso, ebbe vita intima tormentata. Nel 1872, il 12 febbraio, a Messina sposa una ragazza toscana, Giselda Fojanesi, una bruna di tipo siciliano che suscitò un pandemonio nell'ambiente in cui si svolgeva la vita di Mario. Trascorrono undici anni non felici per la sposina toscana: il Rapisardi si dimostra geloso, irascibile ed infedele. La suocera, Teresa Fossi, chiusa e malignetta, da venir soprannominata, dallo stesso figlio Carricafocu, contribuisce al fallimento del matrimonio. Un nuovo incontro tra la Fojanesi e il Verga a Firenze nell'estate del 1879, rinnova l'antica fiamma; e la tresca continua a Catania fino a metà dicembre del 1883, quando Rapisardi scopre una lettera del Verga (che era tutto il contrario dell'amico: solido, moderno, naturale) a Giselda così conclusa: "Ti bacio sul viso, sugli occhi, sulla bocca così, così, così, a lungo, prenditi qui l'anima mia". Subito dopo, il Rapisardi, (fine del 1883) rompe il matrimonio con la moglie.

E' protagonista di un altro scandalo che lo riabilita e stavolta anziché vittima lo trova protagonista: una infatuazione tempestosa per la poetessa Evelina Cattermole Mancini (contessa Lara). Passata la sbornia, nel 1885 si sposa con una diciottenne assunta come segretaria, Amelia Poniatowski Sobernich, figlia di genitori ignoti: gli sarà compagna fedele per tutta la vita.

Nel 1872 escono le liriche Ricordanze definite parnassiane rivelando una genuina vena intimista. Uno studio critico su Catullo gli vale nel 1875 la nomina a professore straordinario di Letteratura italiana e l'incarico di Letteratura latina all'Università di Catania.

Già da qualche anno il poeta è dedito alla stesura del suo secondo poema, il Lucifero, ispirato dalla crisi di ateismo che colse il poeta e dalle Guerre de Dieux del Parny, ma anche da Milton e dal carducciano Inno a Satana. Il poema, in 15 canti, quasi 10.000 versi, endecasillabi sciolti e altri metri, pur essendo diseguale a livello artistico (a efficaci descrizioni e qualche episodio memorabile oppone una certa macchinosità d'insieme e non rare cadute di tono per non dire di gusto), resta l'espressione più significativa della poesia italiana d'indirizzo positivista. Esordisce così il poema: Dio tacea da gran tempo. Ai consueti / Balli moveano in ciel gli astri, e con dura / infallibile norma albe ed occasi / Il monotono Sol dava a la terra. Lucifero è l'Eroe, che, non ascoltando gli ammonimenti di Promoteo, sale sulla Terra per incarnarsi e dare all'uom salute e morte a Dio.

Per il Lucifero l'arcivescovo di Catania ordinò, pare, un autodafé del libro. Insignito del titolo di Cavaliere della Corona d'Italia (per aver celebrato, nell'XI canto del poema, le guerre d'indipendenza e l'ossario di Solferino) e nominato professore ordinario di Letteratura italiana e latina dal ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, che lo stimava, Rapisardi pubblica nel 1883 i versi sociali (e sarcastici) di Giustizia, che trovarono vasti consensi (suo epicentro sta nel Canto dei mietitori). Quest'opera nel 1924 sarà addirittura proibita dalla politica fascista. Il Carducci, al quale aveva "devotamente" inviato una copia del Lucifero, resosi conto d'essere oggetto di caricatura in alcuni versi dell'XI canto ("...plebeo tribuno...idrofobo cantor, vate da lupi"), apre con Rapisardi quella polemica che avrebbe diviso l'Italia letteraria degli anni '80. Carducci chiese riparazioni, perché si sentì offeso; Rapisardi assicurò l'amico che quei versi non alludevano a lui. Dall'epistolario del Carducci si scoprono fin dagli anni '60 frasi poco tenere nei confronti del Rapisardi, che certo non era di carattere facile. D'altro canto, di tutti i poeti della sua generazione, egli in fondo stimava solo Arturo Graf. Contraddittorio e polemico, il "vate" fu amico e nemico di altri scrittori, s'abbracciò e litigò con loro: Capuana, per esempio, il giornalista Luigi Lodi (che lo sfidò a duello), i redattori del Capitan Fracassa, Giuseppe Chiarini, lo storico Corrado Ricci ecc. Molte delle sue frecciate tuttavia rimasero o inedite o affidate alla discrezione dei suoi interlocutori epistolari. Di pubbliche vi furono solo le allusive caricature schizzate in certi passi dei poemi. Naturalmente la polemica col Carducci è una storia a sé.

Nel 1884 usciva il poema Giobbe, altro lungo poema, canta il duro cammino dell'umanità infelice che è il suo capolavoro di pensiero e di poesia. Egli elesse, per il suo epico racconto, il biblico Giobbe credente nel suo Dio, Geova, alla guisa del monoteismo cristiano, lasciando la mitologia pagana ed esaltante, nella pluralità degli dei e degli eroi, la bellezza della vita mortale, la noncuranza della sorte ultramondana. " Giobbe dirò, che, sebben giusto e pio, / Molti affanni patì, quando il sorriso / Provato avea di avventurosi giorni: / Sotto al flagello di perpetui mali / Or pavido soggiacque, ora la voce / Sollevò ribellante, infin che scorto / Dal sagace pensier per vari climi / E per lontane età, fra un procelloso / Mutar di genti e dileguar di numi, / La Natura conobbe, a cui più volte / Invan pria di morir chiese la pace" (Libro I parte I). I distici dove il personaggio grida a Dio la sua disperazione (Libro III parte I) toccano altezze forse ineguagliate nella poesia italiana del secondo Ottocento.

Nel 1887 dà alle stampe le splendide Poesie religiose, forse il suo vertice lirico, cui seguono i cesellati Poemetti (1892) e gli Epigrammi (1897), nonché delle impegnative traduzioni di opere di Catullo, Shelley e Orazio, anche se la cosa più importante resta la traduzione e lo studio critico del poema La natura di Lucrezio (1879). Nel 1894 pubblica il suo quarto e ultimo poema, L'Atlantide, dove, ispirandosi ai Paralipomeni del Leopardi, disegna nelle vicissitudini del poeta Esperio la società italiana lasciva e inetta, additando nella corruzione il principio dei mali. Nel mentre disprezza la borghesia, canta le figure di Newton, Darwin, Pisacane, Marx, Cafiero e altri grandi della storia universale. Denuncia con lucidità e coraggio la criminale politica del governo Crispi (vedi la repressione dei "fasci siciliani"), nella prefazione a Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause (1894) e nel dialogo Leone (1895), che spiegano le feroci repressioni dei moti contadini e operai, nonché nel pamphlet Africa orrenda (1896) e in alcune poesie, avverse al truculento colonialismo. Con caricature o versi siciliani, metteva alla berlina amici o chi non gli andava a genio.

Negli ultimi anni si chiude in un silenzio ostinato, indifferente agli onori dei concittadini, che superano di gran lunga quelli tributati a Verga, De Roberto, Capuana… Non lo toccano neppure le critiche di molti studiosi (specialmente il Croce), anche se tra le sue carte si sono trovati feroci epigrammi a gran parte dei letterati dell'epoca: Fogazzaro, Croce, Pascoli, Carducci, D'Annunzio…

Il Rapisardi muore a Catania il 4 gennaio del 1912: al suo funerale parteciparono oltre 150.000 persone, con rappresentanze ufficiali che giunsero addirittura da Tunisi. Catania tenne il lutto per tre giorni. Nonostante questo, a causa del veto opposto dalle autorità ecclesiastiche, la sua salma rimase insepolta per quasi dieci anni in un magazzino del cimitero comunale. Il nome di Rapisardi, rimasto in ombra per tutto il periodo del fascismo, riemerse grazie agli studi di Concetto Marchesi, Asor Rosa, La Penna e Saglimbeni.