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DBI
di Giorgio Inglese
Nacque a Firenze il 3 maggio 1469, nel "popolo" di S. Trinita. Era
figlio di Bernardo di Niccolò di Buoninsegna, dottore in
legge di modesta condizione economica, e di Bartolomea de' Nelli. La
voce che Bernardo fosse un figlio illegittimo (Cerretani, p. 214)
non ha trovato conferme. Il M. ebbe due sorelle più grandi,
Primavera (1465-1500) e Margherita, nata nel 1468, e un fratello
minore, Totto, ecclesiastico.
Negli autografi, la forma volgare del cognome è Machiavegli,
con la palatalizzazione di "lli" in "gli" e la grafia "ch" per la
velare di grado forte (come in "ochi" ecc.); la firma latina era
"Nicolaus Machiavellus".
Secondo il Libro dei ricordi del padre, relativo agli anni 1474-87,
il M. studiò grammatica dal 1476, abaco dal 1480 e dal 1481
seguì le lezioni di latino di ser Paolo Sasso da Ronciglione,
professore di "grammatica" nello Studio fiorentino. Dalla medesima
fonte si ricava che fin dall'adolescenza il M. conosceva storici
come Giustino e Livio, un codice del quale risulta che Bernardo
avesse ricevuto in compenso per la compilazione di un corposo indice
toponomastico degli Annales ab urbe condita. Bernardo possedeva
anche un esemplare delle Deche di Biondo Flavio; il volume,
recentemente identificato, reca dei notabilia di mano del M.
(Martelli, 1990). Alla piena giovinezza sembra appartenere una
lettura filosoficamente impegnativa come quella di Lucrezio,
documentata dal ms. Ross., 884, della Biblioteca apost. Vaticana,
copia autografa e firmata del De rerum natura (e dell'Eunuchus
terenziano).
Prima del 1494 il M. dovette intrecciare qualche rapporto con
Giuliano de' Medici, dato che nella disgrazia del 1513 proprio a lui
chiese e da lui ottenne aiuto.
Può essere dunque Giuliano il "giovanetto giulìo"
destinatario di due componimenti, che per lo stile impacciato e poco
originale si vorrebbero ascrivere alla giovinezza del M.: il
capitolo pastorale in terza rima Poscia che all'ombra sotto questo
alloro e la canzone a ballo Se avessi l'arco e le ale. I due testi
sono compresi in una silloge poetica medicea - vale a dire
imperniata su testi di Lorenzo il Magnifico - che Biagio Buonaccorsi
compilò nel ms. Laur., XLI.33 della Biblioteca Medicea
Laurenziana di Firenze (la cui datazione è però molto
incerta: fine Quattrocento, secondo Casadei, p. 449); qui si
trovano, del M., anche i due strambotti Io spero e lo sperar cresce
'l tormento e Nasconde quel con che nuoce ogni fera (identificabili,
in via puramente ipotetica, con le "stanze" ricordate in una lettera
di V[espucci?] al M. del 24 apr. 1504) e il sonetto amoroso Se sanza
a voi pensar solo un momento. Di tutt'altro tenore, ma all'incirca
contemporaneo, è il sonetto burchiellesco al padre, Costor
vivuti sono un mese o piue.
Sulla base di una deformata notizia negli Elogia del Giovio
("constat eum, sicuti ipse nobis fatebatur, a Marcello Virgilio [(]
graece atque latinae linguae flores accepisse", a cura di R.
Meregazzi, Roma 1972, p. 112), si può ipotizzare che il M.
frequentasse le lezioni di Marcello Virgilio Adriani, come docente
privato o, dal 24 ott. 1494, come professore di poetica e retorica
allo Studio; non c'è tuttavia prova che conoscesse il greco.
Per la sua competenza di letterato, fu incaricato di redigere, a
nome dell'intera Maclavellorum familia, una supplica (del 2 dic.
1497) al cardinale Giovanni Lopez nell'occasione di una lite con la
famiglia Pazzi per il patronato della chiesa di S. Maria di Fagna:
è questo il suo più antico autografo datato (Firenze,
Biblioteca nazionale, Aut. Pal., Carte Machiavelli [d'ora in avanti
CM], I, 57).
Espulsi i Medici da Firenze (9 nov. 1494) e affermatasi
l'autorità di G. Savonarola, il M. si era avvicinato a quei
settori dell'aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso,
passarono all'opposizione aperta nei confronti del frate. Un tono di
sprezzante ostilità verso Savonarola, di fatto già
sconfitto, si coglie nella lettera del 9 marzo 1498 a Ricciardo
Becchi, prelato di Curia a Roma. Tali legami danno forse ragione del
fatto che, entrato in concorso fin dal febbraio per un minore
ufficio, subito dopo il supplizio del Savonarola (23 maggio) il M.
fosse designato (28 maggio) e nominato (19 giugno) segretario della
seconda Cancelleria; dal 14 luglio fu anche segretario dei Dieci
(magistratura deputata alla guerra e alla sicurezza nel Dominio).
Può darsi che la nomina fosse favorita da Adriani, dal
febbraio primo cancelliere.
L'attività ufficiale del M., "segretario fiorentino",
è documentata da un'imponente mole di scritti, per lo
più corrispondenza tenuta in nome degli organi di governo
centrali con i funzionari e i comandanti militari sparsi per il
dominio fiorentino (una gran parte dei documenti è riferibile
alla guerra per la riconquista di Pisa, che si era ribellata nel
1494). Ma è anche più importante, per quella
"esperienza delle cose moderne" che viene rivendicata nella prima
pagina del Principe, il servizio diplomatico che al M. toccò
di svolgere presso le principali corti italiane e straniere con la
qualifica di "mandatario" del governo (non con quella politica di
"oratore"). Poteva inoltre avvenire che al M. venissero richiesti,
da membri della Signoria o di organi assembleari, speciali rapporti
su questioni del Dominio, ovvero sui risultati delle missioni oltre
confine. Nel piccolo mondo della Cancelleria, che il M. animò
per quattordici anni, spiccano i nomi di Agostino Vespucci (di cui
restano alcune, divertenti, lettere al segretario) e di Biagio
Buonaccorsi, modesto letterato in proprio e anche, come si è
visto e meglio si vedrà, copista di scritti machiavelliani.
L'amicizia fraterna, e quasi gelosa, di "Blasius" per il M. si
può seguire in un buon numero di lettere, dal 19 luglio 1499
al 27 ag. 1512.
Del maggio 1499 è la prima prosa politica conservata, il
Discorso sopra Pisa, breve riflessione sul modo di riconquistare la
città ribelle, scritto forse in preparazione della consulta
del 2 giugno. Dal 12 al 24 luglio il M. svolse il primo incarico
diplomatico di rilievo: una missione presso Caterina Sforza Riario,
contessa di Forlì, per trattare la riconferma di una condotta
a Ottaviano Riario. Sceso in Italia il re di Francia, Luigi XII,
alla conquista di Milano e di Napoli, i Fiorentini si fecero suoi
alleati (22 ott. 1499) anche per ottenerne sostegno nella guerra
contro Pisa. Nel giugno-luglio 1500, il M. andò in missione
al campo sotto Pisa, al seguito dei commissari Giovan Battista
Ridolfi e Lucantonio Albizzi, e poté assistere al disastroso
sbandamento dei mercenari svizzeri e guasconi condotti da Charles de
Beaumont (10 luglio). Fu quindi inviato, con Francesco Della Casa,
al re di Francia per richiedere all'alleato un maggiore impegno
bellico e, contemporaneamente, contenere le sue esose richieste di
tributi.
La missione durò dal 18 luglio 1500 al gennaio 1501, e
permise al M. di mettere alla prova, sulla scena della grande
politica internazionale, le sue meditazioni sulla virtù degli
antichi. Spicca l'ammonimento a seguire l'esempio di coloro "che
hanno per lo addrieto volsuto possedere una provincia esterna",
rivolto al primo ministro di Luigi XII, il cardinale Georges
d'Amboise, registrato nella lettera del 21 novembre (si cita sempre
dalle Opere, a cura di C. Vivanti, II, Torino 1999) e ripreso, quasi
alla lettera, nel terzo capitolo del Principe.
Sono legati a questo soggiorno francese il Discursus de pace inter
imperatorem et regem (gennaio 1501?) e i ricordi De natura Gallorum
(opera elaborata fino al 1503). Nel primo, riportando un colloquio,
non si sa se reale o fittizio, con un personaggio della corte, il M.
ha modo di abbozzare le linee di un giudizio sulla monarchia di quel
Paese, quale emergeva dalla distruzione delle grandi potenze
feudali. Il secondo testo è costituito da 19 brevi notazioni,
psicologiche e politiche.
Nell'autunno 1501 il M. sposò Marietta Corsini, dalla quale
ebbe Primerana, Bernardo (1503 - m. post 1565), Lodovico (1504-30),
Guido (ecclesiastico e scrittore, 1512/13? - 1567), Piero (1514-64),
Baccina e Totto (1525?).
Sulla scia dell'invasione francese, le imprese di Cesare Borgia,
duca del Valentinois, in Romagna acuivano l'instabilità di
tutta l'Italia centrale. La Repubblica fiorentina dovette
fronteggiare sia le minacce dei Medici fuorusciti, sia i tumulti di
Pistoia (in vista della consulta del 22-23 marzo 1502, il M. scrisse
una relazione De rebus Pistoriensibus, autografo in CM, I, 11). Il 4
giugno Arezzo si rivoltò, spalleggiata da Vitellozzo Vitelli.
Alla fine di giugno, il M. coadiuvò Francesco Soderini
nell'ambasciata a Cesare Borgia, allora impadronitosi di Urbino.
Forte del successo, il Valentino ("molto splendido et magnifico et
[(] animoso", lo descrive il M. nella lettera del 26 giugno) fece in
quell'occasione gravi pressioni su Firenze, chiedendo addirittura un
mutamento del suo governo; tanto che il Soderini rimandò il
M. (26 giugno) per riferire a voce alla Signoria. In realtà,
la posizione del duca era piuttosto fragile, come fu rivelato dalla
ribellione dei suoi luogotenenti (Vitellozzo Vitelli, Oliverotto
Euffreducci, Paolo Orsini) nel settembre. In coincidenza con questa
crisi, dal 5 ott. 1502 al 21 genn. 1503 il M. svolse una seconda
legazione al Valentino, per offrirgli il sostegno di Firenze, e
poté assistere al capolavoro di astuzia e crudeltà
grazie al quale il Borgia liquidò i suoi nemici, e anche i
meno fidati tra gli amici (come Ramiro de Lorqua). Il fatto di
Senigallia (31 dicembre) si trova descritto a caldo dal M. in un
frammento di lettera (post 14 genn. 1503), che anticipa la
più meditata narrazione del Tradimento del duca Valentino
(1514?).
Il M. fu presente anche alla conclusione della parabola politica
borgiana. Dal 26 ottobre al 18 dic. 1503 fu a Roma per il conclave
da cui uscì eletto Giuliano Della Rovere come papa Giulio II
e vide e commentò lucidamente gli errori del duca in quella,
pur difficilissima, congiuntura (lettera del 14 novembre).
L'esperienza di queste tre legazioni si trova tutta rielaborata nel
settimo capitolo del Principe.
Intanto, subito dopo la gravissima crisi di Arezzo (recuperata il 27
ag. 1502 grazie alle armi francesi), Piero Soderini era stato eletto
gonfaloniere perpetuo della Repubblica fiorentina (20 settembre). Il
M. si legò a lui di sincera fedeltà, fino a diventarne
il più fidato collaboratore (cfr. Guicciardini, Storie
fiorentine, p. 277; e Cerretani, p. 214: "era come una spia del
gonfaloniere"), senza che ciò gli impedisse di censurarne la
scarsa risolutezza: accanto ai giudizi formulati in Discorsi, III,
3, è da porre l'epitaffio satirico La notte che morì
Pier Soderini, di data incerta ma comunque in vita di Piero (cfr.
Carrai). Nella discussione e nei conflitti, ben presto aspri, fra il
gonfaloniere e gli ottimati, il M. intervenne indirettamente,
attraverso la redazione di promemoria e documenti consultivi, e in
prima persona col poemetto in terzine dantesche Compendium rerum
decemnio in Italia gestarum.
Fra le prose consultive, hanno speciale importanza le Parole da
dirle sopra la provisione del danaio, datate "marzo 1503"
sull'autografo (CM, I, 77), e composte probabilmente per Piero
Soderini in vista della consulta del 28 marzo (vi è fissato
il principio che "sanza forze, le città non si mantengono, ma
vengono al fine loro"); e il discorso Del modo di trattare i popoli
della Valdichiana ribellati (incompleto), databile al luglio 1503,
impostato sul parallelismo tra il savio comportamento dei Romani
contro i Latini ribelli e l'atteggiamento incerto dei Fiorentini nei
confronti di Arezzo: l'esempio romano insegna che "i popoli
ribellati si debbono o beneficare o spegnere, e che ogni altra via
sia pericolosissima".
Il poemetto fu compiuto nell'ottobre 1504 e presentato, in un
tentativo di captatio benevolentiae, al vero capo del partito
ottimatizio, Alamanno Salviati (Firenze, Biblioteca nazionale,
Laur., XLIV.41). Fu però dato alle stampe solo nel febbraio
1506, col titolo Decennale (s.n.t. [Bartolomeo de' Libri?]), senza
dedica ma preceduto da un'epistola di Agostino Vespucci ai
Fiorentini. La vivace cronistoria degli anni 1494-1504, secondo il
Vespucci, andava considerata "arra" di un più impegnativo
lavoro storiografico in prosa. Indizio di un certo successo
può essere considerata la ristampa pirata che ne fecero
subito Antonio Tubini e Andrea da Pistoia (lettera del Vespucci al
M., 14 marzo 1506). Esiste anche la bella copia autografa di una
terza versione del testo, probabilmente successiva alle altre due
(Firenze, Biblioteca del Seminario arcivescovile, Mss., C.VI.27).
Gli ultimi versi del Decennale ("ma sarebbe il cammin facile e corto
/ se voi il tempio riaprissi a Marte") svelano il senso politico
dell'operazione. Il M. si era infatti dedicato, con speciale
passione, al progetto di una milizia "propria" della Repubblica,
ossia formata da cittadini e sudditi, non da mercenari né da
alleati stranieri. Al progetto erano fortemente avversi coloro che
paventavano un eccessivo rafforzamento del gonfaloniere (si legga il
capitolo XXVI delle Storie fiorentine di Guicciardini). Nonostante
il convinto sostegno del cardinale Francesco Soderini (lettera al M.
del 26 ott. 1504), soltanto dopo l'ennesimo fallimento dei mercenari
sotto Pisa (13 settembre) si poté dare inizio al reclutamento
e all'addestramento dei primi contingenti, che il M. curò
personalmente (dicembre 1505 - marzo 1506). La prima rassegna, di
400 fanti, si svolse il 15 febbraio; con grande scandalo degli
ottimati fiorentini, il 1( aprile fu assunto come capitano don
Miguel Corella, il famigerato Micheletto, luogotenente e boia del
Valentino. All'inizio di novembre gli arruolati erano 5000 circa. La
provvisione definitiva fu votata il 6 dic. 1506, sulla base di un
documento steso dal M. (La cagione dell'ordinanza dove la si trovi e
quel che bisogni fare, autografo in CM, I, 78), interessante anche
per la chiarezza delle premesse politiche ("chi dice imperio, regno,
principato, repubblica, chi dice uomini che comandono [(] dice
iustizia e armi").
Dal 19 gennaio al 1( marzo 1504, il M. aveva fiancheggiato
l'ambasciatore Niccolò Valori alla corte di Luigi XII, a
Lione, con l'incarico di consolidare l'alleanza con i Francesi in
occasione della tregua triennale fra questi e gli Spagnoli (11
febbraio). Dopo missioni minori (a Iacopo [IV] Appiani, signore di
Piombino, aprile 1504; a Giampaolo Baglioni, aprile 1505; al
marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, maggio 1505; a Pandolfo
Petrucci, a Siena, luglio 1505), toccò al M., dal 25 agosto
al 26 ott. 1506, un'altra legazione presso la corte papale,
cioè al seguito di Giulio II in marcia attraverso l'Umbria e
la Romagna per ridurre all'obbedienza Perugia (dove entrò il
13 settembre) e Bologna (11 novembre).
Da un evento cruciale in quella spedizione - l'imprevista resa del
"tiranno" perugino Giampaolo Baglioni al male armato Giulio -
traggono spunto i famosi Ghiribizzi al Soderino, epistola responsiva
del M. a Giovan Battista Soderini (la cui missiva è datata 12
settembre). Vi si teorizza che solo il felice "riscontro" fra il
"modo di procedere" dell'uomo e la "qualità dei tempi" in cui
ci si trovi a operare, danno luogo alla vittoria; ma poiché
gli uomini, osserva il M., "non mutono [(] e' loro modi di
procedere", la teoria giunge a contemplare la crisi della
razionalità politica: "non consigliar persona, né
pigliar consiglio [(] eccetto [(] che ognun facci quello che li
detta l'animo e con audacia". Probabilmente, la lettera (di cui
è nota la tormentata minuta autografa: Biblioteca apost.
Vaticana, Cappon., 107, vol. 2, cc. 219-220) non fu mai spedita, ma
la sua materia passò in gran parte nel coevo capitolo Di
Fortuna, in terzine, indirizzato al Soderini; e di qui, con
sensibili aggiustamenti, nel XXV capitolo del Principe e in
Discorsi, III, 9.
Nominato il 12 genn. 1507 cancelliere dei Nove ufficiali della
milizia fiorentina, il M. si occupò ancora del reclutamento
nel contado (marzo-aprile). Nel giugno, fu designato per una
missione presso Massimiliano I, ma poco dopo, per l'opposizione
della parte aristocratica, sostituito da Francesco Vettori. Sembra
che egli si risentisse per essere stato debolmente difeso da Piero
Soderini (lettera di Filippo Casavecchia al M., 30 luglio 1507); e
appartiene forse a questi tempi un capitolo in terzine a Giovanni
Folchi, intitolato appunto all'Ingratitudine: motivi analoghi
tornano, d'altra parte, nel Canto de' ciurmadori, scritto per il
carnevale del 1509.
Il M. compose altri cinque canti carnascialeschi: De' diavoli
scacciati di cielo (1502?), musicato da Alessandro Coppino, Di
uomini che vendono le pine (ante 1508), D'amanti e donne disperati
(1514?), Degli spiriti beati (1522?), De' romiti (1524?).
Solo alla fine del 1507, il gonfaloniere riuscì a far partire
per il Tirolo anche il M., sia pure con la funzione ufficiale di
"mero cancellieri" di Vettori: era infatti troppo importante che
fossero valutate con esattezza la possibilità e la
pericolosità, per Firenze, di una discesa in Italia di
Massimiliano in opposizione ai Francesi (la reazione degli
antisoderiniani alle "fredde" lettere del M. è testimoniata
da Cerretani, p. 160). Al rientro in patria, nel giugno 1508, il M.
stese un Rapporto di cose della Magna, in cui sono appunto messi in
luce i limiti politici e personali di Massimiliano e, soprattutto,
il difetto strutturale, la "disunione", che teneva la Germania in
stato di inferiorità rispetto a Francia e Spagna. In seguito,
il Rapporto fu trasformato nel Ritratto di cose della Magna
(1509-12).
Tornato ai suoi uffici militari, il M. ebbe parte notevole nella
riconquista di Pisa: sovrintese alle operazioni, condusse trattative
(missione a Piombino, 10-15 marzo), redasse una sintesi del piano di
battaglia (Provvedimenti per la riconquista di Pisa, 28-31 marzo),
controfirmò la resa della città (4 giugno 1509). Era
quello, in effetti, il culmine delle fortune della Repubblica
fiorentina, e del M. stesso. "Ogni dì vi scopro el maggiore
profeta che avessino mai gli Ebrei o altra generazione", gli scrive
allora, in una curiosa lettera di congratulazioni, l'amico Filippo
Casavecchia (17 giugno). Da allora in avanti la strada sarebbe stata
inesorabilmente in salita.
Il 10 dic. 1508 a Cambrai era stata formata la lega europea contro
Venezia. Il 14 maggio 1509 l'esercito mercenario al soldo dei
Veneziani subì la durissima sconfitta di Agnadello in seguito
alla quale la Terraferma veneta cadde nelle mani di Francesi e
Imperiali.
Nel luglio, tuttavia, la reazione di Venezia si dimostrava
già forte ed efficace. In quella situazione, nel
novembre-dicembre il M. si recò a Mantova, presso la marchesa
Isabella d'Este, e a Verona come latore di un tributo
all'imperatore, e qui poté constatare nuovamente l'impotenza
di Massimiliano ma anche osservare la convinta adesione dei
contadini veneti alla causa della Repubblica (lettera del 26
novembre).
Al soggiorno veronese appartengono la stupenda lettera dell'8
dicembre a Luigi Guicciardini (con la descriptio della pestilenziale
puttana la cui bocca "somigliava a quella di Lorenzo de' Medici, ma
era torta da uno lato") e probabilmente anche il capitolo
Dell'ambizione, al medesimo destinatario.
Raggiunto l'obiettivo di fiaccare la potenza veneta e arrestarne
definitivamente l'espansionismo, Giulio II passò alla fase
successiva del suo disegno, rovesciando le alleanze contro i
Francesi: il 15 febbr. 1510 il papa e Venezia firmarono la pace. Nel
giugno-ottobre il M. tornò per la terza volta in Francia, col
mandato di convincere Luigi a "non rompere col papa", mandato di
fatto vanificato dall'aggressività di Giulio II verso gli
Estensi, alleati dei Francesi.
A missione conclusa il M., anche in questo caso, prese a elaborare
la sua "esperienza", e scrisse un Ritratto di cose di Francia
(lasciato, imperfetto, dopo il 1512) molto ricco di dati:
soprattutto, vi è limpidamente individuata, nel solido
rapporto fra casa reale e baroni, la principale "cagione" della
potenza francese.
La posizione della Repubblica fiorentina, stretta fra le pressioni
di un alleato lontano e quelle di un nemico vicino, si faceva sempre
più difficile. Al M. toccarono servizi diplomatici più
delicati e impegnativi, oltre che nuove incombenze militari, come il
reclutamento della cavalleria (a lui si devono un Discorso sulla
milizia a cavallo [frammento] e il testo della Ordinanza de'
cavalli, deliberata il 7 nov. 1510). Senza successo, sostenne la
candidatura del condottiero Iacopo Savelli a capitano delle fanterie
(Ghiribizzo circa Iacopo Savello, 6 maggio 1511, autografo in
Biblioteca apost. Vaticana, Cappon., 107, vol. 2, cc. 215-216).
La guerra continuò con alterne vicende (il 21 maggio 1511
Giulio II perse Bologna). Il 10 settembre il M. partì per la
Francia, dove si trattenne fino a metà ottobre, col mandato
di disporre il re a una politica di pace, ma non ottenne risultati
significativi. Appena rimpatriato dovette portarsi a Pisa (2-11
novembre), presso il concilio dei cardinali filofrancesi, per
indurli a lasciare il territorio fiorentino: il concilio si
trasferì a Milano, ma tanto non valse ad attenuare
l'ostilità di Giulio II verso la Repubblica.
Nei primi mesi del 1512 Firenze era ancora incerta, incapace di una
netta scelta di campo, e il M. dedito agli ultimi, disperati,
preparativi di difesa (reclutamento di fanti, organizzazione della
milizia a cavallo). Dopo la terribile battaglia di Ravenna (1( apr.
1512) e il ritiro dei Francesi dalla Lombardia (maggio), a
metà agosto del 1512 forze militari spagnole al seguito del
cardinale Giovanni de' Medici, capo della famiglia e legato
pontificio, entrarono in Toscana. Le fanterie fiorentine furono
annientate e Prato furiosamente saccheggiata (29 agosto). Il 31
Piero Soderini dovette fuggire da Firenze. Dopo un breve interregno,
i Medici presero il potere (16 settembre; una relazione degli eventi
si trova nella lettera del M. a un'illustrissima gentildonna che va
identificata con la marchesa di Mantova).
Si colloca forse nell’ozio forzato del settembre‑ottobre 1512 la
stesura del trattato o «ragionamento sulle repubbliche»,
cui allude il secondo capitolo del Principe. Con l’appello Ai
palleschi (fine ottobre?, autografo in Arch. di Stato di Firenze,
Torrigiani, V.XXV.13) il M. aveva esortato i vincitori a continuare
la linea antiottimatizia del Soderini. Ma il 7 novembre fu cassato
dall’ufficio; il 10, condannato a un anno di confino entro il
dominio fiorentino; il 17 gli fu proibito di entrare nel palazzo del
governo per un anno. Sospettato di partecipazione alla congiura
repubblicana ordita da Agostino Capponi e Pietro Paolo Boscoli (con
qualche complicità di due amici suoi: Niccolò Valori e
Giovanni Folchi), il 12 febbr. 1513 fu arrestato e sottoposto al
tormento della fune. Nell’angustia dell’ora cercò aiuto in
amici potenti, come i fratelli Paolo e Francesco Vettori, e
soprattutto in Giuliano de’ Medici (cui inviò due sonetti: Io
ho, Giuliano, in gamba un paio di geti e In questa notte, pregando
le Muse; successivo alla scarcerazione fu il terzo: Io vi mando,
Giuliano, alquanti tordi). Mentre Capponi e Boscoli furono mandati a
morte, e Valori e Folchi condannati a due anni di fortezza, agli
altri imputati furono inflitti anni di confino o il solo obbligo di
dare «sodamento», ossia di pagare una cauzione, quali
sospetti oppositori al regime. Non si sa se al M. toccasse il
confino o, com’è più probabile, il sodamento (secondo
il Cerretani, p. 300, «lo confinorno nelle Stinche in
perpetuo»); fatto è che, dopo pochi giorni, uscì
senz’altro di prigione grazie all’amnistia seguita all’elezione di
Giovanni de’ Medici, papa Leone X, l’11 marzo 1513.
Post res perditas (l’espressione è machiavelliana), il M. si
ritirò nel podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in
Percussina. E qui, mentre pur tentava, contando sul (tiepido)
interessamento dei fratelli Vettori, di ottenere qualche incarico
dai nuovi governanti, poté dedicare la parte migliore delle
sue giornate al colloquio con gli antichi e alla composizione
letteraria.
Va dal 13 marzo 1513 al 31 genn. 1515 il carteggio con Francesco
Vettori: studiate epistole «familiari» (una, 4 dic.
1514, è in latino), talora dense di riflessioni politiche,
talora vivacissime nella rappresentazione di episodi e personaggi
(l’ultima della serie include addirittura il sonetto amoroso Avea
tentato il giovinetto arciere, per una bella vicina di casa). Vi si
staglia l’autoritratto dell’intellettuale‑politico: «la
Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte
della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né
delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, e mi bisogna o
botarmi di stare cheto o ragionare di questo» (9 apr. 1513).
«Venuta la sera [¼] entro nel mio scrittoio [¼]
e rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui
uomini, dove [¼] mi pasco di quel cibo che solum è mio
e [¼] non mi vergogno parlare con loro e domandarli della
ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi
rispondono» (è la celeberrima lettera del 10 dic.
1513).
Di poco successivi (1514?) sono il secondo Decennale (incompiuto:
narra eventi dal 1505 al 1509) e la «memoria», o
«novella tragica», sul Tradimento del duca Valentino al
Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e altri.
La cronologia dell’opera cui più si deve la fama del M.,
universalmente nota con il titolo che gli applicò la stampa
romana di A. Blado (Il principe, 1532), è invece fissata
entro termini sicuri: per un verso, la lettera del 10 dic. 1513 a F.
Vettori («ho [¼] composto uno opusculo de principatibus
[¼] Filippo Casavecchia l’ha visto, vi potrà
ragguagliare [¼] ancorché tutta volta io l’ingrasso e
ripulisco»); per l’altro, come primo documento esplicito della
circolazione del testo, la lettera di Niccolò Guicciardini al
padre Luigi (29 luglio 1517), in cui si cita il caso di Oliverotto
da Fermo «come dice el Machiavello in quella sua opera de
principatibus». Ragioni interne al testo e motivi di ordine
biografico inducono la maggior parte degli studiosi a collocare il
completamento dell’opera entro la primavera del 1514.
La prima parte (capitoli I‑XI) spiega quali siano i generi dei
principati: ereditari, nuovi, misti di una parte antica e di una
nuovamente acquisita; quali i modi di tale acquisto: virtù e
forze proprie, fortuna con forze altrui (il settimo capitolo
è imperniato sulla figura del Valentino, che ebbe il
principato grazie al padre, Alessandro VI, e alla morte di lui lo
perdette nonostante i suoi gesti di eccellente virtù
politica), il delitto, il favore dei concittadini. Dopo i tre
capitoli dedicati ai diversi tipi di esercito (mercenario,
ausiliario, proprio, misto), il M. discute le qualità per cui
un principe, ovvero un capo politico, è lodato o vituperato:
contro la tradizione moralistica, l’autore afferma il valore supremo
della «verità effettuale» e la necessità
di affrontare gli altri uomini per quello che sono e non per quello
che dovrebbero essere. Infine, spiegato perché i signori
d’Italia hanno perso i loro Stati di fronte alle invasioni straniere
(cap. XXIV) e riassunta la propria complessa dottrina della fortuna
(cap. XXV), il M. rivolge un’appassionata esortazione alla casa de’
Medici perché guidi una riscossa italiana contro il
«barbaro dominio» di Spagnoli e Svizzeri.
Il testo ebbe una certa diffusione in copie manoscritte, molte delle
quali si devono a Biagio Buonaccorsi o sembrano comunque legate al
suo scrittoio; inoltre, nel marzo 1523 Agostino Nifo, filosofo e
amico dei Medici, pubblicò a Napoli un trattatello De
regnandi peritia, in latino, che per larga parte è un
«rifacimento» (Procacci, p. 67) dell’opera
machiavelliana.
Il principe si apre con una dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici,
cui Leone X aveva affidato la guida del potere familiare a Firenze
(in un primo momento, il M. aveva pensato di indirizzare l’opera a
Giuliano, fratello del papa e gonfaloniere della Chiesa). Un certo
riscontro positivo non dovette mancare, dato che fra l’estate del
1514 e la primavera seguente il M. fu consultato da Lorenzo in
materia militare e compose per lui (come pare probabile) dei
Ghiribizzi d’ordinanza, in cui è ribadita la necessità
di un ampio reclutamento di fanti; mentre Giuliano, aspirante a una
signoria su Parma, Piacenza, Modena e Reggio, meditava forse di
prenderlo al suo servizio (lettera del M. a F. Vettori, 31 genn.
1515). Ma nel febbraio del 1515 dalla corte di Roma, vero centro del
potere mediceo, venne un fermo diniego a ogni riabilitazione
(lettera di Piero Ardinghelli, per conto del cardinale Giulio de’
Medici, a Giuliano, con la formale raccomandazione di «non si
impacciare con Niccolò»). Si spiegano così
l’amarezza e lo sconforto che traspaiono da una lettera del M. al
nipote (figlio di Primavera) Giovanni Vernacci: «i tempi
[¼] sono stati e sono di sorte che mi hanno fatto
sdimenticare di me medesimo» (18 ag. 1515).
Nel 1516 o 1517, il M. si accostò pertanto al gruppo di
giovani letterati che si riuniva nei celebri Orti Oricellari,
attorno a Cosimo Rucellai. Il gruppo coltivava idee vagamente
repubblicane, senza però escludere aristocratici filomedicei,
come il futuro storico Filippo de’ Nerli (a lui il M. dedicò,
in data imprecisata, l’epigramma Dell’occasione, libera traduzione
da Ausonio). La più antica testimonianza di rapporti fra il
M. e questo ambiente è la lettera del 17 dic. 1517 a Lodovico
Alamanni, ma essa descrive una relazione già solida (si
rammenti che dei carteggi del 1516 sono pervenute solo due lettere,
una al Vernacci [15 febbraio], cupissima, l’altra a Paolo Vettori
[10 ottobre], per un modesto servizio a Livorno).
A Rucellai e a Zanobi Buondelmonti sono dedicati i Discorsi sopra la
prima Deca di Tito Livio, il capolavoro del M., grandiosa opera di
meditazione storico‑politica in forma di libera glossa al testo
liviano.
Per la storia della composizione dei Discorsi bisogna partire dalla
lettera dedicatoria, in cui l’autore afferma di essere stato
«forzato» da Rucellai e da Buondelmonti a scrivere
«quello che [¼] mai per [sé] medesimo non
avre[bbe] scritto», dove si deve intendere che dalla
«instanza» (F. de’ Nerli, Commentari, Augusta 1728, p.
138) di Rucellai (e forse da suoi emolumenti) dipende la stesura
dell’opera in quanto tale, nel suo presente assetto formale. Il
più stringente riferimento cronologico interno al testo
(«pochi giorni sono»: II, 10) è infatti quello
alla conquista del Ducato di Urbino da parte di Lorenzo de’ Medici,
nel settembre 1517. Ma i Discorsi del 1517 presuppongono senza
dubbio un cospicuo materiale, su Livio e su altri argomenti di
teoria politica, i cui elementi più antichi possono risalire
persino alla giovinezza dell’autore (e certamente agli anni del
segretariato: basti pensare al discorso sulla Valdichiana o ai
Ghiribizzi al Soderino); fra queste carte doveva trovarsi anche il
già menzionato «trattato sulle repubbliche»
(corrispondente forse, per la materia, a Discorsi, I, 1‑18). Degli
autografi, si è salvato solo un minuscolo frammento del primo
proemio (CM, I, 74). Secondo la testimonianza ex auditu di Bernardo
Giunti (1531), il M. «non bene si sattisfaceva» del
testo dei Discorsi, in cui è effettivamente reperibile
qualche traccia di incompiutezza; il che non toglie che l’opera
abbia circolato fra gli amici dell’autore (F. Guicciardini era in
possesso, forse fin dal 1520‑21, di un testo dei Discorsi, che
commentò parzialmente nel 1529‑30).
La vita pubblica del M., in questi anni, è pressoché
inesistente: si ricorda solo un viaggio a Genova (marzo‑aprile
1518), per conto di mercanti fiorentini implicati in un fallimento.
Fervida, invece, è l’attività letteraria: dall’amaro
poemetto satirico in terzine l’Asino (incompiuto; è ricordato
nella lettera a Lodovico Alamanni del 17 dic. 1517, in curiosa
congiunzione con l’Orlando furioso, da poco pubblicato); alla
perfetta Favola antiuxoria di Belfagor arcidiavolo spedito sulla
Terra per indagare sulla malizia delle femmine (l’autografo,
Firenze, Biblioteca nazionale, Banco rari, 240, cc. 1r‑12r, è
databile al 1519‑20); da una bella Serenata in ottave (ibid., cc.
56v‑63r), di materia ovidiana, alla versione dell’Andria di
Terenzio, esperimento ed esercizio di vivace prosa dialogica
(autografo, ibid., 29; una prima stesura della traduzione [ibid.,
240], è invece di datazione incerta).
L’interesse del M. per il teatro – che culminerà nella
composizione della Mandragola – è documentato anche dalla sua
trascrizione della cosiddetta Commedia in versi dell’amico Lorenzo
di Filippo Strozzi (ibid., 29). Di altri due testi teatrali
machiavelliani, incompiuti, dà notizie il nipote Giuliano de’
Ricci (Firenze, Biblioteca nazionale, Palatino, E.B.14.1, c. 160v):
Le maschere, «ragionamento a foggia di commedia» di
imitazione aristofanesca (1504?), e una Sporta, dall’Aulularia di
Plauto, i cui frammenti sarebbero stati carpiti e plagiati da Giovan
Battista Gelli.
C. Rucellai e Z. Buondelmonti, con Battista Della Palla e Luigi di
Piero Alamanni, sono interlocutori del protagonista Fabrizio Colonna
nei dialoghi De re militari ambientati nel 1516, e più noti
come Arte della guerra (lungo frammento autografo, Ibid., Banco
rari, 29, cc. 25‑118; idiografo Verona, Biblioteca civica, Mss.,
323).
Di Cosimo Rucellai si parla, nelle pagine introduttive, con vivo
compianto (era morto il 1°[?] nov. 1519); d’altro canto, una
trascrizione del testo è registrata, nel Diario di Biagio
Buonaccorsi, sotto la data del 15 sett. 1520. In sette libri,
l’autore ribadisce la necessità di tornare ai principî
dell’arte militare romana, e soprattutto al modello della
«popolazione armata» contro l’uso moderno dei mercenari,
al predominio della fanteria contro quello della cavalleria e
dell’artiglieria.
Dopo la morte del duca Lorenzo (4 maggio 1519), la diffidenza della
famiglia dominante nei confronti del M. parve finalmente attenuarsi.
Grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi, fu ricevuto dal cardinale
Giulio de’ Medici nel marzo del 1520. All’incirca nello stesso
periodo fu rappresentata in Firenze La Mandragola, che papa Leone X,
subito dopo, volle vedere a Roma (lettera di Battista Della Palla al
M., 26 apr. 1520).
La copia manoscritta della commedia (Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana, Redi, 129) reca la data 1519; la prima stampa, Comedia
di Callimaco e di Lucrezia, in frontespizio con il centauro Chirone,
è senza note tipografiche (la seconda, con Omero [?]
suonatore di lira in frontespizio, è attribuita al veneziano
B. Bindoni ed è datata al 1522).
Quella che è parsa a molti la migliore commedia del
Rinascimento italiano mette in scena la beffa giocata dal parassita
Ligurio ai danni dello stolto messer Nicia, che finisce per mettere,
con le proprie mani, nel letto della moglie Lucrezia il giovane
Callimaco, di lei innamorato. Attraverso una trama serratissima, di
estrazione decameroniana, La Mandragola si caratterizza per la
rappresentazione grottesca di un mondo affatto spoglio di valori, in
cui la spicciola razionalità dei beffatori mette in amara
caricatura le «regole» della grande politica.
Nell’estate del 1520 (9 luglio ‑ 10 settembre), il M. svolse una
missione semiufficiale a Lucca, a tutela di interessi fiorentini
minacciati dal fallimento di un Michele Guinigi; allora compose un
Sommario delle cose di Lucca (sull’ordinamento politico di quella
Repubblica) e un esercizio di prosa storiografica, la Vita di
Castruccio Castracani dedicata a Luigi di Piero Alamanni e Z.
Buondelmonti (il quale ne dava ricevuta con lettera del 6 settembre;
è notevole l’elenco di quanti hanno letto e
«commendata» l’operetta: oltre ai dedicatari, Francesco
Guidetti, Iacopo Cattani da Diacceto, Antonfrancesco Albizzi, Iacopo
Nardi, Battista Della Palla, Pierfrancesco e Alessandro Portinari).
L’8 novembre fu «condotto» dallo Studio, con un magro
salario, per comporre gli annali fiorentini e sbrigare altre
incombenze politico‑letterarie («ad componendum annalia et
cronicas florentinas et alia faciendum», in Ridolfi, 1978, p.
285): fra queste anche il parere costituzionale Discursus
Florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, del
novembre 1520 ‑ gennaio 1521 (un abbozzo in Bibl. apost. Vaticana,
Vat. lat., 13654, cc. 1r‑12r), in cui il M. sosteneva la
restaurazione di un regime repubblicano basato su quel Consiglio
maggiore che i Medici avevano soppresso nel 1512.
Lasciata cadere una proposta d’impiego presso Prospero Colonna
(lettera di Piero Soderini al M., da Roma, 13 apr. 1521), nel maggio
il M. si recò, per conto degli Otto di pratica, al capitolo
dei frati minori in Carpi, con la richiesta (accolta due anni
più tardi) di costituire un’autonoma provincia francescana
fiorentina. La trasferta, in verità, è ricordata
soltanto perché in quell’occasione si approfondì
l’amicizia fra il M. e Francesco Guicciardini, allora governatore di
Modena, e tra i due cominciò uno scambio epistolare
straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria.
Nell’agosto seguente, il M. poté finalmente stampare L’arte
della guerra, presso i Giunti di Firenze, con dedica a Lorenzo
Strozzi. Mentre continuava a lavorare agli annali fiorentini,
intervenne ancora nel dibattito sulla nuova costituzione da dare a
Firenze dopo la morte di Leone X (1° dic. 1521): scrisse un
Ricordo al cardinale Giulio (frammento autografo, Arch. di Stato di
Firenze, Carte Strozziane, s. I, 137, c. 200r) e una Minuta di
provvisione, autografa (CM, I, 79), dell’aprile 1522, in cui
riproponeva alcune ipotesi del Discursus. Ma poco dopo il dibattito
si concluse bruscamente con la scoperta e la repressione di una
congiura antimedicea ordita da Z. Buondelmonti e Luigi di Piero
Alamanni: mentre i due principali imputati scamparono con la fuga,
Luigi di Tommaso Alamanni e Iacopo Cattani da Diacceto finirono sul
patibolo (6 giugno 1522).
Il M. tornò allora a concentrarsi sull’opera letteraria:
tolto qualche episodio di scarso rilievo (come la stesura di una
Istruzione a Raffaello Girolami sulla tecnica dell’ambasceria
dell’ottobre 1522), questo torno di tempo sembra tutto dedicato alla
composizione delle Istorie fiorentine. I primi quattro libri furono
compiuti prima del dicembre 1522; gli altri quattro, entro il marzo
del 1525: in una lettera a Guicciardini, il 30 ag. 1524, il M. si
descriveva appunto come intento «a scrivere la istoria
[¼] in villa», all’Albergaccio.
Quasi per siglare la conclusione della grande opera, nel gennaio
dell’anno successivo fece rappresentare a Firenze, in casa del ricco
fornaciaio Iacopo Falconetti, Clizia, basata sulla Casina di Plauto:
la commedia è pervasa da franca autoironia sull’innamoramento
senile per la cantante Barbara Salutati (per lei il M. scrisse
almeno due madrigali, S’alla mia immensa voglia e Amor, i’ sento
l’alma, musicato da Philippe Verdelot [Secondo libro de’ madrigali,
Venezia 1534]). All’autunno precedente potrebbe invece risalire un
bizzarro Discorso o Dialogo sulla «lingua fiorentina» di
Dante, con il quale il M. prendeva posizione, in polemica con
l’«italianista» G.G. Trissino, accanto ai difensori del
primato fiorentino, fra i quali era Ludovico Martelli
(l’autenticità del testo, non privo di osservazioni
penetranti, è stata a lungo discussa).
Nel giugno del 1525, dopo qualche penoso rinvio (lettera di F.
Vettori al M., 8 marzo), il M. presentò al dedicatario Giulio
de’ Medici (che dal 19 nov. 1523 era papa Clemente VII) gli otto
libri delle Istorie fiorentine (tra le copie manoscritte note,
nessuna sembra identificabile con quella di dedica; sono invece
conservati alcuni frammenti autografi: CM, I, 82; Firenze,
Biblioteca nazionale, Carte Fossi; Biblioteca apost. Vaticana,
Cappon., 107, vol. 2, cc. 217‑218, 223).
Le Istorie si riferiscono al periodo dalla fondazione della
città al 1492, ma hanno per principale e vero soggetto il
conflitto civile in Firenze, dallo scontro tra guelfi e ghibellini
al predominio dei Medici; il M. ripensa la storia della sua
città, straziata dalla partigianeria, a contrasto con quella
di Roma antica, dove la disunione della plebe e del Senato, come si
legge nei Discorsi, saggiamente istituzionalizzata, rese libera e
potente la Repubblica.
La situazione politica andava intanto facendosi pericolosa. Il 12
dic. 1524 Clemente VII aveva stretto un accordo segreto con
Francesco I, re di Francia dal 1515, che il 24 febbr. 1525, a Pavia,
era stato sconfitto da Carlo V (imperatore dal 1519), e addirittura
catturato. Nel giugno‑luglio il papa inviò il M. presso F.
Guicciardini, presidente della Romagna, per organizzare una milizia,
ma il disegno fallì a causa delle aspre lotte di fazione in
corso in quella provincia.
Alla fine di agosto, il M. si recò a Venezia per conto
dell’arte della lana: il viaggio ha rilievo soltanto quale occasione
di un contatto diretto con ambienti letterari (lettera di Filippo
de’ Nerli, 6 sett. 1525), contatto ipoteticamente riconducibile alla
rappresentazione de La Mandragola che ebbe luogo nel successivo
carnevale (lettera di Giovanni Manetti al M., 28 febbr. 1526). La
stessa commedia dà spunti alla corrispondenza con
Guicciardini, che intendeva metterla in scena a Faenza (lettere del
16‑20 ott. 1525, post 21 ottobre e del 3 genn. 1526, alla quale sono
allegate cinque canzoni da cantarsi tra gli atti).
Del 15 ott. 1525 è il rinnovo, a compenso maggiorato,
dell’incarico come scrittore degli annali fiorentini (lettera a
Guicciardini post 21 ott. 1525, firmata «N. M. istorico comico
e tragico»).
Il M. tornava così al vecchio progetto storiografico,
parallelo al primo Decennale, per cui aveva redatto estratti di
lettere (1497‑99: autografo, Firenze, Biblioteca Riccardiana, Mss.,
3627), spogli (fino al 1501, noti in una copia di Giuliano de’
Ricci) e medaglioni biografici (Nature di uomini fiorentini,
autografo, Firenze, Biblioteca nazionale, Racc. Gonnelli, 24, 3).
Non è chiaro se i più elaborati Frammenti storici dal
1494 al 1498 appartengano a quella fase arcaica o a questa del
1525‑26 («libro IX» delle Istorie fiorentine); F.
Vettori conosceva «diari, i quali egli [il M.] faceva per
seguitar l’Istoria» (Vettori, p. 339).
Francesco I fu liberato il 18 marzo 1526, ma violò subito i
patti cui era stato obbligato e promosse una lega antimperiale, cui
aderirono anche il papa e Firenze (Lega di Cognac, 22 maggio). In
clima già di guerra, il M. fu incaricato di seguire i
progetti dell’ingegnere Pietro Navarra per migliorare la
fortificazione di Firenze; scrisse la Relazione di una visita fatta
per fortificare Firenze (5 aprile), e la portò personalmente
a Roma, dove si trattenne fino al 25 aprile. In tale occasione,
compose l’epigramma pasquinesco Sappi ch’io non son Argo qual io
paio, sarcastico commento al rilascio di Francesco I (l’attribuzione
è stata messa in dubbio). Il 18‑19 maggio fu nominato
provveditore e cancelliere dei Procuratori alle mura, magistratura
di cui aveva redatto la provvisione (minuta autografa, Arch. di
Stato di Firenze, Consiglio dei cento, Delibere, Protocolli, 4, cc.
187, 196). E intanto chiedeva al Guicciardini di influire su
Clemente VII perché scegliesse risolutamente il partito della
guerra contro Carlo V: «Liberate diuturna cura Italiam!»
(lettera del 17 maggio).
Nel giugno, le forze della Lega compirono deludenti operazioni in
Lombardia. F. Guicciardini, in campo come luogotenente generale del
papa, si fece raggiungere dall’amico M. a metà luglio; ma il
tentativo di migliorare l’efficienza delle truppe medicee
fallì ancora una volta (donde la famosa battuta, nella
lettera del Guicciardini a Roberto Acciaiuoli, 18 luglio: «El
Machiavello si truova qua. Era venuto per riordinare questa milizia,
ma, veduto quanto è corrotta, non confida averne onore.
Starassi a ridere degli errori degli uomini, poi che non gli
può correggere», in Carteggi, a cura di P.G. Ricci, IX,
Roma 1959, pp. 15 s.). Nell’ambito di questa missione, il M.
partecipò anche (9‑14 settembre) all’assedio di Cremona. Il
successo della Lega in quell’impresa (23 settembre) fu anticipato e
vanificato dall’aggressione dei Colonnesi ai palazzi pontifici
(19‑20 settembre) e dalla conseguente tregua firmata dal papa (il M.
analizza la situazione nella sua lettera a Bartolomeo Cavalcanti,
post 6 ottobre).
I lanzichenecchi imperiali di Georg von Frundsberg entrarono in
Italia all’inizio di novembre; il 25 si scontrarono con le
«bande nere» di Giovanni de’ Medici, che restò
ferito a morte.
Il 30 novembre il M. fu inviato a Modena, presso Guicciardini, per
meglio considerare «l’ordine tutto di questa matassa»;
raccolte le informazioni sulle forze in campo e constatata
l’impossibilità di qualsiasi trattativa diretta con i lanzi,
rientrò a Firenze (4 dicembre). Alla fine di gennaio, il M.
lasciò al figlio Bernardo la Cancelleria dei Procuratori alle
mura, e tornò ad affiancare Guicciardini nei suoi ultimi
tentativi di riorganizzare le forze della Lega (Parma, Bologna,
Forlì, 3 febbraio ‑ 13 apr. 1527), ma nulla poté
contro le indecisioni e le riserve mentali degli alleati (il duca
d’Urbino Francesco Maria I Della Rovere, i Veneziani), mentre il
papa stesso continuava a sperare in un accordo col nemico. La
coscienza della tragedia si rivela nelle lettere private, come
quella del 16 aprile a F. Vettori: «io non credo che mai si
travagliassino i più difficili articuli che questi, dove la
pace è necessaria e la guerra non si puote abbandonare, e
avere alle mani un principe [Clemente VII] che con fatica può
supplire o alla pace sola o alla guerra sola».
Si trattava, ormai, di difendere Roma dall’attacco dei lanzi,
passati sotto il comando del transfuga Charles de Bourbon. Con le
residue truppe della Chiesa, Guicciardini mosse verso il Lazio,
preceduto di qualche giorno dal M., incaricato di provvedere agli
alloggiamenti. Ma i lanzi furono più veloci, e Roma fu messa
a sacco il 6 maggio. Il M. si trovava a Bracciano col Guicciardini,
o a Civitavecchia (donde scriveva al luogotenente il 22 maggio),
quando fu raggiunto dalla notizia che, nel rovescio generale della
Lega, i Medici erano stati cacciati da Firenze ed era stata
restaurata la Repubblica (17 maggio 1527). Inviso per lungo e
ininterrotto dissenso ai nuovi governanti, di estrazione
savonaroliana (a tacere della fama di ateismo che sempre lo aveva
accompagnato), il M. non fu richiamato in Cancelleria: nel ruolo di
segretario fu invece confermato il mediceo Francesco Tarugi (10
giugno).
Il M. era, in effetti, già minato nel fisico e si spense a
Firenze il 21 giugno 1527 in presenza di pochi amici: Buondelmonti,
Alamanni, Strozzi, Nardi. Fu sepolto in S. Croce l’indomani.
Secondo la leggenda (riferita per primo dal gesuita Étienne
Binet nel 1629, ma certo nota a G.B. Busini nel 1549), poco prima di
morire narrò di aver visto in sogno le distinte schiere dei
poveri straccioni, destinati al paradiso, e degli antichi sapienti,
destinati all’inferno, fra cui Plutarco e Tacito: e confessò
che a questi, non a quelli, avrebbe voluto accompagnarsi, per
continuare in eterno i colloqui goduti nelle sere dell’Albergaccio.
Alla tradizione del «sogno» si oppone una lettera,
probabilmente falsa, di Piero Machiavelli a un Francesco Nelli,
attestante che il M. «lasciossi confessare le sua peccata da
frate Matteo» (CM, I, 84; cfr. Epistolario, a cura di S.
Bertelli, Milano 1969, pp. 491‑495; Procacci, pp. 423‑431).
Il M. è considerato, a buon diritto, il fondatore del
pensiero politico moderno: per primo concepì l’«arte
dello Stato» come una prassi dotata di propria principia,
irriducibili a quelli dell’etica. Per certi aspetti, egli
riscoprì e rifondò il realismo politico classico,
quale è documentato soprattutto nella visione tucididea delle
guerre del Peloponneso.
La teoria machiavelliana non si presenta in forma di sistema, ma
come vivo svolgimento di pensieri, complesso e persino contrastato
nelle diverse opere, o in luoghi diversi della medesima opera. Essa
non nasce, deduttivamente, dall’interno di una dimensione
dottrinaria, ma come animosa risposta alla drammatica novità
dei tempi: la crisi del sistema politico italiano – policentrico,
particolaristico e male armato – nel confronto militare con le
potenze europee (Francia, Spagna) appena uscite da un processo di
accentramento istituzionale e sociale. Il collasso di grandi
principati italiani (il Ducato di Milano, il Regno di Napoli), il
travaglio delle antiche Repubbliche (Venezia, Firenze), la
decimazione delle piccole signorie, tutto ciò si dà a
vedere come la «ruina» di un mondo, delle sue regole e
delle sue ideologie. Ne emerge il profilo autentico della politica,
come lotta incondizionata tra gli Stati per la vita o per la morte,
lotta il cui solo criterio è la forza che decide fra salvezza
e rovina.
Fin dai primi scritti l’analisi machiavelliana è costruita
come un confronto razionale fra i «casi» moderni e
l’«esempio» degli antichi Romani, studiati gli uni e
l’altro sulla base di una valutazione realistica, spietata delle
«passioni» umane. L’antica Repubblica romana è
per il M. la più grandiosa ed efficace costruzione della
«virtù», sulla prova offerta dalle vittorie
militari che dettero luogo alla conquista di tutto il mondo
mediterraneo; ed è conoscibile grazie agli storici (anzi
tutto Tito Livio) che di quelle conquiste fornirono una narrazione
già intessuta di consapevolezza teorica. D’altro canto, solo
un’acuta percezione dell’attualità e concretezza politica
può permettere al pensatore moderno di interrogare gli
storici antichi e ricavarne l’autentica regola per l’agire. Questo
circolo virtuoso è delineato dal M. nel celeberrimo racconto,
a Francesco Vettori, dei colloqui serali nello scrittoio
dell’Albergaccio (lettera del 10 dic. 1513).
Per il M. la società umana è mossa da un dinamismo
originario: «la natura ha creati gli uomini in modo che
possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa:
talché [¼] disiderando gli uomini parte di avere di
più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene
alle inimicizie e alla guerra» (Discorsi, I, 37). La costanza
delle passioni umane, e dell’«ambizione» che le domina,
costituisce il fondamento di un’analisi razionale della storia e
della possibilità, per i moderni, di imitare gli antichi:
«il cielo, il sole, li elementi, li uomini [non sono] variati
di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erono
antiquamente» (ibid., I, Proemio). La conflittualità
perpetua fra gli individui e quella (che della prima è una
risultante) fra gli Stati fanno sì che il mondo della lotta
politica appaia dominato da una generale insicurezza di rapporti:
ogni Stato è minacciato da ogni altro e deve a qualsiasi
costo trovare la forza per difendere la propria esistenza. Ogni
Stato deve considerare nemici tutti coloro che sono abbastanza forti
da nutrire qualche speranza di avvantaggiarsi con suo danno;
né si può affidare la propria salvezza ai patti,
perché solo la forza militare è in grado di farli
rispettare (Parole sulla provvisione del danaio, del 1503).
In una famosissima pagina del Principe, il M. definisce il realismo
politico come adesione alla «verità effettuale della
cosa» e rifiuto della «immaginazione di essa»
(Principe, XV). Ma la verità effettuale della storia è
il conflitto: fra gli Stati, fra i gruppi sociali, fra gli
individui, si combatte una lotta senza soste e senza regole, a meno
che un potere superiore non costituisca, appunto, tali regole e
obblighi gli altri a rispettarle; il che può avvenire entro
una compagine statale o imperiale, ma non nell’arena in cui si
affrontano Stati sovrani. Il politico, il principe, affronta nemici,
che prevedibilmente non saranno, con lui, «buoni», ma
spietati, rapaci, infedeli, simulatori e dissimulatori. Di nemici
siffatti egli deve «presupporre» l’esistenza e le
qualità: troppo pericoloso sarebbe far conto, invece, sulla
eventuale pietà, fedeltà e lealtà di alcuno,
ciò che vorrebbe dire consegnarsi a esso. Su questo piano, la
storia recente d’Italia offriva l’esempio di un principe
«imitabile»: Cesare Borgia, il duca Valentino, capace di
«assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere o
per forza o per fraude» (Principe, VII).
Fra le costanti della storia, il M. coglie anche il coagularsi,
entro le società umane, di due «ambizioni»
collettive contrapposte: quella dei «grandi», che
desiderano prevalere e opprimere; quella del «popolo»,
che desidera non essere oppresso. La lotta fra patrizi e plebei,
nell’antica Roma; la lotta fra magnati e popolani nella Firenze
medievale e, poi, medicea: sono entrambe attuazioni concrete di una
medesima struttura dell’ambizione umana. Rielaborando i paragrafi
polibiani sull’anakyklosis delle costituzioni, il M. delinea una
storia ideale delle «repubbliche», lo scivolamento dalla
monarchia all’oligarchia alla licenza, quale si produce laddove la
virtù e la ragione non siano in grado di dominare e
controllare la conflittualità attraverso una costituzione
«mista». Una costituzione mista fu realizzata, appunto,
a Sparta (per opera del primo legislatore, Licurgo) e a Roma (per
successivi aggiustamenti, dall’istituzione del Senato a quella del
consolato, a quella del tribunato della plebe). A Sparta, la
costituzione ebbe un’impronta aristocratica; mentre Roma alla
«disunione» fra patrizi e plebei dette una cornice
politica non repressiva, così che la plebe, sentendosi
pienamente partecipe della Repubblica, mise a disposizione delle
guerre di conquista la propria forza di massa. Una costituzione di
tipo spartano (come quella della moderna Venezia) sarebbe adatta a
Stati che vogliano solo «mantenersi», senza conquistare.
Ma questa scelta non tiene conto dell’insicurezza radicale
dell’universo politico, che impone la necessità della
conquista e comporta dunque la superiorità del modello
romano: «Credo che sia necessario seguire l’ordine romano e
non quello dell’altre republiche, perché trovare un modo
mezzo in fra l’uno e l’altro non credo si possa; e quelle inimicizie
che in tra il popolo e il Senato nascessino, tollerarle, pigliandole
per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana
grandezza» (Discorsi, I, 6). L’unica forza militare di cui uno
Stato effettivamente disponga è infatti quella che risiede
nel proprio popolo in armi.
Tornando a guardare l’Italia contemporanea, il M. nega che si possa
continuare a usare compagnie mercenarie dopo l’apparizione sulla
scena di eserciti nazionali come quelli francese, spagnolo e
svizzero. Dalla discesa di Carlo VIII, nel 1494, sempre più
chiaramente era apparso che gli Stati italiani non potevano e non
volevano far fronte comune contro i tentativi di penetrazione nella
penisola da parte di Spagna e Francia. La disunione e la debolezza
d’Italia erano causate, in profondità, dalla presenza di
un’entità come la Chiesa, che non aveva potuto unificare la
penisola sotto di sé, dati i suoi limiti insuperabili di
«principato ecclesiastico», ma aveva ben saputo rendere
vani, appellandosi ad alleati stranieri, tutti i tentativi che
altri, dai Longobardi ai Veneziani, avessero operato in quella
direzione (Discorsi, I, 12). L’accordo antifrancese fra Giulio II,
la Spagna e gli Svizzeri (1511) aveva ridotto l’Italia in uno stato
di quasi annientamento politico. Ma la possibilità che una
fase nuova si aprisse sembrò, al M., data dalla elezione al
soglio pontificio di un grande signore italiano come Giovanni de’
Medici (Leone X). Come primo passo, secondo il M., doveva
costituirsi una forza armata indipendente romano‑fiorentina, attorno
alla quale avrebbero dovuto raccogliersi le altre «armi
italiane» in uno sforzo comune per cacciare i
«barbari» svizzeri e spagnoli.
Per il M. gli Italiani del suo secolo – simili in questo all’Israele
di Mosè, ai Persiani di Ciro, agli Ateniesi di Teseo – si
trovano in condizioni di spaventosa prostrazione: ma queste
condizioni contengono – non potendosi più discendere verso un
limite inferiore che è stato in effetti raggiunto –
l’occasione di una rinascita, ossia l’esigenza imperiosa di una
nuova organizzazione statuale. La fondazione di uno Stato, la
rigenerazione della materia corrotta, la distruzione delle forze
disgregatrici: tutto ciò richiede una guida politica ferrea e
consapevole. Nella recente storia italiana era passato, fugace come
una meteora, quel Cesare Borgia che aveva offerto un limpido esempio
delle virtù necessarie al principe nuovo: egli aveva
soprattutto dato la prova, nella sua Romagna, che era possibile
domare l’anarchia feudale con l’opportuna ferocia e spietata
determinazione, e conquistare in tal modo l’amore dei popoli
finalmente uniti e pacificati.
Il principe nuovo e, in generale, l’uomo di Stato si muovono per un
campo di battaglia avvolto da una profonda zona d’ombra, in cui si
annidano le forze e le decisioni degli avversari attuali e
potenziali, che solo in parte può essere sondata dalla
ragione: resta un momento incalcolabile, rispetto al quale l’uomo
politico non può far altro che tendere al massimo la sua
capacità di resistenza. Questo momento non distintamente
calcolabile e prevedibile il M. chiama «fortuna». La
Fortuna può schiantare ogni cosa: la virtù del
politico (se non vuole, rassegnandosi al cedimento, smentire se
stessa) deve allestire tutti «i ripari e gli argini» che
sia in grado di alzare perché l’urto delle forze avverse ne
venga, se non stornato, almeno attenuato (Principe, XXV). Inoltre,
gli uomini di Stato, come tutti gli uomini, sono condizionati dal
loro temperamento naturale; affrontano le cose con irruenza
(«impeto») o cautela («respetto»), e hanno
successo, o falliscono, secondo la congruenza tra il loro modo di
procedere e la qualità delle circostanze. Sotto questo
riguardo, dato che la «natura» di ciascuno non si muta,
è impossibile dare «consigli» (Ghiribizzi al
Soderino, 1506). Soltanto si può osservare che «sia
meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna
è donna ed è necessario, volendola tenere sotto,
batterla e urtarla» (Principe, XXV).
Il giudizio su ogni caso storico di successo o di fallimento
politico si risolve nella valutazione di un nesso determinato tra
virtù soggettiva e condizioni oggettive, tra Virtù e
Fortuna. Il duca Valentino, che pure rappresentò un magnifico
esempio di virtù politica, finì sconfitto. Il M.
attribuisce la sconfitta dapprima a un’«estrema
malignità di fortuna», ossia alla casuale coincidenza
fra la morte del padre, il papa Alessandro VI, e una grave malattia
che lo mise fuori combattimento nel momento decisivo. Ma poi,
insoddisfatto di una spiegazione che avrebbe finito per alludere
all’onnipotenza del caso, scopre un «errore» fatale del
duca nell’appoggio dato all’antico nemico, Giuliano Della Rovere,
nell’ascesa al pontificato. E così, mentre salva la
possibilità teorica di una virtù perfetta, ne
sacrifica la conferma storica (Principe, VII).
Su maggiore scala, il dilemma si ripresenta a proposito di Roma. La
Repubblica romana conquistò il mondo con la sua virtù,
e nondimeno perse prima la libertà (con l’impero monarchico)
e poi la conquista stessa. Nel racconto degli storici antichi, il M.
non può non vedere come la conflittualità fra patrizi
e plebei, in una prima fase, costituì la vitalità
della Repubblica e quindi la forza della conquista; ma in
seguitò degenerò, si «corruppe» in lotta
per la terra e per le ricchezze. Il popolo, che prima desiderava
soltanto di non essere oppresso, poi desiderò anche le
«sostanze» dei patrizi; questi le difesero con la
violenza, fino al punto in cui le due parti si diedero dei
«capi» e si affrontarono nella guerra civile.
Dall’irrimediabile tracollo della costituzione «libera»,
che seguì, emerse il potere tirannico di Cesare e dei suoi
successori. Questo esito era inevitabile, o dipese da
«errori» dei Romani? Anche in questo caso, l’analisi
machiavelliana sfocia in esiti contrastanti. Per un verso identifica
la «cagione» della decadenza di Roma nel
«difetto» di una legge atta a tenere «ricco il
publico e gli cittadini poveri» (Discorsi, I, 37), ma
così facendo evoca l’immaginazione di «republiche e
principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero
essere» (Principe, XV). Per l’altro, riconosce che la
«corruzione» vinse quando vennero meno i
«virtuosi» i quali, con le loro
«esecuzioni», contrastavano «all’ambizione e alla
insolenzia degli uomini» (Discorsi, III, 1), ma così
restituisce il primato alla Fortuna, al caso da cui nacquero la
frequenza, prima, e la scarsità, poi, dei Romani
«virtuosi». Attraverso queste difficoltà, sulla
pagina machiavelliana prende forma una concezione tragica della
politica: questa non può evitare agli Stati e alle
società il declino cui sono destinati, ma può e deve
prolungarne la vita il più possibile. Non a caso, dunque,
alla politica offre un’efficace similitudine l’arte medica, che si
sforza di prolungare la vita dei corpi, senza poterli sottrarre alla
morte.
Nello studio della decadenza di Roma si annida un altro motivo
critico del pensiero machiavelliano. A formare la virtù dei
Romani concorsero l’eccellente razionalità (il «vedere
discosto») e il generoso amor di patria, alimentato dalla
«religione» pagana che poneva il sommo bene
nell’«onore del mondo» (Discorsi, II, 2). Il risultato
della virtù romana fu la conquista; ma la conquista stessa,
con l’incremento delle ricchezze e l’esasperazione
dell’avidità, accelerò la corruzione della Repubblica
e della sua «religione». Inoltre, la conquista romana
del mondo si realizzò con la distruzione delle altre antiche
Repubbliche (il M. pensa soprattutto agli Italici, a Cartagine, ai
Galli), e insomma dell’intero mondo pagano. L’impero di Roma
realizza il télos del mondo antico e, nell’atto stesso, lo
dissolve. Apre così le porte a una nuova religione, il
cristianesimo, che è fondamentalmente antipolitica ponendo
«il sommo bene nella umiltà, abiezione e nel dispregio
delle cose umane». Dal cristianesimo (che per il M. è
destinato a perire, come ogni realtà umana: cfr. Discorsi,
II, 5) è dunque caratterizzato il mondo moderno. La politica
moderna deve cercare un modello nell’antica virtù, ma da quel
modello la separa una sostanziale differenza nella qualità
spirituale degli uomini. Nei Discorsi, di libro in libro, il grande
tema della «imitazione» trascolora. Fin dal proemio al
primo libro, il M. espone il doppio motivo del permanere e del
mutamento: il mondo e gli uomini non hanno mutato «moto,
ordine e potenza» rispetto a come «erano
anticamente», e tuttavia dell’antica virtù «non
è rimasto alcun segno». Nel corso del primo libro, il
motivo del permanere, su cui è costruita l’idea che Roma
antica rappresenti un modello imitabile di perfezione politica,
riesce nel complesso a mantenersi dominante. Nel libro successivo,
invece, la sua tenuta appare assai difficile e incerta. Nel secondo
proemio, l’atto dell’imitare non è più proposto come
termine di un valore autosufficiente, ma è condizionato
dall’aprirsi, o non aprirsi, di una conveniente
«occasione», e anzi si dice, a chiare lettere, che nel
presente tale occasione non è data «per la
malignità de’ tempi e della fortuna». Nel terzo
proemio, infine, la nota dell’imitazione tace: la regola, lì
esposta, del «ridurre ai princìpi», del riportare
le costruzioni storiche, come gli Stati, alle fonti etico‑politiche
della loro identità intanto può essere prospettata a
colui che si trovi ad agire entro un dato «corpo»
statuale, in quanto essa stessa tuttavia consegni ciascun
«corpo» all’identità specifica e intrascendibile
che nel suo «principio» è custodita. A Firenze,
per esempio, città nata «serva» e non libera, si
aprirebbe la sola via della riduzione a un principio che è
principio di «servitù», così che ne riesca
annullata, in sostanza, per essa, l’attualità esemplare di
Roma, città che invece è nata ed è tanto a
lungo vissuta «libera». L’idea di
«imitazione» tramonta così in una più
drammatica, non bene esplicitata e chiarita, nozione del nesso che
lega sapere storico e prassi politica.
Le maggiori opere machiavelliane furono date alle stampe a Roma e a
Firenze nel 1531‑32, soprattutto come eccellenti prove della
civiltà letteraria fiorentina. Sul piano della cultura
politica, invece, la lezione del M. subì, in Italia, una dura
sconfitta, perfezionata con la messa all’Indice del 1559. Mentre il
valore della libertà (centrale nei Discorsi ma sotteso nello
stesso Principe) era bandito dal sistema politico imperiale e
neofeudale uscito dalle guerre d’Italia, la Chiesa controriformista
coglieva e combatteva lo spirito profondamente anticristiano del
pensatore fiorentino. Per tre secoli, in Italia, la ricezione
dell’opera machiavelliana (che continuava a leggersi in edizioni
clandestine e in manoscritti) ebbe la forma esteriore
dell’antimachiavellismo (G. Botero, La ragion di stato, Venezia
1589), con l’unica parziale eccezione rappresentata da Paolo Sarpi.
I capitoli più significativi della fortuna del M. sono
perciò intrecciati con la storia dei grandi Stati europei.
Alla formazione dello Stato nazionale francese si lega il pensiero
di Jean Bodin; nella Methodus ad facilem historiarum cognitionem
(Parigi 1566) egli unisce critiche puntuali a un elogio per colui
che «scrisse per primo, dopo circa mille e duecento anni di
barbarie, molte cose in materia di stato che sono sulla bocca di
tutti». Nei successivi Livres de la République (ibid.
1576), la cui prospettiva è condizionata dall’evento della
strage di S. Bartolomeo (1572), mentre condanna l’anticristianesimo
del M., ne riprende il rifiuto di «fare il disegno di uno
stato puramente ideale e astratto, come quello di Platone o quello
di Tommaso Moro».
L’Inghilterra di Elisabetta I e di Giacomo I conosce un vero e
proprio mito del Fiorentino. R. Daborne scrive una commedia su
Machiavel and the Devil (1613). J. Donne rappresenta un dibattito
all’inferno tra il M. e s. Ignazio che si contendono il favore di
Satana (Ignatius his Conclave, London 1611). Ma, negli anni della
Rivoluzione, J. Harrington attraverso una figurazione utopistica
(The Commonwealth of Oceana, ibid. 1656) esorta O. Cromwell ad
assumere il ruolo del legislatore machiavelliano per dare al Paese
nuove leggi e ordini, ispirati alla saggezza politica che fece
grande Roma: grande interprete di quella saggezza, il M. appare
«the only polititian of later ages». Harrington
preferisce risolutamente i Discorsi al Principe, e sul commento
liviano impernia la sua rivalutazione del M. come pensatore
repubblicano, esponente di una tradizione umanistico‑civile
orientata a educare la virtù del cittadino. Una tale visione
era destinata a una lunga durata, e addirittura a modellare la
cultura politica che guidò le colonie inglesi d’America
all’indipendenza.
Nel corso del Settecento, affiora la tesi apologetica, già
avanzata agli inizi del secolo precedente da T. Boccalini nei
Ragguagli di Parnaso (Venezia 1612‑13), per la quale Il principe ha
il fine dissimulato di svelare il volto demoniaco della tirannide:
tanto suggeriscono, per esempio, la voce Machiavelisme della grande
Encyclopédie e la prefazione all’edizione fiorentina (1782)
delle Opere machiavelliane, ma l’idea giunge fino ai Sepolcri di U.
Foscolo; una nuova e positiva interpretazione prende forma compiuta
e profondità di pensiero quando la crisi degli Stati
tedeschi, dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche,
impone alla coscienza di quella nazione, con drammatica urgenza, il
tema del politico. Nel 1807, J.G. Fichte pubblica un saggio
(Õber Machiavel als Schriftsteller) e riscopre nelle pagine
del M. i principî incancellabili della necessità
politica. Le grandi pagine hegeliane sul M. si trovano nella
Verfassung Deutschlands (del 1801‑02, ma inedita fino al 1893).
Hegel congiunge la determinatezza storica dell’opera machiavelliana
(«l’Italia doveva essere uno Stato») con la piena
attualità («la Germania non è più uno
Stato»), che è attualità concettuale in quanto
«scienza» dei fondamenti del politico. L’Italia del
Risorgimento riscopre il M. con Foscolo e, soprattutto, con le
pagine di F. De Sanctis (Storia della letteratura italiana, Napoli
1870), che attribuiscono al «Segretario fiorentino» un
ruolo di protagonista nella storia dello spirito nazionale,
interprete e critico dei suoi vizi, anticipatore della sua
rinascita.
Nel Novecento, dopo l’interpretazione crociana che inquadra la
scoperta dell’autonomia della politica nella prospettiva della
filosofia dello spirito, la lettura di A. Gramsci, concentrata sul
Principe, riporta alla necessità di una piena storicizzazione
del pensiero machiavelliano, trasferendone i contenuti rivoluzionari
alla dialettica storica contemporanea (il concetto di partito come
«nuovo principe»). Nel panorama degli studi successivi,
le cui prospettive sono moltiplicate da approcci particolari e
specialistici, spicca per attendibilità e finezza la
ricostruzione di F. Chabod. Partendo dall’accoglimento formale della
tesi crociana sull’originalità speculativa del M., Chabod
ricostruisce un profilo integrale dell’uomo e del pensatore, nel
quale i diversi aspetti coesistono e danno vita a una
personalità complessa: specchio della crisi di un’epoca, essa
è insieme portatrice di elementi di razionalità e di
componenti passionali di «genio» e di
«illusioni» (non mancano richiami espliciti a G.
Ferrari). È toccato quindi a un allievo di Chabod, G. Sasso,
il compito di reinterpretare compiutamente il pensiero
machiavelliano attraverso la riconsiderazione unitaria dei suoi temi
nel loro svolgimento storico.