Periodici e quotidiani citati da Gramsci
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Riviste letterarie fondate nell'800
Nuova Antologia: periodico
trimestrale di lettere, scienze ed arti fondato nel gennaio 1866 a
Firenze da Francesco Protonotari (1836-1888) ed edito da Le Monnier.
Storia
La rivista, che è da considerarsi tra le più
prestigiose e antiche tra le riviste culturali, fu fondata come
Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti da Protonotari a Firenze
e trasferita nel marzo 1878 a Roma dopo aver subito la
trasformazione da rivista trimestrale a quindicinale (a gennaio
dello stesso anno).
Il titolo indica chiaramente le intenzioni del fondatore di rifarsi
all'illustre L'Antologia del Gabinetto Vieusseux (1821-1832). La
rivista, che all'inizio aveva uno stile molto tradizionale, era
caratterizzato dalle monografie sotto forma di saggi e articoli. Per
le prime dodici annate uscì in fascicoli mensili di circa 200
pagine. Aveva come collaboratori nomi illustri come Manzoni,
Petruccelli della Gattina, Tommaseo, Maffei, Mamiani, Boni e altri.
Dopo la trasformazione della periodicità e il trasferimento,
nel gennaio 1880 si decise anche di togliere dalla testata le parole
scienze, lettere e arti, spostate nel sottotitolo «Rivista di
scienze, lettere e arti». Dopo la morte del fondatore (1888),
la direzione venne affidata al fratello, Giuseppe Protonotari. Nel
1900 il sottotitolo divenne «Rivista di lettere scienze ed
arti».
La Nuova Antologia, sotto la direzione di Maggiorino Ferraris
(iniziata nel 1897) ebbe uno dei periodi di maggiore
produttività e diffusione, sia per i nomi prestigiosi dei
collaboratori, tra i quali il caporedattore Giovanni Cena e
intellettuali quali Labriola, Croce, Carducci, Pascoli, sia per la
qualità dei testi prodotti e anche per il tocco di
modernità che la nuova direzione aveva saputo dare. In questo
periodo le pagine della rivista ospitarono i Saggi critici di De
Sanctis, il Mastro Don Gesualdo di Verga, Piccolo Mondo antico di
Fogazzaro, Il fu Mattia Pascal di Pirandello, la Signorina Felicita
di Gozzano, Cuore di De Amicis e altre importanti opere dell'epoca,
nonché inchieste giornalistiche e politico culturali, come
della giovane scrittrice pioniera del femminismo italiano Clelia
Romano Pellicano.
Durante la guerra la rivista interruppe le pubblicazioni, ma quando
nel dopoguerra le riprese non riuscì a recuperare le
caratteristiche che l'avevano distinta nel panorama letterario fra
la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento.
Essa non cercò di stare ai passi con le altre riviste che
avevano recuperato scegliendo la via del dibattito e della polemica
letteraria, ma ne rimase distante preferendo sempre la linea
più tradizionale e non incline alle battaglie ideologiche.
Durante il fascismo divenne la rivista ufficiale dell'Accademia
d'Italia, la direzione fu affidata a Luigi Federzoni e
successivamente a Giovanni Gentile.
La rivista presentava delle rubriche fisse, come le "Rassegne" di
letteratura, economia, arti e scienze e le "Ricerche". Ebbe altri
collaboratori famosi, come Eugenio Garin, Alessandro Bonsanti, Carlo
Bo, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Renzo De Felice, Arturo Carlo
Jemolo, Matilde Serao, Grazia Deledda, Giovanni Papini e Luigi
Ugolini. Tra le anticipazioni si ricordano le pagine delle Sorelle
Materassi di Aldo Palazzeschi e de Il mulino del Po di Riccardo
Bacchelli.
Revue de Deux Mondes:
rivista bimensile francese. La "Revue des Deux Mondes" è
stata fondata da François Buloz il 1 agosto 1829, con
l'obiettivo di fornire alla Francia una tribuna delle idee che
permettesse in confronto con gli altri paesi d'Europa e col
continente americano. È la più antica rivista d'Europa
fra quelle ancora in attività.
Redattore capo dal 1831 e poi proprietario, Buloz diede un indirizzo
umanistico alla rivista, valendosi della collaborazione di letterati
quali Alexandre Dumas, Alfred de Vigny, Honoré de Balzac,
Charles Didier, Charles Augustin Sainte-Beuve, Charles Baudelaire,
Victor Hugo, ecc. Ma ben presto la politica, l'economia e le arti
figurative assunsero una maggiore importanza. Accresciuta in
autorevolezza, nella seconda metà del XIX secolo la rivista
ebbe una linea di liberalismo moderato opponendosi a Napoleone III.
Nel periodo del Secondo impero vi collaborarono fra gli altri Ernest
Renan e Charles Marie René Leconte de Lisle, mentre Charles
Baudelaire nel 1855 vi fece apparire una selezione de I fiori del
male.
Dopo la morte nel di Buloz (1877), il quale aveva sostenuto Thiers,
la rivista fu diretta fra gli altri da Charles Buloz, figlio di
François, e successivamente da Ferdinand Brunetière
(che la spostò su posizioni cattoliche), Francis Charmes,
René Doumic, André Chaumeix, tutti membri
dell'Académie française, e Claude-Joseph Gignoux.
Riforma sociale, La Rivista di
scienze sociali e politiche e di economia, fondata nel 1894 e
diretta da F.S. Nitti e L. Roux (1a e 2a serie, Torino-Roma), ai
quali si affiancò dal 1901 L. Einaudi.
Dapprima quindicinale, dal 1908 divenne bimestrale (3a serie,
Torino) e passò sotto la direzione di Einaudi che, coadiuvato
da G. Prato, A. Geisser e P. Jannaccone, la tenne fino all’aprile
1935 quando la rivista cessò le pubblicazioni.
Riviste letterarie del
primo Novecento
I movimenti letterari, i fatti culturali, l'ideologia stessa del
Novecento, sia sul piano letterario che politico, possono essere
colti e seguiti nel loro complesso sviluppo attraverso l'articolarsi
delle più rappresentative Riviste del Novecento le cui
premesse si possono già trovare nelle riviste di fine
Ottocento.
Dalla loro analisi scaturisce chiaramente, sia il profilo dei
fenomeni sociali, politici, religiosi, scientifici (non solo
artistico-letterari), sia quello dei gruppi intellettuali e
redazionali che li hanno animati e gestiti e dei loro singoli
componenti.
Le riviste rappresentano un modo più concreto, partecipe e
militante di lavorare e discutere sui temi e sui problemi che sono
stati dibattuti dalla cultura del secolo procedendo dal di dentro
dei fenomeni, non solo artistico-letterari, ma politici, sociali,
religiosi e scientifici.
Indice
* Riviste dell'estetismo decadente
* La stampa cattolica
* Periodici del risveglio cattolico e del
Modernismo
* La stampa periodica socialista
* Fogli-manifesto del nazionalismo e del
Futurismo
* L'idealismo de "La Critica" e le riviste
vociane
* Le riviste degli artisti
* Le riviste di Gobetti e di Gramsci
* Riviste dell'era fascista
* Riviste alternative durante il regime
o 9.1 La
rivendicazione dei cattolici
o 9.2 Le
riviste di Strapaese
o 9.3 Il
novecentismo e l'europeismo
o 9.4 L'arte
non asservita allo Stato
Riviste dell'estetismo
decadente
* La Cronaca bizantina: rivista quindicinale a carattere
letterario-sociale-artistico, fondata il 15 giugno 1881 a Roma in
via Due Macelli dall'editore Angelo Sommaruga. Il numero inaugurale
presentava in prima pagina il distico elegiaco carducciano Ragioni
metriche. La rivista uscì fino al 26 marzo 1886.La situazione
storico-culturale della "Cronaca Bizantina" è quella della
Roma trasformista e bizantina. I governi di Sinistra iniziano una
politica protezionista garantita dalle protezioni doganali che si
contrappone alla politica liberista della Destra. Le masse contadine
del Sud sono in situazioni miserevoli, il fenomeno dell'emigrazione
inizia.
Nella politica estera l'isolamento dell'Italia nel sistema europeo e
l'ostilità della Santa Sede portano, nel 1882, alla Triplice
alleanza e gli attacchi e le critiche diventano sempre più
fitte.
Giosuè Carducci definisce Depretis "traditore di principi e
di uomini" e l'Italia vive senza ideali e speranze.
In questo quadro sconfortante la "Cronaca bizantina" dichiara la sua
protesta. Ma questa protesta è, più che ideologia,
scapigliata e la rivista mantiene rapporti ambigui con la
società borghese che vorrebbe distruggere ma che incrementa
attraverso le rubriche mondane e i notiziari scandalistici che
distinguono i suoi eleganti numeri.
La Rivista, composta di quattro fogli in stile liberty, manca di
obiettivi polemici e ideologici ed esprime nei suoi scritti gli
umori scapigliati di Carlo Dossi, il classicismo "barbaro" di
Giosuè Carducci, le esperienze veriste di Luigi Capuana e
Giovanni Verga e l'estetismo decadente del giovane Gabriele
D'Annunzio.
La rivista attraversa tre fasi: nella prima fase, che va dal giugno
1881 all'ottobre 1884, Giosuè Carducci collabora assiduamente
con molti dei suoi versi e a lui si aggiungono i capiscuola del
verismo italiano (Capuana e Verga) e i veristi minori come Matilde
Serao, Nicola Misasi, Gaetano Carlo Chelli, Emanuele Navarro della
Miraglia.
Tuttavia lo scarso consenso che ha la rivista non ripaga il Verga
che non ottiene il successo sperato presso il pubblico.
Collaboratori importanti furono in questo periodo Ferdinando
Petruccelli della Gattina, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Guido
Mazzoni, Enrico Nencioni, Giovanni Pascoli e Cesare Pascarella.
Sempre in questa prima fase contribuisce alla rivista Carlo Dossi
con i suoi virtuosismi stilistici e le tipiche cesellature della
scapigliatura e Gabriele D'Annunzio che, a differenza del Carducci,
viene accolto dal pubblico con entusiasmo per il Canto novo che
l'editore Sommaruga gli stampa nel 1882 insieme a Terra vergine.
Con la partecipazione di D'Annunzio, che mantiene all'interno della
rivista posizioni autonome rispetto agli altri collaboratori,
l'ideologia della rivista si sposta verso uno spiccato estetismo
bizantino e quando, nel 1885, uno scandalo travolge il Sommaruga che
è costretto a fuggire all'estero, termina anche, con l'ultimo
numero della "Cronaca bizantina" che esce il 16 marzo 1885, la
rivista di stampo "sommarughiano".
Usciranno ancora 28 numeri, dal 3 maggio al 7 novembre 1885 (seconda
fase) della rivista che nel frattempo era stata rilevata dal
giornale romano la "Domenica Letteraria" e che uscirà sotto
il titolo "La Domenica Letteraria - La Cronaca bizantina".
La rivista riprenderà il suo nome con l'uscita del 15
novembre 1885 sotto la direzione di Gabriele D'Annunzio. Il 26 marzo
1886 cesserà definitivamente.
Questa rivista può essere definita il primo, anche se non
completamente riuscito, tentativo di esprimere modi nuovi di sentire
e anticipa, senza dubbio, l'importanza delle Riviste letterarie del
Novecento.
* La
Cultura: rivista fondata a Roma nel 1882, diretta da
Ruggero Bonghi. Alla sua direzione gli succedettero: nel 1906 Ettore
De Ruggiero e dal 1907 Cesare De Lollis con Nicola Festa.
Dopo il 1913 sempre con la stessa direzione, si unì Giuseppe
Antonio Borgese e prese il nome di Nuova Cultura, cambiando poi
nuovamente testata in quella de Il Conciliatore sotto la guida del
solo Borgese.
Nel 1921, si ripresentò col suo antico nome sotto la guida
del solo de Lollis e, dopo la sua morte, fu diretta da Ferdinando
Neri.
Per la sua indipendenza critica e l'altezza dei contributi è
stata strumento tra i più validi della cultura italiana,
svolgendo opera di mediazione tra il crocianesimo e la filologia. Fu
soppressa dal fascismo nel 1936.
* Convito:
esce a Roma nel gennaio del 1895 come rivista periodica a carattere
letterario-artistico.
La rivista "Convito", viene fondata da Adolfo De Bosis, colto uomo
d'affari oltre che poeta shelleyano e umanitario, da Gabriele
D'Annunzio del Poema Paradisiaco e dei romanzi Il trionfo della
morte e Le vergini delle Rocce, e da Angelo Conti, critico d'arte
oltre che saggista e pubblica dodici numeri su preziosa carta a
mano, in una lussuosa veste tipografica ad intervalli irregolari dal
1895 al 1907.
In realtà il periodico vive come rivista solamente per i
primi nove numeri, dal gennaio 1895 al dicembre 1896, perché
i fascicoli successivi, contenendo solamente scritti del De Bosis,
devono essere considerati a sé.
Ai primi nove numeri collaborano autori di impronta estetizzante
della nuova e vecchia generazione, come Edoardo Scarfoglio, Enrico
Nencioni, Enrico Panzacchi, Giovanni Pascoli e artisti che, nelle
illustrazioni, optano per figure enigmatiche, visioni
allegorizzanti, serpentine figure di donne-meduse dando così
alla rivista una chiara qualificazione, quella di rivista
programmatica del decadentismo italiano.
Dal Proemio, pubblicato nel gennaio del 1895, veniva presentato il
quadro sociologico di una società corrotta
dall'industrialismo borghese che era penetrato nelle mani della
politica e contro questa Italia affarista e sporca, il gruppo
elitario e nietzschiano degli artisti impegnati nel Convito,
lanciano un proclama che esalta il potere indistruttibile della
Bellezza.
Il Proemio, pur non essendo firmato, risulta essere stato scritto
dal D'Annunzio stesso per il riscontro di temi e stili che gli
appartengono e vuole essere chiaramente il manifesto della nuova
rivista
Proemio - Manifesto del Convito
"Alcuni artisti, scrittori e pittori, accomunati da uno stessa culto
sincero e fervente per tutte le più nobili forme dell'Arte,
si propongono di pubblicare ogni mese in Roma - dal gennaio al
dicembre di questo anno - una loro raccolta di prose, di poesie e di
disegni composta con insolita severtà e stampata con quella
eleganza semplice che aggiunge decoro alle belle immagini e ai
chiari pensieri.
C'è ancora qualcuno che in mezzo a tanta miseria e a tanta
abjezione italiana serba la fede nella virtù occulta della
stirpe, nella forza ascendente delle idealità trasmesseci dai
padri, nel potere indistruttibile della Bellezza, nella sovrana
dignità dello spirito, nella necessità delle gerarchie
intellettuali, a tutti gli altri valori che oggi dal popolo d'Italia
sono tenuti a vile, e specialmente nell'efficacia della parola.
In questa Roma tanto triste noi vorremmo portare in trionfo un
simulacro di Bellezza così grande che la forza superba della
forma - quella 'VIS SUPERBA FORMAE è esaltata da un poeta
umanista - soggiacesse agli animi abbruttiti.
Non è più il tempo del sogno solitario all'ombra del
lauro o del mirto. Gl'intellettuali raccogliendo tutte le loro
energie debbono sostenere militarmente la causa dell'Intelligenza
contro i Barbari, se in loro non è addormentato l'istinto
profondo della vita".
* Il
Marzocco: rivista fiorentina di letteratura e arte, diretta
da Enrico Corradini sorta il 2 febbraio 1896 e terminata il 25
dicembre 1932 che prende il nome dal leone simbolo di Firenze.
Nata un anno dopo il "Convito" il settimanale "Il Marzocco", il cui
titolo viene scelto da Gabriele D'Annunzio e ripete il nome e
l'impresa araldica dell'antico leone rampante in rame (che
costituiva uno degli stemmi della Repubblica fiorentina) del Comune,
inizia le sue pubblicazioni il 2 febbraio 1896 sotto il futuro
direttore de "Il Regno", Enrico Corradini. Il manifesto della
rivista, steso da Saverio Garàno e Gabriele D'Annunzio,
denota chiari ideali di estetismo antipositivista: Negli anni che
vanno dal 1896 al 1899 la polemica del "Marzocco" contro
l'accademismo erudito procede di pari passo con le tendenze di
carattere estetizzante che vogliono ridare vita alla letteratura e
alle arti figurative.
Manifesto del "Marzocco"
"Intendiamo opporci con tutte le nostre forze a quella produzione
d'opere letterarie ed artistiche in generale che hanno le loro
origini fuori della PURA BELLEZZA.
Noi NON TENTEREMO quella critica delle opere d'arte che in esse
tutto ricerca fuori che il segreto della loro vita; NON CI
LAMENTEREMO per quello che l'artista non ha messo nell'opera,
eviteremo ogni giudizio morale o sociologico in quanto l'arte non
può essere messa al servizio delle scienze morali e sociali".
La rivista si presenta subito, alla prima pubblicazione, con i suoi
eleganti quattro fogli, in bel formato e con incisioni in bistro
(che diventeranno sei grandi in nero, con incisioni e fotografie di
opere d'arte).
In questo modo "Il Marzocco" da inizio alla serie fiorentina delle
riviste dell'estetismo che continueranno all'inizio del Novecento
con il "Leonardo" e "Hermes".
Questa prima fase del periodico (1896-1899) si dimostra
antipositivista e simbolista, votata al culto dell'arte per l'arte e
dimostra subito il suo entusiasmo per l'opera di Giovanni Pascoli
che accoglie e difende.
Sul "Marzocco", nei numeri del 17 febbraio, 7 marzo, 11 aprile 1897,
compaiono molte liriche del poeta di Castelvecchio insieme alla
prosa Il fanciullino che enuncia la poetica pascoliana di poesia
come invenzione pura al di fuori della storia e del tempo.
Nel 1900 la direzione della rivista passa ad Adolfo Orvieto con una
inversione di tendenza e il motto sarà: "fare guerra spietata
a tutto ciò che è pura arte e pura bellezza
perché il tempo della letteratura decorativa è
passato".
Negli anni dal 1911 al 1914 si infittiscono sulle pagine della
rivista articoli di irrazionalismo politico e riscossa nazionale.
Dopo l'annuncio dello scoppio della guerra dato da Luciano Zuccoli
nel n. 31 del 2 agosto 1914, "Marzocco" si schiera a favore
dell'interventismo italiano, riducendo così sulle sue pagine
gli spazi per le attività letterarie.
Nel periodo bellico "Il Marzocco" conduce un'aspra battaglia contro
la "barbarie germanica" coinvolgendo così tutta la cultura.
"Il Marzocco" si fa dunque portavoce di una minoranza di destra che
sostiene la necessità del conflitto e che diventa il fautore
dell'impresa di D'Annunzio a Fiume in linea con le posizioni del
fascismo.
Grazie alle leggi speciali sulla stampa del 1926 la rivista fu
risparmiata ma perse il suo valore fino a terminare le pubblicazioni
il 25 dicembre del 1932.
* Leonardo:
rivista letteraria italiana degli inizi del Novecento, edita dalla
Vallecchi, pubblicata dal 4 gennaio 1903 all'agosto 1907, per un
numero complessivo di 25 fascicoli.
Fu fondata a Firenze da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini,
insieme a Giovanni Costetti, Adolfo De Carolis, Alfredo Bona,
Ernesto Macinai e Giuseppe Antonio Borgese, e nelle prime
pubblicazioni – dal 4 gennaio al 10 maggio 1903 – fu influenzata dal
pensiero di Nietzsche, dall'estetismo dannunziano e dal rinascente
idealismo.
Programma del "Leonardo"
"Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di
universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale si
sono raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di
leonardo per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio
pensiero, esaltare la propria arte.
Nella VITA son pagani e individualisti - amanti della bellezza,
dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita
piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di
servitù plebea.
Nel PENSIERO son personalisti e idealisti, cioè superiori ad
ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non
è che un personal modo di vita - negatori di ogni altra
esistenza di fuor dal pensiero.
Nell'ARTE amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono
le forme inferiori, aspirano alla bellezza come suggestiva
figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena."
La rivista, con la sua volontà di rinnovamento, cercò
di aprire le porte della cultura italiana alle correnti più
vive della filosofia dell'epoca, come il pragmatismo, Henri Bergson,
Friedrich Nietzsche e le esigenze religiose appena nate.
Nella serie delle seconde pubblicazioni, dal novembre 1904 al
dicembre 1905, prevalse un orientamento pragmatista e, alla fine,
nelle ultime pubblicazioni, dal febbraio 1906 all'agosto 1907, la
rivista si orientò verso l'occultismo.
La rivista fu pubblicata nel particolare contesto storico di quel
momento che vedeva il crescere dei ceti proletari sotto le bandiere
del socialismo e del sindacalismo.
Nello stesso periodo i cattolici, dopo la lezione dell'enciclica
Rerum Novarum, pongono reazione al processo di scristianizzazione
che sta avvenendo nel popolo attirato dalla ideologia socialista,
con l'associazionismo delle leghe bianche e delle casse rurali e,
nel campo culturale, con il proporre il rinnovamento del modernismo.
Alla vivacità delle forze socialiste e cattoliche si
contrapponeva negativamente la profonda inquietudine della borghesia
agraria al sud e di quella degli imprenditori al nord.
Questione primaria quindi dibattuta dagli intellettuali del Leonardo
sarà quella del possibile "risveglio della borghesia".
Fondamentali sono le indicazioni che emergono dal "Programma
sintetico" che appare sul primo numero della rivista il 4 gennaio
1903. La testata presenta sotto il titolo Leonardo, una esoterica
incisione di Adolfo De Carolis, con una stella che sovrasta
un'aquila in volo. Il titolo, la stella, l'aquila sono contornate da
una cornice di fronde che riporta in basso, a sinistra, il motto
leonardesco: "Non si volge chi a stella è fisso".
* Hermes:
rivista di critica e letteratura di ispirazione colta e dannunziana
a Firenze nel 1904 da Enrico Corradini e dal giovane Giuseppe
Antonio Borgese.
Il 1 gennaio del 1904 nasce a Firenze la rivista Hermes che prende
il nome dal greco conduttore di "molte anime al di là dei
confini del mondo, nel fantastico Ade".
Prefazione - Manifesto di Hermes
"Qualcuno si maraviglierà leggendo che per noi è
aristocratica quell''ARTÈ, nella quale la forma sia
espressiva ed intimamente connaturata al contenuto.
È dunque aristocratica l'arte; e l'epiteto sembrerebbe
ozioso, se non fosse oggi proprio un'esigua minoranza, una vera
aristocrazia quella che riconosce il valore espressivo dell'arte e
non ostenta un ebete disprezzo per la FORMA, disgraziatissima fra
tutte le parole.
Del resto noi rinunceremmo volentieri all'ambiguità della
parola ARISTOCRATICA, se fossero molti anzi che pochi a comprendere
quando un poeta sia riuscito ad esprimere e quando sia fallito; se
in una parola, la folla tornasse all'intelligenza della forma, che
ebbe nella Grecia antica.
Ed anche noi, dunque, con la Grecia. Siamo, diranno, PAGANI e
DANNUNZIANI. E si: noi amiamo ed ammiriamo Gabriele D'Annunzio
più di ogni altro nostro poeta moderno, morto o vivo che sia,
e da lui ci partiamo nella nostra arte.
Siamo DISCEPOLI del D'Annunzio, come il D'Annunzio fu discepolo del
Carducci e il Carducci del Foscolo e del Monti. Ma se dannunziano
significa scimmia del D'Annunzio disprezziamo l'ingiuria, e passiamo
oltre.
Gabriele D'Annunzio è per noi un grande MAESTRO, non un
allevatore di fringuelli ammaestrati".
La Rivista si presenta subito di chiara impronta paganeggiante e
dannunziana, come viene esplicitamente dichiarato nella
Prefazione-Manifesto.
Il primo numero della rivista riporta al posto d'onore la prosa Le
parabole del bellissimo nemico. Il figliuol prodigo di Gabriele
D'Annunzio e si dichiara subito come rivista dalle disposizioni
più che critiche, emotive.
I dodici grossi fascicoli dell'"Hermes", stampati a mano su carta e
adorni di incisioni in legno, riportano le parole prodotte dagli
intellettuali di un piccolo gruppo borghese: Corradini e Giovanni
Papini prima di tutti insieme a Borghese e poi il gruppo dei minori
come Mario Maffei, Nello Tarchiani, Marcello Taddei, Luigi Dami.
Nel Congedo dell'ultimo numero di "Hermes" nel 1904, XII, p. 266,
viene fatto un consuntivo compiaciuto e generico dell'opera svolta
("fummo alacri scandagliatori di verità e di bellezza, di
fantasie e di coscienza"), viene ribadito il culto della forma
espressa, la certezza del "prossimo risorgimento" nazionalistico e
soprattutto confermata l'idolatrica devozione dannunziana.
Stampa cattolica conservatrice
La Civiltà
Cattolica - Rivista della Compagnia di Gesù, tra le
più antiche esistenti nel panorama culturale italiano.
La fondazione
La nascita della rivista può essere convenzionalmente fissata
il 9 gennaio 1850, quando Pio IX ordinò d’autorità ai
gesuiti italiani che si desse inizio alla pubblicazione di una
rivista o di un "giornale popolare" scritto in lingua italiana, che
combattesse gli «errori moderni» e che difendesse la
dottrina cattolica e gli interessi della Santa Sede dagli attacchi
dei liberali e dei razionalisti. I gesuiti diedero immediatamente
esecuzione all’ordine papale e il padre generale Joannes Philippe
Roothaan divenne il più efficace patrono dell’impresa voluta
dal papa, sostenendola contro tutti gli oppositori.
Nel febbraio del 1850 Pio IX fece versare dal cardinale Giacomo
Antonelli 1250 ducati destinati alla rivista, presso la banca
Rothschild di Napoli, dichiarandosi disponibile ad assumersi
l’incarico di ulteriori necessità finanziarie. La campagna
che precedette l’uscita della rivista fu organizzata con grande
cura: nelle maggiori città italiane furono costituiti degli
uffici incaricati di fare pubblicità e di raccogliere
adesioni e abbonamenti: agli organizzatori, convocati a Napoli per
coordinarne le attività, furono distribuiti 120.000 prospetti
programmatici e 4000 cartelloni pubblicitari.
Direttore e responsabile della rivista fu padre Carlo Maria Curci,
autore di opere teologiche contro Vincenzo Gioberti. Il primo
numero, che uscì il 6 aprile 1850, portava impresso sulla
copertina il 15º versetto del salmo 143: Beato il popolo il cui
Signore è Dio e fu stampato in 4200 copie, ma già
nello stesso mese di aprile se ne stamparono 6000: nel giro di pochi
mesi la tiratura giunse a più di 8000 copie, il numero degli
abbonati del primo trimestre salì a 6307.
Un articolo apparso sul primo numero della rivista, a firma dello
stesso padre Curci, informava circa gli obiettivi della nuova
pubblicazione. "La Civiltà Cattolica" si proponeva di
ricorrere al nuovo mezzo inventato dalla società moderna per
guidare la pubblica opinione, non solo nello Stato della Chiesa,
bensì in tutta l'Italia, proprio per combattere la
modernità e giungere così alla ricostruzione della
cristianità medievale.
Padre Curci ottenne l'appoggio pieno di papa Pio IX, che voleva
disporre di uno strumento adatto a difendere il pensiero cattolico,
e del cardinale Giacomo Antonelli.
Tra i primi redattori si annoverano i gesuiti:
* Luigi Taparelli D'Azeglio (1793-1862), filosofo
del diritto.
* Matteo Liberatore (1810-1892), cultore della
filosofia tomista, e precursore dell'insegnamento sociale della
Chiesa, al punto che Leone XIII lo chiamerà a stendere la
Rerum Novarum.
* Antonio Bresciani (1798-1862), letterato.
* Giovanni Battista Pianciani (1784-1862),
studioso di scienze naturali.
Vi collaborarono anche i padri Carlo Piccirillo (1821-1888) e
Giuseppe Oreglia di Santo Stefano (1823-1895), a quel tempo ancora
studenti.
Molti di questi padri formeranno in seguito il primo Collegio degli
Scrittori, costituito "perpetuamente" il 12 febbraio 1866 con il
breve apostolico Gravissimum supremi di papa Pio IX. Fino al 1933
gli autori conservarono l'anonimato, e da quell'anno gli articoli
furono firmati.
La rivista ebbe quindi subito un carattere polemico e combattivo,
che si mantenne per lungo tempo. Era lo stile tipico dell'Ottocento,
stile che peraltro era tipico anche degli avversari della Chiesa.
A causa della censura ordinata dalla polizia del Regno delle Due
Sicilie, la redazione dopo pochi mesi dalla fondazione fu trasferita
a Roma. La rivista si sentì vittima di una persecuzione da
parte di «consiglieri e ministri massoni imbevuti di spirito
anticurialista». A Roma La Civiltà Cattolica
uscì in fascicoli quindicinali di 128 pagine.
Dopo tale passaggio La Civiltà Cattolica assunse sempre
più il carattere dì interprete fedele del pensiero e
delle direttive della Santa Sede.
La direzione effettiva passò a padre Giuseppe Calvetti e
successivamente a padre Giuseppe Paria, che la resse dal 1854 al
1856. La direzione nominale della rivista rimase invece nelle mani
di padre Curci.
La Civiltà Cattolica sospese le pubblicazioni dopo il 20
settembre 1870, in seguito all'ingresso delle truppe italiane in
Roma. La redazione fu trasferita a Firenze, dove la rivista
riapparve il 24 dicembre successivo. La sede ritornò
definitivamente a Roma il 26 dicembre 1887.
Le battaglie dell'Ottocento
Protagonista del dibattito culturale che si svolse in Italia e nella
Chiesa nella seconda metà del secolo XIX, La Civiltà
Cattolica portò un contributo decisivo al Sillabo, al
Concilio Vaticano I (1869-1870) e, soprattutto, all'opera di
restaurazione della filosofia tomista, che avrà il suo
coronamento durante il pontificato di papa Leone XIII (1878-1903).
Nel corso dei lavori preparatori del Concilio Vaticano I, La
Civiltà Cattolica condusse una campagna preventiva contro gli
ambienti cattolici che non vedevano di buon occhio la proclamazione
del dogma dell'infallibilità papale. Un articolo comparso il
6 febbraio 1869 stroncava le perplessità e le inquietudini
dei cattolici liberali affermando che avrebbero ricevuto “con gioia
la proclamazione del futuro Concilio sull’infallibilità
dommatica del sommo pontefice. […] Si spera che la manifestazione
unanime dello Spirito Santo per la bocca dei padri del futuro
Concilio ecumenico, la definirà per acclamazione”.
Rivestì sempre un ruolo di primo piano anche sulla scena
politica italiana, seguendo con attenzione le vicende che portarono
all'unificazione politica d'Italia e alla nascita della Questione
Romana: la rivista si oppose sul piano ideologico, con tutte le sue
forze, all'Italia riunificata, per difendere il potere temporale dei
pontefici[3]. Dopo la breccia di Porta Pia (1870), si pose sempre
come pietra d'inciampo per la classe politica liberale, minoritaria
nel paese. Ugualmente portò avanti la polemica contro il
modernismo.
Reazioni laiciste
Il mondo culturale laicista reagì all'opera de La
Civiltà Cattolica con la fondazione, a Torino, della rivista
Il Cimento, uscita dal 1852 al 1856. Attraverso di essa il filosofo
Bertrando Spaventa (1817-1883), vicino al pensiero di Hegel, e lo
storico della letteratura Francesco De Sanctis si proposero di
confutare gli articoli della rivista cattolica.
La prima metà del Novecento
All'inizio del Novecento la rivista si rivolgeva alla maggioranza
cattolica degli italiani, nel tentativo di costruire una scuola per
una classe dirigente preparata ad affrontare il futuro, soprattutto
dopo il graduale venir meno del non expedit[9].
Pio XI ricordava in una lettera del 31 luglio 1924 che "fin dagli
inizi del periodico gli scrittori si prefissero quale sacro e
immutabile dovere la difesa dei diritti della Sede Apostolica e
della fede cattolica, e la lotta contro il veleno della dottrina che
il liberalismo aveva inoculato nelle vene stesse degli Stati e delle
società".
Anche durante il fascismo la rivista puntò soprattutto alla
formazione della classe dirigente, ovviando all'assenza di figure di
rilievo nel movimento cattolico. Nel 1930, nell'ambito dello scontro
fra Stato e Chiesa verificatosi dopo il Concordato del 1929, venne
scoperto un legame fra il gruppo antifascista d'ispirazione
monarchico-cattolica Alleanza Nazionale per la Libertà e
padre Enrico Rosa, in quel tempo direttore della rivista.
Nel 1936 La Civiltà Cattolica trattò della
liceità delle annessioni coloniali. Il tema fu affrontato da
padre Antonio Messineo (1897-1968) in un frangente delicato: in quel
tempo infatti l'Italia era impegnata nella conquista dell'Etiopia e
stava vivendo il conseguente scontro con la Società delle
Nazioni.
Nel 1937 pubblicò la lettera, con cui i vescovi spagnoli
presero posizione il 1º luglio dello stesso anno 1937 sulla
guerra civile, sostenendo il movimento dittatoriale del generale
Franco.
È del 1938 un articolo a firma di Enrico Rosa, in cui il
gesuita analizza alcune critiche rivolte alla rivista da uno studio
sulla questione ebraica. L'autore respinge le accuse secondo le
quali la rivista assecondò nel 1890 due misure contro gli
ebrei: la confisca dei beni e l'espulsione dall'Italia; il padre
Rosa afferma che nessuna delle due può essere ammessa da uno
spirito cristiano, e che la rivista non le appoggiò, pur
ammettendo che il vigore della polemica propria di quel momento
storico non aiutò a esprimere le posizioni nella forma
più chiara. Al tempo stesso l'articolo di Enrico Rosa prende
le distanze dal nascente antisemitismo fascista. Nello stesso anno,
però, la rivista commentò favorevolmente le Leggi
razziali fasciste, volendo addirittura rilevarvi una notevole
differenza con quelle naziste.
Vita e pensiero: rivista fondata il
1º dicembre 1914 a Milano che si proponeva come mediatrice tra
la fede e il mondo e che viene pubblicata ancora oggi come rivista
dell'Università Cattolica.
Storia
Alla vigilia della prima guerra mondiale, il francescano Agostino
Gemelli, Ludovico Necchi e Francesco Olgiati diedero vita ad un
periodico allo scopo di rimuovere il disagio dei cattolici e farli
discutere con rinnovata energia sui problemi politici, economici,
sociali.
"Vita e pensiero" bandisce un manifesto non meno famoso di quello
futurista pubblicato cinque anni prima da Marinetti, il manifesto
medievalista, redatto da padre Gemelli:
Manifesto medievalista
Ecco il nostro programma! Noi siamo MEDIEVALISTI. Mi spiego. Noi ci
sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta cultura
moderna così povera di contenuto, così scintillante di
false ricchezze tutte esteriori, sia che essa si pavoneggi nelle
prolusioni universitarie o che filantropica scenda nelle
università popolari a spezzare agli umili il pane della
scienza moderna. Essa è un aggregato meccanismo di parti non
intimamente elaborato, messe insieme senza connessione intima,
organica. Essa è un mosaico costruito da un ragazzo anormale,
che non ha il senso dei colori e delle figure. Ancora. Noi abbiamo
paura, paura di questa cultura moderna, non perché essa alza
le sue armi contro la nostra fede, ma perché strozza le
anime, coll'uccidere la spontaneità del pensiero. Ancora. Noi
ci sentiamo infinitamente superiori a quelli che proclamano la
grandezza della cultura moderna. Questa è infeconda e
incapace di creare un solo pensiero ed al posto del pensiero ha
eretto a divinità la erudizione del vocabolario e della
enciclopedia.
Estremamente duro, il manifesto medievalista era motivato dalla
situazione in cui versava allora la cultura cattolica, combattuta
dal positivismo e dall'idealismo, aggredita dal materialismo e dal
libero pensiero.
Con il ritorno al Medioevo, padre Gemelli prospettava un modello di
società armoniosa nella quale la fede potesse ritornare ad
animare la cultura in modo che il pensiero cristiano potesse ancora
influenzare la realtà quotidiana.
Dopo la guerra del '15-'18, dal dibattito e dalle iniziative
promosse dalla rivista scaturisce l'idea dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore, centro di cultura, che sarà poi
realizzata nel 1921.
Sul terreno politico la rivista combatte i cattolici liberali e
polemizza con l'aconfessionalismo e l'interclassismo del Partito
Popolare, finché non sopravviene la marcia su Roma, la caduta
dello Stato costituzionale e l'avvento del fascismo.
Tra il 1921 e il 1927 il gruppo dirigente di "Vita e pensiero", di
orientamento medievalista e neotomista, pur riconoscendo a Mussolini
il merito di aver liquidato il liberalismo, la democrazia socialista
e la massoneria, diffida del movimento politico fascista e della sua
ideologia.
Nel 1929 i Patti Lateranensi stipulati tra l'Italia e la Santa sede
risolvono in parte la questione cattolica, ma l'entusiasmo con cui
"Vita e pensiero" può accogliere la svolta della
Conciliazione, non elimina il problema aperto delle libertà
civili e politiche dalle leggi "fascistissime".
Nel periodo che va dalla Conciliazione alla seconda guerra mondiale,
l'Università Cattolica e le sue tre riviste (si è
infatti aggiunta a "Vita e pensiero", la "Rivista di filosofia
Neoscolastica" e la "Rivista internazionale di scienze sociali")
s'impegnano attivamente a recuperare i ritardi accumulati dai
cattolici nella moderna ricerca scientifica.
Si cerca di dare molta attenzione ai nuovi settori della psicologia
sperimentale, dell'economia, degli studi giuridici per formare "una
élite culturale, sociale e religiosa" in grado di promuovere
"la rinascita cristiana della società".
Periodici del risveglio
cattolico e del Modernismo
* Rassegna
Nazionale: nasce nel 1879 a Firenze con carattere
letterario-politico e, attraverso alterne vicende, prosegue fino al
1952.
I direttori - il marchese Manfredo Da Passano ed il marchese Paris
Maria Salvago - nel primo numero della rivista (luglio 1879), in
aperta polemica con le resistenze astensionistiche del momento, si
professano cattolici ed italiani.
Avvertenza programmatica di "Rassegna Nazionale"
"Ci diciamo NAZIONALISTI in ispecie, perché vogliamo essere
italiani di cuore e quindi trattare ciò che altamente
riguarda gli interessi della Nazione.
Intendiamo pure di essere CONSERVATORI, poiché vogliamo
conservare ciò che alla Nazione nostra e alla
prosperità di lei ed alla sua grandezza si appartiene; ma
conservatori amici del progresso e dei perfezionamenti, da che
sappiamo non potersi dare conservazione vera senza operosità
perfezionatrice, né perfezionamento senza conservazione.
CATTOLICI ed ITALIANI, pur rispettando sempre le convinzioni e le
credenze altrui, noi cooperiamo, per la nostra parte, a conservare
le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche
dell'Italia".
La rivista venne diffusa soprattutto negli ambienti
dell'aristocrazia e della grossa borghesia, nei ministeri, nelle
scuole e nelle biblioteche pubbliche.
Il periodo più fecondo ed interessante della rivista fu tra
il 1898 e il 1908 dal momento che i densi avvenimenti politici che
avvennero in quegli anni, così decisivi per la storia
politica e religiosa italiana, (repressioni del 1898, salita di
Giolitti al potere, sospensione del non expedit, condanna del
modernismo) consentirono ai redattori e ai collaboratori molte
attive esperienze.
La rivista fu sempre pronta alla discussione e al vaglio della
critica storica applicata all'esegesi biblica, si dimostrò
interessata all'evoluzionismo e all'americanismo, attenta allo
sviluppo delle nuove correnti del pensiero contemporaneo.
Essa seguì con attenzione e con una certa simpatia, pur
tenendo le giuste distanze, il dibattito modernista e l'uscita della
rivista "Il Rinnovamento" nel 1907.
* Rivista
internazionale di scienze sociali: fondata da Giuseppe
Toniolo nel 1893 a carattere politico, sociale, culturale.
Negli ultimi anni del XIX secolo i cattolici erano ai margini del
dibattito filosofico e scientifico nazionale. Si erano infatti da
poco spente le eco delle scuole rosminiane e delle scuole giobertane
(1860-1870).
Nel 1889, due anni prima dell'enciclica Rerum Novarum, Giuseppe
Toniolo (1845-1918), docente di economia politica presso
l'Università di Pisa, il maggior teorico della sociologia
cattolica italiana del tempo, aveva dato avvio a Padova, all'Unione
Cattolica per gli studi sociali con l'intento di ridare voce ai
cattolici nel campo della ricerca delle scienze sociali.
Nel 1893 l'Unione Cattolica per gli Studi Sociali fondò a
Padova, sotto la direzione di monsignore Salvatore Talamo, legato
alla filosofia tomistica e dello stesso Toniolo, la nuova
pubblicazione.
Nel presentare la Rivista internazionale di scienze sociali,
Giuseppe Toniolo si rivolse a quegli uomini "profondamente
cattolici, i quali facciano professione di un'intera subordinazione
della scienza alla fede e di docile e incondizionata obbedienza al
magistero o all'autorità della Chiesa".
Tema ricorrente della Rivista internazionale e dei suoi
collaboratori, E. Agliardi, G. De Sanctis. A. Mauri, A. Ratti (il
futuro papa Pio XI), Giovanni Semeria, è la "ricostruzione
organica dell'intera società" secondo un finalismo religioso
convinto del primato del cristianesimo tanto nella vita individuale
quanto in quella sociale. Contro l'ideologia marxista, e in armonia
con i dettami della Rerum Novarum.
* Cultura Sociale
politica letteraria: viene fondata a Roma dal giovane
sacerdote Romolo Murri con il sottotitolo che dal novembre 1899
diventa "Rivista mensile del movimento cattolico popolare".
Essa si propone di avvicinare alla cultura moderna il cattolicesimo
interessandosi al mondo del lavoro in quegli anni scosso da gravi
problemi sociali e da contrasti di classe.
Murri propone il suo Programma politico sul primo numero di "Cultura
Sociale":
Propositi di parte cattolica
"Quale il nostro programma? Quali idee, quali propositi daranno
luogo e sviluppo al nostro movimento, come partito d'azione e di
conquista della vita pubblica? (...) ormai, 'CONTRO LA VORACE
POTENZA DEL CAPITALE ACCUMULATO, CONTRO L'ANARCHIA ECONOMICA E
POLITICA E L'ACCENTRAMENTO STATALÈ, il quale perturba
profondamente tutte le funzioni sociali, le classi inferiori
incominciano o cominceranno presto una contesa lunga (...) in queste
agitazioni guelfe contro ogni cesarismo ghibellino, rinnovantesi per
i secoli, il popolo italiano ha un alleato storico validissimo: il
Papato (...) ora il segreto di questo ricorso singolare di tendenze
guelfe, - vale a dire dirette a sviluppare l'organizzazione delle
classi e le autonomie locali e il ritorno delle supreme norme
cristiane nella vita pubblica e sociale - è appunto una
intima unione fra la vita sociale e la religione, fra gl'istituti
popolari di vita economica e civile e la Chiesa animatrice e
regolatrice potente..."
Il pensiero di Murri e la sua Rivista fu seguita dall'interesse
generale dal 1898 al 1901 collocandosi al centro del movimento
democratico cristiano.
Sorgono ovunque centri democratici cristiani, sia al Nord che al Sud
dove opera molto attivamente don Sturzo e il movimento di Murri
è in grado di gareggiare, per la forza politica che esprime,
con lo stesso Partito Socialista.
Ma con l'avvento al soglio papale di Pio X, che a differenza di
Leone XIII esige un laicato obbediente e sottomesso
all'autorità della diocesi, ha inizio la parabola discendente
della rivista.
Il 16 luglio 1906, nel n. 207, la direzione annuncia di cessare le
pubblicazioni "non volendo entrare in conflitto con
l'autorità ecclesiastica".
* Il
Rinnovamento: fondata a Milano nel gennaio del 1907
da parte di Aiace Antonio Alfieri, Alessandro Casati e Tommaso
Gallarati Scotti.
I fondatori dichiarano, nelle Parole d'introduzione, di essere
liberi studiosi, laici che vivono il sentimento religioso,
rinnovatori di se stessi e degli altri.
Parole d'introduzione
"La parola RINNOVAMENTO indica solo un desiderio di rinnovare noi
stessi e quelli che in un comune ideale ci sono vicini nella ricerca
della verità (...).
Noi NON SIAMO DEI PREDICATORI' di palingenesi sociale, non abbiamo
promesse di felicità da distribuire, e sappiamo parlare solo
un duro linguaggio di fatti e di idee. Ma SIAMO INTERROGATORI
D'ANIMÈ, e vorremmo risvegliare le dormienti, incitandole ad
un lavoro interiore che ignorano, rivolgendo loro continue domande,
obbligandole a deporre come maschere vecchie le forme del
pregiudizio, spezzando gli anelli incantati delle formule nelle
quali hanno trovato una pace che è sonno"
Nella prima fase de Il Rinnovamento vengono ribaditi con impeto i
valori religiosi aventi diritto ad essere pari ai valori delle altre
scienze con la difesa del fatto religioso considerato nel suo
aspetto umano.
Nella seconda fase, databile dal secondo anno della pubblicazione,
(dopo l'enciclica Pascendi, la minaccia di scomunica del 28 dicembre
1907 porta alla defezione di Fogazzaro e di Gallarati Scotti) i due
direttori rimasti iniziano una difficile difesa della rivista dagli
attacchi ironici dei filosofi, Gentile, Croce, e dalla loro raison
raisonnante, che declassa la religione e i valori religiosi a forme
di pseudofilosofia imperfetta e visionaria.
In tutte e due le fasi della rivista viene, comunque, ribadito il
richiamo al primato della coscienza in forma limpida e
intraprendente anche se con diversi limiti culturali e teorici.
Come scrive Lorenzo Bedeschi: «l'indirizzo ideologico della
rivista milanese [fu] tutt'altro che lineare ed omogeneo al di
là di una permanente ispirazione
riformistico-religiosa». Alla «assoluta
estraneità di Gallarati Scotti negli ultimi due anni dopo il
suo iniziale impegno nella ricerca di finanziamenti»,
corrispose invece «l'influenza enorme di p. Gazzola e di p.
Semeria sull'orientamento culturale e religioso della prima
annata», con una «dispotica direzione dell'eclettico e
attivissimo Alfieri nel biennio successivo».
Tra le figure più interessanti che hanno operato in stretta
anche se problematica vicinanza con la rivista, va menzionato
Giovanni Boine, al quale, oltre che alcune recensioni di testi di
Miguel de Unamuno e saggi sul misticismo spagnolo, si devono, al di
là della collaborazione con la rivista, numerose pagine di
critica alla nozione di esperienza religiosa e del sentimento
religioso, sulle quali si giocò molta parte del percorso
culturale della rivista.
* L'Eroica:
fondata e diretta da Ettore Cozzani, la rivista aveva il proposito
editoriale di valorizzare le forze creative nazionali, occupandosi
dichiaratamente di "ogni aspetto dell'arte e della vita".
Pubblicazione aperta alla Secessione viennese e al Razionalismo, fu
subito importante per il suo carattere innovativo, curiosa dei nuovi
giovani talenti contemporanei, sia italiani che europei.
Quando il primo numero esce il 30 luglio 1911 con il sottotitolo
Rassegna d'ogni poesia, la rivista si qualifica subito per le
proprie qualità formali, dalla scelta della carta a mano su
cui è stampata alle copertine a colori e dalle illustrazioni
artistiche estremamente curate.
Oltre al nutrito gruppo di artisti e all'architetto Franco Oliva,
alla rivista collaborano anche lo scultore Magli e il compositore
Pizzetti.
Singolare è stata la scelta dei pregevoli lavori in
xilografia per le sue copertine e le illustrazioni che oggi
costituiscono una fondamentale panoramica di questa tecnica
espressiva in Italia rinata, per così dire, nella prima
metà del XX secolo.
In effetti la rivista divenne l'organo ufficiale degli xilografi
italiani organizzandone, nel 1912, la prima mostra a carattere
nazionale, con relativo catalogo.
Chiusa nel 1921 la rivista riprende le pubblicazioni nel 1924, sotto
il regime fascista, con collaboratori del calibro di Adolfo Wildt.
In un secondo tempo L'Eroica è divenuta anche una casa
editrice con un vasto catalogo di opere di saggistica, biografiche e
di narrativa.
Dopo il primo periodo nella città ligure, Cozzani ne ha
deciso il trasferimento a Milano dove ha continuato
l’attività fino alla chiusura. I bombardamenti del 1943-1944
sul capoluogo lombardo resero più repentina la fine di questa
importante esperienza artistica, e danneggiarono gli archivi della
rivista.
La stampa periodica socialista
* Critica
Sociale: periodico politico italiano di ispirazione
socialista. Venne fondato a Milano il 15 gennaio 1891 da Filippo
Turati e prese il posto del foglio di sociologia radicale, Cuore e
Critica, diretto per quattro anni a Savona da Arcangelo Ghisleri con
la collaborazione per il settore politico e sociale dello stesso
Turati.
Nella fase che va dal 1891 al 1898, "Critica Sociale" è
testimone della presenza politica e dell'autonomia del socialismo e
nelle sue pagine diventa l'interprete del periodo dell'intransigenza
del partito che si sta fondando.
Nasce in questo periodo la polemica contro gli anarchici e gli
operaisti e nello stesso tempo l'opera di autonomia nei confronti
della Sinistra borghese, repubblicana e radicale.
Il 1º gennaio 1893 "Critica Sociale", che ha pienamente
accettato il programma del Partito Socialista approvato al Congresso
di Genova, cambia il sottotitolo della testata Rivista di studi
sociali, politici e letterari in Rivista quindicinale del socialismo
scientifico ed è pronta ad affrontare tutti i gravi problemi
pubblici degli anni Novanta (scandali bancari, repressione dei fasci
siciliani, guerra di Abissinia, moti popolari per il pane) con
articoli di forte denuncia.
Dal 1º maggio 1898 al 1º luglio 1899 la rivista viene
sequestrata e quindi interrotta a causa della condanna del suo
direttore e termina così la prima fase, quella senza dubbio
più animata e ricca di prospettive.
La nuova fase per la "Critica sociale" si apre nel 1901 e
corrisponde al periodo giolittiano. In questa fase la rivista
diventa l'espressione della tendenza riformista all'interno del
partito.
Nell'arco di tempo che va dal 1902 al 1913 la rivista affronta i
problemi della scuola, discutendo il ruolo degli insegnanti, la loro
organizzazione, l'edilizia scolastica, l'igiene e la refezione
scolastica e non manca di contestare il bilancio del ministero della
guerra che afferma bisogna ridurre a vantaggio dei bisogni della
scuola.
Critica Sociale adotta, nel discutere di letteratura, una
metodologia critica positivista e marxista e, convinta
dell'efficacia del libro, dell'istruzione e delle biblioteche, offre
ai lettori, indifferentemente, i versi sociologici di Pietro Gori
accanto alle poesie di Ada Negri e alle pagine di narrativa di Italo
Svevo.
Anche se non sempre attenta a cogliere i fenomeni
ideologici-letterari dell'epoca, "Critica Sociale", cerca di
informare i suoi lettori sulle nuove tendenze, dando giudizi e
valutazioni filtrate attraverso la mentalità socialista.
Le tendenze superomistiche nietzschiane e dannunziane vengono poco o
niente accettate da "Critica Sociale" convinta che gli intellettuali
debbano aprirsi e promuovere nuove forme di cultura moderna ma
intonate alla realtà e alle esigenze della vita sociale.
Quando l'intervento dell'Italia in guerra viene deciso nel maggio
1915 "Critica sociale" non dimette il suo neutralismo né le
proprie ragioni riformiste e allo scoppio della rivoluzione
bolscevica nell'ottobre del 1917, pur non negando la
legittimità del metodo rivoluzionario di Lenin, contesta la
sua applicazione in Italia.
Il conflitto tra le due ali socialiste si accentua e diventa
insanabile. Al Congresso di Livorno nel gennaio del 1921, la
corrente di Bordiga che rappresenta l'ala marxista-leninista esce
dal partito e fonda il Partito Comunista d'Italia.
Da quel momento "Critica Sociale" viene sottoposta a censure e
sequestri e con lealtà, ma priva di strategie, difende con
coraggio l'ordine democratico travolto dai fascisti.
Gli ultimi articoli militanti escono all'indomani dell'assassinio di
Giacomo Matteotti.
Al termine dell'anno 1925 "Critica Sociale" si rifugia sul terreno
culturale-dottrinale, ma viene comunque soppressa con la legge
fascista che vieta la stampa d'opposizione.
L'ultimo fascicolo n.18-19 riporta la data 16 settembre - 15 ottobre
1926.
Un mese dopo i partiti d'opposizione sono sciolti.
* La folla: settimanale politico
italiano, di carattere tra la pubblicistica popolare e la
letteratura di colportage, fu fondata a Milano nel 1901 da Paolo
Valera e fu da questi diretto fino al 1904 e poi dal 1912 al 1915.
Il primo numero della pubblicazione apparve il 5 maggio 1901 e
recando subito i propri intenti documentari.
Propositi documentari
"Il titolo è la nostra ditta. Tutti capiscono che noi siamo
della FOLLA, per la folla, con la folla. La nostra è una
folla virile che si muove, che si agita, che strepita e si coalizza
tutte le volte che la legge del privilegio le nega un diritto.
La nostra non è più uno stomaco con le mani giunte e
gli occhi verso il dio che ha reso divina la miseria. È una
testa con la voce imperiosa e col verbo che è tutta una
sollevazione: 'ESIGÈ.
Con il senso umano che è in noi e con le teorie che escono
dalla vita, noi entriamo nello steccato della LOTTA DI CLASSE ad
occupare il nostro posto di combattenti e ad affermare la
superiorità fisica e intellettuale della folla che anela
all'abolizione dei ricchi e dei poveri.
La bocca del POPOLO sarà il nostro dizionario. La lingua
letteraria degli individui è insipida, scolorita, fredda come
se uscisse dalla tomba. Quella delle masse è viva, gagliarda,
ardente come l'alito di una fornace. Vi si sente il genio collettivo
che l'ha riempita d'immagini e di neologismi che la mantengono
moderna.
LA FOLLA È DOCUMENTARIA. Non crede alle idee dei personaggi.
Essa vuole della vita vissuta, dei documenti umani. Perché
sono essi che racchiudono l'esperienza sociale e il polline
intellettuale che deve emanciparsi dalle ipocrisie nazionali e dalle
virtù borghesi".
"La Folla", sulla quale scrisse per la maggior parte lo stesso
Valera in persona, rappresenta la frangia più radicale del
socialismo lombardo e non ebbe simpatia per il riformismo di Turati.
Sulla copertina del settimanale, di color scarlatto, risaltano gli
articoli che il Valera firmava di volta in volta con frasi
significative (L'avvocato della folla, Il follaiolo, Il fotografo
della folla) e che rappresentano le inchieste sulla vita dei
bassifondi, le case di malaffare per la povera gente e gli opulenti
ritrovi di piacere per i ricchi, i dormitori pubblici, le carceri e
la prostituzione clandestina.
Tutte le piaghe della società italiana post-unitaria sono
poste sotto accusa e tutti i luoghi comuni della politica e della
letteratura sono sbandierati, documentati e dissacrati.
I follaioli si dichiarono veristi e zoliani, disprezzano
Giosuè Carducci per il voltafaccia da repubblicano a
monarchico e denunciano il "patriottardo" D'Annunzio e il
"guerrafondaio" Ugo Ojetti.
* L'Asino:
rivista di satira politica che nacque a Roma il 27 novembre 1892,
l'anno del primo ministero Giolitti e della costituzione del Partito
Socialista Italiano; fu ideata da Guido Podrecca, uno studente
universitario carducciano, positivista e socialista, e da Gabriele
Galantara, ex studente di matematica, disegnatore e pupazzettista
geniale, anch'egli socialista. I due assunsero gli pseudonimi di
"Goliardo" (Podrecca) e di "Ratalanga" (Galantara), e con questi
soprannomi firmarono le uscite del settimanale.
Nella scelta del titolo per il loro settimanale politico-satirico i
due giovani si rifanno al sonetto del Carducci L'asino, o vero
dell'ideale, come si può leggere nell'articolo di
presentazione "Prendendo il trotto".
"Prendendo il trotto"
Giosuè, poeta moderno e grande - non ramingo, affamato,
ospite di caprai, come l'antico Omero; ma (ohimè!)
commendatore lucido e rotondetto nelle corti e tra i ben nutriti
-maravigliato dal mio guardare attonito chiesemi con dolcissimo
suono di rime:
Oltre la siepe, o antico paziente,
de l'odoroso biancospino fiorito,
che guardi tra i sambuchi a l'oriente
con l'accesa pupilla inumidita?"
Io non guardo all'oriente, o poeta, ma guardo al
mondo che è del tutto...disorientato.
Guardo a questa matta popolazione di asini divisa
in due categorie:
Gli asini da soma; e gli asini d'oro,
I primi vanno ai campi; i secondi stanno alla
greppia.
I primi portano la farina; i secondi...la
mangiano!
Guardo al fenomeno curioso, e ne penso la causa:
perché tutto ciò?
Perché i primi hanno il basto; e i
secondi...il bastone.
Oh vivaddio...basta!Io, nato fra gli asini da
soma, non
Penso l'ardente Arabia e i padiglioni di Giob,
ma penso, per Giobbe! che è ora di
finirla, e col primo vagito mando un raglio di ribellione:
compagni di fatica! sprangate a calci a destra, a
sinistra...e al centro!
Buttate il basto! e frantumate il bastone!
Per tutti la fatica! per tutti la farina!
Nella prima fase della rivista, che va dal 1892 al 1901 viene
portato avanti un programma di difesa e rivendicazione degli
sfruttati e delle posizioni socialiste più aperte, (che
costerà a Galantara l'arresto): le vignette del giornale si
scagliano contro Giolitti, contro gli scandali politici di quegli
anni, la corruzione, le brutalità poliziesche. Il giornale
arriva a conquistarsi un grosso numero di lettori, e una tiratura
molto elevata.
A cominciare dal 1901 le cose cambiano.
I cattolici si stanno organizzando per preparare il loro ingresso
nella vita politica del paese. Podrecca e Galantara non sono capaci
di distinguere nel campo avversario tra la propaganda
clerico-conservatrice di destra e una nuova milizia cattolica
(quella di Murri) che inizia a porsi nei confronti dei socialisti
sul piano, non tanto dell'opposizione, quanto della concorrenza
motivata e responsabile.
I redattori dell'Asino intraprendono così la strada della
controffensiva contro il clero e il Vaticano. È la corruzione
della Chiesa, l'atteggiamento aggressivo e superstizioso dei preti a
venire descritto nelle vignette, il cui successo nella popolazione
porta ad un aumento ulteriore della tiratura.
A seguito però delle violente campagne anticlericali, la
rivista viene frequentemente sequestrata per "oltraggio al pudore".
Dopo la Prima Guerra Mondiale, che aveva visto entrambi i fondatori
schierarsi dalla parte degli interventisti, il giornale vede perdere
di mordente le sue vignette. Le pubblicazioni verranno interrotte
dal 1918 al 1921. Nel numero del 25-31 gennaio 1921, quando L'Asino
ritornerà alle stampe sotto la redazione del solo Galantara (
nel frattempo 1918 - 1920, Podrecca è diventato interventista
e fascista), con l'editoriale "Ritorno", viene fatto un consuntivo e
una autocritica all'operato precedente.
L'Asino, a questo punto, aderisce alla corrente massimalista del
Partito Socialista e si schiera con la stampa di opposizione.
Diventa così un "Asino" antifascista, chiaramente contro la
dittatura di Benito Mussolini: sarà costretto a sospendere le
pubblicazioni nella primavera del 1925, dopo una lunga serie di
minacce, persecuzioni e di interventi delle squadracce fasciste in
redazione.
Galantara verrà nuovamente incarcerato, in un clima di
repressione molto più duro rispetto alla fine dell'Ottocento.
Dopo la sua scarcerazione collaborerà in forma anonima ad
altre riviste di satira politica, come il Becco Giallo e
Marc'Aurelio.
Fogli-manifesto del nazionalismo e
del Futurismo
* Il Regno:
settimanale fondato da Enrico Corradini e pubblicato a Firenze dal
novembre 1903 al dicembre 1906.
Esso si vanta di annoverare tra le sue componenti l'ideologia
dell'irrazionalismo nazionalistico, antiparlamentare e antisociale
in un quadro aggressivo definito di "riscossa" borghese.
Ne furono collaboratori, oltre a Giovanni Papini e Giuseppe
Prezzolini, Mario Calderoni, Borghese, Mario Morasso, Vilfredo
Pareto che, con la sua teoria delle élite, fece da supporto
ideologico alla strategia di Corradini.
I temi trattati furono essenzialmente politici e, soprattutto nei
primi anni, con preferenza sulla necessità dell'espansione
coloniale.
Quando nel marzo del 1905 prese la direzione del settimanale
Alderico Campodonico, il problema dell'irredentismo divenne
centrale.
Il proposito di questa rivista, così come per Il Leonardo e
Hermes, aveva un dato comune che era quello di dare la
possibilità ad un gruppo di intellettuali di riunirsi,
educare e soprattutto agitare le acque.
* Poesia: venne fondata a
Milano nel 1905 da Filippo Tommaso Marinettii ed ebbe come
condirettori Sem Benelli e Vitaliano Ponti.
La rivista aveva un formato a rettangolo orizzontale dalla copertina
sontuosa e l'augurio Ma qui la morta poesia risorga. Dominata dalla
personalità prevaricante di Marinetti - che dal n. 8 diventa
direttore unico - rivela presto presagi e sintomi futuristi.
Nell'articolo programmatico pubblicato in francese come editoriale
sul Figaro del 20 febbraio 1909 e in seguito ripubblicato su
"Poesia", n. 1-2, febbraio-marzo 1909 seguito dalla versione
italiana, non si parla del verso libero, ma viene condensata
l'ideologia del futurismo in undici violenti precetti.
Nel Manifesto risaltano i temi vitalistici, "l'amore del pericolo,
l'abitudine all'energia e alla temerità", gli impegni
eversivi, "il disprezzo della donna", "distruggere i musei",
"combattere contro il moralismo" e costruttivi del futurismo ("noi
canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, [...] le maree
multicolori e politiche delle rivoluzioni delle capitali moderne").
Alla rivista aderiscono presto Paolo Buzzi, Auro d'Alba, Federico De
Maria, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Libero Altomare, Aldo
Palazzeschi e "Poesia" diventa l'organo ufficiale del futurismo.
Sul n. 7/8/9, agosto-settembre-ottobre 1909 viene pubblicato un
secondo manifesto marinettiano Uccidiamo il Chiaro di Luna! che
appare come un proclama di guerra allegorico dalla cadenza
provocatoria del canto orgiastico.
Quando l'esperienza di "Poesia" sarà finita Marinetti,
nell'Introduzione all'antologia I nuovi poeti futuristi, Roma,
Edizioni futuriste di "Poesia" 1925, scriverà dell'esperienza
fatta con la rivista:
"Fondai Poesia, rivista internazionale che, prima fra tutti i fogli
d'Italia, portò il nome e le poesie di Paul Claudel, accanto
alle prime poesie di Buzzi, di Cavacchioli, Folgore, Palazzeschi,
Govoni.
Nasceva così il movimento futurista, con un largo e frenetico
amore per l'arte nuova e per molti ingegni lirici italiani soffocati
dallo scetticismo misoneista.
Nasceva il movimento futurista antiscuola, antiaccademia, che doveva
sgomberar
* Lacerba:
rivista letteraria fiorentina fondata il 1º gennaio 1913 da
Giovanni Papini e Ardengo Soffici; si avvalse della collaborazione
di Aldo Palazzeschi e Italo Tavolato ponendosi su posizioni simili a
quelle del Leonardo e aderendo (per breve tempo) al Futurismo.
Il quindicinale, stampato in caratteri rosso mattone ed in seguito
neri, riprendeva il titolo dal poemetto del Trecento di Cecco
d'Ascoli - L'acerba - inserendone nella testata un verso: «Qui
non si canta al modo delle rane».
La rivista dichiarava le sue tesi nella prima pagina dell'Introibo
rivendicando la piena libertà e autonomia dell'arte,
l'esaltazione anarchica del "genio" e del "superuomo" ed un rilancio
della letteratura frammentaria.
Tesi assiomatica de "Lacerba"
"Chi non riconosce agli uomini di ingegno, agli inseguitori, agli
artisti il pieno diritto di contraddirsi da un giorno all'altro non
è degno di guardarti.
Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio.
Le nazioni vadano in sfacelo ma crepino di dolore i popoli se
ciò è necessario perché un uomo creatore viva e
vinca.
Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella
fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desidero di star
più tranquilli e di conservare alla meglio i loro
aggruppamenti. Ma c'è un piano superiore - dell'uomo solo,
intelligente e spregiudicato - in cui tutto è permesso e
tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero!
Di serietà e di buon senso si fa oggi un tal spreco nel
mondo, che noi siamo costretti a farne una rigorosa economia. In una
società di pinzoncheri anche il cinico è necessario.
Noi siamo inclini a stimare il bozzetto più della
composizione, il frammento più della statua, l'aforisma
più del trattato, il genio mancato e disgraziato ai
grand'uomini olimpici e perfetti venerati dai professori.
Queste pagine non hanno affatto lo scopo né di far piacere,
né d'istruire, né di risolvere con ponderanza le
più gravi questioni del mondo.
Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e
personale.
Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono
del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi,
umanitarismi, cristianismi e moralismi"
Papini, allora, scrive articoli provocatori come Freghiamoci della
politica, Soffici scrive del Cubismo e tiene la rubrica fissa
Giornale di bordo, Palazzeschi è presente con numerose
liriche come Una casina di cristallo, Postille, Pizzicheria,
Tavolato scrive articoli scandalistici come Elogio della
prostituzione, Bestemmia contro la democrazia.
La rivista, vista la sua natura e il suo programma, è pronta
ad accogliere il contributo (che presto diventerà invadenza
tematica) dei futuristi che - dal 15 marzo 1913 - iniziano ad
occupare posti di primo piano.
Compaiono così frequentemente i nomi di Filippo Tommaso
Marinetti, Luciano Folgore, Umberto Boccioni, Carlo Carrà e
Corrado Govoni.
Nel n. 18 (15 settembre 1913), un "manifesto-sintesi" del poeta
francese Guillaume Apollinaire riassume "L'antitradizione
futurista", applicando la tecnica delle parole in libertà,
mentre Boccioni, Carrà, Severini e Balla confermano a
Marinetti, con le loro opere, l'idea della simultaneità.
Nel n. 20 del 15 ottobre 1913, Lacerba pubblica il Programma
politico futurista, seguito da una Postilla del neofita futurista
Papini.
Il manifesto politico si rivolge agli elettori futuristi in vista
delle elezioni del 26 ottobre 1913, le prime a suffragio universale
maschile, invitandoli a votare contro le liste
clerico-liberali-moderate di Giovanni Giolitti e del cattolico
Vincenzo Ottorino Gentiloni e contro il programma
democratico-repubblicano-socialista.
Manifesto politico futurista
"Italia sovrana assoluta. - La parola ITALIA deve dominare sulla
parola LIBERTÀ. Tutte le libertà, tranne quella di
essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani.
Una più grande flotta e un più grande esercito; un
popolo orgoglioso di essere italiano, per la guerra sola igiene del
mondo e per la grandezza di un'Italia intensamente agricola,
industriale e commerciale.
Difesa economica ed educazione patriottica del proletariato.
Politica estera cinica, astuta e aggressiva. - Espansionismo
coloniale. - Liberismo. - Irredentismo. - Panitalianismo. - Primato
dell'Italia.
Anticlericalismo e antisocialismo.
Culto del progresso e della velocità, dello sport, della
forza fisica, del coraggio temerario, dell'eroismo e del pericolo,
contro l'ossessione della cultura, l'insegnamento classico, il
museo, la biblioteca e i ruderi. - Soppressione delle accademie e
dei conservatori.
Molte scuole pratiche di commercio, industria e agricoltura. - Molti
istituti di educazione fisica,- ginnastica quotidiana nelle scuole.
- Predominio della ginnastica sul libro.
Un minimo di professori, pochissimi avvocati, moltissimi
agricoltori, ingegneri, chimici, meccanici e produttori di affari.
Esautorazione dei morti, dei vecchi e degli opportunisti, in favore
dei giovani audaci.
Contro la monumentonomia e l'ingerenza del Governo in materia
d'arte.
Modernizzazione violenta delle città passatiste (Roma,
Venezia, Firenze, eccc.)
Abolizione dell'industria del forestiero, umiliante ed aleatoria".
Sempre come rivista d'arte e di pensiero che intende portare il
pubblico a conoscenza delle forme più avanzate dell'arte
moderna, Lacerba pubblica, nel n. 15, 1º agosto 1914, il
Manifesto dell'architettura futurista
Quando scoppia la prima guerra mondiale e l'Italia dichiara la sua
neutralità, Lacerba, dal n. 16, 15 agosto 1914, passa dal
disimpegno politico precedentemente espresso ad un forte entusiasmo
politico interventista e afferma che Lacerba, da quel numero
sarà solamente politica per riprendere l'"attività
teoretica e artistica a cose finite".
Appaiono sui numeri della rivista violenti articoli attivistici
contro il governo vile e verso i "piagnoni" neutralisti e
socialisti.
Nel 1915 Giovanni Papini assume interamente la direzione della
rivista (prima condivisa con Soffici, che continua a collaborare).
Con il ritorno di Aldo Palazzeschi, a cui è affidata una
rubrica fissa (Spazzatura), letteratura ed arte rientrano sulle
pagine di Lacerba, accanto agli articoli politici. In febbraio un
articolo firmato da Palazzeschi, Papini e Soffici (Futurismo e
marinettismo) sancisce il divorzio tra i tre fiorentini (che si
proclamano i soli autentici futuristi) e i futuristi milanesi,
chiamati con dispregio "marinettisti". Con questo episodio si
conclude la prima stagione del futurismo fiorentino.
La rivista cessa le pubblicazioni il 22 maggio 1915, due giorni
prima dell'entrata in guerra dell'Italia: l'ultimo editoriale di
Papini reca il titolo Abbiamo vinto!.
* L'Italia
futurista: rivista pubblicata per la prima volta il 1º
giugno 1916 sotto la direzione di Emilio Settimelli e Bruno Corra.
Il filone futurista fiorentino, che si era sviluppato all'interno
delle pagine lacerbiane, si rafforzò e si proclamò sui
fascicoli de "l'Italia futurista", in polemica con "Lacerba", che a
partire dal 1915 si erano allontanati dal movimento capeggiato da
Filippo Tommaso Marinetti.
No a Lacerba!
"L'ITALIA FUTURISTA non continua assolutamente "Lacerba" di Papini e
Soffici. "Lacerba", poco interessante e poco diffusa prima della
conversione dei suoi fondatori al futurismo, acquistò grande
valore e popolarità quando gli uomini come Marinetti,
Boccioni, Russolo, Balla, Pratella, Buzzi, Cangiullo, ecc., le
regalarono le loro stupende energie. Ma poi, essendosi ritirati
questi vivificatori, Lacerba riprese la sua meschina vita fino alla
morte che fu di tisi. L'iniezione futurista nel suo corpo fradicio
di passatismo dette risultati per un certo tempo, poi il morbo
congenito finì per trionfare".
I giovani italiani futuristi che scrivono su "L'Italia futurista"
divergevano da "Lacerba" sul piano artistico-letterario ma
concordavano con il foglio papiniano sul piano politico.
La politica e la guerra rimasero quindi gli argomenti principali di
ogni numero de "L'Italia futurista" e il contributo maggiore lo
darà proprio Marinetti esprimendo - sotto il titolo "Contro
Vienna e contro Berlino" - il suo bellicismo nazionalista sul n. 4,
25 luglio 1916:
"La GUERRA è una grande e sacra legge della vita. Vita =
aggressione. Pace universale = decrepitezza e agonia delle razze.
Guerra = collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo".
Fu ripubblicato su "L'Italia futurista" nel n. 6, 25 marzo 1917 il
Programma politico futurista che era già apparso su "Lacerba"
del 1913 dove appaiono evidenti i punti di contrasto tra l'ideologia
marinettiana e il fascismo. Sul n. 36 del 31 dicembre 1917 viene
pubblicato in prima pagina l'elenco del gruppo pittorico futurista
fiorentino, rispettivamente composto da Roberto Marcello Baldessari,
Primo Conti, Arnaldo Ginna, Achille Lega, Neri Nannetti, Emilio
Notte, Ottone Rosai, Giulio Spina, Lucio Venna e Vieri.
Dove però risalta maggiormente la diversità del gruppo
degli italiani futuristi di Firenze al confronto con il gruppo
milanese e marinettiano è nei racconti e nelle prose dove
dinamismo, velocità, paroliberismo sono assenti, e sostituiti
da forme letterarie più vicine al prossimo surrealismo.
Di particolare importanza le sequenze di teatro sintetico futurista
che appaiono su "L'Italia futurista" dai primi all'ultimo numero del
27 gennaio 1918.
Anche gli italiani futuristi usano il teatro politico per
sensibilizzare il pubblico, ma ai generi tradizionali come la farsa,
la pochade, la commedia, tutti di carattere pacifista e neutralista,
sostituiscono un teatro "sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo,
alogico, irreale", come mezzo per incitare la nazione contro gli
austriaci.
Nel 1917, dopo Caporetto, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Carli ed
Emilio Settimelli fondano un foglio politico che dirigono dal
fronte, dal titolo "Roma futurista".
Nel frattempo vengono fondati i Fasci italiani di combattimento nel
1919, ai quali inizialmente aderirà il Partito Politico
Futurista per poi abbandonarlo non più di un anno più
tardi, a causa della svolta reazionaria e totalitaria di Benito
Mussolini.
L'idealismo de "La Critica" e le
riviste vociane
* La critica: nata nel 1903, fu una
delle riviste culturali del primo Novecento che, a differenza delle
altre fiorite numerose in questo periodo, ma terminate nel giro di
poche annate, durò fedelmente per quarantadue anni, fino al
1944, e per quarantanove se si aggiungono i "Quaderni della
Critica".
Ecco quanto lo stesso Croce scriverà come consuntivo
del lavoro svolto dalla rivista nel Proemio alla "Critica" nel suo
XLII anno (20 marzo 1944), a chiusura dell'ultima annata:
"Consuntivo del lavoro svolto da La Critica"
La Critica, attinge col 1944 il suo quarantaduesimo anno. Grande
spazio di tempo al quale ripenso non senza meraviglia e con un
tacito atto di ringraziamento verso la buona sorte, che mi ha
concesso di lavorare senza intermissioni per quarantadue anni ad
un'opera alla quale mi accinsi nella piena virilità, a
trentasei anni; ma che altresì con qualche meraviglia
sarà forse riguardata nell'aneddotica delle pubblicazioni
periodiche, perché una rivista, configurata da un solo
sistema di concetti e scritta, se non esclusivamente in massima
parte da un solo uomo, la quale duri tanto tempo, non ha, per quel
che io ricordi, alcun riscontro. Rimangono bensì memorande
alcune riviste programmatiche, di filosofia, di storia, di
letteratura, dovute a una persona sola o ad un piccolo gruppo
stretto da comuni convincimenti e propositi (come in Italia la
Frusta letteraria, il Caffè, il Conciliatore, e in Germania
Kritisches Journal für Philosophie di Hegel e Schelling) ma
esse tutte consumarono con vorace fiammata, in un anno o poco oltre,
la loro vita o, se mai la proseguirono più a lungo, serbarono
il primo titolo ma non già il primitivo carattere".
La prima serie
Croce diffonde il programma de "La Critica rivista di storia
letteratura e filosofia" il 1º novembre 1902 in appendice al
suo libro Conversazioni critiche dichiarando che La Critica che ha
intenzione di pubblicare discuterà "di libri italiani e
stranieri, di filosofia, storia e letteratura, senza la pretesa di
tenere il lettore al corrente di tutte le pubblicazioni sui vari
argomenti, ma scegliendo alcune di quelle che abbiano, per argomento
o pel merito, maggiore interesse, e meglio si apprestino a feconde
discussioni, La rivista sosterrà un determinato ordine
d'idee, perché niente è più dannoso al sano
svolgimento degli studi di quel malinteso sentimento di tolleranza,
che è in fondo indifferenza e scetticismo".
Per quanto riguarda l'indirizzo base del periodico, "il compilatore
crede fermamente che uno dei maggiori progressi compiuti in Italia
negli ultimi decenni sia stato l'essersi disciplinato il metodo
della ricerca e della documentazione; ed è perciò un
leale fautore di quello che si chiama metodo storico o filologico.
Ma egli crede con altrettanta fermezza, che tale metodo non basti a
tutte le esigenze del pensiero, ed occorra perciò promuovere
un generale risveglio dello spirito filosofico; e che, sotto questo
rispetto, la critica, la storiografia, e la stessa filosofia,
potranno trarre profitto da un ponderato ritorno a tradizioni di
pensiero, che furono disgraziatamente interrotte dopo il compimento
della rivoluzione italiana, e nelle quali rifulgeva l'idea della
sintesi spirituale, l'idea dell'humanitas".
La Critica fu per quarantadue anni il punto di osservazione sullo
scenario di mezzo secolo di storia italiana e passò in
rassegna movimenti filosofici e letterari, correnti d'opinione,
vicende politiche e civili: dal positivismo al futurismo,
dall'anteguerra nazionalista al decadentismo letterario, dal
conflitto 1914-1918 all'avvento del fascismo, dall'idealismo
gentiliano fino alla seconda guerra mondiale.
Carducci e Gentile
Nel fascicolo di apertura del 20 gennaio 1903 viene presentato il
saggio sul Carducci, prima puntata delle Note sulla letteratura
italiana nella seconda metà del secolo XIX e
contemporaneamente Giovanni Gentile inizia la pubblicazione dei suoi
studi sulla Filosofia in Italia dopo il 1850, che continueranno fino
al 1914 con vari saggi.
Nel 1914 finirà pertanto la prima serie con il termine dei
due principali cicli: le Note sulla letteratura italiana nella
seconda metà del secolo XIX (con gli articoli su Luigi
Capuana, Alfredo Oriani, Niccolò Tommaseo, Ippolito Nievo,
Alessandro Manzoni, la questione della lingua e numerosi altri) e la
storia monografica della Filosofia in Italia dopo il 1850.
La seconda serie
La seconda serie si apre dando largo spazio ai problemi della
storia, con l'illustrazione della vita e dell'opera di Francesco De
Sanctis.
Quando si accendono le forti polemiche tra neutralisti e
interventisti, "La Critica" si dichiara dalla parte dei neutralisti
e all'entrata dell'Italia in guerra "La Critica" prosegue i lavori
saggistici e storiografici "con mente serena nell'animo turbato".
Così mentre altre riviste sospendono le pubblicazioni o
smettono di trattare di letteratura e di arte, la rivista crociana
continua "come se guerra non ci fosse" affermando che "sopra il
dovere stesso verso la Patria, c'è il dovere verso la
verità, che comprende in sé e giustifica l'altro".
Francesco De Sanctis
Sempre coerente alla verità scientifica da salvaguardare "La
Critica" pubblica Le lezioni di letteratura di Francesco De Sanctis
dal 1839 al 1848: dai quaderni di scuola e nel 1918 i grandi saggi
crociani su Ariosto e Goethe.
Alla fine del conflitto "La Critica" si proclama contro il
decadentismo, il futurismo e il pascolismo e per l'anno 1921
l'obiettivo dichiarato è quello di far sì che gli
studi, le ricerche sul pensiero e la cultura italiana "non si
superficializzino in mera letteratura, ma attingano vigore e
freschezza dagli interessi attuali e dalla vita pratica, e a lor
volta apportino alla vita pratica qualche luce di pensiero".
Progetti di riforma scolastica
Sulla rivista, nel periodo che va dal 1921 al 1925, vengono trattate
le esperienze del suo direttore Croce, senatore liberale e ministro
della Pubblica Istruzione, con questioni specificatamente
scolastiche, come il progetto di riforma della scuola media, l'esame
di stato, l'insegnamento della religione.
Negli anni che precedono il 1925, "La Critica" pubblica alcuni
capitoli crociani di storiografia etico-politica della Storia del
reame di Napoli e viene illustrata, con diversi articoli, la storia
del Meridione, l'età barocca e il Seicento in Italia.
La terza serie
Nel 1925 la rivista, nel numero del 20 maggio, dichiara la
volontà di "partecipare con dilucidazioni dottrinali e
storiche e con noterelle polemiche, al chiarimento dei problemi
della presente vita italiana, attenendosi per questa parte al
programma liberale, che già annunciò nel 1902 e al
quale è rimasta fedele".
Croce denigrato
Contro Croce intanto si stava aggravando la polemica già
avviata nel 1915 dai futuristi quando Marinetti aveva denominato
Benedetto Croce "tedescofilo" e "passatista" ed egli aveva risposto
con la famosa e memorabile pagina I giovani.
Ora, nel secondo volume di una collana sui Problemi del fascismo
egli leggeva queste dure parole: "La nostra rivoluzione, si badi,
era, ed è piuttosto contro Benedetto Croce che contro Buozzi
(un sindacalista) e contro Modigliani (un socialista)".
A questa dichiarazione la rivista crociana ribatte con energia.
Nota crociana
"Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l'origine
ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza
a scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la
bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella
sete del nuovo, in quell'ardore a rompere ogni tradizione, in quella
esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo (...)
Marciare contro di me? E perché? Avverto, ad ogni modo, quei
bravi giovani che si tratterebbe di perseguitarmi non a Roma, ma al
polo della Logica, dove io mi sono alquanto acclimatato, ma essi,
temo, morirebbero di gelo.
Nuova rubrica
Nel frattempo la prima fase dell'ideologia fascista, quella della
rottura con il passato stava passando ad una seconda fase, meno
squadrista e più disponibile culturalmente.
Adeguandosi pertanto a questa fase di trapasso, "La Critica"
inaugura, all'interno della sezione "Varietà", una rubrica
intitolata "Documenti della presente vita italiana", per raccogliere
tutti i documenti e le testimonianze della cultura italiana in
rapporto alla vita politica.
La rubrica non dura più di un anno perché il regime
renderà la vita difficile ai suoi avversari.
Gli anni del regime
Dopo il 1925 mentre si afferma l'ideale attualistica con la vittoria
politico-culturale di Gentile, che si discosta sempre di più
dallo storicismo crociano, "La Critica" ritorna al suo severo e
libero programma di studi e nel fascicolo del 20 gennaio 1926
avverte che offrirà soprattutto "saggi di storia costruiti
con criteri filosofici e insieme narrata con concretezza e ricchezza
di particolari".
Intorno a Croce durante gli anni del regime si forma il vuoto. Nel
1923 era cessata la collaborazione di Gentile e sulle pagine de "La
Critica" rimangono pochi nomi (Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero,
Francesco Flora).
Sulla rivista appaiono monografie particolari che illustrano "la
storia civile, letteraria e culturale d'Italia" e approfondiscono le
condizioni della filosofia negli ultimi anni.
Limiti e importanza della rivista crociana
I limiti della rivista sono gli stessi attribuiti al pensiero e al
metodo crociano che rimane ancorato su giudizi di valore, come
poesia e non poesia, che, soprattutto alla cultura degli anni
Cinquanta e Sessanta, dominata da una mentalità completamente
diversa, suonano soggettivi ed arbitrari.
Rimane altresì indiscussa l'importanza civile ed umana della
rivista con il suo tenace lavoro di ricerca letteraria e storica e
il suo combattivo inserimento nella vita italiana.
* La
Voce: rivista italiana di cultura e politica. Fu fondata
nel 1908 da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Attraverso
diverse fasi continuò le pubblicazioni fino al 1916. È
stata una delle più importanti riviste culturali del
Novecento.
Nella storia de "La Voce" si possono individuare quattro fasi che
corrispondono anche al cambiamento redazionale:
* Una prima fase va dal dicembre 1908, inizio
della pubblicazione sotto la direzione di Giuseppe Prezzolini, fino
al novembre 1911 quando, in occasione della campagna di Libia
Gaetano Salvemini, collaboratore, lascia la rivista per fondare la
sua "Unità".
* Una seconda fase va dal 1912 fino alla fine del
1913 quando la direzione viene assunta da Giovanni Papini.
* Una terza fase che dura solamente un anno,
1914, nella quale Prezzolini riprende la direzione della rivista.
* Una quarta fase che dura dalla fine del 1914 al
1916 quando Prezzolini cede la direzione a Giuseppe De Robertis.
La Fondazione
Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini provenivano dall'esperienza
del Leonardo, rivista letteraria dalla breve vita (1903-1907). Nel
1908 cominciarono a progettare la nuova rivista. Non doveva essere
un periodico di sola letteratura, ma doveva raggiungere tutti gli
intellettuali italiani, di qualsiasi vocazione artistica.
Nel manifesto che appare sul primo numero della rivista, il 27
dicembre 1908, l'editoriale prezzoliniano dichiara:
"Non promettiamo di essere dei geni, di sviscerare il mistero del
mondo e di determinare il preciso e quotidiano menu delle azioni che
occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiamo di essere
ONESTI e SINCERI. Noi sentiamo fortemente l'eticità della
vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e
l'angustia e il rivoltante traffico che si fa delle cose dello
spirito. Sono queste le infinite forme d'arbitrio che intendiamo
DENUNCIARE e COMBATTERE. Tutti le conoscono, molti ne parlano;
nessuno le addita pubblicamente. Sono i giudizi leggeri e avventati
senza possibilità di discussione, la ciarlataneria di artisti
deficienti e di pensatori senza reni, il lucro e il mestiere dei
fabbricanti di letteratura, la vuota formulistica che risolve
automaticamente ogni problema. Di LAVORARE abbiamo voglia.
Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali
che si complicano di ideologie, come il modernismo e il
sindacalismo; di INFORMARE, senza troppa smania di novità, di
quel che meglio si fa all'estero; di PROPORRE riforme e
miglioramenti alle biblioteche pubbliche, di OCCUPARCI della crisi
morale delle università italiane; di SEGNALARE le opere degne
di lettura e di COMMENTARE le viltà della vita
contemporanea".
Esisteva già sulla piazza di Firenze una rivista letteraria,
Il Marzocco. Obiettivo di Prezzolini fu superare il diretto
concorrente. Durante tutta la fase preparatoria, Prezzolini e Papini
si mantennero in contatto epistolare con Benedetto Croce, che svolse
un prezioso lavoro di consulenza. Il nome della rivista fu scelto da
Prezzolini . La testata fu progettata da Ardengo Soffici. In prima
pagina compariva un unico articolo (un "articolo di copertina"
diremmo oggi), su quattro colonne. La tiratura iniziale fu di 2.000
copie.
La prima fase (1908-1911)
La rivista nacque con lo scopo di dare una missione civile
all'intellettuale, il quale non deve vivere come se fosse immerso
solo nella sua arte, cioè separato dal mondo. La Voce
avviò una battaglia di rinnovamento culturale e civile,
criticando anche la classe dirigente per la sua inadeguatezza a
governare un fase storica caratterizzata da veloci cambiamenti.
Tale programma fu realizzato nella prima fase della rivista grazie
alla collaborazione di validi intellettuali, come Benedetto Croce,
Giovanni Amendola (che scriveva articoli sulla questione
dell'analfabetismo), Gaetano Salvemini (che scriveva sulla questione
universitaria), Emilio Cecchi, Romolo Murri, Luigi Einaudi.
La Voce riscosse un immediato successo. In poco tempo la tiratura
passò dalle 2.000 copie iniziali a 2.500 (dopo l'ottavo
numero) fino ad attestarsi su una media di 3.000. Radicata a
Firenze, la rivista ottenne ottimi consensi anche a Torino, Bologna,
Milano e Pisa. In poco tempo La Voce aveva conquistato il suo spazio
tra le riviste culturali italiane.
Intellettuali e momento storico
Sorgono analisi, inchieste, numeri unici sul problema del ruolo
della classe intellettuale nella società italiana, la scuola,
la questione meridionale.
L'impegno dei vociani si muove su due fronti: sul fronte della
cultura, per un profondo rinnovamento sia del letterato che della
sua produzione artistica e per una nuova realtà
politico-sociale. La rivista auspica e promuove anche un cambiamento
della classe dirigente del Paese.
La tesi sostenuta dai vociani è quella che afferma
l'unitarietà dei due fronti, in quanto il nuovo letterato
potrà nascere diverso dal letterato puramente estetizzante,
solo se opererà con un rapporto di osmosi in un diverso
contesto civile e politico.
Si notano in queste premesse la polemica contro Gabriele D'Annunzio
che rappresenta i vizi dell'artista che i vociani vogliono
combattere e la polemica contro Giolitti, che con la politica del
trasformismo stava impoverendo la vita italiana.
La defezione di Salvemini
Questa fu dunque la linea intrapresa dalla rivista nella sua prima
fase, anche se a causa delle diverse idee politiche dei suoi
collaboratori, divennero inevitabili alcune differenze di
valutazione.
Le differenze di vedute all'interno della redazione emersero in
tutta la loro profondità in occasione della Campagna di
Libia. All'inizio del 1911, mentre il dibattito politico si
sviluppava attorno al dilemma se «andare a Tripoli» o
meno, Prezzolini dedicò un fascicolo speciale alla Questione
meridionale (16 marzo), con saggi di Luigi Einaudi e Giustino
Fortunato. Sulla questione di Tripoli, La Voce intervenne con un
altro numero speciale (17 agosto) in cui Prezzolini e Gaetano
Salvemini valutarono l'opportunità economica di una simile
impresa. La loro conclusione fu riassunta nel titolo:
«Perché non si deve andare a Tripoli». Salvemini
condusse un'accesa campagna sulla rivista scrivendo contro
"l'alluvione di menzogne con cui i nazionalisti rendevano popolare
l'idea di conquistare la Libia, terra promessa dove gli Arabi ci
aspettavano a braccia aperte".
Il 5 ottobre, a pochi giorni dall'avvio della spedizione militare,
Giovanni Amendola pubblicava un articolo con il quale chiudeva le
polemiche e appoggiava l'iniziativa del governo. La sua era la
posizione ufficiale de La Voce. Da parte sua, Prezzolini, a guerra
iniziata affermava sulla rivista essere "un dovere di disciplina
nazionale sacrificare le personali vedute dinanzi all'interesse
pubblico".
Pochi giorni dopo Salvemini, contrario ad ogni forma di
nazionalismo, abbandonò "La Voce".
La seconda fase (1912-1913)
In seguito all'allontanamento di Salvemini, La Voce nel 1912 passa
sotto la direzione di Giovanni Papini. Con il nuovo direttore
vengono dunque annunciati nuovi obiettivi e delineati i nuovi
propositi della rivista.
La nuova dichiarazione di intenti vuole fortemente un ritorno alla
pura letteratura, abbandonando quel rapporto tra letteratura e vita
nazionale che aveva improntato le pagine della rivista nella sua
prima fase.
Senza dubbio in questa seconda fase la cultura italiana visse un
importante arricchimento. Attraverso i numerosi articoli apparsi
sulla rivista infatti gli italiani poterono conoscere tante
esperienze letterarie fondamentali di altri paesi, attraverso autori
quali ad esempio Stephane Mallarmé, André Gide, Paul
Claudel e Henrik Ibsen.
Il 31 ottobre la direzione torna a Prezzolini, che non cambia la
linea editoriale, ma anzi allarga il suo interesse a tutte le forme
d'arte. Egli stesso introduce qualche articolo sul cinema, che
all'epoca non compare nelle riviste culturali.
Nei mesi successivi gli articoli di Amendola e Slataper si fanno
sempre più radi. Il gruppo di collaboratori subisce
un'ulteriore disgregazione quando, alla fine dell'anno, Giovanni
Papini e Ardengo Soffici lasciano per fondare una propria rivista,
Lacerba, che presto otterrà un successo di vendite superiore
alla Voce.
La terza fase (1914)
Col n. 1 del 13 gennaio 1914, "La Voce" passa da settimanale a
quindicinale, cambia formato (da foglio a quaderno) e si dà
un nuovo sottotitolo: «Rivista d'idealismo militante».
La rivista riprende la linea editoriale originaria: i temi
principali sono la cultura e la politica. I nuovi collaboratori,
Longhi, De Robertis, Omodeo e Saitta, sono tutti di estrazione
gentiliana, a decretare il passaggio dalla filosofia di Croce a
quella di Gentile. Il clima è cambiato: non è
più tempo di essere equidistanti. La Voce, pur restando un
giornale libero, prende posizione e sceglie l'interventismo.
Alla fine dell'anno avviene la defezione di Prezzolini, che si
trasferisce a Roma .
La quarta fase (1914-1916)
Alla fine del 1914 La Voce passa sotto la direzione di Giuseppe De
Robertis che ne fa un periodico esclusivamente letterario.
De Robertis dimostra fin dalle prime pagine la sua antipatia per le
inquadrature storiche che cercano i rapporti esistenti tra l'artista
e il momento storico.
Egli punta esclusivamente sul fatto artistico, sull'aspetto
artistico del poeta utilizzando un metodo critico che si risolve
quasi esclusivamente sulla parola e sulla concezione di una poesia
pura, libera da intralci oratori o intellettualistici.
De Robertis e la poetica del frammento
De Robertis sostiene che la dimensione poetica è realizzabile
nel frammento venendo così a formulare quella poetica del
frammento che opererà per qualche decennio nella letteratura
italiana e che troverà la sua migliore applicazione nelle
forme dell'ermetismo.
Sulle pagine della rivista appariranno in questi anni i primi versi
di quegli autori che assumeranno in seguito un ruolo fondamentale
nella nostra letteratura: Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi, Dino
Campana, Corrado Govoni, Riccardo Bacchelli, Vincenzo Cardarelli,
Clemente Rebora.
L'ultimo numero della rivista guidata da De Robertis uscirà
il 31 dicembre 1916.
* L'Unità:
nasce dalla crisi de La Voce ai tempi della guerra italo-turca il 16
dicembre 1911 come settimanale di cultura e politica e termina il 30
dicembre 1920.
Quando nel marzo 1911 uscì il numero unico de La Voce su La
questione meridionale, oltre a confermare l'importanza del gruppo
dei collaboratori salveminiani, esso rappresentò
l'anticipazione di un più ampio schieramento che Gaetano
Salvemini (1873-1957) avrebbe presto realizzato.
Ai tempi della guerra libica Salvemini, una delle personalità
più notevoli della cultura italiana del Novecento, autore del
polemico, antigiolittiano volume Il ministro della malavita (1910)
rompe la collaborazione con La Voce, esce dal Partito Socialista e
fonda a Firenze il nuovo settimanale chiedendo la collaborazione di
autorevoli personaggi meridionali come Giustino Fortunato, Antonio
De Viti De Marco (leader del movimento liberista) e Benedetto Croce.
In una lettera a Giuseppe Prezzolini, Salvemini dichiarava: "la
crisi tripolitana non è che il momento saliente della crisi
generale della Voce. I gruppi della Voce non sono due, sono dieci,
sono venti... Occorre dividerci. Io ormai non concepisco più
La Voce che come un giornale settimanale di problemi politici, una
specie di Critica sociale di vent'anni or sono, in cui la critica
letteraria e filosofica faccia da contorno, da ornamento, da
puntello ad un'edizione politica determinata. Gli altri la
considerano come una continuazione del Leonardo".
Nata quindi da una esigenza di azione politica ben precisa la
rivista intende affrontare i nodi irrisolti del paese, dal problema
meridionale alle questioni doganali, dalla corruzione politica ed
elettorale alla riforma del costume, alle riforme tributarie,
scolastiche, amministrative caldeggiando soluzioni democratiche e
antinazionaliste come risulta dall'articolo programmatico Che cosa
vogliamo? che venne pubblicato in due puntate sui nn. 13/14, 9/16
marzo 1912.
Documento programmatico.
Che cosa vogliamo?
"Quale sistema di idee, quale criterio fondamentale d'azione intende
seguire L'Unità?. A questa domanda rispondiamo risolutamente
e nettamente che L'Unità intende essere un giornale
DEMOCRATICO secondo il quale l'azione politica deve essere diretta a
liberare da ogni parassitismo, non solo borghese ma anche sedicente
proletario, lo sviluppo della ricchezza nazionale, a promuovere un
continuo elevamento economico morale e politico della classe
lavoratrice a beneficio di tutto il paese, a suscitare nella classe
lavoratrice medesima la coscienza e l'organizzazione che le
consentono di essere essa stessa artefice prima delle proprie
conquiste (...)
Questa nostra posizione ideale e pratica, che continueremo a
chiamare DEMOCRATICA spiega perfettamente perché siamo anche
risolutamente ANTINAZIONALISTI.
Nel nazionalismo noi vediamo un movimento fondamentalmente
conservatore e antiproletario (...), la volontà arbitraria di
negare i problemi della nostra vita interna e di farli dimenticare
con diversivi di avventure diplomatiche e militari, a vantaggio di
tutti quegli interessi parassitari e antinazionali che da un
vittorioso sforzo di riforme interne uscirebbero distrutti".
L'Unità porterà così avanti fedelmente, dal
1911 al 1920 con le interruzioni 4 settembre-4 dicembre e 28 maggio
1915-8 dicembre 1916 a causa della partenza per il fronte come
volontario di Salvemini, il suo programma analizzando i temi
scottanti della vita politica italiana, dagli interventi di
Benedetto Croce nei primi numeri, alla denuncia dell'avventura di
Fiume da parte di Gabriele D'Annunzio.
Quando scoppia il conflitto mondiale la posizione che
prenderà L'Unità sarà quella dell'intervento
nella convinzione che la guerra possa essere trasformata in una
"guerra per la pace", dichiarandosi per un intervento democratico
differente da quello dei nazionalisti (2 marzo 1917).
Per quanto riguarda l'atteggiamento della rivista nei confronti
della rivoluzione sovietica essa fu di adesione, inizialmente, per
poi passare a numerose riserve che tendevano a considerare la
vittoria di Lenin provvisoria nella speranza che il programma
pacifista del presidente Wilson potesse vincere.
L'interesse decrescente nei confronti del leninismo influenzò
il lavoro della riforma interna a cui L'Unità attende nel
dopoguerra.
La preoccupazione crescente nasce dalla consapevolezza che la guerra
ha potenziato le organizzazioni capitalistiche ma anche dal timore
che nasca una dittatura del proletariato ad esclusivo vantaggio
degli operai.
L'Unità, a differenza de La Rivoluzione liberale di Gobetti e
dell'"Ordine Nuovo" di Gramsci, non si sente di appoggiare
l'esperimento dell'autogoverno operaio e cerca una diversa strada
"nella fondazione di un nuovo raggruppamento politico, che dovrebbe
assicurare alle masse contadine uno stato maggiore costituito
dall'élite della gioventù combattente".
Questo tentativo però fallisce e porta alla sospensione de
"L'Unità", con il n. 53, 30 dicembre 1920, considerata ormai
indebolita e non più rispondente al suo iniziale programma.
Le riviste degli artisti
Persuasi che la guerra abbia interrotto l'andamento della
realtà solamente per quanto riguarda l'ordine temporale ma
che non abbia cambiato il destino dell'arte e della letteratura,
Alberto Savinio, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Vincenzo
Cardarelli, Riccardo Bacchelli, ritenendosi i restauratori della
tradizione artistica italiana, fondano due riviste romane, una di
pittura e una di letteratura.
Sono questi, storicamente, gli anni dell'armistizio e dell'immediato
dopoguerra e i trattati di pace hanno provocato un diffuso
risentimento.
Sul piano sindacale e operaio vi era stata, il 20 settembre 1920,
l'occupazione delle fabbriche, era nato nel 1919 il Partito Popolare
e la classe dirigente liberale e giolittiana ha difficoltà a
controllare sia le forze socialiste, sia i fasci di combattimento e
il nuovo Partito Fascista.
In queste condizioni, gli intellettuali di "Valori plastici" e de
"La Ronda" si pongono a difesa dell'arte e della letteratura come
"questione la più importante" e riaffermano il valore
creativo e l'autonomia del genio.
* Valori
plastici: rivista di critica artistica nata nel 1918
a Roma sotto la direzione del pittore e collezionista Mario Broglio,
edita dal 1918 al 1922, il cui intento è la diffusione delle
idee estetiche della pittura metafisica e delle correnti
d'avanguardia europea.
Teorizza il recupero dei valori nazionali ed italici, sostenuti
dalla politica culturale del regime fascista, non disgiunti da uno
sguardo di ampio respiro verso l'Europa all’interno di una vivace
dialettica culturale e il ritorno alla cultura figurativa di matrice
classica.
Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico (letterato, autore
dell'Hermaphrodito, teorico della pittura metafisica e ispiratore
del fratello Giorgio, assai più famoso) nel primo numero di
"Valori plastici" del 15 novembre 1918, annuncia un programma di
completa restaurazione individualista, antifuturista e
antibolscevica.
Nell'aprile-maggio 1919 nell'articolo intitolato Anadioménon,
Savinio enuncia l'intuizione intellettiva, enigmatica e atemporale
del mondo che anima il nuovo classicismo metafisico.
I princìpi saviniani sulla poetica metafisica, vengono
applicati in pittura da Giorgio De Chirico, da Carlo Carrà e
da Giorgio Morandi.
La vicenda di "Valori plastici", che terminerà la
pubblicazione nel 1921, si diffonde fuori dall'Italia con Ritorno
all'ordine e in edizione francese dall'organizzazione della rivista
Mario Broglio, e aiuta a comprendere la storia parallela del gruppo
letterario della rivista La Ronda, ugualmente interessata a
rifiutare la modernità, sia quella futurista di Filippo
Tommaso Marinetti, che quella simbolista di Giovanni Pascoli e
decadente di Gabriele D'Annunzio.
* La Ronda:
rivista letteraria pubblicata a Roma tra il 1919 e il 1923,
inizialmente diretta da un'equipe redazionale formata da sette
persone.
I suoi redattori sono i "sette savi" o i "sette nemici" (per
indicare i legami di amicizia, ma anche la divergenza di idee) e
vengono elencati con spirito ironico da Margutte, soprannome di
Antonio Baldini, in questo modo: Vincenzo Cardarelli "pubblicista",
Emilio Cecchi "esquire" (scudiero in senso di rispetto per la sua
esperienza critica), Riccardo Bacchelli "possidente", Antonio
Baldini "baccelliere in lettere", Lorenzo Montano "industriale",
Bruno Barilli "compositore", Aurelio Emilio Saffi "docente nelle
scuole governative".
A costoro si affiancarono numerosi collaboratori esterni tra i quali
Guglielmo Ferrero, Vilfredo Pareto, Filippo Burzio, Giuseppe
Raimondi (segretario), Alberto Savinio e, tra i pittori metafisici,
coloro che in quegli anni animavano la rivista di arti figurative
Valori plastici come Carlo Carrà, che contribuisce con i suoi
articoli su Henri Matisse e Paul Cézanne, e Giorgio De
Chirico che assimila la "classicità" rondista alla sua
"metafisica".
A Cardarelli, che nel 1920 prenderà la direzione insieme a
Saffi, si deve il programma antisperimentale e antivanguardistico
della rivista: il ritorno della tradizione letteraria italiana,
attraverso la prosa di Leopardi, una poetica del frammento a scapito
del romanzo e della poesia (il primo perché ritenuto essere
scaduto a puro genere di consumo, la seconda perché esaurite
le potenzialità stilistiche).
Sul n. 1 de La Ronda dell'aprile 1919 apparve un Prologo in tre
parti redatto da Vincenzo Cardarelli i cui punti fermi erano
essenzialmente tre: a) simpatia e preferenze per il passato, culto
dei classici e humanitas che consentono di sentirsi uomini; b)
impegni linguistici e stilistici come il leggere e lo scrivere
elegante non in senso formale ma come lucida e leopardiana
trasparenza dei moti dell'animo; c) sincera fedeltà alla
tradizione senza perdere di vista il livello europeo delle
letterature straniere, mettersi in regola coi tempi, senza
però spatriarsi.
Prologo in tre parti
"Non sembrerà un paradosso se diciamo che dai classici per i
quali, come per noi l'arte non aveva altro scopo che il diletto,
abbiamo imparato ad essere uomini prima che letterati. Il vocabolo
umanità lo vorremmo scrivere nobilmente con l'H, come lo si
scriveva ai tempi del Machiavelli, perché s'intendesse il
preciso senso che noi diamo a questa parola (...). Abbiamo poca
simpatia per questa letteratura di parvenus che si illudono di
essere bravi scherzando col mestiere e giocando la loro fortuna su
dieci termini o modi non consueti quando l'ereditarietà e la
familiarità del linguaggio sono le sole ricchezze di cui
può far pompa uno scrittore decente (...).
Ci sostiene la sicurezza di avere un modo nostro di leggere e di
rimettere in vita ciò che sembra morto. Il nostro classicismo
è metaforico e a doppio fondo. Seguitare a servirci con
fiducia di uno stile definito non vorrà dire per noi altro
che realizzare delle nuove eleganze, perpetuare, insomma, la
tradizione della nostra arte. E questo stimeremo essere moderni alla
maniera italiana senza spatriarci."
Durante il primo anno si svolgono su La Ronda gli interventi di
Cecchi, Baldini, Bacchelli, mentre la rubrica Rondesca puntualizza
su ogni numero la fisionomia della rivista.
I futuristi e il futurismo, Filippo Tommaso Marinetti di Zang Tumb
Tumb e dei manifesti sono violentemente attaccati e denominati
distruttori letterari e si polemizza contro gli intellettuali
compromessi che hanno dimenticato il loro più importante
dovere, quello della "schiettezza disinteressata".
Sulla prima rubrica Rondesca del maggio 1919 viene proclamata la
necessaria, assoluta indipendenza dell'arte dalla politica, in
quanto l'arte "è libera, inutile, inefficace e
indistruttibile. Non può pretendere d'essere considerata,
rispettata e renumerata, né dai conservatori, né dai
rivoluzionari".
Giovanni Pascoli viene accusato di essere responsabile della
decadenza della letteratura contemporanea e nell'ottobre del 1919
"La Ronda" apre un Referendum su Pascoli che si conclude nel gennaio
1920 e la discussione annovera una decina di interventi tra cui
quella di Cecchi, Bacchelli, Cesare Angelini e Ardengo Soffici.
Viene invece preso a modello Alessandro Manzoni e il Giacomo
Leopardi delle Operette morali e dello Zibaldone.
Un numero triplo, marzo-aprile-maggio 1921, interamente dedicato a
Leopardi, pubblica parte dello Zibaldone e ne viene decantata
l'eleganza dello stile.
Gli interni e le sezioni de La Ronda vengono completati con gli
apporti della letteratura straniera. Vengono riportate le versioni e
le traduzioni di autori anglosassoni come Robert Louis Stevenson,
Herman Melville, Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc, George
Bernard Shaw, Edgar Lee Masters, Thomas Hardy, a cura di Cecchi e
Bacchelli scrive un saggio su Leon Tolstoj.
Escludendo il numero straordinario del dicembre 1923, La Ronda cessa
per cause interne proprio nel momento in cui il fascismo giunge al
potere.
Le riviste di Gobetti e di Gramsci
L'accusa fatta alla "Ronda" di avere appoggiato, nel rapporto tra
cultura e politica, la separazione del letterati dai politici
incontra su un versante assolutamente diverso l'esperienza delle
riviste di Piero Gobetti "Energie Nove" (1918-1920), "La Rivoluzione
liberale" (1922-1924), "Il Baretti" (1924-1928), nelle quali
l'unione tra politica e letteratura diventa unitario.
Vi erano stati intanto i lunghi e dolorosi anni dalla guerra che
avevano lasciato al mondo proletario reale consapevolezza in ordine
alla lotta di classe. Per poter meglio gestire queste nuove energie
e per "integrare l'attività politica ed economica come un
organo di attività culturale" era necessario un terzo organo
del movimento dei lavoratori da affiancare al partito e ai
sindacati. A questo terzo organo pensa Antonio Gramsci con la
rivista "L'Ordine Nuovo" che intende diventare il portavoce della
cultura proletaria.
* Energie
Nove: rivista politico-letteraria fondata a Torino da
Piero Gobetti nel 1918.
Piero Gobetti diciassettenne, ancora studente del Liceo Gioberti,
fonda il 1º novembre 1918 la rivista "Energie Nove" insieme a
G.Manfredini, E. Rho, E.Ravera, A.Prospero, Maria Marchesini e altri
compagni dell'istituto.
La rivista quindicinale si presenta in formato quaderno e subito
rivela le influenze dell'idealismo di Benedetto Croce e di Giovanni
Gentile nel settore filosofico-letterario e quelle di Gaetano
Salvemini in politica.
Essa riscuote subito la simpatia di Antonio Gramsci, amico di
Gobetti dal 1918 e collaboratore di "Energie Nove" dal gennaio
successivo.
Sulle pagine della rivista spicca l'amore dialettico per la
concretezza e l'esaltazione dei valori della libertà.
Vi sono ampi spazi per i problemi del Mezzogiorno, i problemi della
scuola e l'antigiolittismo ideologico.
C'è ampio spazio per le letterature straniere e non viene
tralasciata la critica letteraria che puntualmente informa e discute
sulle opere e gli autori italiani dimostrando apprezzamento per
Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, stroncatura per Filippo
Tommaso Marinetti e interesse per i contemporanei Piero Jahier,
Alfredo Panzini, Ardengo Soffici, Giovanni Papini di Un uomo finito.
Due momenti soprattutto caratterizzano questa rivista giovanile: il
rapporto politica-cultura che dà la predominanza al primo
termine e il dichiarato disprezzo per ogni forma di opportunismo in
polemica con La Ronda.
Sul n. 5, 5 luglio 1919, Maria Marchesini dedica alla "Ronda" un
articolo nel quale, pur riconoscendo la serietà dell'ideale
artistico ne disprezza la qualità delle pagine "nitide e
limpide come pietre preziose, ma fredde, ma morte".
Nell'articolo n.1 e n.6, 15 maggio e 25 luglio 1919, Gobetti accusa
l'editoria del momento di essere commerciale e consumistica;
l'editore Treves viene additato come il fornitore di "collane
amene". Gobetti auspica invece un'editoria libera, di qualità
e non di profitto, con intellettuali e pensatori "nella funzione
editoriale".
Nonostante l'indiscutibile fortuna della rivista, essa, con il
numero del 12 febbraio 1920 cessa le pubblicazioni per un bisogno di
"raccoglimento" e di "silenzio" allo scopo di "un'elaborazione
politica assolutamente nuova", come scrive Gobetti stesso
nell'articolo di fondo.
Nell'aprile del 1923, sull'esempio delle «Edizioni de La
Voce», delle case editrici di Laterza e di Vallecchi, nate e
sviluppate "intorno ad una rivista per completarla e rappresentare
con essa le "idee", avrà inizio l'attività della Piero
Gobetti Editrice. I libri pubblicati da Gobetti, come Una battaglia
liberale di Giovanni Amendola, Le lotte del lavoro di Luigi Einaudi,
Nazionalfascismo di Luigi Salvatorelli, Ossi di seppia di Eugenio
Montale, porteranno impresso il motto greco ti moi douloisin (che ho
a che fare io con i servi), che si presenta come un'aperta sfida
culturale e politica al regime fascista.
* L'Ordine
Nuovo: il settimanale L'Ordine Nuovo - fondato a Torino il
1º maggio 1919 da Antonio Gramsci (1891-1937), insieme ad
alcuni giovani intellettuali socialisti dell'ambiente torinese,
Palmiro Togliatti (amico fin dall'università), Angelo Tasca e
Umberto Terracini (dirigenti della federazione giovanile socialista)
- dichiarava il suo programma di rinnovamento sociale e proletario
nelle Battute di preludio scritte dallo stesso Tasca.
I primi numeri de L'Ordine Nuovo pur presentando caratteri di
"disciplina permanente di cultura russa", mantenevano una
composizione piuttosto antologica nelle brillanti recensioni ancora
crociane e gentiliane di Togliatti per la rubrica La battaglia delle
idee, negli studi che Tasca dedica ai maestri socialisti del passato
come Louis Blanc e Charles Fourier, negli articoli stranieri di
Romain Rolland (La via che sale) e di Henri Barbusse (Il gruppo
"Clarté").
Ma presto la tematica interpretativa gramsciana della rivoluzione
bolscevica in rapporto storico con lo sviluppo della società
italiana produce un colpo di mano redazionale all'interno de
L'Ordine Nuovo, cioè la pubblicazione, il 21 giugno 1919,
dell'articolo Democrazia operaia:
« Complici Togliatti e Terracini, all'insaputa di Tasca, anzi
contro l'orientamento astratto e la "vaga passione" culturale
rivendicata da Tasca (conforme "alle buone tradizioni della
famigliola italiana"), Democrazia operaia propone di "scavare il
filone del reale spirito rivoluzionario italiano", trasformando la
rivista in organo di propulsione, in centro rivoluzionario di nuove
forme organizzative, di nuovi istituti da creare anche in Italia sul
modello dei soviet. Emerge la grande idea-forza de L'Ordine Nuovo,
quella dei consigli di fabbrica, organi dell'autogoverno operaio,
che dovranno potenziare politicamente le commissioni interne al
livello "soviettista" di altrettanti istituti di democrazia
proletaria eletti da tutte le maestranze delle officine torinesi.
"Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalismo
nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina.
Sviluppate e arricchite dovranno essere domani gli organi del potere
proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni
utili di direzione e di amministrazione. Già fin d'oggi gli
operai dovrebbero procedere alle elezioni di vaste assemblee di
delegati, scelti tra i migliori e più consapevoli, sulla
parola d'ordine: Tutto il potere dell'officina ai comitati di
fabbrica, coordinata all'altra: Tutto il potere dello Stato ai
consigli operai e contadini. »
Da questo momento, dal n. 7 del 21 giugno 1919, L'Ordine Nuovo
diventa "il giornale dei consigli di fabbrica". In pochi mesi
l'idea-forza dei consigli di fabbrica si allarga e si realizza in
decine di stabilimenti metallurgici, dalla FIAT alla Diatto, dalla
Savigliano alla Lancia (azienda).
Gli articoli de "L'Ordine Nuovo" prendono atto dell'avvenimento
suscitando dibattiti in tutto il movimento operaio, politico e
sindacale, nonostante le opposizioni di riformisti e di
massimalisti.
Il 14 e il 28 agosto Gramsci scrive:
"I
Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso, in tre, o quattro,
o cinque (e di quelle nostre discussioni e deliberazioni devono
ancora esistere, perché furono compilati e trascritti in
bella copia, i verbali, sissignori, proprio i verbali... per la
storia!), di iniziare la pubblicazione di questa rassegna Ordine
Nuovo, nessuno di noi (forse nessuno ...) pensava di cambiare la
faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle
moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo nella storia.
Nessuno di noi (forse nessuno: qualcuno fantasticava di 6.000
abbonati in qualche mese) accarezzava illusioni rosee sulla buona
riuscita dell'impresa. Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale
nuova parola eravamo i portatori? Ahimè! L'unico sentimento
che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da
una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare,
fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati
nell'ardente vita. di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva
immediato il cataclisma della società italiana. Ahimè!
L'unica parola nuova, che fosse stata pronunziata in quelle riunioni
fu soffocata. Fu detto, da uno che era un tecnico: "Bisogna studiare
l'organizzazione della fabbrica come strumento di produzione:
dobbiamo consacrare tutta la nostra attenzione ai sistemi
capitalistici di produzione e di organizzazione e dobbiamo lavorare
per far convergere l'attenzione della classe operaia e del Partito
su questo oggetto". Fu detto, da un altro che si preoccupava
dell'organizzazione degli uomini, della storia degli uomini, della
psicologia della classe operaia: "Bisogna studiare ciò che
avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come
istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere
paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? qualcosa che
ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale,
non è un istituto russo, solamente russo; il Soviet è
la forma in cui, da per tutto ove esistono proletari in lotta per
conquistare l'autonomia industriale, la classe operaia manifesta
questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di
autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una
velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a
Torino?". Quell'altro, che era stato impressionato da questa domanda
rivoltagli a bruciapelo da un compagno polacco: "Perché non
si è mai tenuto in Italia un congresso delle commissioni
interne?", rispondeva, in quelle riunioni, alle sue stesse domande:
"Si, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un
germe di Soviet; è la commissione interna; studiamo questa
istituzione operaia, facciamo un'inchiesta, studiamo pure la
fabbrica capitalista, ma non come organizzazione della produzione
materiale, ché dovremmo avere una cultura specializzata che
non abbiamo; studiamo la fabbrica capitalista come forma necessaria
della classe operaia, come organismo politico, come "territorio
nazionale" dell'autogoverno operaio". Quella parola era nuova; essa
fu respinta proprio dal compagno Tasca.
Cosa voleva il compagno Tasca? Egli voleva che non si iniziasse
nessuna propaganda direttamente tra le masse. operaie, egli voleva
un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati, egli
voleva che si promovesse un convegno con questi segretari, e si
costruisse un piano per una azione ufficiale; il gruppo dell'Ordine
Nuovo sarebbe stato cosi ridotto al livello di una cricca
irresponsabile di presuntuosi e di mosche cocchiere. Quale fu dunque
il programma reale dei primi numeri dell'Ordine Nuovo? Il programma
fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga
aspirazione ai problemi concreti. Quale fu l'idea dei primi numeri
dell'Ordine Nuovo? Nessuna idea centrale, nessuna organizzazione
intima del materiale letterario pubblicato. Cosa intendeva il
compagno Tasca per "cultura ", e, dico, cosa intendeva
concretamente, non astrattamente? Ecco cosa intendeva il compagno
Tasca per "cultura": intendeva "ricordare", non intendeva "pensare",
e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia
del pensiero operaio; intendeva far conoscere alla classe operaia
italiana, "ricordare" per la buona classe operaia italiana, che
è così arretrata, che è cosi rozza e incolta,
ricordare che Louis Blanc ha fatto dei pensamenti
sull'organizzazione del lavoro, e che tali pensamenti hanno dato
luogo a esperienze reali; "ricordare" che Eugenio Fournière
ha compilato un accurato componimentino scolastico per scodellare
caldo caldo (o freddo freddo) uno schema di Stato socialista;
"ricordare", con lo spirito di Michelet (o del buon Luigi Molinari),
la Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i comunisti russi,
sulle tracce di Marx, ricongiungono il Soviet, il sistema dei
Soviet, alla Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i
rilievi di Marx sul carattere "industriale" della Comune erano
serviti ai comunisti russi per comprendere il Soviet, per elaborare
l'idea del Soviet, per tracciare la linea d'azione del loro partito,
divenuto partito di governo. Cosa fu l'Ordine Nuovo nei primi
numeri? Fu un'antologia, nient'altro che un'antologia; fu una
rassegna come sarebbe potuta sorgere a Napoli, a Caltanissetta, a
Brindisi; fu una rassegna di cultura astratta, di informazione
astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e
xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine Nuovo nei suoi
primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre
intellettualismo, che Zampelloni cercava un approdo ideale e una via
per l'azione. Questo fu l'Ordine Nuovo quale fu varato in seguito
alle riunioni che tenemmo nell'aprile 1919, riunioni debitamente
verbalizzate, riunioni nelle quali il compagno Tasca respinse, come
non conforme alle buone tradizioni della morigerata e pacifica
famigliola socialista italiana, la proposta di consacrare le nostre
energie a "scoprire" una tradizione soviettista nella classe operaia
italiana, a scavare il filone del reale spirito rivoluzionario
italiano; reale perché coincidente con uno spirito universale
dell'Internazionale operaia, perché prodotto. di una
situazione storica reale, perché risultato di una
elaborazione della classe operaia stessa.
Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema
delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della
rassegna; qualche sera prima di scrivere l'articolo, avevo
sviluppato al compagno Terracini la linea dell'articolo e Terracini
aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica;
l'articolo, per il consenso di Terracini, con la collaborazione di
Togliatti, fu pubblicato (1) e successe quanto era stato da noi
previsto: fummo, io, Togliatti, Terracini, invitati a tenere
conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica,
fummo invitati dalle commissioni interne a discutere in ristrette
riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello
sviluppo della commissione interna divenne problema centrale,
divenne l'idea dell'Ordine Nuovo; era esso posto come problema
fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della
"libertà" proletaria. L'Ordine Nuovo divenne, per noi e per
quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli
operai amarono l'Ordine Nuovo (questo possiamo affermarlo con intima
soddisfazione), e perché gli operai amarono l'Ordine Nuovo?
Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di
se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano
gli articoli dell'Ordine Nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di
ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo
diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine Nuovo
non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla
discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti,
volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che
erano state da noi saggiate e provocate, perché gli articoli
dell'Ordine Nuovo erano quasi un "prendere atto" di avvenimenti
reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione ed
espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco
perché gli operai amarono l'Ordine Nuovo ed ecco come si
"formò" l'idea dell'Ordine Nuovo. Il compagno Tasca non
collaborò per nulla a questa formazione, a questa
elaborazione; l'Ordine Nuovo sviluppò la propria idea
all'infuori della sua volontà e del suo "contributo" alla
rivoluzione. In ciò io trovo la spiegazione del suo
atteggiamento odierno e del "tono" della sua polemica; egli non ha
lavorato faticosamente per raggiungere la "sua concezione" e non mi
meraviglia che essa sia nata sconciamente, perché non amata,
e non mi meraviglia che egli con tanta rozzezza abbia trattato
l'argomento e con tanta sconsideratezza e assenza di disciplina
interiore sia entrato nell'azione, per ridarle quel carattere
ufficiale che aveva sostenuto e verbalizzato un anno prima.
II
Nella puntata precedente ho cercato di determinare l'origine della
posizione mentale del compagno Tasca verso il programma dell'Ordine
Nuovo, programma che si era venuto organizzando, conseguentemente
alla esperienza reale da noi fatta delle necessità spirituali
e pratiche della classe operaia, interne al problema centrale dei
Consigli di fabbrica. Poiché il compagno Tasca non ha
partecipato a questa esperienza, poiché egli era anzi ostile
a che essa si facesse, il problema dei Consigli di fabbrica gli
è sfuggito nei suoi termini storici reali e nello sviluppo
organico, che pur attraverso qualche esitazione e qualche
comprensibile sbaglio, esso era venuto assumendo nella trattazione
svolta da me, da Togliatti e dagli altri compagni che vollero
aiutarci: per il Tasca il problema dei Consigli di fabbrica fu
semplicemente un problema nel senso aritmetico della parola, fu il
problema del come organizzare immediatamente tutta la classe degli
operai e contadini italiani. In una delle sue puntate polemiche il
Tasca scrive di considerare in uno stesso piano il Partito
comunista, il sindacato e il Consiglio di fabbrica; in un altro
punto dimostra di non aver capito il significato dell'attributo
"volontario" che l'Ordine Nuovo dà alle organizzazioni di
Partito e di sindacato a differenza del Consiglio di fabbrica, che
viene assunto come una forma di associazione "storica", del tipo che
oggi può essere paragonato solo con quello delle Stato
borghese. Seconde la concezione svolta nell'Ordine Nuovo, concezione
che, per essere tale, era organizzata intorno a un'idea, all'idea di
libertà (e concretamente, nel piano della creazione storica
attuale, intorno all'ipotesi di una azione autonoma rivoluzionaria
della classe operaia), il Consiglio di fabbrica è un istituto
di carattere "pubblico", mentre il Partito e il sindacato sono
associazioni di carattere "privato". Nel Consiglio di fabbrica
l'operaio entra a far parte come produttore, in conseguenza
cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua
posizione e della sua funzione nella società, allo stesso
modo che il cittadino entra a far parte delle Stato democratico
parlamentare. Nel Partito e nel sindacato l'operaio entra a far
parte "volontariamente", firmando un impegno scritto, firmando, un
"contratto" che egli può stracciare in ogni momento: il
Partito e il sindacato, per questo loro carattere di
"volontarietà", per questo loro carattere "contrattualista",
non possono essere in nessun modo confusi col Consiglio, istituto
rappresentativo, che si sviluppa non aritmeticamente ma
morfologicamente [cioè assumendo via via funzioni nuove,
perché, quanto a numero, comprende fin dall'inizio tutti gli
operai] e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo
proletario dell'apparecchio di produzione e di scambio creato dal
capitalismo ai fini del profitto. Le sviluppo delle forme superiori
dell'organizzazione dei Consigli non era perciò dall'Ordine
Nuovo indicato con la terminologia politica propria delle
società divise in classi, ma con accenni all'organizzazione
industriale. Il sistema dei Consigli non può, secondo la
concezione svolta dall'Ordine Nuovo, esser espresso con la parola
"federazione" o di simile significato, ma può essere
rappresentato solo trasportando a tutto un centro industriale il
complesso di rapporti industriali che in una fabbrica lega una
squadra di lavorazione a un'altra squadra, un reparto a un altro
reparto. L'esempio di Torino era per noi plastico, e perciò
in un articolo Torino fu assunta come fucina storica della
rivoluzione comunista italiana. In una fabbrica, gli operai sono
produttori in quanto collaborano, ordinati in un modo determinato
esattamente dalla tecnica industriale che (in un certo senso)
è indipendente dal modo di appropriazione dei valori
prodotti, alla preparazione dell'oggetto fabbricato. Tutti gli
operai di una fabbrica di automobili, siano essi metallurgici, siano
muratori, elettricisti, falegnami, ecc., assumono il carattere e la
funzione di produttori in quanto, sono ugualmente necessari e
indispensabili alla fabbricazione dell'automobile; in quanto,
ordinati industrialmente, costituiscono un organismo storicamente
necessario e assolutamente inscindibile. Torino si è
storicamente sviluppata, come città, in questo modo: per il
trasporto della capitale a Firenze e a Roma, e per il fatto che lo
Stato italiano si è costituito inizialmente come dilatazione
dello State piemontese, Torino è stata privata della classe
piccolo-borghese, i cui elementi dettero il personale al nuovo
apparecchio italiano. Ma il trasporto della capitale e questo
depauperamento subito di un elemento caratteristico delle
città moderne, non determinarono un decadimento della
città; essa anzi riprese a svilupparsi e il nuovo sviluppo
avvenne organicamente a mano a mano che si sviluppava l'industria
meccanica, il sistema di fabbriche della Fiat. Torino aveva dato al
nuovo Stato la sua classe di intellettuali piccolo-borghesi; lo
sviluppo dell'economia capitalistica, rovinando la piccola industria
e l'artigianato della nazione italiana, fece affluire a Torino una
massa proletaria compatta, che dette alla città la sua figura
attuale, forse una delle più originali di tutta Europa. La
città assume e mantiene una configurazione accentrata e
organizzata naturalmente intorno a una industria che "governa" tutto
il movimento urbano e ne regola gli sbocchi: Torino è la
città dell'automobile, allo stesso modo che il Vercellese
è l'organismo economico caratterizzato dal riso, il Caucaso
dal petrolio, il Galles del Sud dal carbone, ecc. Come in una
fabbrica gli operai assumono, una figura, ordinandosi per la
produzione di un determinato oggetto che unisce e organizza
lavoratori del metallo e del legno, muratori, elettricisti ecc.,
cosi nella città la classe proletaria assume una figura
dall'industria prevalente, che ordina e governa per la sua esistenza
tutto il complesso urbano. Cosi, su scala nazionale, un popolo
assume figura dalla sua esportazione, dal contributo reale che da
alla vita economica del mondo.
Il compagno Tasca, lettore molto disattento dell'Ordine Nuovo, non
ha afferrato nulla di questo svolgimento teorico, che del resto non
era che una traduzione per la realtà storica italiana, delle
concezioni svolte dal compagno Lenin in alcuni scritti pubblicati
dallo stesso Ordine Nuovo, e delle concezioni del teorico americano
dell'associazione sindacalista rivoluzionaria degli IWW ,(2) il
marxista Daniel De Leon. Il compagno Tasca infatti, a un certo
punto, interpreta in un senso meramente "commerciale" e contabile la
rappresentazione dei complessi economici di produzione espressa con
le parole "riso", "legno", "zolfo", ecc.; in un altro punto si
domanda quale rapporto mai debba intercorrere tra i Consigli; in un
terzo punto trova nella concezione proudhoniana dell'officina che
distrugge il governo l'origine dell'idea svolta nell'Ordine Nuovo,
quantunque nello stesso numero del 5 giugno, in cui erano stampati
l'articolo Il Consiglio di fabbrica e il commento al Congresso
camerale, fosse riprodotto anche un estratto dello scritto sulla
Comune parigina, dove Marx esplicitamente accenna al carattere
industriale della società comunista dei produttori. In questa
opera del Marx, il De Leon e Lenin hanno trovato i motivi
fondamentali delle loro concezioni; su questi elementi erano stati
preparati ed elaborati gli articoli dell'Ordine Nuovo, che, ancora
una volta e precisamente per il numero dal quale ebbe origine la
polemica, il compagno Tasca dimostrò di leggere molto
superficialmente e senza nessuna intelligenza della sostanza ideale
e storica.
Non voglio ripetere, per i lettori di questa polemica, tutti gli
argomenti già svolti per sviluppare l'idea della
libertà operaia che si attua inizialmente nel Consiglio di
fabbrica. Ho voluto solo accennare ad alcuni motivi fondamentali per
dimostrare come sia sfuggito al compagno Tasca l'intimo processo di
sviluppo del programma dell'Ordine Nuovo. In una appendice che
seguirà a questi due brevi articoli,(3) analizzerò
alcuni punti dell'esposizione fatta da Tasca, in quanto mi pare
opportuno chiarirli e dimostrare la loro inconsistenza. Un punto
bisogna però subito chiarire, laddove il Tasca parlando del
capitale finanziario scrive che il capitale "spicca il volo", si
stacca dalla produzione e si libra... Tutto questo pasticcio dello
spiccare il volo e del librarsi della... carta moneta non ha nessun
richiamo con lo svolgimento della teoria dei Consigli di fabbrica;
noi abbiamo rilevato che la persona del capitalista si è
staccata dal mondo della produzione, non il capitale, sia pure esso
finanziario; abbiamo rilevato che la fabbrica non è
più governata dalla persona del proprietario, ma dalla banca
attraverso una burocrazia industriale che tende a disinteressarsi
della produzione allo stesso modo che il funzionarie statale si
disinteressa dell'amministrazione pubblica. Questo spunto ci
servì per un'analisi storica dei nuovi rapporti gerarchici
che sono venuti stabilendosi nella fabbrica, e per fissare l'avvento
di una delle più importanti condizioni storiche
dell'autonomia industriale della classe operaia, la cui
organizzazione di fabbrica tende a incorporarsi il potere di
iniziativa sulla produzione. L'affare del "volo" e del "libramento"
è una fantasia alquanto infelice del compagno Tasca, che,
mentre si riferisce a una sua recensione del libro di Arturo
Labriola sul Capitalismo pubblicata dal Corriere Universitario, per
dimostrare di essersi "occupato" della questione del capitale
finanziario (da notare che il Labriola sostiene appunto una tesi
opposta a quella dello Hilferding, che divenne poi la tesi dei
bolscevichi), nei fatti dimostra di non averne compreso
assolutamente nulla e di aver costruito un castelluccio su vaghe
reminiscenze e su vuote parole.
La polemica ha servito a dimostrare che gli appunti mossi da me alla
relazione Tasca erano fondatissimi: il Tasca aveva una superficiale
infarinatura sul problema dei Consigli, e aveva solo una smania
invincibile di tirar fuori una "sua" concezione, di iniziare una
"sua" azione, di aprire una nuova era nel movimento sindacale.
Il commento al Congresso camerale e al fatto dell'intervento del
compagno Tasca per determinare il voto di una mozione con carattere
esecutivo, era stato dettato dalla volontà di mantenere
integralmente il programma della rassegna. I Consigli di fabbrica
hanno la loro legge in se stessi, non possono e non debbono
accettare la legislazione degli organismi sindacali che appunto essi
hanno il fine immediato di rinnovare fondamentalmente. Allo stesso
modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole che le
rappresentanze operaie siano emanazione diretta delle masse e siano
legate alla massa da un mandato imperativo: l'intervento a un
congresso operaio del compagno Tasca, come relatore, senza mandato
di nessuno, su un problema che interessa tutta la massa operaia, e
la cui soluzione imperativa avrebbe dovuto legare la massa, era
talmente in contrasto con l'indirizzo ideale dell'Ordine Nuovo, che
il commento, nella sua forma aspra, era perfettamente giustificato
ed era assolutamente doveroso."
La piattaforma rivoluzionaria de L'Ordine Nuovo opera il proprio
collaudo nel 1920.
A Torino gli industriali nel corso delle trattative per il rinnovo
del contratto di lavoro rifiutano la richiesta degli aumenti
salariali e, allo sciopero bianco degli operai rispondono con la
serrata. I metallurgici reagiscono occupando le fabbriche nel
triangolo industriale Torino-Milano-Genova. Il movimento
d'occupazione viene tenuto nei limiti delle officine e fallisce.
Gramsci, Togliatti e Terracini conducono un'intensa campagna che
culmina a Livorno il 21 gennaio 1921 con la fondazione del Partito
Comunista d'Italia.
Cessate le pubblicazioni come rivista il 24 dicembre 1920, L'Ordine
Nuovo diventa il 1º gennaio 1921 quotidiano; il 21 gennaio, con
la formazione del Partito Comunista d'Italia a Livorno, diventa
organo del nuovo partito «secondo la linea tracciata dal
Congresso dell'Internazionale e secondo la tradizione della classe
operaia torinese».
Nel 1922 sospende le pubblicazioni per riprenderle nel marzo 1924
pubblicando in modo discontinuo gli ultimi otto numeri fino al marzo
1925.
* La Rivoluzione liberale:
seconda rivista di cultura politica di Piero Gobetti, uscita nel
1922 e terminata nel 1925.
Piero Gobetti, cessate le pubblicazioni della rivista Energie Nove,
tra il 1920 e il 1921, sotto l'influenza di L'Ordine Nuovo (al quale
collaborò, dietro invito di Antonio Gramsci, come critico
teatrale) e delle lotte operaie di quel periodo, maturò la
propria linea politica, staccata decisamente dal modello di Gaetano
Salvemini e improntata all'"operaismo liberale" che animerà
il nuovo settimanale La Rivoluzione liberale.
L'esordio programmatico
La nuova rivista, che esce il 12 febbraio 1922 a Torino, riporta sul
primo numero un trafiletto intitolato Ai lettori che spiega come
formare una nuova classe politica capace di guidare le forze
popolari, operaie e contadine.
«La Rivoluzione liberale, continuando e ampliando un movimento
iniziato da quattro anni con la rivista Energie Nove, si propone di
venire formando una classe politica che abbia chiara coscienza delle
sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla
partecipazione del popolo alla vita dello Stato.
Lo studio che pubblichiamo qui accanto (il Manifesto) indica le
linee generali del nostro lavoro e gli argomenti che intendiamo
approfondire:
1. Revisione della nostra formazione politica nel Risorgimento.
2. Storia dell'Italia moderna dopo il 1870.
3. Esame delle forze politiche e dei partiti e del loro sviluppo.
4. Studio della genesi delle questioni politiche attuali.
5. Storia della politica internazionale esaminata on ogni nazione da
un collaboratore fisso, con criteri organici.
6. Studio sugli uomini e la cultura politica. »
(La Rivoluzione liberale, A. I, n. 1)
Coerente con le premesse del Manifesto e il sottotitolo "Rivista
storica settimanale di politica", questo secondo periodico di
Gobetti non si occupa di letteratura ma solamente di ricerche
storiche e di politica militante.
Sui primi numeri appaiono articoli riguardanti problemi di economia
che vengono affrontati da Luigi Einaudi, G. De Ruggiero e A. Crespi.
Sempre nei primi numeri, G. Stolfi e B. Giovenale affrontano
questioni agricole, mentre Gobetti traccia la storia della
Rivoluzione russa e Salvemini informa su come si evolve, in senso
democratico, il Partito Popolare di don Sturzo.
Il dibattito politico [modifica]
Il 28 maggio 1922 esce un numero speciale dedicato al fascismo.
In settembre, sulla rivista si apre un ampio dibattito in seguito
alla lettera di Giuseppe Prezzolini per una Società degli
Apoti (La Rivoluzione liberale n. 28, 28 settembre 1922). In una
fase politica in cui le libertà democratiche e civili vanno
precipitando (siamo a un mese dalla marcia su Roma), il vociano
Prezzolini scrive una lettera aperta avanzando l'ipotesi di una
Società degli Apoti, cioè di individui liberi,
raggruppati tra loro, che non parteggiano, che vogliono
differenziarsi dalla vita e dalla malavita pubblica contemporanea
per poter valutare l'attualità politica e la cronaca
contingente con chiarezza e imparzialità.
A questa lettera risponde Gobetti (n. 31, 25 ottobre 1922) con una
lucida analisi ad appena tre giorni dalla presa del potere di
Mussolini:
«Di fronte a un fascismo che con l'abolizione della
libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della
nostra azione, formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma
la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per
difendere la rivoluzione". »
(La Rivoluzione liberale, A. I, n. 31)
Da questo numero nella tematica della rivista la battaglia contro il
fascismo diventa primaria.
Negli anni successivi, vantando contributi illustri (da Don Sturzo a
Lelio Basso, per citarne alcuni), la rivista ospitò
approfondimenti di notevole spessore.
Dopo il delitto Matteotti
Dopo il delitto Matteotti e la Secessione dell'Aventino, Gobetti
deve amaramente denunciare il fallimento del fronte parlamentare
antifascista con un articolo comparso il 21 ottobre 1924 dal titolo
Processo al trasformismo.
Rimane intatta invece la fiducia di Gobetti nell'autonomia degli
operai, nelle forze del "proletariato moderno" organizzate al Nord
nel triangolo Genova-Torino-Milano, fiducia che lo stesso dichiara
nell'articolo dal titolo Lettera da Parigi, pubblicata sulla rivista
il 18 ottobre 1925, numero sequestrato proprio a causa del suddetto
articolo.
Durante tutto il 1925 La Rivoluzione liberale viene continuamente
censurata per la sua tenace opposizione al regime e l'8 novembre
1925, su diffida del prefetto di Torino e dietro precisi ordini di
Benito Mussolini è costretta a sospendere le pubblicazioni.
* Il
Baretti: rivista fondata da Piero Gobetti, esce come
quindicinale di letteratura il 23 dicembre 1924, e termina nel
dicembre del 1928.
Quando era uscita la seconda rivista di Gobetti "La Rivoluzione
liberale" essa aveva annunciato un supplemento letterario, "Il
Baretti" che viene attuato solamente nel 1924 dopo che erano stati
annunciati i suoi compiti ai lettori nel numero del 15 novembre
dello stesso anno.
Uscito il 23 dicembre 1924 "Il Baretti" convive con "La Rivoluzione
liberale" per circa un anno, poi, soppressa quest'ultima per ordini
mussoliniani e dopo la morte di Gobetti, essa prosegue mensilmente
fino al dicembre del 1928.
Con il titolo la rivista rende omaggio a Giuseppe Baretti, letterato
italiano del settecento, e tende così a mettere in evidenza
l'impostazione non enfatica dell'idea di letteratura che vi si
voleva esprimere, in contrapposizione all'enfasi dei letterati del
regime.
Il gruppo redazionale del "Baretti" era formato da alcuni
collaboratori della "Rivoluzione liberale" e da alcuni personaggi
noti, come Augusto Monti, Umberto Morra, Leonello Vincenti ai quali
si aggiunsero, in un secondo tempo, Leone Ginzburg, Giacomo
Debenedetti, Natalino Sapegno, Mario Fubini che, pur assediati dalla
censura, continuano ad attenersi alla lezione "intransigente" di
Gobetti, la cui voce diventa testamento etico da custodire dopo la
morte.
Essa accolse, fin dai primi numeri, collaboratori stranieri e si
occupò di autori sconosciuti in Italia.
Dal secondo numero divenne assiduo collaboratore Eugenio Montale e
dalla metà del 1925 lasciò ampio spazio al dibattito
di Benedetto Croce sull'idealismo e sull'estetica.
Sul numero del 1 gennaio 1926 viene riportata la diffida presentata
a Gobetti dalla questura di Torino a "continuare qualsiasi
attività editoriale" e un articolo della redazione avvisa i
lettori del passaggio della rivista dalla direzione di Gobetti ad
una nuova società anonima "Le Edizioni del Baretti".
Dopo la morte di Gobetti il periodico continuò ad essere
pubblicato fino al 1928 e quindi fu chiuso dalla censura fascista.
* Il
Caffè: settimanale (1924-1925) fondato da Riccardo
Bauer e Ferruccio Parri.
Riviste dell'era fascista
I periodici pubblicati nel fascismo rivelano tre fondamentali
orientamenti: l'appoggio al regime; l'astensionismo politico e il
ripiegamento nella pratica letteraria; la contrapposizione alla
dittatura con la lotta clandestina.
* Gerarchia:
rivista ufficiale del fascismo. A fondarla, nel 1922, fu lo stesso
Benito Mussolini. La cerchia dei collaboratori della rivista
è sempre stata "a numero chiuso": i suoi componenti furono
sempre ossequenti alle idee mussoliniane. Tra costoro si
annoveravano lo storico Gioacchino Volpe, il pittore e poeta
novecentista Ardengo Soffici, lo storico e giurista Arrigo Solmi, la
giornalista Margherita Sarfatti, il pubblicista Franco Ciarlantini,
il critico letterario Lorenzo Giusso.
Nel numero di inaugurazione del 25 gennaio 1922, Benito Mussolini -
nell'articolo Breve preludio - spiega il titolo della rivista:
Breve preludio
"GERARCHIA vuol dire scala di valori umani, responsabilità,
doveri, disciplina; significa prendere "una posizione di battaglia
contro tutto ciò che tende - nello spirito e nella vita - ad
abbassare e distruggere le necessarie gerarchie", funzionali a
qualsiasi sistema. Il FASCISMO rispetta la tradizione ma non
può arrestarsi di fronte a gerarchie in declino che, avendo
esaurito il loro ciclo storico, sono ormai incapaci di esercitare la
loro funzione dirigente. In Italia le gerarchie al tramonto devono
cedere il comando alle nuove gerarchie ascendenti nate dal fascismo.
L'importante è dunque innestare "nel tronco di talune
gerarchie elementi nuovi di vita"
Nel numero del febbraio 1922 di "Gerarchia" Mussolini scrisse un
lungo saggio - "Da che parte va il mondo" - nel quale appare
angustiato da un dubbio amletico, sintomatico dell'indeterminatezza
programmatica del movimento fascista da poco diventato Partito
Nazionale Fascista. In questo articolo egli esprime la persuasione
che la sterzata verso destra costituisca in Europa un orientamento
destinato a durare e a distinguere il nuovo secolo da quello
passato. In questo scenario il fascismo sarà lo strumento
della restaurazione dell'ordine e della disciplina. Esso
dovrà "innestare nel tronco di talune gerarchie elementi
nuovi di vita;... preparare l'avvento di nuove gerarchie"
("Gerarchia", gennaio '22). Il messaggio della rivista era che il
rinnovamento della società italiana doveva attingere al
tradizionalismo antidemocratico verso il quale il fascismo veniva
riorientato, rispetto al suo sostanziale e originario sovversivismo,
per diventare lo strumento attraverso il quale Mussolini poteva
emergere come vincitore dal confronto con la tendenza
rivoluzionaria.
Crea così il mito della propria persona, strettamente legato
con il mito e il destino del fascismo, e fa nascere quel
mussolinismo che assume connotati differenti nella sfera delle
immagini, con i nomi dapprima politici di capo del governo, poi di
duce del fascismo e in seguito mitici come lUomo Nuovo, lUomo della
Provvidenza.
Nel numero di gennaio dell'anno successivo, nell'articolo "Tempo
secondo", Mussolini ama definirsi, in modo rassicurante, come capo
del governo, colui che ha saputo conquistare lo Stato al giusto
momento storico, non per distruggerlo ma per rinnovarlo e
fascistizzarlo.
Ma tra il 1925 e il 1930, quando il fascismo cessa di essere
elaborazione ideologica e si cristallizza come dovere e credo
dell'obbedienza "cieca e assoluta", fascismo e mussolinismo
diventano una mistica. E mentre l'ideologia si trascina
confusamente, il fascismo di "Gerarchia" tende, appunto, ad esiti
mistici per propagandare grandi sogni di grandezza e fare la storia.
Mussolini è il Capo e, su "Gerarchia", viene esaltato come l'
Uomo della Provvidenza, l' Uomo Nuovo, il Demiurgo fascista, il
Principe della Giovinezza, il Duce o solamente DUX. I gesti del Duce
vengono definiti "ispirati" e le sue frasi oracolari vengono
venerate fino a professare il culto dogmatico della sua Parola come
unica fonte di verità, di cultura e di storia.
Nel 1939 viene pubblicato su "Gerarchia" un articolo di
Niccolò Giani, docente universitario, direttore e fondatore
nel 1930 della Scuola di mistica fascista (la scuola organizza corsi
di mussolinismo imperiale e lecturae Ducis) dal titolo
"Perché siamo dei mistici" che si basa completamente sulla
logica irrazionale del credo quia absurdum:
Perché siamo dei mistici
"Non era assurda per i tiepidi e per i pavidi la marcia su Roma? Per
i pessimisti e per i ragionatori non sono state ugualmente assurde
la vittoria contro i 52 Stati sanzionisti e la conquista
dell'Etiopia? Non era ugualmente assurdo per i miopi, il trionfo
della nuova Spagna? (...). A questi assurdi Mussolini ci ha abituati
da vent'anni, di questi assurdi, oggi, è imbevuta l'anima di
noi tutti (...). La Storia, quella con l'esse maiuscola, è
stata e sarà sempre un assurdo: l'assurdo dello spirito e
della volontà che piega e vince la materia; cioè
mistica. Fascismo = Spirito = Mistica = Combattimento = Vittoria
perché credere non si può se non si è mistici,
combattere non si può se non si crede, marciare e vincere non
si può se non si combatte".
In questo modo "Gerarchia", che era nata come rivista di "pensiero
fascista", dimostra - a detta di molti - l'incongruenza del suo
direttore e dei suoi collaboratori.
* Critica
fascista: rivista fondata il 15 giugno 1923
dall'intellettuale di provenienza futurista Giuseppe Bottai, per
approfondire ed arricchire il dibattito intellettuale all'interno
del movimento fascista e per sviluppare continuità e spessore
dopo la fase della conquista del potere, stimolando la formazione di
una nuova classe dirigente. Il nome della rivista allude alla
rivista "Critica sociale".
Il periodico, che ebbe come co-direttore Gherardo Casini,
uscì senza interruzione per vent'anni, da principio
affiancato (1924) dalla rivista Spettatore italiano, sempre diretta
da Bottai ma che ebbe una durata di soli dodici numeri, e da Primato
(dal 1940 al 1943).
Le finalità della rivista vengono dichiarate nell'editoriale
del primo numero e nell'appello ai giovani, che viene stampato sotto
l'articolo di fondo in un riquadro a grandi caratteri:
«Proponimenti
"Nostro compito e méta del nostro cammino è creare
quella CLASSE NUOVA DI DIRIGENTI di cui il fascismo ha urgente
bisogno per sostituire l'antica. Nella quale sostituzione noi
ravvisiamo il problema centrale del fascismo in questa sua fase di
trasformazione: ci piace credere che la seconda ondata abbia a
essere finalmente l'avvento, sopra gli uomini che hanno esaurita la
loro funzione, degli uomini adatti a fare del fascismo il centro
sensibile della vita nazionale.
Noi contiamo molto sul contributo dei GIOVANI, sciupati
nell'ingranaggio dell'organizzazione (...). Questa RIVISTA, nasce
sopra tutto per INCORAGGIARE e ANIMARE le fresche energie, che sono
una particolare ricchezza del FASCISMO, e che sarebbe sommo delitto
lasciare intristire, anzi tempo, nei miasmi della demagogia
variopinta. C'è nella inesperienza di questi giovani qualche
cosa che bisogna cogliere, così come c'è qualcosa da
recidere nell'esperienza di coloro che hanno portato nel Fascismo il
peso di torbide nostalgie? Opera giovanile vuol essere questa: i
giovani ci aiutino e ci confortino"»
(Giuseppe Bottai)
La rivista, che avrà durata ventennale, ha una fase
ascendente dal 1923 al 1932 ed una discendente nel successivo
decennio. Si caratterizza per l'affrontare molte questioni in
termini duramente polemici, come il rapporto tra lo Stato ed il
partito e la denuncia alla violenza esercitata dai ras provinciali.
L'articolo Fascismo e paese di Massimo Rocca esce sul primo numero
del 15 settembre 1923 con un dibattito sul revisionismo che viene
ripreso nell'articolo Esame di coscienza del 1º ottobre 1923 e
in Dichiarazioni sul revisionismo del 17 luglio 1924. In questi
articoli viene precisato che il revisionismo non è "una
questione di pulizia o di polizia interna del Partito", quanto di
ordinamenti e idee.
Dal 1927 al 1932 Critica fascista affronta il problema dei rapporti
tra Stato e Chiesa in vista del Concordato e quello dell'importanza
della Carta del lavoro che rappresenta, a detta dello stesso Bottai,
un superamento dei "Diritti dell'uomo" della Rivoluzione Francese.
Sul numero del 1º giugno 1928, nell'editoriale Un regime di
giovani, inizia la polemica sulla importanza e sulla funzione da
attribuire ai giovani che ha più forte riscontro
nell'articolo di Bottai, Giovani e più giovani del 1º
gennaio 1930 che si diffonderà su tutti i giornali
dell'epoca:
«Dall'articolo di Bottai Giovani e più giovani "A due
riprese, nel 1922 e nel 1924, gli anziani e i vecchi si sono
rovesciati nel Partito. Ora, salvo onorevoli eccezioni, essi vi sono
vissuti non per pensare, ma o senza pensare o addirittura col fermo
proposito di non pensare. Invece i giovani vengono nel Partito non
solo per pensare, ma con la volontà di ripensare tutto
daccapo". »
(Giuseppe Bottai, Critica fascista)
Un gruppo di giornalisti e scrittori già collaboratori di
"Critica fascista" che ha trovato occupazione al Ministero
dell'Educazione Nazionale : Ugo d'Andrea, Agostino Nasto, Mario
Sertoli, Tommaso Napolitano.
Nel 1933 Bottai, a causa dell'ostilità degli industriali,
viene retrocesso da ministro delle Corporazioni a governatore di
Roma e "Critica fascista" inizia a declinare ed a perdere il suo
mordente critico-politico.
In questo secondo periodo prendono spazio sulla rivista articoli
sull'umanesimo moderno, gli interventi a favore del patrimonio
artistico e la valutazione equilibrata degli ermetici che vengono
accusati da G. Villaroel di essere antifascisti.[senza fonte]
Nella rubrica Stoccate il giovane Berto Ricci prende le difese
dell'arte moderna italiana che era stata attaccata da più
parti e sostiene le idee di Bottai, che nel frattempo aveva
istituito il Premio di pittura Bergamo dove erano stati premiati
Filippo De Pisis, Mario Mafai, Renato Guttuso, decisamente contrarie
a qualsiasi forma di arte di Stato.[3]
Nel numero del 15 agosto 1939 appare su Critica fascista l'annuncio
di una nuova rivista che uscirà con il nome di Primato, di
carattere maggiormente culturale.
Critica fascista, affiancata dalla rivista Primato,
continuerà a pubblicare regolarmente i suoi numeri fino al 25
luglio 1943, caduta del regime.
* Le Grandi Firme:
quindicinale di novelle fondato e diretto da Pitigrilli nel 1924 e
chiuso nel 1939.
Prima serie
La pubblicazione nasce nel 1924 e inizialmente riporta in copertina
solo il nome, scritto come fosse tracciato a mano, senza la grafica
delle figure femminili disegnate da Boccasile, divenute celebri poi
come "signorine grandi firme". Pitigrilli ne era il direttore; una
sorta di garanzia sulla qualità dei contenuti. La prima serie
aveva un formato "rivista", copertina molto semplice, senza
illustrazioni e portava il sottotitolo "Quindicinale di novelle dei
massimi scrittori, diretto da Pitigrilli". Le pagine erano di regola
tra le 48 e le 56. Come promettevano il titolo e il sottotitolo,
ospitava, oltre a rubriche a cura della redazione, novelle e
racconti di scrittori all'epoca noti, italiani e stranieri
(soprattutto francesi).
La selezione delle opere da pubblicare era curata dallo stesso
direttore che, nel numero 10 invita i lettori a non inviare
manoscritti alla redazione, segno della grande popolarità
della rivista e dell'aspirazione di molti a pubblicarvi.
Il genere letterario più presente e caratteristico fu quello
del romanzo umoristico (spesso a puntate) e della novella piccante
ed erotica.
Nonostante (o forse per merito) dell'alone scandalistico che il
genere piccante le procurava, grazie alla capacità
promozionale di Pitigrilli e all'accorta selezione degli autori, Le
Grandi Firme divenne «la rivista alla moda della buona
borghesia italiana[2]».
Seconda serie
La seconda serie inizia il 22 aprile 1937 e termina il 6 ottobre
1938. È la serie più famosa grazie alle copertine,
illustrate da Gino Boccasile e talvolta da Rino Albertarelli. A
parte il direttore e la testata, cambia praticamente tutto della
testata: stampa in rotocalco a colori, prezzo ridotto a un terzo (50
centesimi), nuova linea grafica, cambiamento di formato e
diminuzione di numero di pagine.
La proprietà è passata ad una società del
gruppo Mondadori e il sottotitolo diventa: "Settimanale di novelle
dei massimi scrittori diretto da Pitigrilli".
In questo periodo il tono si fa sempre più leggero e
ammiccante, anche grazie alle procaci ragazze in abiti succinti e
attillati che animano le copertine. Si tratta delle Signorine Grandi
Firme, versione italiana (e mediterranea per tratti e colori) delle
pin up statunitensi.
È in quest'epoca, nel 1938, che si svolge la prima edizione
del concorso Signorina Grandi Firme, uno dei primi concorsi di
bellezza italiani. Ne fu vincitrice Barbara Nardi, in seguito
attrice di teatro e di cinema.
Il direttore sarà vittima delle leggi razziali fasciste
dell'autunno del 1938 e dovrà abbandonare l'Italia. Ma
già nel settembre del 1937 il suo nome scompare dal
sottotitolo, nell'aprile seguente anche dalla copertina; poi la
direzione viene assunta da Cesare Zavattini.
Terza serie
Dopo il primo periodo della nuova direzione, Le Grandi Firme diviene
il sottotitolo di una "nuova" rivista, Il Milione, che mantiene la
linea grafica, la redazione e la direzione del precedente.
L'esperimento non ha una lunga vita: dopo solo 43 numeri, nel luglio
del 1939, chiude i battenti. Mondadori aveva messo in cantiere un
nuovo periodico in rotocalco Grazia e la testata Le Grandi Firme -
Il Milione dovette cedere alla nuova creatura della casa editrice.
Nell'ultimo numero della rivista, uno speciale a soli due giorni dal
precedente, la redazione dà l'addio ai lettori, anzi
l'arrivederci sul nuovo periodico.
* Il
Bargello: rivista fondata da Alessandro Pavolini nel 1929.
* Pégaso:
rivista di lettere e arte fondata nel 1929 da Ugo Ojetti che,
insieme alla rivista Pan (fondata sempre da Ojetti nel 1933),
professa un forte ossequio al regime fascista e ne condivide gli
obiettivi di grandezza nazionale e di ordine da instaurare nella
società italiana.
La rivista, edita a Firenze da Le Monnier ed in seguito, dal 1932 al
1933, a Milano-Firenze da Treves-Treccani-Tumminelli, riporta nel
primo numero del gennaio 1929 una lettera d'apertura indirizzata a
Sua Eccellenza Benito Mussolini, dove Ojetti dimostra di
preoccuparsi dello stile fascista che deve nascere in arte e in
letteratura.
Lettera d'apertura
"Contro la persistente babele architettonica degli edifici e dei
monumenti, almeno le fabbriche sulle quali il Regime mura i fasci
littori dovranno essere riconoscibili anche tra un secolo. Quanto
alla pittura, converrà che i giovani rappresentino in
durevole forma d'arte le cronache illustrative dei fasti e delle
opere del regime. Nel campo letterario, il Capo, nato scrittore,
potrà intervenire statalmente con scuole bene ordinate e
biblioteche comode e ricche, sviluppando quelle organizzazioni
parallele capaci di salvaguardare e interpretare la cultura
classica, secondo lo spirito della riforma gentiliana."
La rivista appare subito specializzata nell'ambito della letteratura
italiana moderna e contemporanea con diversi saggi di Diego Valeri e
Giuseppe De Robertis sull'Ottocento-Novecento e brani di nuovi
articoli da Inverno malato di Alberto Moravia, da Avventura d'estate
di Corrado Alvaro, dal romanzo L'Andreana, pubblicato a puntate, di
Marino Moretti a opere di Massimo Bontempelli e Guido Piovene.
In "Pegaso", come in seguito nella rivista "Pan", viene professato
un generico buon gusto nelle arti nazionali tradizionali, ma vengono
rifiutate tutte le forme sperimentali e d'avanguardia dell'arte
novecentesca, dal futurismo, all'impressionismo, alla psicoanalisi.
Emilio Cecchi, in un articolo del giugno 1929 dal titolo
Argomenti-Psicoanalisi, si dichiara diffidente del rapporto
letteratura-psicoanalisi nella paura che la conoscenza
psicoanalitica possa portare "pericolosamente a sovvertire strutture
e ad allineare difese interne".
La rivista terminerà le sue uscite nel 1933.
* L'Universale:
rivista dei "GUF" (Gruppo Universitario Fascista) fondata nel 1931
da Berto Ricci e terminata nel 1935. L'Universale, fondata nel 1931
da Berto Ricci, fu il primo tra i periodici giovanili dei "GUF" (i
gruppi universitari fascisti fondati nel 1927) che, come li
definisce la rivista gentiliana "Educazione fascista", sono "fogli
d'avanguardia nati dallo spirito della rivoluzione".
Nel numero d'avvio de "L'Universale" del 1º gennaio 1931, Berto
Ricci (nato a Firenze nel 1905 e morto sul fronte libico nel 1941)
richiama in modo energico gli intellettuali, gli artisti, gli
scrittori, ad elaborare il fascismo universale:
"Avviso. Fondiamo questo foglio con la volontà di agire sulla
storia (...). Non ci sentiamo continuatori di nessun vivo: noi
s'è imparato a scrivere da Niccolò Machiavelli e dal
popolo d'Oltrarno, che sono dunque i nostri più diretti
maestri. Chi sognasse d'averci creato, si disilluda: gli uomini li
crea Iddio, e nessun compilatore di Lacerba, né Accademico
della Farnesina, ha potenza di rubargli il mestiere. La libreria
degli ultimi trent'anni ispira a noi rispetto e gratitudine per
certi nomi che abbiam cari, ma anche una fiera fede di superarla:
superare cioè l'impressionismo, e qualunque avanguardismo
vecchio (...). Crediamo nell'assoluto politico, che è
l'impero: aborriamo chi lo nomina invano. Oprano all'impero i poeti,
ma cantando i campi e gli amori, non con declamazioni sul fante. E
con ciò non chiediamo arte pura, impossibile separazione
dalla politica; anzi vogliamo e avremo poesia civile, ma in grande,
degna di questa patria."
La linea polemica dell'Universale rifiuta il falso antico, dal
neoclassicismo al mito della romanità, ma anche ogni forma di
regionalismo e di campanilismo.
La rivista afferma la partecipazione degli scrittori alla vita
italiana e la loro "lotta ferma e serena contro il barocco, fazioso
ambiente dei cerebratucoli camorristi, contro i circoletti della
petulante infecondità tipo Solaria".
Il 1º gennaio 1933 "L'Universale" lancia il suo Manifesto
realista nel quale nega nazionalismo, capitalismo e cattolicesimo
progettando una società fondata sull'universalismo fascista,
su un imperialismo popolare "non incorporato in associazioni, ma
emanante dal fascismo quale sua conseguenza immediata; e dal
Fascismo trasfuso a tutta la patria come coscienza d'una missione
universale".
L'ultimo numero della rivista uscirà il 25 agosto 1935 con la
giustificazione che allo scoppio della guerra d'Etiopia "non
è più tempo di carta stampata".
* Il
Ventuno: rivista edita a Venezia nel febbraio del 1932 come
"gazzetta di poesia" da un gruppo di studenti liceali e terminata
nel 1940.
Numerosi e di vario livello furono in questo periodo i periodici
universitari e i fogli gufini di provincia. Tra questi ultimi "Il
Ventuno" fu uno tra i più singolari.
Nato in origine come "gazzetta di poesia" da alcuni studenti liceali
veneziani, "Il Ventuno" diventa nel marzo 1933 fino al gennaio del
1934 "rivista culturale del GUF" e dal novembre 1935 al maggio 1940
rivista dei Littoriali, annoverando tra i collaboratori i fratelli
Francesco e Pier Maria Pasinetti, Umbro Apollonio, Renato Birolli,
Enrico Emanuelli, Giuseppe Mesirca.
La linea politica della rivista si affida di preferenza alla critica
di costume e a prese in giro allusive come le "favole" di Pier Maria
Pasinetti che vengono ad un certo punto sospese.
In campo letterario vengono fatti conoscere giovani scrittori come
Pier Antonio Quarantotti Gambini ed Elio Vittorini. Ma è
soprattutto nel campo del cinema che "Il Ventuno" si propone con
risultati critici e proposte politico-culturali spregiudicate ma
mature.
Da tener presente che proprio nel 1932 inizia la sua attività
a Venezia la Biennale del Cinema e gli articoli critici che escono
sulla rivista mostrano di essere sempre attenti al rapporto tra gli
aspetti formali e il significato morale, dietro i modelli di
René Clair, Alexander Korda, Josef von Sternberg e Robert J.
Flaherty de L'uomo di Aran.
* Pan: rivista di lettere, arte e
musica, fondata, da Ugo Ojetti nel 1933.
La rivista professava un sollecito ossequio a tutte le forme del
regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine
nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo
pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e
del fascismo universale.
Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane scrittore Guido
Piovene per la Rizzoli milanese, "Pan", a confronto della rivista
Pegaso che l'aveva preceduta, allarga gli orizzonti a interessi
più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla
storia, alle arti figurative, secondo un ideale di Humanitas
completamente antinovecentesco e filofascista che venne espresso nel
numero del gennaio 1934 nell'Avvertenza al lettore:
"Gli anni subito dopo la guerra, aprendo allo sguardo degli uomini
un mondo senza precedenti, dettero ai più l'illusione di
ricominciare la storia dal niente. Donde, la ricerca del nuovo,
l'aborrimento del passato, la negazione d'ogni studio e d'ogni
pietà. Ma già (...) questa prima, forse necessaria
fase di riflessione davanti al mondo nuovo è trascorsa. Prima
di tutti ne è uscita l'Italia per merito del Fascismo, ormai
riconosciuto dovunque come regime esemplare d'ordine umano e
d'intelligenza creativa (...) HUMANITAS è la parola nostra
che riunisce, e dimostra uguali, la spontanea e calda umanità
dell'animo e la cultura."
L'allineamento al regime di Pan passa dai contributi dell'architetto
ufficiale del regime Marcello Piacentini e del compositore
Ildebrando Pizzetti, alle adulazioni di Ojetti che nel suo articolo
Scritti e discorsi di Benito Mussolini, febbraio 1935, ne esalta
l'oratoria e altre virtù.
Per quanto riguarda la musica classicistica e antiavanguardista,
Mario Labroca, esalta la "ricchezza ritmica, chiarezza,
logicità di linguaggio" dello stile musicale di Strawinski.
A parte le specializzazioni differenti, le due riviste di Ojetti
sono sostanzialmente simili. Pan, terminerà le pubblicazioni
nel 1935.
* Quadrivio:
settimanale diretto da Telesio Interlandi e pubblicato dal 1933 al
1941, ha ospitato gli esordi letterari di Francesco Jovine, Carlo
Bernari, Alberto Moravia, Antonio Piromalli, Ennio Flaiano.
* Il
Bò: foglio del "GUF" di Padova, nasce nel 1935
dall'iniziativa di Ugo Marsia e Ruggero Zangrandi per terminare nel
1937. l Bò, foglio dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF) di
Padova, nasce nel 1935 dall'iniziativa di Ugo Mursia e Ruggero
Zangrandi. Il nome è ripreso dal popolare soprannome della
sede universitaria di Padova.
Dopo due anni, dal 1935 al 1936 di universalfascismo contro
l'espansionismo rosso e quello massonico, il segretario del PNF
(Partito Nazionale Fascista) decide che dal 28 gennaio "Il Bo" abbia
il compito di discutere su "Corporativismo-Questioni professionali
riguardanti le sezioni laureati-Assistenza".
Pertanto gli articoli del cinema e delle arti figurative passano in
secondo piano per lasciare spazio a quelli sul corporativismo, il
cui dibattito era condotto da Eugenio Curiel, che era diventato
nuovo redattore capo de "Il Bò" nel 1937, in collaborazione
con Ettore Luccini, ed era già in contatto con l'emigrazione
antifascista a Parigi (in seguito divenne dirigente comunista della
Resistenza e infine ucciso dai fascisti a Milano alla vigilia della
Liberazione).
I suoi numerosi articoli tendono tutti a prendere le difese dei
sindacati all'interno della fabbrica, mettendosi così in
polemica con Ugo Spirito che, rappresentando la tendenza
integralista di destra, mirava invece al primato della corporazione
contro il sindacato, seguendo la linea di condotta del Fronte del
Lavoro nazista.
* La
difesa della razza: rivista diretta da Telesio Interlandi,
vide il suo primo numero il 5 agosto 1938 e venne stampata, con
cadenza quindicinale, fino al 1943 (l'ultimo numero, il 117 risulta
uscito il 20 giugno 1943) dalla casa editrice Tumminelli di Roma.
Sul primo numero si affermava:
«Questa rivista nasce al momento giusto. La prima fase della
polemica razzista è chiusa, la scienza si è
pronunciata, il Regime ha proclamato l'urgenza del problema. Si
può fare qualcosa di utile chiarendo agli italiani non i
termini di una dottrina, che ha trovato ormai la sua più
semplice ed efficace formulazione, ma la sua irrevocabile
necessità e la sua vasta portata»
Il comitato di redazione è formato da nomi ben noti: Guido
Landra (l'estensore del Manifesto della razza), Lidio Cipriani
(professore di antropologia a Firenze), Leone Franzì
(assistente nella clinica pediatrica dell'Università di
Milano), Marcello Ricci (assistente di Zoologia a Roma) e Lino
Businco (assistente di Patologia all'Università di Roma), e
ne è direttore quel Telesio Interlandi che, alla direzione
del quotidiano fascista Il Tevere, si era distinto nelle campagne
antisemite del 1934 e del 1936-37. A partire dal 20 settembre 1938
segretario di redazione della rivista fu Giorgio Almirante, che
divenne successivamente leader del Msi (Movimento Sociale Italiano).
Vi collaborò anche il famoso pensatore tradizionalista Julius
Evola - che fu cacciato nel 1942 con l'accusa di "comunista" e
"anti-razzista". Tra i collaboratori anche Indro Montanelli,
Giovanni Spadolini ed Amintore Fanfani.
La rivista appare sulla scena con un poderoso sostegno finanziario e
politico, accompagnata da una martellante campagna pubblicitaria. In
particolare, il ministro dell'educazione Bottai, con una circolare
ministeriale del 6 agosto 1938, inviata a tutti i rettori delle
università e a tutti i direttori degli istituti scolastici
superiori, invita in modo assai energico le dette istituzioni a
contribuire alla diffusione capillare della rivista e
all'assimilazione diligente dei suoi contenuti. Un fascicolo
conservato nell'Archivio di Stato di Roma, ci informa che la
tiratura della rivista passò dalle 140-150.000 copie dei
primi numeri alle 19-20.000 copie del periodo luglio-novembre 1940
(delle quali circa 9000 distribuiti come omaggi o per abbonamenti).
Nel rilanciare l'antisemitismo in termini molto più espliciti
e aggressivi di quanto non fosse mai accaduto in precedenza, La
difesa della razza si affiancò ad altre testate d'assalto
come Il Tevere di Telesio Interlandi, Il regime fascista di Roberto
Farinacci, La vita italiana di Giovanni Preziosi, La Civiltà
Cattolica dei gesuiti,e tante altre pubblicazioni minori, come
Diritto razzista, Razza e civiltà e La stirpe. Ognuna di esse
si specializzò su un aspetto particolare della propaganda
antisemita per giungere a conclusioni convergenti. Se anche La
difesa della razza non riuscì a convincere gli italiani (o la
maggior parte di essi) della validità delle sue tesi
estremistiche, resta comunque il fatto che essa contribuì a
creare (o a consolidare) un clima di intensa diffidenza e di
avversione nei confronti degli ebrei (ma anche degli africani, degli
zingari, dei meticci, dei malati di mente, e di tutti coloro che
venivano presentati come una minaccia per la presunta purezza della
razza italiana), senza il quale il regime non avrebbe potuto agire
indisturbato.Attraverso la ripetizione martellante di stereotipi
razzisti ammantati di autorevolezza scientifica, i 118 numeri de la
difesa della razza fornirono, se non altro, un pretesto a coloro
che, tra il 1938 e il 1943, scelsero di non vedere, o di non
preoccuparsi di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi.
I razzisti italiani, che contribuirono alla redazione della rivista,
erano divisi in fazioni: il gruppo guidato da Nicola Pende e Sabato
Visco che propugnava il "nazional-razzismo" di matrice cattolica,
per molti anni la corrente principale del razzismo italiano; il
gruppo diretto da Julius Evola che caldeggiava il "razzismo
esoterico", il quale introduceva considerazioni di ordine storico,
culturale e spirituale; infine il gruppo capeggiato da Guido Landra
e Giorgio Almirante, che sosteneva il razzismo biologico "della
carne e del sangue", e definiva la razza in termini puramente fisici
e fisiologici. Quando era politicamente opportuno che l'Italia si
mostrasse indipendente dalla Germania, Mussolini prediligeva il
nazional-razzismo, che aspirava a fondere in un abbraccio ecumenico
"l'idea di razza con l'idea di Roma". Quando viceversa ritenne che
fosse giunta l'ora di stringere i rapporti con i nazisti, chiese
assistenza ai "biologici" e agli "esoterici", entrambi affiliati ai
razzisti tedeschi. Fu attorno al nucleo degli assertori del razzismo
biologico che si costituì il comitato di redazione de La
difesa della razza: gli esponenti cattolici furono presto
allontanati, ma continuarono ad apparire sporadicamente nella
redazione degli articoli pubblicati.
La rivista presenta una suddivisione per argomenti molto articolata:
forme del razzismo fascista (legislazione razziale, difesa della
razza nell'impero, aspetti politico-sociali), storia dell'ebraismo
dall'antichità all'epoca contemporanea, argomenti
"scientifici" (studiosi e teorie del razzismo, antropologia,
biologia, paleontologia, geografia razziale). Completano la rivista
il "questionario" (interventi dei lettori) e le recensioni librarie.
I principi e la politica del razzismo fascista sono in gran parte
dedicati alle tematiche antisemite, svolte spesso con toni di accesa
violenza. La difesa della razza propone diverse rappresentazioni
dell'ebreo, le quali possono essere fatte risalire alle numerose
sfaccettature della "maschera" ebraica. In effetti, gli articoli non
aggiungevano molto ai pregiudizi correnti, limitandosi a mettere
insieme un'accozzaglia di imputazioni infamanti tratte dalla
secolare tradizione antigiudaica e antisemita (ad esempio
l'infanticidio rituale, il deicidio, la profanazione dell'ostia,
l'avvelenamento dei pozzi, ecc.). Si occupa inoltre dei problemi
razziali delle colonie e svolge una propaganda razzista nel segno
dell'espansionismo e dell'esaltazione della guerra e delle
virtù guerriere della "superiore stirpe ariana" italiana, il
tutto col sostegno assiduo di argomentazioni pseudoscientifiche.
L'obiettivo era di persuadere gli italiani che il colonialismo,
l'eugenetica, il divieto dei matrimoni misti e le leggi razziali
fossero scelte politiche legittimate dalle Leggi di Natura.
Per difendere l'italica stirpe dalle presunte "razze inferiori" e
dagli individui "degenerati", come venivano talora chiamati gli
individui affetti da gravi malformazioni o da "malattie sociali"
(pazzia, criminalità, prostituzione, vagabondaggio, ecc.), la
rivista proponeva rimedi di tipo eugenetico. Alcuni sostenevano la
necessità di rinchiudere, sterilizzare o addirittura di
sopprimere tutti coloro che rischiavano di depositare le loro scorie
nel patrimonio genetico della nazione. Ma da un punto di vista etico
e istituzionale questo creava qualche imbarazzo, e per anni le
proposte più accreditate furono quelle avanzate dagli
eugenetisti cattolici capeggiati da padre Agostino Gemelli,
già firmatario del Manifesto della razza. La difesa della
razza accolse il progetto già delineato dal Gemelli nella
relazione Religione ed eugenetica, presentata al primo Congresso
Italiano di Eugenetica Sociale (Milano, 10-23 settembre 1924), nella
quale, scartate misure drastiche come quella della sterilizzazione,
erano state avanzate proposte come la prescrizione della
castità all'interno del matrimonio o, meglio ancora, la
rinuncia del matrimonio stesso da parte dei portatori delle tare
ereditarie.
* Architrave:
foglio della Gioventù Universitaria Fascista (GUF) di Bologna
nato nel 1940 come mensile di politica, letteratura ed arte. Nato
tardi rispetto ad altri fogli gufini, si proponeva di essere una
rivista di cultura intesa come vita. Il programma di cultura-prassi,
pensiero-azione venne dichiarato sul primo numero del primo anno di
direzione del bottaiano Roberto Mazzetti:
Il programma editoriale, nel primo anno sotto il Mazzetti e nel 1941
sotto la direzione di Reverberi Riva e Dino Gardini, prevede
numerose inchieste sull'ermetismo, sull'università, sul nuovo
Umanesimo (non la cultura è lavoro ma il lavoro è
cultura) e rilancia il concetto di corporativismo insieme alla
interpretazione contemporanea data al fascismo come nuova
civiltà del lavoro.
Roberto Mazzetti, che era un corporativista di sinistra, spera in
una onesta collaborazione tra Italia fascista, Germania nazista e
Russia sovietica, tesi che l'aggressione tedesca all'Unione
Sovietica smentirà clamorosamente.
Nel settore del cinema gli impegni di "Architrave" sono tutti validi
con gli interventi di Renzo Renzi con Pessimismo di Duvivier nel
numero del 1º dicembre 1940, e quelli di Guido Aristarco, Ugo
Betti, Enzo Biagi, Lamberto Sechi.
Nel campo della letteratura collaborano Agostino Bignardi, Giorgio
Vigolo, Oreste Macrì, Roberto Roversi con l'articolo su
Sandro Penna o della grazia poetica del 1º dicembre 1941 e Pier
Paolo Pasolini con l'articolo "Umori" di Bartolini del 1º
maggio 1942.
Il campo della critica dell'arte viene affidato a Virgilio Guidi,
Gastone Breddo e Francesco Arcangeli.
Le sconfitte in Libia e le delusioni della guerra dell'Asse aprono
gli occhi ai giovani di "Architrave" e nella primavera del 1942 la
terza edizione della rivista inizia con una linea politica
differente, assumendo tendenze antidittatoriali e antimussoliniane.
Viene coinvolto dalla sfiducia e dal sospetto anche il fascismo di
sinistra e lo stesso bottaismo, che viene considerato un ulteriore
elemento di corruzione.
Francesco Arcangeli scriverà: "I discorsi che comparivano su
Critica fascista e su Primato, anche e proprio perché erano
contro l'estremismo farinacciano, finivano col sembrarci più
insidiosi. Eravamo, ormai, per il tanto peggio tanto meglio; e dal
fascismo non speravamo più nulla".
L'ultimo numero di "Architrave" uscì nel giugno del 1943.
* Primato:
rivista quindicinale di Lettere e arti d'Italia fondata a Roma da
Giuseppe Bottai nel 1940 ed edita fino al 1943.
La rivista proseguì il dibattito sull'identità
dottrinaria del fascismo, già avviato da Critica fascista,
col tentativo propagandistico di coinvolgere i letterati. L'articolo
programmatico di Bottai, pubblicato sul primo numero della rivista
il 1º marzo 1940, invitava gli intellettuali a uscire allo
scoperto e a riprendere la loro missione di interventisti della
cultura.
Linee programmatiche
"Niente di strano se, fatto il confronto di quante volte la parola
GUERRA prevalga, ora, sulla parola CULTURA, molti troveranno
sorprendente e CORAGGIOSA, piuttosto che NORMALE e DEL TUTTO
ADERENTE AL MOMENTO l'uscita di "Primato", di un rivista cioè
che reca per sottotitolo lettere e arti d'Italia. Ma chi ha
dimenticato o vuole dimenticare - per ricordare soltanto una
giornata nella nostra storia recente - che a portare in trincea, con
quell'anima e quella volontà, i combattenti del 1915,
concorsero proprio le riviste e i giornali, i libri e i quaderni
letterari, conservati gelosamente nello zaino e dimostrandosi
necessari alla salute dello spirito quanto per la difesa del corpo
furono le Sipe e i Novantuno?(...). Con questo spirito dunque,
Primato chiama a raccolta le forze vive della cultura italiana; e
tenta, attraverso un'azione ordinata, concorde, e, il più
possibile, nobilmente popolare, di rendere concreto ed efficace il
rapporto tra arte e politica, tra arte e vita; col proposito,
insomma, di operare l'unione fra alta cultura e letteratura
militante, fra Università e giornale, fra gabinetto
scientifico e scuola d'arte, lavorando nel nome e nell'interesse
della PATRIA. Questa Patria che un tempo ricorreva frequente e
spontanea nelle scritture dei letterati, nelle memorie degli
artisti, nelle relazioni degli scienziati, e alla quale essi
dedicarono vita e speranze, 'Amate palesemente e generosamente le
lettere e la vostra Nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi,
e assumete il coraggio della concordia'. Il corggio della concordia
risultante di quel nutrito amore all'arte e alla Patria, e mezzo
indispensabile per imporre il primato spirituale degli Italiani di
Mussolini". "
I primi due anni di Primato non furono in grado di far sentire il
peso sulla cultura. In questo periodo iniziale, l'esperienza del
coraggio della concordia si esprime attraverso le grandi inchieste
sull'ermetismo, anche se si augura una maggiore
comunicabilità e una maggior chiarezza nell'arte.
Quando la Russia venne invasa dalle truppe naziste (22 giugno 1941)
"Primato", ormai convinto di essere dentro la guerra,
intensificò l'appello all'interventismo della cultura nel
conflitto in atto. Con il termine della non belligeranza e l'entrata
in guerra dell'Italia fascista a fianco della Germania hitleriana,
crescono i doveri dell'intervento della cultura per contribuire alla
vittoria che sarà, come dice l'articolo del 15 febbraio e del
1º marzo 1941, "immancabile".
Quando tuttavia l'assenteismo e la defezione di molti uomini di
cultura, nel momento più difficile della lotta, si
intensificò e le sconfitte tedesche aumentarono, mentre i
bombardamenti distruggevano le città italiane, "Primato"
comprese, con grande amarezza, la vuotezza sterile del fascismo
universale inutilmente sognato per l'Europa e si fermò
davanti all'irrimediabile crollo del regime. La rivista chiuse il 25
luglio 1943.
Riviste alternative durante il
regime
La rivendicazione dei cattolici
* Vita e pensiero: rivista
fondata il 1 dicembre 1914 a Milano dal francescano Agostino
Gemelli, Ludovico Necchi e Francesco Olgiati, che si proponeva come
mediatrice tra la fede e il mondo.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, il francescano Agostino
Gemelli, Ludovico Necchi e Francesco Olgiati diedero vita ad un
periodico allo scopo di rimuovere il disagio dei cattolici e farli
discutere con rinnovata energia sui problemi politici, economici,
sociali.
"Vita e pensiero" bandisce un manifesto non meno famoso di quello
futurista pubblicato cinque anni prima da Marinetti, il manifesto
medievalista, redatto da padre Gemelli:
Manifesto medievalista
"Ecco il nostro programma! Noi siamo MEDIEVALISTI. Mi spiego. Noi ci
sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta cultura
moderna così povera di contenuto, così scintillante di
false ricchezze tutte esteriori, sia che essa si pavoneggi nelle
prolusioni universitarie o che filantropica scenda nelle
università popolari a spezzare agli umili il pane della
scienza moderna. Essa è un aggregato meccanismo di parti non
intimamente elaborato, messe insieme senza connessione intima,
organica. Essa è un mosaico costruito da un ragazzo anormale,
che non ha il senso dei colori e delle figure. Ancora. Noi abbiamo
paura, paura di questa cultura moderna, non perché essa alza
le sue armi contro la nostra fede, ma perché strozza le
anime, coll'uccidere la spontaneità del pensiero. Ancora. Noi
ci sentiamo infinitamente superiori a quelli che proclamano la
grandezza della cultura moderna. Questa è infeconda e
incapace di creare un solo pensiero ed al posto del pensiero ha
eretto a divinità la erudizione del vocabolario e della
enciclopedia."
Estremamente duro, il manifesto medievalista era motivato dalla
situazione in cui versava allora la cultura cattolica, combattuta
dal positivismo e dall'idealismo, aggredita dal materialismo e dal
libero pensiero.
Con il ritorno al Medioevo, padre Gemelli prospettava un modello di
società armoniosa nella quale la fede potesse ritornare ad
animare la cultura in modo che il pensiero cristiano potesse ancora
influenzare la realtà quotidiana.
Dopo la guerra del '15-'18, dal dibattito e dalle iniziative
promosse dalla rivista scaturisce l'idea dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore, centro di cultura, che sarà poi
realizzata nel 1921.
Sul terreno politico la rivista combatte i cattolici liberali e
polemizza con l'aconfessionalismo e l'interclassismo del Partito
Popolare, finché non sopravviene la marcia su Roma, la caduta
dello Stato costituzionale e l'avvento del fascismo.
Tra il 1921 e il 1927 il gruppo dirigente di "Vita e pensiero", di
orientamento medievalista e neotomista, pur riconoscendo a Mussolini
il merito di aver liquidato il liberalismo, la democrazia socialista
e la massoneria, diffida del movimento politico fascista e della sua
ideologia.
Nel 1929 i Patti Lateranensi stipulati tra l'Italia e la Santa sede
risolvono in parte la questione cattolica, ma l'entusiasmo con cui
"Vita e pensiero" può accogliere la svolta della
Conciliazione, non elimina il problema aperto delle libertà
civili e politiche dalle leggi "fascistissime".
Nel periodo che va dalla Conciliazione alla seconda guerra mondiale,
l'Università Cattolica e le sue tre riviste (si è
infatti aggiunta a "Vita e pensiero", la "Rivista di filosofia
Neoscolastica" e la "Rivista internazionale di scienze sociali")
s'impegnano attivamente a recuperare i ritardi accumulati dai
cattolici nella moderna ricerca scientifica.
Si cerca di dare molta attenzione ai nuovi settori della psicologia
sperimentale, dell'economia, degli studi giuridici per formare "una
élite culturale, sociale e religiosa" in grado di promuovere
"la rinascita cristiana della società".
* Frontespizio:
rivista cattolica letteraria fondata nel 1929 a Firenze da Enrico
Lucarelli e conclusasi nel 1940.
Le origini della rivista " Frontespizio", che esce il 26 maggio 1929
a Firenze, sono modeste. Nasce infatti come bollettino bibliografico
della Libreria Fiorentina diretto prima da Enrico Lucatello e poi da
Piero Bargellini, per passare quindi dal giugno 1930 all'editore
Vallecchi.
La rivista cercherà per tutto il lungo periodo editoriale,
sotto la spinta del sacerdote Giuseppe De Luca, di ritrovare e
recuperare tutti quei valori religiosi, sia nell'arte che nella
letteratura, che erano andati perduti e cercherà di rimanere
autonoma nei confronti del potere politico ufficiale del momento.
"Letteratura come vita"
Rifiutiamo la letteratura come illustrazione di consuetudine e di
costumi comuni, aggiogati al tempo, per la conoscenza di noi stessi,
per la vita della nostra coscienza. A questo punto è chiaro
come non possa esistere (...) un'opposizione fra letteratura e vita.
Per noi sono tutt'e due, e in egual misura, strumenti di ricerca e
quindi di verità: mezzi per raggiungere l'assoluta
necessità di sapere qualcosa di noi (...). La letteratura
è una condizione, non una professione. Non crediamo
più ai letterati gelosi dei loro libri (...). Non esiste un
mestiere dello spirito (...). La nostra letteratura sale dalle
origini centrali dell'uomo (...). È la vita stessa, e
cioè la parte migliore e vera della vita (...) lo scrittore
chieda al suo testo la verità che l'urge interiormente e per
cui sente di dover scrivere (...). Quando si parla di letteratura
come vita, non si chiede che un lavoro continuo e il più
possibile assoluto di noi in noi stessi, una coscienza interpretata
quotidianamente nel gioco delle nostre aspirazioni, dei sentimenti e
delle sensazioni. L'identità che proclamiamo è il
bisogno di un'integrità dell'uomo, che va difesa senza
riguardi, senza concessioni".
Accanto a Giuseppe De Luca operano due gruppi: il gruppo di destra
formato da Bargellini, Papini, Barna Occhini, fedeli alla Scolastica
e a San Tommaso, che si esprime in un toscanismo provocatorio di
carattere lacerbiano e tradizionalista e il gruppo di sinistra,
rappresentato da Carlo Bo e dagli amici Mario Luzi, Oreste
Macrì, Alessandro Parronchi, Leone Traverso di impronta
agostiniana e pascaliana che accolgono le voci europee e
antitradizionali.
A parte stanno Nicola Lisi e Carlo Betocchi con i loro valori
semplici e quotidiani, natura, Dio e famiglia, in un mondo che
sentono gioioso. Lisi collabora alla rivista con le sue prose e
Betocchi con la sua poesia inventiva e consolatoria. Le prose di
Lisi pubblicate su Il Frontespizio faranno poi parte dei volumi
Favole, Prose dell'anima, L'arca dei semplici e le liriche di
Betocchi saranno in seguito raccolte in Realtà vince il
sogno.
Il periodo più ricco e contrastato del "Frontespizio" si ha
negli anni che vanno dal 1936 al 1938.
La rivista assume in questo periodo un aspetto grafico notevole con
riproduzioni d'arte in ogni numero, dalle xilografie di Pietro
Parigi ai fiori e alle figure di Giacomo Manzù.
Con il dibattito sociologico sull'ateismo moderno tra Antonio Miotto
e Igino Giordani nell'agosto - settembre 1936, il fascicolo
leopardiano del settembre 1937 e quello dannunziano nel marzo 1938,
la rivista raggiunge un bilancio più che positivo, ma nel
frattempo si aggrava la frattura tra la direzione del periodico e il
gruppo di sinistra guidato da Carlo Bo a causa degli articoli su
Unamuno, Alain-Fournier, Mauriac e Riviére improntati ad una
visione cattolica non tradizionalista e delle traduzioni e
interpretazioni critiche dei grandi poeti stranieri da parte di
Mario Luzi, Giancarlo Vigorelli, Sinisgalli, Sereni, Gatto e altri.
Il saggio Letteratura come vita che sarà il centro della
polemica, porterà Bo a lasciare il "Frontespizio" nel
settembre del 1938.
Il saggio, che risulta uno dei documenti più validi della
nuova stagione ermetica, accredita alla condizione letteraria il
senso del "fatto interiore", del movimento integro e vivo della
coscienza proprio quando "Il Frontespizio", tra il 1937 e il 1938,
inizia a ripiegarsi su posizioni di cronaca conformista.
Con questo documento Bo e i suoi amici dicono no a "Il frontespizio"
e al suo allinearsi con la cultura fascista e, mentre la rivista
diretta da Barna Occhini li investe con pesanti minacce essi
continueranno il loro cammino di giovani esuli in patria su
"Letteratura", "Campo di Marte" e "Corrente di Vita Giovanile".
Le riviste di Strapaese
All'indomani del delitto di Giacomo Matteotti il fascismo delle
"origini", tutta azione e risoluzione, provoca manifestazioni
squadristiche ed episodi difensivi che, all'insegna del movimento di
Strapaese e dei suoi fogli, Il Selvaggio di Mino Maccari e
L'Italiano di Leo Longanesi, programmano l'utopia dell'Italia
terrigena e tradizionalista, barbara e antieuropea.
* Il
Selvaggio: rivista ideata da Angiolo Bencini, un
ex-ufficiale e vinaio, Ras di Poggibonsi in provincia di Siena.
Visse dal 1924 al 1943.
Bencini contatta il giornalista ed appassionato di disegno ed
esperto xilografo ed incisore Mino Maccari, che apprezza molto
l'iniziativa ed a cui affida l'incarico di redattore della rivista,
diventandone in seguito anche direttore.
Il 13 luglio 1924 Il Selvaggio inizia le sue pubblicazioni a Colle
Val d'Elsa, in provincia di Siena, presso la Tipografia Bardini. Due
anni dopo la marcia su Roma e dopo un mese dall'assassinio di
Matteotti e, sotto la testata del primo numero, riporta la qualifica
di Battagliero fascista.
Dal 1924 al 1925 Il Selvaggio presenta contenuti chiaramente
ortodossi e allineati col regime, come si può leggere sul
numero del 12 ottobre 1924 nell'editoriale Botte ai liberali, o sul
numero del 18 maggio 1925 Selvaggia provincia svegliati!.
Nel 1926 la direzione viene assunta da Maccari, che cambia molte
cose. Il giornale, dopo numerosi contrasti, si affranca dalla
politica. È stesso Maccari ad annunciare, nell'articolo di
fondo intitolato Addio al passato, il nuovo indirizzo del Selvaggio,
che non intende più essere l'esempio di un fascismo
"agonistico" ma una rivista che deve dedicarsi all'arte e alla
letteratura.
Dal marzo 1926 al dicembre 1930 il periodico è pubblicato a
Firenze. Dopo una parentesi torinese tra il 30 gennaio ed il 30
dicembre 1931, avviene il trasferimento definitivo a Roma. Il
giornale viene pubblicato nella capitale dal 31 marzo 1932. Dal 1933
la sede è riunita con quella del periodico L'Italiano,
diretto da Leo Longanesi, che diventa il direttore de facto del
Selvaggio.
Da tutte e tre i periodi riuscirà a trarre un intelligente
vigore per le sue battaglie che difendono, tra tolleranza e censura,
l'autonomia dell'arte ed il diritto dell'attività culturale
di "ridere" della politica, fatto quest'ultimo che costerà
alla rivista numerosi casi di sequestro.
Il Selvaggio tralascia i protagonisti dell'arte di Stato come
Cupriano Ofisio Oppo, Filippo Tommaso Marinetti ed Ugo Ojetti,
puntando su veri artisti anche se poco graditi al regime o
addirittura sconosciuti. Hanno così spazio sui fogli de Il
Selvaggio artisti come Giorgio Morandi, Luigi Spazzapan, Renato
Guttuso, Quinto Martini, Orfeo Tamburi e tra i narratori, Arrigo
Benedetti, Aldo Buzzi, Mario Tobino, Romano Bilenchi, Luigi
Bartolini, Elsa Morante e Guglielmo Petroni. La rivista non dispensa
inoltre gli attacchi contro i firmatari della Protesta Croce,
l'antisemitismo di Ardengo Soffici e la polemica contro i redattori
di Solaria.
* L'Italiano (1926-1942) L'Italiano
fu una rivista storico-letteraria, fondata nel 1926 a Bologna da Leo
Longanesi. Dal 1933 fu pubblicata a Roma.
La storia della rivista può essere divisa in tre periodi: 1)
dal 1926 al 1929; 2) dal 1930 al 1936; 3) dal 1937 al 1942.
Primo periodo
Sul numero d'esordio, uscito il 14 gennaio 1926 appare, a firma di
Gherardo Casini, il programma del nuovo periodico, che si presenta
subito come tradizionalista e patriottico, convinto difensore della
genuinità paesana tosco-romagnola alle prese con le minacce
della moderna civiltà. "L'Italiano" si propone soprattutto
«d'impedire l'imborghesimento del fascismo, di sostenerne le
finalità rivoluzionarie, di colpire a fondo gli avversari di
Mussolini, d'inventare un'arte e una letteratura fasciste».
Programma di italianità
"I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la
democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col futurismo,
con l'utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boekling,
con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la
tisi Marxista.
L'Italia ha il sole, e col sole, non si può concepire che la
Chiesa, il classicismo, Dante, l'entusiasmo, l'armonia, la salute
filosofica, il fascismo, l'antidemocrazia, Mussolini.
Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche che
sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha dato.
(...) La sostanza genuina dell'italiano nuovo noi la dovremo cercare
dove non è arrivata la corrompitrice civiltà moderna.
E si badi bene che con questo non intendiamo dire della
civiltà meccanica, del telefono, del telegrafo, delle strade
ferrate, dell'igiene e se si vuole della radiofonia e del
cinematografo, ma di quelle forme di vita e di mentalità
forestiere che ci si sforza d'adottare fra noi deprimendo le nostre
native qualità paesane."
Il direttore del periodico, il giovane giornalista Leo Longanesi,
inserisce come sottotestata «Rivista settimanale della gente
fascista». L'impostazione della rivista, così come per
la "sorella" Il Selvaggio [1], è basata su un sapiente uso
della parte figurativa e iconografica. Mino Maccari, direttore de
"Il selvaggio" e Longanesi lavorano insieme esprimendo le loro doti
di fini disegnatori e stilisti. Camillo Pellizzi, ideologo della
rivista, scriveva tra il 1924 e il 1925 che «il nazionalismo
rappresentava l'estrema destra della mentalità borghese
democratica nata dalla Rivoluzione francese e apparteneva
perciò alla società che fascismo voleva superare [2].
L'Italiano si proclama anti-borghese [3]. In questo primo periodo
L'Italiano è di tradizionale formato giornale; impaginato su
quattro colonne, si distingue per l'eleganza nella composizione,
arricchita dall'uso dei disegni (quasi sempre satirici e, nella
prima fase, di mano sia principalmente del Longanesi e di Maccari) e
per il recupero, divenuto celebre, dei caratteri Bodoni e Aldini,
cioè della grande tradizione tipografica italiana [4]. Esce
con periodicità settimanale.
Sul n. 3, a pag. 4 appare il celebre slogan, ideato da Longanesi
stesso, «Mussolini ha sempre ragione». La rivista
inoltre pubblica i versi scanzonati di Curzio Malaparte, tra cui
rimane famosa la "Cantata dell'Arcimussolini" apparsa sul n. 7/8/9
del 30 giugno 1927 [5]. Nel 1928 appare la rubrica Kodak, nella
quale Longanesi mostra per la prima volta il suo interesse per la
fotografia e il cinema.
Secondo periodo
Con il numero del 9 gennaio 1930 diminuisce il formato e aumenta il
numero delle pagine, che passano da quattro a dodici. La
periodicità passa da settimanale a quindicinale; Longanesi
sceglie come nuovo sottotitolo «Foglio quindicinale della
rivoluzione fascista».
Inizia la serie dei «Ritratti»; nascono nuove rubriche:
Barnum Museum (una critica alla cultura ufficiale: il Museo offre
del mondo l'immagine parziale, incompleta, dei « pezzi forti);
I Misteri dell'Italia e Magazzino.
Nel 1929 Camillo Pellizzi si era trasferito a Londra, come
corrispondente del Corriere della Sera. Nei primi anni Trenta
Giovanni Ansaldo lo sostituisce come politico e ideologo della
rivista [6]. Nel 1931 la rivista dedica un numero monografico a
Giorgio Morandi (n. 10). Dopo di esso, che riscuote grandi consensi,
Longanesi si dedica sempre più ai numeri unici, costruiti
attorno a inserti fotografici di grande bellezza e intensità
[7]. Longanesi riserverà a sé una rubrica: L'œil de
bœuf ("L'occhio di bue").
Nel marzo 1931 L'Italiano esce in formato quaderno, con una
foliazione di circa quaranta pagine. La periodicità passa da
quindicinale a mensile. Aumenta la presenza di fotografie e disegni.
La pubblicità appare su pagine rosa e verdi. Compaiono le
prime traduzioni di autori stranieri contemporanei. Nel 1932
Loganesi si trasferisce a Roma, dove porta la direzione della
rivista.
Divenuto «Foglio mensile della Rivoluzione fascista»,
formato 18 per 24,5 cm, ne fa una raffinata rivista d'arte e
letteratura: uso di caratteri bodoniani e corsivi, con una redazione
più strutturata. La frequenza, diventata mensile, salta
più volte: per preparare il numero «L'italiano in
guerra. 1915-1918» (L'Italiano n. 25-26, aprile 1934),
Longanesi impiega un anno e mezzo.
Scrittori italiani pubblicati: Alberto Moravia, Elsa Morante,
Giovanni Comisso, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Antonio
Benedetti, Mario Soldati, Mario La Cava, Mario Tobino
Scrittori stranieri pubblicati: notevole presenza americana (William
Faulkner, William Saroyan, Ernest Hemingway) e, fra i numerosi
altri, Jean Giono, André Gide, Joseph Roth, David Herbert
Lawrence.
Terzo periodo
Longanesi, impegnato nella realizzazione di un settimanale
d'attualità (Omnibus, il cui primo numero uscirà il 3
aprile 1937), dedica sempre meno tempo a L'Italiano. La rivista
prosegue le pubblicazioni, con irregolarità, uscendo una o
due volte all'anno, con fascicoli tripli o quadrupli.
Il 1939 è il 14o anno di pubblicazione. Curiosamente,
però, Longanesi mantiene fisso l'anno sul 13. E sarà
così fino alla fine. La circostanza può essere
spiegata con la grande delusione - professionale e personale -
dovuta alla cancellazione di Omnibus, che avviene appunto all'inizio
del 1939 [8].
Nel 1941 esce un numero unico (settembre-ottobre, intitolato
«Ricordo del Positivismo»).
L'ultimo numero de L'Italiano porta la data di novembre-dicembre
1942.
Il novecentismo e l'europeismo
* "900", Cahiers d'Italie et d'Europe:
rivista che esce nel novembre del 1926, diretta da Massimo
Bontempelli con Curzio Malaparte come condirettore che, dopo qualche
numero passerà in modo clamoroso nel campo opposto
schierandosi con gli strapaesani della rivista "Il Selvaggio".
La rivista, che viene accolta da "una tempesta di discussioni, quasi
tutte ostili" nell'ambiente strapaesano e fascista, ebbe redattori
di fama internazionale, come Ramón Gómez de la Serna,
James Joyce, Georg Kaiser, Pierre Mac Orlan, ai quali si aggiunse
dal terzo numero, nella primavera del 1927, il sovietico Ilya
Ehrenburg. I segretari di redazione erano due: Corrado Alvaro a Roma
e l'emigrato politico Nino Frank a Parigi.
I primi quattro preamboli, Giustificazione, Fondamenti, Consigli,
Analogie furono pubblicati in francese nei quaderni dell'autunno
1926, nel marzo e nel giugno del 1927 (vennero poi tradotti nel 1938
dallo stesso Bontempelli) ed espongono le principali linee del
Novecentismo, subito rinominata dagli avversari in modo negativo
come movimento di Stracittà.
Nel giro di soli tre anni, "900" ospitò il dadaista
Ribemont-Dessaignes e il surrealista Soupault; fece conoscere per la
prima volta in Italia paragrafi tradotti dall'Ulisse di James Joyce
e da La signora Dalloway di Virginia Woolf; riportò il
profilo di George Grosz scritto da Ivan Goll, gli inediti di Anton
Čechov e "Le memorie postume del vecchio Teodoro Kusmic" di Lev
Tolstoj.
Ma il dialogo internazionale che Bontempelli tentò di
instaurare, il suo miraggio novecentista di aprire all'Europa la
provincia culturale italiana e il progetto ad esso connesso di
esportarvi una letteratura più giovane e nuova, si svolse in
condizioni difficili e sospette, tanto che, dopo il quarto numero,
il regime impose a "900" di usare la lingua italiana e l'"avventura"
novecentista di Bontempelli ebbe presto termine[2]. La rivista
chiuse infatti nel giugno del 1929.
* Solaria:
rivista fondata nel 1926 da Alberto Carocci che ebbe come
condirettori in tempi differenti, Giansiro Ferrata e Alessandro
Bonsanti.
All'interno della rivista coesistono due gruppi: il gruppo dei
rondisti, come Riccardo Bacchelli e Antonio Baldini che, insieme
agli stilisti lirici più giovani come Bonaventura Tecchi,
Arturo Loria, Alessandro Bonsanti, è convinto di poter
realizzare una civiltà letteraria autonoma al di fuori dei
compromessi politici e il gruppo solariano al quale fanno parte
Eugenio Montale, Leone Ginzburg, Aldo Garosci, Guglielmo Alberti,
Giacomo Debenedetti, Mario Gromo, Umberto Morra di Lavriano, Sergio
Solmi, che, riprendendo lo spirito intransigente di Gobetti,
dichiara un diverso impegno di "denuncia moralistica ideologicamente
caratterizzata" nei confronti della realtà contemporanea,
quella cioè del fascismo. Tra i collaboratori della rivista,
in posizione problematica, compare anche Carlo Emilio Gadda.
Nel corsivo di apertura del primo numero uscito nel gennaio del 1926
compare una premessa non programmatica.
Dichiarazione
"Solaria nasce senza un programma preciso e con qualche non
spregevole eredità. Forse l'una e l'altra debbono
considerarsi di buon augurio in un momento sazio e invero poco
nostalgico di rivoluzioni (...)".
"NON SIAMO IDOLATRI DI STILISMI E PURISMI ESAGERATI e se tra noi
qualcuno sacrifica il bel ritmo e magari la proprietà del
linguaggio nel tentativo di dare fiato a un'arte singolarmente
drammatica e umana gli perdoniamo in anticipo con passione. Per noi,
insomma, Dostojevskij è un grande scrittore. Ma non
perdoneremo nemmeno ai fraterni ospiti le licenze che non siano
pienamente giustificate e in questo CI SENTIAMO RONDESCHI".
"SENZA PRECISO PROGRAMMA ma con una coscienza di alcuni fondamentali
problemi dell'arte che si suppone concorde, ci siamo avvistati nei
caffè e concertati alla buona come per vestire una commedia
in un teatrino di campagna, ma l'esser qui convenuti da luoghi
diversi non deve far credere a nessuno che ogni giorno s'aspetti un
treno. Né si giudichi male il nostro tono eventualmente
svagato: talvolta uno di noi si porrà a discorrere di
argomenti che alcuno suppone invecchiati o di cattivo gusto. Sia
cortese il pubblico di volerne ascoltare le parole come le battute
d'una commedia e s'accontenti di giudicarci a mano a mano che gli si
comporrà nella mente la prospettiva di questa nostra
CITTÀ IDEALE".
Non manca comunque una linea che caratterizza l'attività
della rivista che consiste nella battaglia per il collegamento con
le grandi esperienze letterarie europee, in special modo costituito
dai contributi di Arturo Loria, Nino Frank e Leo Ferrero,
quest'ultimo corrispondente fino al 1933 da Parigi e Yale.
Verranno fatti conoscere non solo gli autori francesi come
già consuetudine, ma anche quelli inglesi (Joyce, Eliot,
Virginia Woolf), statunitensi (Hemingway, Faulkner), russi
(Majakovskij, Esenin, Pasternak) e mitteleuropei (Rilke, Kafka,
Thomas Mann, Zweig).
Spesso si nota nelle scelte solariane una preferenza per la grande
tradizione del romanzo europeo. Mentre scoprono Svevo e Tozzi ai
quali vengono dedicati due numeri doppi speciali, rispettivamente
nel marzo-aprile 1929 e nel maggio-giugno 1930, essi valorizzano la
poesia di Ungaretti, di Montale e di Saba e frequentano assiduamente
Proust, Valéry, Gide, Rilke e Kafka oltre Joyce ed Eliot.
I solariani sperano in una Europa civile capace di arte drammatica e
umana proprio nel momento in cui l'Europa vincente
dell'universalismo fascista e del nazismo preparano la propria opera
di distruzione.
La rivista venne sottoposta più volte a censura e gli ultimi
numeri di "Solaria" 1934 escono con due anni di ritardo nel 1936.
Il n. 2, marzo-aprile 1934 riporta due scritti, Le figlie del
generale di Enrico Terracini e Il garofano rosso di Elio Vittorini,
che era iniziato a puntate dal febbraio-marzo 1933.
Gli scritti in questione vengono ritenuti offensivi per la morale e
il buon costume e, con un decreto prefettizio, il numero 2 della
rivista viene sequestrato.
Nel 1936 "Solaria" terminò le sue pubblicazioni, sia a causa
delle sempre maggiori difficoltà frapposte dalla censura
fascista, ma anche per ragioni interne.
Infatti, in seguito alla campagna vittoriosa d'Africa, negli anni
cosiddetti del consenso, viene a svuotarsi, in termini europeistici,
ogni significato d'opposizione al fascismo.
Inoltre il prevalere dei collaboratori "ideologici", come Giacomo
Noventa, Nicola Chiaromonte, Umberto Morra su quelli "letterati"
provoca una accesa polemica tra i due direttori.
Carocci infatti sostiene giunto il momento di trasformare "Solaria"
in una rivista di idee, come la rivista Esprit francese, che fosse
capace anche di discutere con il fascismo, mentre Bonsanti conferma
la sua idea di pubblicare i prodotti letterari più
significativi che pur comprendendo solariani, frontespiziani,
collaboratori di Pegaso (rivista) e Pan (rivista) rimanesse comunque
al di fuori della realtà italiana e del fascismo.
Da queste due posizioni ormai inconciliabili vedranno la luce, da
una parte, riviste come La riforma letteraria (1936-1939) e
Argomenti (1941) che avranno un'impronta filosoficamente e
ideologicamente impegnata e dall'altra Letteratura (rivista)
(gennaio 1937-novembre/dicembre 1947) che si poggia su una gestione
autonoma ed ermetica dello specifico letterario.
* Prospettive:
rivista fondata nel 1939 e chiusa con il numero di dicembre
1951-gennaio 1952 e diretta da Curzio Malaparte.
L'arte non asservita allo Stato
* Campo
di Marte: una rivista quindicinale di azione letteraria e
artistica fondata a Firenze nell'agosto del 1938, nominalmente
diretta da Enrico Vallecchi, ma in effetti dai redattori Alfonso
Gatto e Vasco Pratolini.
La rivista che nasce in un clima di chiusura rispetto alle
esperienze del Novecento europeo, cerca di camminare in senso
contrario vivendo con intensità le proposte di una cultura
diversa a quella propagandata dal fascismo, così come
farà la rivista Corrente di Vita nata nello stesso anno.
La nascita della rivista, che ebbe solamente un anno di vita, viene
a coincidere con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l'Italia
in stato di non belligeranza.
In un periodo così difficile, "Campo di Marte", seppe
difendere la coerenza integra dell'arte contro gli attentati e le
frodi dello stile fascista.
Numerosi e coraggiosi furono tutti i contributi dati sulla rivista,
soprattutto quelli riguardanti il rapporto
letteratura-società, ma intorno a "Campo di Marte" crescono
nel frattempo le ostilità e le polemiche.
La pubblicazione nel numero doppio 10/11 di un brano di Erica di
Elio Vittorini e gli attacchi di Giulia Veronesi contro gli
architetti "corporativi" mettono in allarme la censura del regime
mussoliniano che chiede la sospensione del foglio.
Alcuni autori le cui opere sono apparse sulle pagine della rivista:
1. Eugenio Montale
2. Mario Luzi
3. Paul Valéry
4. Sandro Penna
5. Federigo Tozzi
6. Gianna Manzini
7. Vittorio Sereni
8. Piero Bigongiari
9. Carlo Emilio Gadda
10. Rainer Maria Rilke
11. Leonardo Sinisgalli
12. Tommaso Landolfi
13. Aleksandr Puskin
14. Romano Bilenchi
15. Franco Calamandrei
Nell'agosto del 1939 "Campo di Marte" termina le pubblicazioni e
sull'ultimo numero apparirà il Congedo provvisorio di Alfonso
Gatto.
* Corrente:
rivista giovanile fondata a Milano nel 1938 da Ernesto Treccani.
Corrente nasce come rivista il 1º gennaio 1938 a Milano dal
giovanissimo Ernesto Treccani, finanziato dal padre Giovanni,
senatore e fondatore dell'Istituto Treccani.
Sorta con il nome Vita Giovanile, a cadenza mensile, la rivista
è poi diventata Corrente di Vita Giovanile, con uscita
quindicinale, per poi cambiare definitivamente il nome in Corrente
nell'ottobre del 1938.
Corrente, diretta dallo stesso Ernesto Treccani, matura in breve
tempo la propria azione collettiva diventando ben presto l'organo
milanese-fiorentino dell'intelligenza italiana d'opposizione, e
anche ovviamente del movimento artistico culturale omonimo,
rappresentati da Raffaele De Grada, Giansiro Ferrata, Luciano
Anceschi, Renato Birolli e dagli ermetici cosiddetti "puri" come Bo,
Luzi e Bigongiari.
Mentre la situazione italiana precipita verso la guerra Corrente
passa, per merito del filosofo Antonio Banfi e del gobettiano
Edoardo Persico, all'antifascismo.
La rivista, sul numero del 15 dicembre 1939, propone nell'editoriale
programmatico "Continuità" il suo modo nuovo, banfiano e
antifascista di intendere l'uomo e la vita, l'arte e la
società e professa lo stesso esercizio artistico che accomuni
"tutti gli aspetti della realtà che stiamo vivendo come
impegno umano nella storia e possibilità d'intervento sul
reale".
La collaborazione di banfiani, fenomenologi milanesi ed ermetici
fiorentini, tutti insieme per una cultura non asservita alla ragion
di stato ma libera e non compromessa, porta Corrente ad approfondire
le sue tematiche legate ai rapporti tra cultura e politica, arte e
religione.
Il 10 giugno 1940, mentre l'Italia entra in guerra, la rivista viene
soppressa dalla polizia, ma i giovani di Corrente non si avviliscono
né si disperdono, ma trovano nuove forme per promuovere la
cultura.
Nelle Edizioni di Corrente vengono pubblicati "I lirici greci" di
Salvatore Quasimodo, "Frontiera" di Vittorio Sereni, "Occhio
Quadrato" di Alberto Lattuada.
Per quanto riguarda la pittura vengono inaugurate due importanti
mostre nel marzo e nel dicembre del 1939 alla Permanente (che vedono
la partecipazione di artisti quali Carlo Carrà, Renato
Birolli, Raffaele De Grada e Giacomo Manzù), e nel 1940
(nella seconda edizione sono presenti anche Renato Guttuso, Mario
Mafai, Lucio Fontana, Fausto Pirandello).
La Bottega di Corrente, aperta in via Spiga a Milano, promuove vari
incontri ed ampi dibattiti dando spazio, essendo anche una galleria
d'arte, a tutti quegli artisti che erano maturati nel periodo di
pubblicazione della rivista, come Renato Birolli, Bruno Cassinari,
Aligi Sassu, Renato Guttuso, Ennio Morlotti, Ernesto Treccani,
Emilio Vedova e gli altri già citati.
* La
Fiera Letteraria: autorevole giornale settimanale di
lettere scienze ed arti fondato a Milano il 13 dicembre 1925 sotto
la direzione di Umberto Fracchia.
La rivista ha avuto, in un cinquantennio di pubblicazioni, infiniti
mutamenti di direzione e di editore pur mantenendo sempre la
periodicità mensile. Dal n°12 del 1928 la sede fu
trasferita a Roma, sotto la direzione di Giovanni Battista
Angioletti e di Curzio Malaparte. L'anno seguente prese il nome di
L'Italia letteraria, con il quale uscirà fino al 1936, quando
cessò la prima volta le pubblicazioni. Si proclamò
continuatore della rivista Il meridiano di Roma, diretto da Curzio
Malaparte.
L'Italia che scrive:
rassegna bibliografica mensile delle pubblicazioni italiane, fondata
a Roma nel 1918 da A.F. Formiggini: dopo il suicidio di questo
(1938), fu diretta, sotto controllo ministeriale, da P. Cremonese,
fino al 1943. Ne fu ripresa la pubblicazione oltre due anni dopo,
direttore M. Vinciguerra.
* L'Italia Letteraria:
titolo di una rivista pubblicata in Italia sotto il fascismo, tra il
1929 e il 1936. L'espressione è tuttavia entrata nell'uso per
indicare il contributo della letteratura italiana alla costruzione
dell'identità nazionale.
La rivista
"L'Italia letteraria" continuava "La Fiera Letteraria", rivista
fondata a Milano il 13 dicembre 1925 sotto la direzione di Umberto
Fracchia. Il cambio di nome seguì lo spostamento da Milano a
Roma, avvenuto nel 1928 sotto la direzione di Giovanni Battista
Angioletti e Curzio Malaparte. Come "La Fiera Letteraria" si
ispirava, nel nome e nei metodi, alla Frusta letteraria, la rivista
fondata da Giuseppe Baretti nel 1763, così "L'Italia
letteraria" s'ispira al Giornale de' Letterati, la rivista fondata
da Francesco Nazzari nel 1668, che fu uno dei primi periodici
italiani. L'ambito è quello della rivendicazione del primato
letterario dell'Italia sulle altre nazioni.
Fu diretta, tra gli altri, da Corrado Pavolini e Massimo
Bontempelli. Tra i suoi collaboratori ci furono i poeti Libero De
Libero, Sandro Penna e Giuseppe Ungaretti, e gli scrittori Corrado
Alvaro, Arnaldo Bocelli, Tommaso Landolfi e Alfredo Panzini.
Ospitò disegni e caricature di Gino Bonichi, detto Scipione.
La tradizione
"L'Italia letteraria" non era tuttavia un nome nuovo nel panorama
delle riviste italiane. Già nel 1862 Angelo De Gubernatis
aveva fondato una rivista con questo nome, subito confluita in "Le
Veglie Letterarie". In seguito, nel 1897 a Milano nacque, nello
stabilimento tipografico di Carlo Aliprandi, sotto la direzione di
Gustavo Chiesi, un settimanale con lo stesso nome, durato solo un
anno. Nel 1899 a Bologna preso la Tipografia militare veniva
riproposto lo stesso titolo, che raggiungeva 18 numeri nel giro di
un anno, ma non durava oltre. Tra il 1923 e il 1925 l'editore
Vallecchi di Firenze pubblicava a sua volta una rivista con lo
stesso titolo.
* La Libra:
rivista di Novara da novembre 1928 a giugno 1930, diretta da Mario
Bonfantini con Mario Soldati, Enzo Giachino, Enrico Emanuelli e
altri giovani.
* La Riforma Letteraria: mensile diretto da Alberto
Carocci e Giacomo Noventa fondato nel novembre 1936 e chiuso nel
giugno-settembre 1939.
* Letteratura:
è stata una delle principali riviste letterarie del
Novecento. Fondata a Firenze nel 1937 (il primo numero uscì a
gennaio) e diretta da Alessandro Bonsanti, aveva carattere
trimestrale.
"Letteratura" rappresenta il battesimo di fuoco della nuova
generazione letteraria. Intorno ad essa si incontrano su dibattiti
aperti ad una cultura europea, tutti coloro che nei difficili anni
della dittatura avevano saputo rifiutare il linguaggio della
ufficialità, dando lezioni di coerenza, impegno e di difesa
morale.
La rivista raccolse l'eredità di "Solaria" della quale
riuscì a mantenere il gusto per le esperienze formali
restringendo i propri interessi al fatto stilistico ed espressivo.
Si delineò subito come rivista di carattere puramente
letterario rimanendo estranea ai problemi della società
contemporanea ma, in compenso, aprendosi verso le esperienze della
letteratura europea.
Raccolse intorno a sé, oltre ai solariani fedeli all'ideale
di una letteratura "non di idee", un gruppo di letterati più
resistenti al conformismo filofascista ed ebbe il merito di tenersi
aggiornata, con eccellenti saggi critici, alle nuove esperienze
europee.
La prima serie, chiusa nel 1947, fu particolarmente significativa e
ad essa collaborarono validi scrittori come Carlo Emilio Gadda, Elio
Vittorini, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Arturo Loria, Luigi
Berti, Romano Bilenchi, Reiner Maria Rilke, William Saroyan,
Federico Garcia Lorca, Umberto Saba, Tommaso Landolfi, Sandro Penna,
Mario Luzi, e critici come Giuseppe De Robertis, Gianfranco Contini,
Carlo Bo, Walter Binni.