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di Lucia Ceci
Sia per l'età moderna sia e soprattutto in riferimento
all'epoca contemporanea, l'immagine del missionario ha spesso
oscillato tra gli opposti e speculari stereotipi di avamposto della
presenza coloniale europea o di difensore delle popolazioni locali
dinanzi alle forme più efferate della violenza coloniale.
Fermando la nostra analisi sulla grande espansione coloniale che ha
come protagonista l'Europa tra gli ultimi decenni dell'Ottocento e
la prima metà del Novecento, si può rilevare come la
realtà sia stata più composita, soprattutto in
conseguenza della complessità dei fattori che hanno inciso
nella determinazione delle strategie missionarie: principi
ispiratori dei diversi ordini religiosi, orientamenti della Santa
Sede, rapporti più o meno distesi tra quest'ultima e lo Stato
occupante della regione in cui la missione si trovava,
discrezionalità degli individui – missionari e
autorità coloniali locali – rispetto alle iniziative da
assumere.
Strategie missionarie e progetto coloniale
Se a un primo livello di analisi può apparire scontato che
missionari, governanti e amministratori coloniali condividessero il
medesimo progetto paternalistico di 'redenzione' delle popolazioni
'selvagge' attraverso la diffusione della 'civiltà' europea,
non di rado si registravano divergenze, in alcuni casi vistose,
circa i contenuti della nozione di 'civiltà'. Nella visione
proposta dalle istituzioni cattoliche e protestanti promotrici delle
numerose iniziative missionarie fiorite tra Otto e Novecento,
l'unica vera civiltà era quella cristiana che avrebbe
informato di sé lo sviluppo della cultura occidentale
europea, sanzionandone la superiorità rispetto ai 'pagani' e
agli 'infedeli'. In un'altra prospettiva, discretamente diffusa
negli ambienti politici metropolitani e coloniali, compreso quello
italiano almeno fino alla sigla dei Patti Lateranensi (1929), la
vera civiltà era invece quella moderna, fondata sui principi
del liberalismo e del razionalismo, affermatisi in Europa in aperto
contrasto con l'ideologia di cristianità. Un ulteriore
elemento che, almeno sul piano dei principi, impediva una completa
sovrapposizione tra logiche missionarie e logiche coloniali derivava
dalla dissonanza tra la prospettiva universalistica propria della
evangelizzazione e gli stringenti interessi nazionalistici delle
potenze coloniali europee.
Questi motivi si ritrovano nel caso italiano, che presentava nel
panorama europeo una peculiare specificità derivante dal
permanere della Questione Romana. Quando, dinanzi ai primi tentativi
imperialistici dei governi Depretis e Crispi, autorevoli voci del
cattolicesimo italiano assunsero posizioni di condanna, questa venne
fatta discendere non dalla riprovazione del colonialismo in
sé, ma dal carattere, ritenuto anticattolico e corrotto,
dello Stato che se ne faceva promotore, uno Stato cui si negava il
diritto di assoggettare altri popoli in nome di una pretesa lotta
alla 'barbarie' africana, essendo esso giudicato portatore della
più pericolosa 'barbarie' del liberalismo e del laicismo. Nel
1896, in occasione delle iniziative crispine in Etiopia, la rivista
dei gesuiti "La Civiltà cattolica", considerato organo
ufficioso della Santa Sede, negò, per esempio, recisamente
l'esistenza di un diritto "della civiltà contro la barbarie",
che potesse in qualche modo legittimare la presenza italiana in
Africa, aggiungendo però che solo un paese "nazionalmente
cattolico" avrebbe potuto portare in Abissinia la vera
civiltà. Coerentemente con questa prospettiva, qualche anno
dopo, la stessa rivista esaltò i successi della politica
coloniale del "governo clericale" del Belgio in Africa e
condannò viceversa la medesima politica della Francia in
ragione dell'ispirazione "laicista e liberale" del suo governo.
Politica e religione in colonia
Da parte delle autorità civili, nel periodo liberale, le
missioni cattoliche presenti nelle colonie italiane furono, nel
complesso, appena tollerate. Certo nel 1894 il governo Crispi era
riuscito a ottenere che dal vicariato apostolico dell'Abissinia,
retto sino a quel momento dai lazzaristi francesi, fosse staccata la
prefettura apostolica di Eritrea e affidata ai cappuccini italiani.
Tuttavia, la tendenza a rendere omogenea la nazionalità dei
missionari con quella della potenza occupante fu promossa in quegli
anni dalla Santa Sede in tutte le aree coloniali per tutelare la
sicurezza dei missionari e rendere meno problematica la loro
presenza in caso di contrasti tra gli Stati europei. Nelle prime
colonie italiane di Eritrea e Benadir-Somalia – regione quest'ultima
affidata dal punto di vista religioso ai trinitari – le
autorità civili furono principalmente impegnate a contenere
l'azione missionaria, a frenare eventuali tentativi di
evangelizzazione, nel timore che ciò potesse creare disordini
e rivolte soprattutto tra le popolazioni islamiche. Ai missionari si
vietò dunque il proselitismo e si lasciò solo
l'amministrazione del culto per gli Italiani e la promozione di
iniziative caritative come dispensari e lebbrosari.
D'altro canto in Italia alcuni ambienti cattolici, in particolare
quelli che auspicavano una svolta conciliatorista nei rapporti fra
la Chiesa e lo Stato, videro nel colonialismo un'occasione per una
maggiore integrazione dei cattolici nella vita nazionale. In questa
prospettiva, associazioni nate negli anni delle avventure coloniali
di Crispi, come la Società antischiavista d'Italia o
l'Associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici
italiani, contribuirono a creare l'immagine del missionario che
diffondeva in terre lontane, assieme al Vangelo, la lingua e la
cultura italiane. Nelle riviste e nei convegni promossi da queste
associazioni, che contavano anche su un certo sostegno finanziario
da parte del governo italiano, il missionario venne presentato quale
figura emblematica del connubio auspicato tra religione e patria.
Nel periodo giolittiano l'esaurirsi delle battaglie anticlericali,
il progressivo riavvicinamento tra cattolici e classe dirigente
liberale ebbero qualche riflesso in colonia, dove ai missionari fu
lasciato uno spazio meno vincolato. Benché in tutte le
colonie, compresa la neoconquistata Libia il cui vicariato era retto
dai frati minori, permanesse il divieto del proselitismo, la
presenza dei missionari venne accettata solo in quanto poteva
risultare funzionale allo sviluppo della colonia. Ciò
significava che continuava a essere preclusa la propaganda religiosa
tra i musulmani, iniziativa giudicata pericolosa e inutile, ma,
principalmente, che l'azione dei missionari doveva esplicitarsi
nella formazione professionale degli indigeni, finalizzata alla
preparazione di muratori, falegnami, lavoratori agricoli. I
missionari dovevano insomma arrivare dove lo Stato, per
difficoltà finanziarie e amministrative, non era in grado di
giungere.
La politica filoislamica del governo italiano nelle colonie fu, di
fatto, caratteristica anche del regime fascista. Certo i Patti
Lateranensi sanzionavano il riconoscimento del ruolo della Chiesa
cattolica anche nelle colonie italiane, principio in virtù
del quale nel 1929 il ministro delle colonie Emilio De Bono fece
inutili pressioni sulla Santa Sede per incrementare il proselitismo
cattolico tra le popolazioni copte allo scopo di allargare
l'influenza italiana verso il confinante Stato etiopico. Certo la
guerra di Etiopia vide la collaborazione di alcuni missionari
italiani in operazioni strategiche e militari ed è noto come
l'impresa venne propagandata dal regime e dalla Chiesa come una
crociata cattolica. Al fondo tuttavia la religione restò per
il governo fascista uno strumento di consenso. E in colonia la
religione in grado di garantire una qualche forma di consenso da
parte delle popolazioni locali non fu mai, nella sostanza, quella
cattolica.