ADRIANO TILGHER. IL PROFILO FILOSOFICO DI UN IRREGOLARE

Pasquale Lucio Losavio

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1.1 La formazione ed il clima culturale.

Adriano Tilgher nasce l'8 gennaio 1887 a Resina, l'odierna Ercolano, su "suolo vulcanico", come amava ricordare a chi gli rimproverava il carattere irruente e tellurico.Così come per il "suo" Leopardi, lo spettacolo di una civiltà andata in rovina sotto i colpi di una natura cieca e violenta lo segnerà in profondità.[1][1] La sua famiglia è di condizione modesta; il padre, vetraio a Capodimonte, di origine tedesca e la madre valdostana di origine francese, due culture i cui ambiti filosofici, Tilgher privilegerà sempre. Nel 1897 si trasferisce a Napoli, città che amerà e che immortalerà, nel suo saggio sulla poesia dialettale napoletana, nel mondo di inizio secolo fermo in un tipo di società ancora sostanzialmente ottocentesca e di cui Tilgher ci descrive i contrasti tra i coloriti ambienti popolari e l'aleggiante spirito hegeliano, condensati nell'etimologia dei termini cafone e begriffo[2][2]. Le prime esperienze formative di Adriano Tilgher, avvengono nello stimolante ambiente del liceo G. B. Vico, a Napoli. Gli studi , gli incontri e le amicizie di questo periodo saranno importanti e durature. Tra i banchi conosce la futura moglie, Livia de Paolis, Mario Vinciguerra, che diventerà suo cognato, e tra gli altri anche Guido De Ruggero. Sono di questo periodo le letture e le passioni per gli autori che incideranno sul suo futuro atteggiamento teorico e lo accompagneranno per sempre. Nasce l'amore per Leopardi, la lettura di Schopenhauer, il confronto con il pensiero di Kant e Fichte. Sono anni difficili. Ma, alle ristrettezze economiche, Tilgher oppone la tenacia negli studi e la bramosia nelle letture. A quindici anni riesce a pubblicare, con l'aiuto degli amici, una sua recensione al saggio di Cesare Lombroso Genio e degenerazione in cui mette in relazione, l'uomo di genio, con le predominanti caratteristiche irrazionali di personalità in cui si colgono, accanto alla eccezionalità, una capacità intuitiva e una sensibilità che rasentano la patologia. Scrive di Leopardi e Schopenhauer, esaminando il pessimismo comune ai due autori. Sembra emergere da queste prime elaborazioni "...l'esaltazione di un volontarismo che, da un lato, lo costringe alla riscoperta di Nietzsche, di un Nietzsche dionisiaco e ottimistico, dall'altro, gli fa subire il fascino delle scienze moderne, con il carico di negatività che esse gli imporranno."[3][3] Tutto condito con l'entusiasmo che danno le prime scoperte giovanili.

Il primo decennio del secolo è decisivo per i futuri sviluppi della storia civile e culturale italiana. Croce aspira ad essere il leader della cultura italiana ed europea. Strumento di questa egemonia diviene la Critica, fondata nel 1903, dalle cui pagine, Croce si inserisce nel vivo del dibattito dell'epoca, in tutti i campi di attività culturale, con un fine essenzialmente pratico e pedagogico, sostenuto da un solido sistema teorico. "Croce nel campo della cultura compiva una operazione che ha delle analogie con l'operazione politica di Giolitti: assorbire i fermenti, le inquietudini nuove della società italiana e inalvearle su una base pacificamente progressiva"[4][4]. Nello stesso anno, Papini e Prezzolini davano vita al Leonardo, Corradini al Regno, Borgese a Hermes. "Cio che accomunò provvisoriamente la rivolta della rivista napoletana e la scapigliatura dei fiorentini, fu la difesa delle dimensioni dell'uomo, della vita spirituale, dell'iniziativa umana. Anche se il sottointeso era, fin da allora, profondamente diverso, il nemico per il momento era lo stesso: una posizione che poggiava su strutture rigide del reale, che lo costringessero in una fissità definita per sempre e da sempre…. Certo è che, sia Papini che Prezzolini, una cosa avevano chiara fin da principio, e cioè che l'uomo è un punto di assoluta libertà, ossia rischio totale e possibilità infinita."[5][5] Ma Croce già da quel primo numero della Critica prendeva le distanze in nome di una funzione moderatrice. "… questa rivista non darà quartiere a quelle molte persone geniali che, infischiandosi della storia delle idee e dei fatti, prendono audacemente a risolvere ardue questioni sulle quali l'uomo s'è travagliato per secoli, sicure di afferrarle con un colpo sbrigativo della loro asserita genialità." Era l'asserzione di un graduale riformismo, rispetto alle ansie rivoluzionarie e iconoclaste di molti giovani intellettuali di quel momento. Papini, Prezzolini, Vailati, Serra, Corradini, Michelstaedter e molti altri si ribellarono, allora, dalle pagine delle riviste fiorentine, a quello che era stato il loro maestro, ma che sentivano ormai lontano e quasi come un traditore delle aspettative che aveva saputo alimentare. Si avvertiva intensamente la sensazione di una crisi profonda che riguardava tutto il modo di intendere l'uomo e di indagare la sua umanità attraverso la filosofia, "…il pensiero umano era giunto a un limite, e non si poteva continuare per la solita strada."[6][6] Furono anni decisivi per la formazione di molti dei protagonisti delle vicende degli anni successivi in cui, tutti questi sommovimenti premonitori, sarebbero stati centrifugati dal precipitare della crisi nella catastrofe della guerra. Riportiamo ancora il pensiero di Garin che, pur ravvisando negli interpreti di questa stagione i vizi palesi di un dilettantismo, di una retorica vuota e a tratti violenta, di una irresolutezza che si tramutava in disinvoltura nel passare di volta in volta da un atteggiamento teorico nel suo opposto, tutto ciò unito ai facili equivoci che provocò l'esaltazione dell'attivismo irrazionalistico, tuttavia conclude "In realtà in quella lotta contro un intellettualismo vuoto, in quel senso esasperato d'insoddisfazione di fronte alle troppo facili sistemazioni della realtà, in quel sentimento tragico della vita, in quella rivolta contro un troppo facile e superficiale ottimismo, si esprimevano forse le esigenze più profonde della nostra età."[7][7] Il conflitto è anche generazionale. I giovani mostravano tutti i segni della crisi, dell'inquietudine, di una società italiana in mutamento , in cui emergevano forti contraddizioni. Le nuove generazioni erano insofferenti a ogni egemonia ed estremamente permeabili a suggestioni provenienti dagli ambienti e culture più diverse. In un'Italia che sembrava solida, chiusa nella continuità con la tradizione risorgimentale, covavano i germi di un disagio profondo. La ribellione all'ottimismo crociano, spesso dava vita a tentativi infecondi e destinati al fallimento, ma "…bisogna tener presente che tutte queste operazioni culturali furono tentativi di sprovincializzare la vita italiana…"[8][8].

Il giovanissimo Tilgher vive immerso nell'atmosfera di quegli anni. Affronta con passione la lettura di testi letterari e filosofici che può attingere di prima mano avendo conoscenza del francese e dell'inglese, oltre che del tedesco. La lettura di Fichte e Schopenhauer rimarrà, per lui, fondamentale.[9][9] "E' in questo clima che si esprime il volontarismo di Adriano Tilgher e la concezione sua attivistica dell'esistenza e della storia. E' in questa esplosione di tensioni, nel paradosso di un idealismo che si colora di irrazionale, che prende consistenza il suo modo di intendere l'arte come fuga mundi, come immediata posizione di oggetto e soggetto."[10][10] Dopo gli studi classici al liceo G. B. Vico, si laurea in Giurisprudenza nel 1909, con una tesi di filosofia del diritto. Negli anni dell'università, il suo professore di filosofia del diritto lo fa conoscere a Croce. Il maestro, apprezza a tal punto la precoce eccezionalità del giovane Tilgher, che gli affida, sotto la sua super visione, una serie di traduzioni per la casa editrice Laterza. I frutti più importanti di questa collaborazione furono la traduzione della Dottrina della scienza di Fichte, uscita nel 1910, e le traduzioni del Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche di Cartesio nel 1912. Già a partire da questo periodo il rapporto comincia a deteriorarsi. I motivi sono insieme ideali, teorici ma anche, se non soprattutto di natura caratteriale. Tilgher ha più volte prospettato al maestro la sua vocazione per una ricerca filosofico teoretica, Croce lo scoraggia e lo spinge verso studi storici.[11][11] Una serie di lettere che Croce invia a Giovanni Laterza, testimoniano il venire meno della fiducia nell'allievo e una certa insofferenza. A partire dal 1914 Tilgher si allontana progressivamente da Croce, guardando come nuovo riferimento a Gentile, ma l'insegnamento crociano gli sarà sempre presente sia pure come bersaglio critico. I primi tentativi di approdare ad una visione personale ed originale hanno come campo di prova le teorie estetiche, "…nella prospettiva di un ripensamento dell'estetica di Croce."[12][12]

E' Croce, quindi, il primo maestro di Tilgher, ma sarà presto ripudiato. Come molti altri allievi di Croce, anche Tilgher intraprese la via tortuosa e difficile della autonomia speculativa ma, sempre, tenne presente il magistero crociano che, ha insinuato qualcuno, tese a emulare. La storia del fondamentale rapporto con Croce e Gentile investe tutta l'attività filosofica di Tilgher che si erge a vero terzo protagonista della cultura italiana del tempo. Antagonista di entrambi, della loro egemonia, assume toni spesso aspri che rivelano la commistione di rancori personali e ragioni strettamente teoriche. Eppure l'aria di famiglia rimane. Tilgher non riuscì mai ad emanciparsi totalmente dalla figura di Croce e, per quanto riguarda l'altro, la evidente consonanza teorica , più volte anche violentemente negata[13][13], fece parlare di Tilgher come del 'fratellastro' di Gentile. Senza lo sfondo culturale di Croce e Gentile certe sue enunciazioni perderebbero sicuramente di significato.

Nel 1910 si trasferisce a Torino dove ha vinto un concorso per bibliotecario. Arturo Carlo Jemolo lo ricorda come un 'signore giovane' che 'mostrava più dei ventitre o ventiquattro anni che aveva', così assorto nella lettura quotidiana dei giornali che molto spesso dimenticava di essere per strada e zittiva i passanti come se fosse in biblioteca.

1.2 Le opere, gli autori, gli avvenimenti.

Il volume Arte, conoscenza e realtà (1911) e il saggio Immagine e sentimento nell'opera d'arte, sono testimonianza del tentativo di Tilgher di affrontare i problemi estetici da un punto di vista nuovo tenendo presenti gli apporti che, in questo periodo, attinge e rielabora dagli ambiti culturali più diversi. Si dichiara ancora fedele alla matrice idealistica e alla derivazione crociana, ma tutto l'impianto teorico è fatto per smentire queste premesse. Queste opere di carattere estetico, come più tardi la Teoria del pragmatismo trascendentale, rivelano la natura delle letture che Tilgher affronta e degli influssi che subisce e che risulteranno decisivi per il futuro dela sua elaborazione filosofica. In primo luogo l'incontro con la filosofia di Bergson e la teoria dell'élan vital. Uno slancio vitale visto come immediatezza che però non si traduce in un elogio della forza ma, tende a correggere l'irrazionalismo vitalistico con la razionale disciplina imposta dalla naturale autoformazione dell'esistenza. Una dinamica di Vita e Forme, in cui il sistema razionale tenta di fermare lo slancio vitale che tuttavia non riesce a contenere. Questa componente vitalistica e soggettivistica della visione tilgheriana, marca la differenza con la concezione crociana chiusa nella distinzione tra teoria e pratica. "Della natura e della vita umane la filosofia di Tilgher mira a carpire il flusso sotterraneo, l'attimo fuori del tempo, il senso del bergsoniano slancio vitale, nel suo immediato rivelarsi, libero dalle mutevoli e sempre parziali regole di un'estetica e di un'etica codificate"[14][14] Le influenze evidenti di Simmel, Bergson, Nietzsche si fondono in una visione in cui razionale e irrazionale si compenetrano in modo che l'uno non prevarichi mai l'altro.

Nel 1912 viene chiamato alla biblioteca Alessandrina. Sposa la compagna di liceo, Livia de Paolis, e si trasferisce definitivamente a Roma. Qui comincia una intensa attività pubblicistica che lo porterà a collaborare con importanti quotidiani e riviste dandogli la fama di attento osservatore e acuto polemista. Scrive su Italia nostra, La Cultura, La Nuova Cultura, Rassegna contemporanea e la Rivista di filosofia. Nel 1914 è, con Borgese, Guidi, Varisco, Vinciguerra, Zottoli e altri, tra i fondatori del Conciliatore. Sulla Concordia appare la sua firma in articoli di critica letteraria e politico-sociale. E' questo il periodo che lo vede idealmente più vicino a Giovanni Gentile. La vicinanza si spiega con il rifiuto e la reazione alla tutela teorica di Croce. Tilgher vede, in Gentile, il negatore del dualismo crociano di conoscere e volere. Proprio nel tentativo di innestare le nuove esigenze della filosofia contemporanea, che deduce il conoscere dal volere, nel filone dell'idealismo trascendentale, nasce la Teoria del Pragmatismo trascendentale (1915) , la raccolta di saggi e articoli, che forma la prima sistemazione del suo pensiero. Certamente non lo si può considerare un atto di piena adesione alla filosofia attualistica. Tilgher, ancora non completamente emancipato da Croce, sente il fascino e l'attrazione delle teorie di Gentile ma vuole che, il conoscere inteso in senso attualistico, trovi un fondamento trascendentale nel dovere. La frammentarietà, l'imprecisione del vocabolario, l'incongruenza di alcune conclusioni, rispecchiano lo stato dell'elaborazione tilgheriana del momento. Del resto è lo stesso Tilgher, nella Prefazione alla Teoria, ad avvertire il lettore degli scopi e delle intenzioni ma anche dei limiti dell'opera, dichiarando che l'autore "…non ha l'assurda pretesa di aver detto l'ultima parola in filosofia, né per gli altri, né, tanto meno per se stesso."[15][15] Si intravede, nell'andamento dei saggi, la progressiva conquista di autocoscienza nello sforzo di una volontà che spinge il pensiero sempre più in profondità. L'esigenza sentita da Tilgher è che l'individuo consegua una piena consapevolezza personale e sociale che può essere data solo da un pensiero con un solido fondamento etico. La Teoria è il resoconto di questo processo insieme filosofico ed esistenziale. E' un'opera di apprendistato filosofico scritta da un giovane e che per questo viene bene accolta da un lettore giovane che ritrova, nelle pagine tilgheriane, la propria stessa ansia di analisi e comprensione. La Teoria è l'inizio di un percorso ma, con tutti i suoi limiti, contiene, in nuce, tutti i futuri sviluppi della elaborazione tilgheriana.

Gli anni tra il 1917 e il 1919 sono segnati da incontri importanti e amicizie che influiranno sul futuro teorico e personale di Tilgher. Presentato dal senatore Frassati, comincia a scrivere sulla Stampa. In lunghe passeggiate notturne, durante le quali discutono dei temi aperti dalla fine della guerra, stringe un legame fraterno con Mario Missiroli che lo chiamerà a collaborare al Tempo e al Resto del Carlino. In questo periodo, Tilgher approfondisce la critica dello storicismo crociano, formulando una teoria della 'storia-caso' in opposizione alla 'storia-ragione'. Si forma quel nucleo di temi che rimarrà centrale nell'opera di Tilgher fra le due guerre, "…la tensione di un profondo rinnovamento, ispirata dalla incertezza che deriva alla nuova generazione, forgiata nei massacri del fronte, dal crollo del precedente patrimonio di valori."[16][16] Frutto di questa elaborazione è il trittico di pubblicazioni del 1921: La crisi mondiale e Saggi di marxismo e socialismo, Relativisti contemporanei e Voci del tempo. Profili di letterati e filosofi contemporanei. Trova qui espressione una vera e propria 'filosofia della crisi' tilgheriana. Con la teoria dello 'scetticismo storicistico', in cui si fondono in modo originale una filosofia della Vita e un nuovo scetticismo che ha acquisito la coscienza storica della caducità delle culture e delle civiltà, Tilgher si immette nel più ampio dibattito europeo. In quegli anni, che preparano l'avvento del fascismo al potere, Tilgher dalle pagine della Ronda, dello Spettatore e del Testimonio, non si fa coinvolgere nel facile entusiasmo e assume un prudente distacco critico rispetto ai turbolenti avvenimenti di quel momento.

Dal 1922 collabora al Mondo di Giovanni Amendola. Pubblica La visione greca della vita e gli Studi sul teatro contemporaneo dove raccoglie il materiale frutto di quegli anni di critica drammatica. La polemica con Lucio d'Ambra intorno al dibattito aperto sul concetto di 'teatro nuovo', la avversione al teatro di Goldoni che lo avvicina a Gobetti, e infine il sostegno entusiastico all'opera pirandelliana, fanno di Tilgher il protagonista principe della critica teatrale italiana. Diventa l'incarnazione stessa del suo ideale di critico che, nel rapporto con il pubblico, non ha solo una funzione esplicativa ma, soprattutto, educativa e filosofica.

Il 1924 è un anno cruciale nella biografia di Tilgher. Si intravedono le prime avvisaglie di quell'ostracismo che la sua posizione non allineata alle tesi del regime, gli avrebbe procurato. Tilgher era diventato una delle voci più significative e ascoltate del tempo, e questo presto gli procurò le avversioni e le invidie della cultura di regime. Viene costretto a lasciare la biblioteca Alessandrina sotto le pressioni di quelle "persecuzioni attualistiche" che facevano capo direttamente a Gentile.[17][17] Si accentua la sua polemica anti-attualistica, nella quale si affianca a Piero Gobetti, collaborando alla Rivoluzione liberale. Del 1925 è anche Lo Spaccio del Bestione trionfante una violenta critica e "stroncatura" della filosofia e dell'uomo Gentile, "…un libro sotto taluni aspetti alquanto infelice, anche se non del tutto infondato nella veste e nella sostanza critica."[18][18] Nel 1926 la stretta del regime colpiva il giornale il Mondo. Tilgher è costretto al silenzio e abbandona la critica drammatica. Si spegne la voce di colui che era chiamato il "Mussolini della critica" per i giudizi taglienti e definitivi.

Ancora del 1928 è la pubblicazione di Storia e Antistoria in cui giunge a maturazione la sua visione critica dello storicismo e che gli procura una decisa censura crociana. Nel 1929 esce Homo faber, una analisi storica e filosofica del concetto di lavoro nella civiltà occidentale che gli darà un grande riscontro, anche a livello internazionale. "Nella personalità di Tilgher, nell'aspetto più contrastante del suo carattere, vive anche lo stridore di questa antitesi: la evidente simpatia per i temi dell'impostazione socialista e marxista, e il richiamo costante di una nostalgia classica; il senso di una radicata tradizione spirituale dell'uomo, e la carica 'progressista' di certe considerazioni sulla tecnica e le scoperte d'attualità…"[19][19] Anche se quest'ultima produzione di Tilgher non contiene attacchi espliciti al sistema politico e culturale del regime, nel 1930, Tilgher viene fatto oggetto di un provvedimento di pubblica sicurezza e sorvegliato dalla polizia fascista. "Quest'ultimo decennio di vita vede Tilgher tornare alle passioni filosofiche e letterarie degli anni giovanili, nella esigenza di tutto ripensare. La vicinanza di alcuni amici, tra cui, ultimo, Giuseppe Capograssi, gli consente di confortarsi al tepore di un'insperata notorietà, con crescenti recensioni dei suoi libri, saggi e articoli, in riviste di taglio scientifico, e con l'effetto ulteriore di una qualificazione, ancorchè indiretta, del suo pensiero, che per la prima volta arriva a lambire gli spazi di una cultura universitaria."[20][20]

1.3 Una coerente irregolarità.

L'aggettivo "irregolare", con cui lo abbiamo definito, mette in evidenza, del pensiero e della figura tilgheriana, proprio quel processo di dislocazione, straniamento, contraddizione permanente, che è il modo tipico di vivere il proprio tempo da parte di questo intellettuale. Risulta estremamente coinvolto ma, nello stesso tempo, estraneo e profeticamente volto in avanti rispetto agli avvenimenti. Diviene un irregolare di fronte a fenomeni e movimenti che, dopo uno stato nascente, si irrigidiscono in sistema. La sua scelta è per l'oscura imprevedibilità, la tumultuosa irregolarità della Vita, piuttosto che la staticità della Forma. Una caratteristica comune alla filosofia del Novecento. Un irregolare, dunque, nei confronti di un qualsiasi momento della contemporaneità, culturale, storico, politico che si fissi, si consolidi. Non dimentichiamo che, per primo, ha il merito di riconoscere lo stretto legame che corre tra le più tipiche espressioni della cultura italiana del tempo: l'attualismo gentiliano, il fascismo, il teatro di Pirandello; eppure finirà col prendere, traumaticamente, le distanze da tutti e tre, rimanendo in solitudine. Si legge in Relativisti contemporanei: "Il Fascismo non è che l'assoluto attivismo trapiantato in politica. Questo punto di vista - nuova prova dell'unità assoluta di ciascuna Cultura - trova sua espressione attuale nell'arte di Luigi Pirandello...".[21][21] Quando l'idea diventa ideologia e sistema di verità, quando si passa da una fase rivoluzionaria alla fase della legittimazione, Tilgher vi si oppone in nome di forme relative e limitate. La sua è un'irregolarità coerente, è il frutto di una scelta coerente con la dinamica irregolare del suo pensiero e con le vicende tumultuose del suo tempo.

Accostarsi allo studio di una personalità come quella di Adriano Tilgher significa dover delineare i caratteri di tutta un'epoca, di tutto un periodo, denso di avvenimenti, della storia europea e non solo di quella strettamente culturale. E' necessario addentrarsi nell'analisi del ruolo che gli intellettuali europei, e in particolar modo italiani, seppero esercitare con il recepire o meno i segnali di quel clima da 'crisi epocale ' che attraversò l'Europa e che sfociò nella tragedia della prima, catastrofica, guerra mondiale. La storia intellettuale di Adriano Tilgher è segnata in modo traumatico e profondo da questi avvenimenti che, comunque, si legano e influiscono sulla stagione più feconda della sua attività di studioso, poliedrico e atipico, ma fortemente inserito nel suo tempo di cui vive, da protagonista, le contraddizioni, le angosce e le disillusioni. Gli eventi storici si intrecciano indissolubilmente con la sua biografia e ne condizionano fortemente il pensiero nel suo farsi e l'evoluzione di questo segna le tappe e le vicende di rapporti personali, collaborazioni, amicizie e aspre contrapposizioni che influiranno, a loro volta, sulle posizioni teoriche e politiche e sulla fortuna personale di Tilgher. In una circolarità di vita , storia e pensiero che rimarrà sempre il filo rosso della sua vicenda umana. La sua esistenza è contrassegnata dall'impegno di intellettuale militante che, in consonanza con le più profonde esigenze del suo pensiero, cerca, attraverso modi e stili personalissimi, come giornalista, saggista, critico letterario e teatrale, filosofo, storico e sociologo, di esercitare un ruolo non passivo.

Gli si deve riconoscere il merito non solo di rispecchiare, in modo quanto mai eloquente, lo spirito di un'epoca ma, anche, di avere tentato di incidere nel proprio tempo perlomeno attraverso la scelta di servirsi di tutti gli strumenti che permettono di arrivare ad un pubblico più vasto. Consapevole, in questo, dell'importanza sempre più grande e decisiva che nel secolo avranno i mezzi di comunicazione di massa, sia come mezzi per la propaganda ideologica che come immensa possibilità di orientare l'opinione pubblica. Prova ulteriore di questa volontà è l'uso di un linguaggio chiaro se pure inconfondibile nello stile tagliente, limato dall'esercizio dialettico. E persino nell'adozione di una certa dimensione del carattere di stampa dei suoi libri, per altro, resi riconoscibili dal vivace arancione della copertina degli editori Bardi.

Tilgher illustra le qualità del filosofo militante, nel ritratto di uno dei suoi autori di riferimento, Ortega y Gasset, in cui si rispecchia nella, consueta e rivelatrice, opera di "tilgherizzazione": "Professore di filosofia nell'Università di Madrid, non ha nulla del filosofo tradizionale, ridicolo specialista dell'universale, occupato a dar fondo al cosmo in un sistema in più volumi. Uomo di cultura svariatissima, egli tratta con uguale profondità di storia e di politica, di economia e di critica d'arte, ed è egli stesso artista di squisita originalità. Non ha mai, credo, scritto un libro nel senso classico e tradizionale della parola: i suoi libri non sono che raccolte di saggi. E del successo che hanno, gli autori di libri che nessuno legge si consolano come possono, poveretti, dandogli del giornalista. Il suo procedimento abituale è sempre lo stesso. Egli parte da un evento della vita quotidiana, da un fatto di cronaca, dal libro del giorno, da qualcosa, insomma, evento movimento tendenza moda, che occupa e interessa tutti, non solo l'uomo colto ma anche l'uomo della strada, e, a poco a poco, ci mostra i fili innumerevoli per cui quel fatto, quel movimento, quella tendenza, quella moda, che prima appariva nel suo isolamento cosa insignificante, si rilega all'infinito della storia e della vita, che si è puntualizzato e concentrato in essa, e la fa battere del suo ritmo e palpitare della sua vita." [22][22] Come altri hanno rilevato[23][23], si tratta di un vero e proprio autoritratto. Tilgher individua non solo un tipo ideale di intellettuale, ma delinea anche un metodo di lavoro, di intervento nella realtà, che sfrutta ogni occasione, ogni momento che sembra frammentario, per intervenire nel dibattito culturale e introdurre, per analizzarlo, una delle questioni 'vitali' e 'centrali' che investono la società contemporanea. Con queste premesse, diventa naturale la rinuncia alla sistematicità: il problema viene isolato e chirurgicamente scomposto in tutte le sue parti e implicazioni, ma mai è possibile inserirlo in un tutto che abbia la chiusura di un sistema. E' un metodo di lavoro e, nello stesso tempo, un programma, un ideale di intima fusione tra Vita e Filosofia a cui Tilgher rimarrà fedele.

Non gli pesa la riduttiva qualifica di 'giornalista' che, i suoi detrattori e certo mondo accademico, gli affibbiano. Niente è più alieno da lui, schopenhauerianamente, dell'ambizione a titoli e cariche accademiche. Egli stesso definiva il proprio lavoro come quello di semplice 'cronista' di un'epoca, che si lascia trascinare dal flusso caotico della storia, mantenendo, tuttavia, una "stabilità interiore" che è l'unico momento di "...un assoluto, comunque, stretto nei limiti dell'orizzonte storico e terreno"[24][24]. La sua attività di giornalista, svoltasi sui maggiori quotidiani dell'epoca (la Stampa, il Resto del Carlino, il Mondo, ecc.), rivela le caratteristiche fondamentali sia del suo temperamento che del suo atteggiamento teorico. L'amore per la polemica, il saper penetrare nel vivo delle questioni scontrandosi duramente con tesi consolidate, il gusto per le posizioni inconciliabili, in un andamento diadico che rifiuta una sintesi qualsiasi, "indizio sicuro - questo - di distacco dallo storicismo"[25][25], è il tipico atteggiamento delle età rivoluzionarie "... in cui differenze e asimmetrie non bruciano più nell'impazienza delle sintesi..."[26][26]. Testimonianze della matrice dialettica della sua impostazione, sono le accese diatribe che lo videro protagonista sul futuro del teatro italiano e sul ruolo che doveva avervi il critico (per un periodo divenne il critico più ascoltato e autorevole d'Italia) che, per lui, avrebbe dovuto essere un vero e proprio "suggeritore filosofico" dell'artista.

Notissime le sue battaglie, prolungatesi dal 1916 al 1922, sul teatro del "grottesco" con Lucio D'Ambra e poi la stagione della scoperta del teatro di Pirandello, un incontro mai sereno e segnato da contrasti evidenti, sulla cui interpretazione si scontra con, l'altrettanto autorevole, Silvio D'Amico. Il teatro, per lui che dà importanza centrale ad una visione estetica della vita, diventa il rivelatore della crisi della società borghese e del tramonto della sua ideologia. In questo i personaggi pirandelliani gli sembrano emblematici della fase storica. Al teatro assegna una funzione educativa e filosofica. Silvio Cumpeta, nella sua opera su Tilgher, afferma che "Se fosse stato un pacifico studioso, o anche un filosofo di massimi problemi, sarebbe difficile - benché non impossibile - collegarlo strettamente a casi e vicende politiche e di costume; ... certe sue opere sono così contingenti, così legate all'aria del momento, che la distinzione tra pratico e teoretico in un discorso su di lui è senza significato."[27][27] Liliana Scalero, la studiosa sua discepola e curatrice delle opere postume, mette in luce, nella prefazione al Diario Politico[28][28], la natura dialettica del procedere tilgheriano. Il suo pensiero prende coscienza e si fa nei contrasti, nelle contrapposizioni, fichtianamente contro un ostacolo, un limite. Sente sempre il bisogno di avere chiaro l'interlocutore con cui battersi, per questo la sua filosofia ha essenzialmente e complessivamente, una valenza politica e morale. "C'è pensiero, nel senso proprio della parola, soltanto là dove c'è dialettica, cioè conflitto di opinioni diverse: nell'attrito reciproco le opposte opinioni perdono ciascuna la sua unilateralità, ognuna si apre a ciò che ha d'innegabile l'opinione opposta, perciò stesso esse si irrobustiscono, sono meglio in grado di resistere a ulteriori assalti."[29][29]

Lo rivela chiaramente la presa di posizione nei riguardi del famoso libello di Benda, Il Tradimento dei Chierici[30][30], recensito con diverso orientamento, anche da Croce. Tilgher non condivide un modello di intellettuale che considera totalmente anacronistico, che non è più adatto al ritmo di una società in evoluzione vertiginosa, a cui il progresso tecnico ed economico pone scenari inediti ed ineludibili. Per lui è necessario prendere posizione, sporcarsi le mani, legare il proprio destino, la propria esistenza al vortice irrazionale, casuale, della Vita e della Storia che, pessimisticamente profetizzando, non si muove verso un futuro certo e migliore.

1.4 Tilgher e la crisi.

E' il tema del Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, di cui Tilgher fu il primo divulgatore in Italia e che diventerà uno dei suoi più cari 'compagni di strada '. Nel clima del dopoguerra, che Tilgher definiva di "interguerra", presago che le contraddizioni che avevano scatenato il primo conflitto mondiale restavano irrisolte e si erano acuite e avrebbero portato inevitabilmente a nuove catastrofiche esplosioni, avviene la scoperta e l'adesione alla visione spengleriana dello sviluppo delle civiltà intese come organismi soggetti alla legge biologica di un inesorabile declino. La coscienza della crisi e il crollo della fiducia in una Ragione universale che governi una Storia in perenne evoluzione verso il meglio in un progresso inarrestabile, si incontrano inevitabilmente con la prospettiva spengleriana. E dove la suggestione di questa tesi ha il sopravvento, Tilgher avverte il senso della fine, dell'epilogo e del crollo definitivo della civiltà europea. Tilgher può essere considerato il 'sismografo' di quel vero e proprio 'terremoto delle coscienze ' che si avvertì dopo la fine del conflitto. Le voci più alte e autorevoli si interrogarono sul destino dell'Europa e dell'Occidente: Husserl, Valery, Huizinga, Mann, Toynbee, Ortega y Gasset, Musil, Svevo, Freud, tutti fanno parte della vasta schiera dei 'filosofi e letterati della crisi '.

Merito di Tilgher è essersi inserito in questo vasto movimento e aver diffuso, in contrasto con un mondo filosofico e accademico italiano non troppo recettivo o chiuso nel suo neoidealismo, le correnti e le figure più vive della cultura europea, di essersi fatto portavoce delle filosofie più feconde e gravide di un potenziale praticamente illimitato di suggestioni.[31][31] Sono indissolubilmente legati, da una parte, il "cronista" della crisi, che intuisce e da conto delle trasformazioni dell'arte, della società, della cultura che ha davanti, e, dall'altra il "filosofo" della crisi, che fa assumere al momento storico il valore paradigmatico di condizione umana. Eugenio Garin, nelle sue Cronache di filosofia italiana, giudica in modo inequivocabilmente negativo la tentazione, di questi interpreti della crisi, di universalizzare una situazione di fatto a cui si accompagna l'incapacità cronica a trovare soluzioni. "Si accorgevano che erano ormai cadute le antiche strutture del mondo, di cui la critica aveva svelato, al posto di una creduta obbiettività, la genesi storica, umana. Sentivano, d'altra parte, che nuove soluzioni ancora mancavano, o erano solo pensate, non reali. Ma invece di cogliere il limite di una situazione per integrarla, prorompevano in lacrime. Scoperto che il pensiero critico aveva dimostrato l'umanità, e quindi la relatività dei valori, piangevano sugli ancoraggi perduti."[32][32] Con quella di Garin concorda l'analisi di Silvio Cumpeta, che afferma "Quando Tilgher nei suoi più densi anni - dal 1918 al 1926 - pensava che tutto ormai, valori e uomini, andava alla deriva del relativismo integrale, dello scetticismo assoluto, dell'attivismo convulso, prendeva con violenza certi aspetti di una crisi etico-politico-economica, impossibili a comprendersi se non fossero stati inseriti in un concreto processo dello Stato e della società italiani, e li elevava a simboli metafisici della crisi."[33][33]

L'Italia di quegli anni vive il fenomeno delle avanguardie e il fiorire di numerosissime riviste, spesso dalla durata effimera e dalla vita travagliata, che videro Tilgher attivissimo animatore e collaboratore[34][34] insieme agli altri protagonisti di quella "generazione dell'Esodo", esodo dallo storicismo e dall'egemonia crociana e idealistica, che allora affilavano le armi della loro critica e che presero, in seguito, strade diverse che li portarono agli approdi più contrastanti. Sono alcuni di quei filosofi che Tilgher raccoglie nella sua Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra che, in modo forse 'confuso', vedeva riuniti "...quelli nella cui opera si è riflesso il tormento intellettuale e morale del dopoguerra europeo..."[35][35] e non poteva certamente includere i seguaci dell'idealismo, in quanto "...l'Idealismo storicistico italiano è, in modo tipico, filosofia dell'anteguerra."[36][36]. E' un mondo spirituale tramontato con la guerra mondiale, "è l'ideologia del Progresso scritta in linguaggio hegeliano invece che in linguaggio positivistico. E' la filosofia tipica dell'Ottocento"[37][37]. Nelle Cronache di filosofia italiana, il giudizio di Garin su questi filosofi, pur non sottovalutandone l'inquietudine e l'acume nella critica dello storicismo, è netto: "Gli scettici e i relativisti, ... si esauriscono nel 'denunciare' la crisi, nel piangere sulla crisi, nel dissertare intorno alla crisi"[38][38]. Garin li considera i 'figli degeneri ' delle stesse dottrine che criticano. Dopo aver demolito i valori assoluti e le verità definitive, non sapevano uscire dallo sterile momento negativo e intravedere "... le soluzioni positive che se ne potevano trarre"[39][39]. Nella stessa Antologia, quasi alla fine della Prefazione che si prega di leggere, troviamo un invito all'azione, proprio perché "... nulla esclude che la vita - per forza propria o per soprannaturale intervento: qui essi differiscono - possa un giorno attuarsi in forme del tutto nuove e infinitamente superiori a quelle in cui si è già attuata, in forme che non siano il semplice miglioramento e arricchimento di queste, ma rompano con esse toto coelo. Un nuovo cielo, una nuova terra, una vita nuova possono apparire. La cosa non è logicamente impossibile. e se non lo è, può essere oggetto di fede e di speranza. E fede e speranza possono divenire le molle di un'azione adeguata"[40][40].

Questo è il cammino che Tilgher indica alla "generazione dell'Esodo" per l'approdo ad una mai certa 'terra promessa'. Nella Lettera a Ferrero, del 13 gennaio 1922, parzialmente pubblicata nei Relativisti contemporanei, paragona le teorie storicistiche alla "terraferma" di una "modesta isoletta" che ora sembra sicura, ma basta che il fiume si ingrossi, il fiume della Vita, inarrestabile, e l'isoletta sprofonderà perché la "tempesta si va facendo sempre più alta e tremenda ed io non vedo riva a cui riparare né zattera su cui avventurarmi". La metafora nautica rende la situazione di chi ha rifiutato l'approdo dello storicismo e deve cavarsela in mare aperto. Non c'è approdo ad una qualsiasi Oggettività che non sia negazione dell'attività dello spirito[41][41].

Tuttavia, scorrendo i titoli della bibliografia tilgheriana, si intravede, ad una lettura più attenta, il filo rosso di un percorso filosofico ed esistenziale da cui traspare l'intima coerenza di una vita spesa nella ricerca di un punto d'appoggio, di una solida terraferma da cui pronunciarsi sulla storia e sull'uomo. La sua mai sopita attenzione alla grecità (si veda La visione greca della vita) è testimonianza di una nostalgica ricerca di un mondo perduto, in cui l'esistenza era scandita dall'andare circolare del tempo e in cui tutto veniva interpretato, vichianamente, alla luce del mito. Una lettura che, più che di Nietzsche, risente dell'influenza di una mai dimenticata origine magno greca.[42][42] Questo itinerario Tilgher testimoniò con la sua stessa esistenza. L'impegno della sua vita, fu quello di cercare di rimanere nell'ambito di un'ascesi completamente laica e di uno stile di vita orientato e qualificato in senso etico e morale. Ernesto Buonaiuti, l'amico con cui condivise vent'anni di vita e di traversie teoriche e politiche,ricorda che Tilgher soleva affermare che la grandezza di un filosofo è tutta nel vivere, fino in fondo alla loro possibile conseguenzialità, i presupposti del proprio sistema. Di fronte ad un mondo che crolla dinanzi ai suoi occhi, l'ultima parola di Tilgher, pessimisticamente rassegnata, può essere riassunta nella conclusione della sua lettera di risposta a Guglielmo Ferrero, "Quanto a me, io sto a guardare, cercando di fissarne come posso qualche tratto, il dramma ideale di cui tutti siamo gli attori e gli spettatori, sforzandomi di comprenderlo e di abbracciarlo in tutta la sua grandiosa bellezza. Posizione di storico, se pure non freddo ed apata, ma commosso e palpitante. Quanto a credere di poterlo arrestare non ci penso neppure. Come ben disse Mario Missiroli, nella prefazione del mio libricino: Accade e più ancora accadrà quello che è inevitabile."[43][43]

Gennaro Sasso[44][44] rileva che la categoria fondamentale del pensiero di Tilgher, sia pure con le evidenti contraddizioni tra le varie fasi del suo sviluppo, non è, a differenza che nello Spengler del Tramonto, la rigida necessità, la anagkh, ma, piuttosto, Tilgher si appella alle infinite possibilità e aperture che la Vita, sia pure nella sua "...caotica e contraddittoria, incoerente e scissa, fluida e plastica, ribollente e vulcanica..."[45][45] tragica e drammatica imprevedibilità, concede. Tilgher "... proprio contro una forma di anagkh si rivolgeva: contro la anagkh del progresso"[46][46] che disconoscendo nella Storia la presenza del male, vede nella storia lo sviluppo del Divino. Una visione che impedì ai suoi seguaci di riconoscere per tempo le avvisaglie dei tempi tragici che si stavano avvicinando e di comprenderne, poi, la reale portata. Difendendo sè stesso e i suoi dall'accusa di inerte pessimismo, spronava a comprendere la 'rivoluzione' che era avvenuta con la fine della guerra. E' l' analisi tilgheriana della "crisi mondiale", raffigurata in un limpido affresco. La sua chiara visione dei problemi irrisolti dal conflitto in ambito politico e sociale, dell'equilibrio rotto tra gli stati europei, della mistificazione delle reali cause e finalità della guerra e, infine, la consapevolezza che le tensioni derivanti da una sconfitta sentita come ingiusta e umiliante, avrebbero portato una nuova catastrofe in tempi brevi. Tutto in un clima da imminente "Finis Europae".

Tilgher analizza, inoltre, le forze in campo nella società capitalistica e il ruolo che avrebbero potuto avere i partiti socialisti. Sulla spinta delle speranze accese dalla rivoluzione del '17, avvia una generale rilettura del marxismo. La "crisi mondiale" consente che vengano alla ribalta forze nuove mentre, su quella che egli , già nel '19, chiama "l'Italia del Fascio", s'addensavano le ombre del tramonto. Con "Fascio", Tilgher indica una coalizione eterogenea di forze , demomassoniche, nazionaliste, astrattiste e dannunziane, che avevano voluto la guerra ma che la guerra aveva spazzato via. Le nuove forze che emergono sono estranee "...a una vittoria che premia ancora una volta minoranze esigue, astratte, privilegiate e impopolari"[47][47]. Queste minoranze Tilgher denomina "fascismo democratico" quando ancora sono lontane le prospettive del fascismo mussoliniano. Dalla tragedia della guerra e dal ribollire del dopoguerra, si fanno avanti come protagoniste le masse, forze naturalmente rivoluzionarie, della cui irrazionalità lo storicismo non sa dare una spiegazione, una risposta adeguata al vortice del puro movimento in cui il fine e la fine sono celati.

1.5 Tilgher e il Fascismo.

Nella Crisi mondiale, il fascismo viene interpretato in modo acutamente originale. Lo annota Renzo De Felice che rileva per la prima volta, nell'analisi di Tilgher, un filone che verrà "ripreso e sviluppato"[48][48]. Tilgher vede il fascismo come un fenomeno tipico piccolo - borghese. La classe media è quella che più ha risentito della guerra, pur essendone stata la più accanita sostenitrice. Stretta nella morsa dei nuovi arricchiti che hanno sfruttato l'economia di guerra, da una parte, e del proletariato che esce anche esso più forte politicamente dalla guerra, dall'altra, la classe media guarda entrambi con rancore, ritenendoli responsabili del proprio depauperamento e "questo loro stato d'animo spiega il furore antisocialista degli arditi e dei fasci di combattimento, i componenti dei quali appartengono quasi tutti alle classi medie"[49][49].

Il capitolo dei rapporti di Tilgher con il regime fascista è tra i più controversi e, come auspicato, "occorrerebbe un studio specifico"[50][50]. In questa vicenda tormentata, viene coinvolta sia la sua attività di filosofo che quella di giornalista e critico, vendette personali e episodi incresciosi[51][51] resero amari i suoi ultimi anni di vita. Subito dopo la pubblicazione e il successo editoriale di Relativisti contemporanei, sul Popolo d'Italia del 22 novembre 1921, esce una entusiastica recensione di Mussolini dal titolo Relativismo e fascismo. Per Mussolini "il Fascismo è stato un movimento super - relativista, perché non ha mai cercato di dare una veste definitiva ai suoi complessi e potenti stati d'animo, ma ha proceduto per intuizioni frammentarie". Del resto le tesi di Tilgher non potevano non incontrarsi con la prassi e l'ideologia del nascente fascismo: "E' l'azione per l'azione, è l'azione fine a sé stessa, in tutta l'infinità, ma anche in tutto il vuoto, della sua natura. E poiché un'azione senza un contenuto qualsiasi è un assurdo, ed un contenuto positivo qui è impossibile, così all'azione non rimane che proporsene uno negativo: il rovesciamento dell'ordine di cose esistente. Annientare ciò che esiste è il solo scopo che può proporsi un'azione che non volendo che se stessa non vuole dissolversi corrosa dalla sua intima nullità. Sotto questo punto di vista il Relativismo non solo prepara la rivoluzione, è esso stesso essenzialmente rivoluzionario"[52][52] Al di là degli esiti nichilistici, il Relativismo prepara l'azione rivoluzionaria sgombrando il campo dal mito di una Storia intesa come progresso capitalizzantesi, una storia riformisticamente intesa. L'individuo così viene liberato dal dominio della Ragione storicistica, non gli rimane che "... voler agire che solo per agire, per strapparsi in qualche modo con l'azione dalla disperazione di un mondo maledetto che non consente più nemmeno la fuga nei deserti"[53][53]. "Il Fascismo non è che l'assoluto attivismo trapiantato nel terreno della politica"[54][54]. Non meraviglia che il libro di Tilgher, anche tempo dopo la sua caduta in disgrazia, facesse bella mostra di sè sulla scrivania del Duce.

Con queste premesse appare naturale accostare la figura di Tilgher al fascismo o perlomeno che "... ambiguo risultasse, negli anni, o in alcuni degli anni, che videro l'affermazione del fascismo, il suo atteggiamento politico"[55][55]. Per Eugenio Garin, che considera Tilgher un pensatore incoerente e di corto respiro, "... Tilgher non si limitò a rovesciare malamente la prospettiva crociana nella dialettica storia - antistoria, attribuendo ogni valore vitale all'antistoria, ma trovò il modo di fare in sordina la sua brava apologia del fascismo"[56][56]. Tilgher intravede nel fascismo un modo nuovo di usare la storia, il fascismo crea e seleziona il suo passato in maniera da averne giustificazione: è l'antistoria che crea la storia. Ironia della sorte, sono proprio i fascisti ad usare, praticamente, il detto crociano che la storia è sempre contemporanea. Di diverso avviso sulla posizione di Tilgher rispetto al regime, è uno degli studiosi che, nel 1988, partecipa a uno dei due convegni tenutisi in occasione del centenario della nascita del filosofo napoletano e in cui si è data una complessiva lettura rivalutativa. Giano Accame afferma decisamente che Tilgher appartiene all'antifascismo. A suffragare questo giudizio vi sono, per lui, innumerevoli fatti. Oltre alle vicende persecutorie e l'ostracismo che subì dal regime, è da ricordare che Tilgher firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce; non chiese mai l'iscrizione al partito; collaborò, fino alla traumatica chiusura del '26, con il Mondo di Giovanni Amendola; precedentemente, dal '22 al '25, fu in stretto contatto col circolo torinese di Gobetti, collaborando alla Rivoluzione Liberale e a Il Quarto stato di Carlo Rosselli. Quindi Accame può affermare, riferendosi al Garin, che "da quanto ho premesso mi sembra risulti con molta chiarezza che l'accusa come tale è infondata"[57][57] .

Neppure possiamo includere Tilgher in quella che Furio Jesi ha definito "cultura di destra".[58][58] Molto lontana appare, l'opera e la personalità tilgheriane, dall'irrazionalismo di personaggi come Julius Evola.[59][59] Nel '24 Pirandello aderisce al fascismo, è la fine del sodalizio con Tilgher. La collaborazione era stata lunga e vantaggiosa per entrambi. Tilgher, rispetto a Croce, rivaluta la figura dell'uomo artista, pone l'attenzione non solo sulle opere e la loro artisticità e liricità, ma anche alla persona dell'artista che, inserita nel suo tempo, ne diventa interprete. L'autore va sempre unito all'opera nel giudizio critico, l'uomo-artista è la massima espressione della Weltanshauung del suo tempo. L'autosufficienza dell'opera d'arte non significa mai, per Tilgher, negarne la storicità, ma solo mettere l'accento sul momento unico della creazione artistica che, tuttavia, continua ad esprimere ciò che l'artista vive dei problemi posti dal suo tempo. Anzi l'artista ne è l'interprete privilegiato. La sua sensibilità gli permette di cogliere e di essere in sintonia con il movimento più intimo della Vita e della Storia del suo tempo. E' capace di cogliere in anticipo la direzione che il flusso caotico e irrazionale della vita sta per imboccare. Tutta la storia della interpretazione tilgheriana di Pirandello è fondata su questo assunto. Pirandello, più di ogni altro , ha saputo rappresentare, con i suoi personaggi, il paesaggio desolante della crisi. La crisi di un mondo, quello borghese ottocentesco, fondato su una immagine di sé e della società che la crisi della razionalità ottimistica e di un insieme di valori tenuti insieme dall'ipocrisia collettiva, fatalmente smaschera nella loro verità. "L'arte di Pirandello, contemporanea non solo cronologicamente ma anche idealmente della grande rivoluzione spiritualistica e idealistica avvenuta in Italia e in Europa ai primi del secolo, trasporta nell'arte quell'antiintellettualismo, quell'antirazionalismo, quell'antilogicismo che riempie di sé tutta la filosofia contemporanea e che oggi culmina nel Relativismo."[60][60] "Quando poi si pensi che nel dramma di Pirandello il punto nodale e cruciale è il minuto irrevocabile e solenne in cui le costruzioni e formazioni convenzionali, gli argini sociali cadono come foglie secche e l'uomo si trova faccia a faccia col nudo volto, con l'informe abisso della Vita…"[61][61] "…il problema artistico è, dunque, niente altro che il nuovo senso della vita che cerca la sua espressione ed individuazione artistica."[62][62] Tilgher lo scopritore di Pirandello, colui che aveva dato al suo teatro lo spessore di una filosofia, la dialettica Vita - Forma, in cui si rivelava il fondo irrazionale dei personaggi pirandelliani, abbandona, dunque, per sempre la critica teatrale. Diventa da quel momento un personaggio scomodo. I suoi articoli vengono sempre più spesso rifiutati, Tilgher sente l'umiliazione di non poter vivere del proprio lavoro, è ossessionato dalla paura dell'isolamento e di essere costretto a rifugiarsi all'estero. Nel marzo del '28 "si rivolgerà a Mussolini e ne riceverà quell'accredito che gli avrebbe permesso di tornare a scrivere"[63][63].

1.6 La morale e le ultime riflessioni politiche.

In questi anni, intorno al 1930, la riflessione di Tilgher giunge ad un punto di svolta.. Comincia ad affiorare l'ansiosa ricerca di punti solidi a cui cercare di ancorare il suo pensiero. Gli anni della crisi e quelle esperienze insieme sconvolgenti ed entusiasmanti, cominciano ad essere lontani. Sono gli anni in cui il fascismo si consolida al potere e ottiene il consenso più ampio. Il concordato con la Chiesa, oltre ad accrescere la leggittimità del regime, è cruciale anche dal punto di vista della politica culturale del fascismo. Il rapporto tra fascismo e attualismo entra in crisi e vengono favorite concezioni improntate ad un rinnovato realismo, di cui si fa portavoce, nei congressi della Società filosofica italiana, l'Orestano. Gentile viene attaccato come portatore di una filosofia estranea alle radici nazionali che ,invece, vengono individuate in una filosofia spiritualistica e realistica. Tilgher, in questo fervore antiattualista, non rinnega mai la sua origine idealistica e, anzi, sente il bisogno di ripubblicare parzialmente la giovanile Teoria con il titolo di Saggi di etica e filosofia del diritto, una operazione tanto più significativa "…perché indica l'impegno a superare la anche potente descrizione della crisi, rifacendosi ad alcuni concetti etici che aveva enunciati in gioventù."[64][64] "Dall'Estetica in poi, passando attraverso la Filosofia delle morali, Tilgher riuscì a conquistare un'etica di sopportazione e di triste e dolorosa calma, che può sintetizzarsi in un : è così, e sopportiamo."[65][65] L'ossequio al regime rimase formale, ma il suo atteggiamento si farà più prudente e il suo animo inclina alla rassegnazione.

Sono gli anni della ricerca morale. Tilgher individua, convinto della relatività delle morali, stili di vita che cerchino di "fornire nell'aldiquà ciò che il tramonto del Cristianesimo non permette più di cercare nell'aldilà"[66][66]. Le preoccupazioni etiche sono sempre state al centro della riflessione tilgheriana. Anche negli anni in cui lo travolge il turbine della crisi, nelle sue analisi, in controluce, traspare la necessità di un ancoraggio morale che dia un senso, sia pure provvisorio e relativo, allo scorrere irrazionale e caotico della vita. Il ruolo di 'cronista' e 'filosofo' della crisi, non lo esime, nei momenti più calmi e rassegnati della sua riflessione, di anelare ad un mondo in cui , ancora, si possa fare appello ad un assoluto. In questa sua attenzione al problema morale si rivolge allo studio, più che dei processi individuali, dei riflessi morali delle condotte sociali. Nella società contemporanea, i comportamenti delle masse e della folla indifferenziate, offrono un nuovo campo di indagine per comprendere l'azione sociale dei protagonisti della società 'faustiana'.[67][67] Tilgher è qui più sociologo che moralista. Nella sua analisi della "civiltà faustiana", già presente nella Crisi mondiale, ma ampiamente sviluppata in Homo faber, libro che lo segnala all'attenzione europea[68][68], si sofferma sul "concetto di lavoro" inteso come la forza vitale che, nel senso di un romantico streben, muove in modo incessante lo sviluppo della civiltà capitalistica e della tecnica. Del destino di questa civiltà e in generale della fase della "civilizzazione", Tilgher ha una visione più ottimistica che si allontana dal rigido determinismo spengleriano.

Si occupa, invece, pienamente di riflessione morale con l'opera del 1937 Filosofia delle morali. Abbiamo già accennato al clima politico e culturale determinatosi dopo il 1930: il consolidarsi del regime coincide con la crisi dell'attualismo e lo svilupparsi di indirizzi realisti e spiritualisti. Ma si sente, anche, l'esigenza, in conflitto con le istanze antiindividualistiche del Fascismo, di occuparsi più a fondo delle caratteristiche esistenziali dell'uomo. "Intorno al '30 Ernesto Grassi e Carlini fecero conoscere Heidegger, e il Banfi e il Lombardi riproposero lo studio di Kierkegaard."[69][69] Anche Tilgher, pur rimanendo fedele alle sue impostazioni, sente il bisogno di una indagine più accurata sulla natura dell'uomo. Il lavoro più significativo che esprime questa esigenza è, appunto, la Filosofia delle morali, uno studio delle forze, le forme, gli stili della vita morale, in cui, Tilgher, afferma la relatività e pluralità degli atteggiamenti morali e l'impossibilità di ricondurre la vita morale ad un principio unico. Una funzione moralizzatrice assegna anche alla politica. La visione dell'uomo come individualità indefinibile dotato di problematicità e possibilità infinite, il 'vivente senza natura'; il rifiuto della fissità e identità a favore della multiformità e dinamismo della vita; il dissidio tra Vita e Forma, tra Pensiero e Reale, tra essere e dover-essere, sono i presupposti teorici da cui Tilgher parte per avvicinarsi allo studio dei processi dell'azione politica. La filosofia deve legarsi all'azione politica. La figura dell'Eroe in cui si esalta la funzione dell'atto creatore, fonte della decisione politica, è emblematica di questa visione.

Tilgher, sulla scorta del suo relativismo e pluralismo irrazionalistico, si avvicina al Liberalismo, fondandolo su queste basi. "Il Liberalismo è tollerante perché nel suo fondo è scettico, meglio: relativista, cioè nega che ci siano uomini in possesso esclusivo di verità assolute, ammette che la verità non è possesso esclusivo di nessuno, ma che tutti ne afferrano un qualche lembo."[70][70] "…ed inoltre egli ha fatto sua la teoria di Goethe della vita "che può essere corretta", e anche quella dei liberali. Il liberalismo è teoria aperta, che permette di volta in volta la correzione dell'errore, in virtù di quella continua vigilanza morale ch'egli consiglia nelle penetranti analisi del suo Diario politico, e della cui mancanza egli accusa appunto le moderne democrazie."[71][71]

Nel Diario politico, negli ultimi anni della sua vita, viene annotando quasi quotidianamente, con un tono sempre più amaro, pessimistico e demolitore, le riflessioni che, la situazione sua personale e quella politica dell'Italia, gli dettavano. La sua concezione pluralista della società si ergeva in contrasto con la realtà di un regime pienamente monistico e totalitario. Un regime in cui il gioco delle diverse opinioni viene eliminato a favore del discorso unico, il discorso retorico, l'enfasi, l'amore del gesto e della frase che copre il vuoto di dialettica interna e cerca di coartare il consenso usando tutti i mezzi e artifici della persuasione. Affida al Diario politico le ultime visioni profetiche, pronosticando gli esiti nefasti del conflitto appena cominciato per l'Italia, attirandosi così, negli ambienti di regime, la fama di jettatore. In queste giornaliere riflessioni, ci consegna il suo testamento politico. Come abbiamo visto emerge la visione di un Liberalismo fondato su basi relativiste e scettiche. Non essendo attingibile la Verità, l'Assoluto, la dinamica politica si fonda sulla libertà dei singoli, portatori di verità parziali che, avendo coscienza di ciò, si danno come regola la Tolleranza, unico principio che Tilgher reputa degno di essere difeso con la forza, il solo che giustifichi una guerra. Lo Stato disegnato da Tilgher è uno Stato leggero, certamente democratico, in cui vige un'ampia autonomia. Questo si legge tra le righe della critica, predominante, della dolorosa situazione presente. La condanna del Leviatano del totalitarismo si leva severa dalle pagine del Diario politico , e con essa si auspica la fine dei despoti, nelle cui vivide descrizioni, si poteva intravedere la figura del Tiranno nostrano. Nella Prefazione al Diario politico, Liliana Scalero, ci imforma dell'intenzione di Tilgher di scrivere un libro su Macchiavelli in cui affidava proprio alla politica un compito moralizzatore. La politica poteva trarre l'uomo, naturalmente cattivo e violento, a concetti universali. Quindi anche Tilgher, come Macchiavelli descrittore di una situazione negativa e infelice, ripone, infine, una speranza nell'attesa ansiosa di una soluzione in cui la politica , nuovamente, sia congiunta alla morale.

Il 3 novembre 1941 Adriano Tilgher moriva in una clinica romana.

Tra i vecchi amici e i giovani discepoli che assistevano alla cerimonia funebre, il solo Ernesto Buonaiuti prese la parola per ricordare il "fratello scomparso". Tutti conservarono però l'impressione che "... quella cerimonia...insieme con l'uomo portava a sepoltura un intero mondo e la sua cultura"[72][72]. Sulla sua bara fu deposta l'ultima sua opera: il Casualismo critico.[73][73] E' il destino di pensatori forse non a torto considerati minori, restare all'ombra di personalità più forti e di più ampio spessore teorico. Non si giustifica, però, l'oblio in cui è stato tenuto Adriano Tilgher. Egli ha rappresentato in modo emblematico i fermenti più vivi e l'essenza propria di un'epoca. Ha diffuso in Italia le voci più significative della cultura europea, spesso fraintendendole o sopravvalutandone alcune, ma svolgendo un compito insostituibile e prezioso. Crediamo non ci si possa esimere, in sede storica, dal fare i conti con l'eretico Tilgher.

Note

[1][1] Dedicò al poeta e filosofo di Recanati una Filosofia di Leopardi che, spesso dimenticata, è una vera e propria rivelazione della natura del pensiero tilgheriano in un'opera di intima identificazione. Tanto che, Augusto Del Noce, può parlare, a proposito di Tilgher e di Rensi, di "leopardismo filosofico".
[2][2] Così venivano chiamati, in special modo nell'ambiente degli affittacamere napoletani, gli studenti che erano soliti vociare e, spesso, litigare in nome dell' hegeliano begriff.
[3][3] LAMI, Introduzione a Adriano Tilgher, Giuffrè, Milano, 1990, p. 50.
[4][4] CUMPETA, Adriano Tilgher, Edizioni di Filosofia, Torino, 1960, p. 11.
[5][5] GARIN, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, 1959, p. 25.
[6][6] Ivi, p. 27.
[7][7] Ivi, pp. 35 – 36.
[8][8] CUMPETA, Adriano Tilgher, cit., p. 13.
[9][9] E' uno dei pochi esempi, insieme a Banfi, di formazione filosofica tedesca, in Italia.
[10][10] LAMI, Introduzione, cit., p.105.
[11][11] In una lettera indirizzata a Gentile, Croce afferma di aver consigliato Tilgher, "con tanta insistenza di lasciare le disquisizioni teoriche e accingersi a qualche monografia storica, che da allora prese ad odiarmi, e non cessa neppure ora di segregare veleno contro di me." In Lettere a Giovanni Gentile, Milano, 1981, p. 591.
[12][12] LAMI, cit., p. 93.
[13][13] Dedicò alla filosofia di Gentile un libello, Lo spaccio del bestione trionfante, che, pur contenendo valide argomentazioni teoriche sulla natura dell'attualismo, gli nocque molto per la inutile violenza della polemica e la palese infondatezza di certe accuse.
[14][14] LAMI, Introduzione, cit., p. 98.
[15][15] TILGHER, Teoria del Pragmatismo Trascendentale, Bocca, Torino,1915, p. V.
[16][16] LAMI, Introduzione, cit., p. 11.
[17][17] Gian Franco Lami nella Introduzione a Adriano Tilgher, riporta in nota la ricostruzione della vicenda, rendendo noto il contenuto delle lettere che Gentile, allora Ministro dell'Educazione Popolare, indirizza, il 19 febbraio 1924, al direttore delle biblioteche universitarie, sollevando Tilgher dall'incarico alla Alessandrina e assegnandolo alla Vittorio Emanuele, pregando però di sorvegliarlo nell'orario e nel lavoro, considerandolo sotto esperimento. Tilgher ferito nell'orgoglio e nel prestigio darà le dimissioni. Cfr. LAMI, Introduzione, cit., p.28. [18][18] LAMI, Introduzione, cit., p. 30.
[19][19] Ivi, p. 24.
[20][20] Ivi., p. 35.
[21][21] TILGHER A., Relativisti contemporanei, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1923, p. 76 - 77.
[22][22] TILGHER A., Filosofi e Moralisti del Novecento, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1932-X, pp. 135-136.
[23][23] MERCADANTE F., Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo nell'orizzonte della crisi mondiale e il magistero di un irregolare, in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di LAMI G.F., Giuffrè, Milano, 1992, p. 313.
[24][24] LAMI G.F., Il ruolo di Adriano Tilgher nel pensiero contemporaneo, in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di LAMI G.F., Giuffrè, Milano, 1992, p. 41.
[25][25] MERCADANTE F., Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo, cit., p. 317.
[26][26] Ibidem.
[27][27] CUMPETA S., Adriano Tilgher, ed. di Filosofia, Torino, 1960, p. 8 - 9.
[28][28] TILGHER A., Diario Politico 1937-1941, a cura di Liliana Scalero, Atlantica, Roma, 1946.
[29][29] Ivi, p. 114.
[30][30] TILGHER A., Julien Benda e il problema del "Tradimento dei Chierici", Libreria di Scienze e Lettere del dott. Bardi, Roma, 1930. [31][31] Augusto Del Noce, pur individuando il limite di Tilgher nel non aver riconosciuto le conseguenze estreme del relativismo e della sua critica dell'attualismo, lo accosta a Heidegger: "Se non ci fosse questo limite, ci troveremmo innanzi a Heidegger, non a Tilgher." Confr. DEL NOCE A., Un interprete della cultura italiana tra le due guerre, in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di LAMI, op. cit., p.62.
[32][32] GARIN E., Cronache di filosofia italiana, cit., p. 428.
[33][33] CUMPETA, Adriano Tilgher, cit., p. 10.
[34][34] Sono veramente tante le riviste che, in quel periodo, si avvalsero della firma di Tilgher; ne ricordiamo alcune: oltre al "Commento" di Roma, fa parte della redazione di "Italia nostra"; collabora alla "Cultura", alla "Rivista di filosofia"; fonda con Borgese, Varisco, Vinciguerra e altri il "Conciliatore", questo prima della guerra. A guerra terminata, già trasferitosi a Roma, collabora alla "Ronda", allo "Spettatore", alla "Nuova Antologia" e a molte altre almeno fino a che nel '26 subisce l'ostracismo del regime e viene costretto al silenzio. [35][35] TILGHER A., Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra Guanda, Modena, 1937, p. 13.
[36][36] Ivi, p.14.
[37][37] Ivi, p.14.
[38][38] GARIN, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 428.
[39][39] Ivi, p. 429. [
40][40] TILGHER, Antologia cit. p. 16.
[41][41] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit., p. 102.
[42][42] Così nella Lettera a Guglielmo Ferrero alla pag. 101 di Relativisti contemporanei: "Se Ella volesse stare veramente al sicuro, se volesse poggiare davvero i piedi sulla terraferma, sa cosa dovrebbe fare? Dovrebbe fare un salto indietro, non di cinque o di sei, ma di venti secoli almeno e rifugiarsi sul terreno della civiltà greca. Là sì che davvero verità, bontà, giustizia, bellezza sono realtà esistenti in sé, al di fuori dello spirito, prima e indipendentemente dall'attività sua, e di cui allo spirito non resta che prendere atto e inchinarsi sommessamente. Là, sì, che davvero troverà quella oggettività di cui va in cerca, e che, finché resta sul terreno della filosofia idealistica del secolo XIX, non troverà mai."
[43][43] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit., p. 103.
[44][44] SASSO G., Tramonto di un mito. L'idea di "progresso" fra Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1984.
[45][45] TILGHER, Antologia cit. p. 16.
[46][46] SASSO, Tramonto di un mito cit. p. 39.
[47][47] MERCADANTE, Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo cit. p.318.
[48][48] DE FELICE R., Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari, 1996, p. 180.
[49][49] TILGHER A., La Crisi Mondiale, Zanichelli, Bologna, 1921, p. 180.
[50][50] SASSO, cit., n. 50, p. 37.
[51][51] Tilgher viene più volte aggredito e insultato da facinorosi fascisti. E' costretto a dimettersi, nel '24, dalla Biblioteca Alessandrina, su pressione di Gentile. Nel '30 viene colpito da un provvedimento di pubblica sicurezza e la sua casa viene sorvegliata e lui stesso pedinato. Gli procura profonda sofferenza la carcerazione e il confino del cognato, Mario Vinciguerra.
[52][52] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit. p. 91.
[53][53] Ivi, p. 90. [54][54] Ivi, p. 66.
[55][55] SASSO, cit., p. 36 - 37.
[56][56] GARIN, Cronache, cit., p. 288.
[57][57] ACCAME G., Adriano Tilgher oltre il discrimine tra destra e sinistra, Manifestazioni del Centenario, cit., p.267.
[58][58] JESI F., Cultura di destra, Garzanti, Milano, 1979.
[59][59] I due, in verità, si conoscono e stimano. Collaborano strettamente, dal '24 al '28, alle pagine della rivista Idealismo realisticofondata da Vittore Marchi, per lo più tesi a definire la propria particolare religiosità.
[60][60] TILGHER A., Il teatro di Luigi Pirandello in Figure, momenti, problemi del teatro moderno, Boni, Bologna, 1994, p. 52.
[61][61] TILGHER A., Il teatro italiano dopo Pirandello, ivi, p. 141.
[62][62] TILGHER, Vecchio teatro e teatro vecchio, ivi, p. 271.
[63][63] LAMI, Introduzione, cit., p.240.
[64][64] CUMPETA, cit., p. 38.
[65][65] Ivi, p.47.
[66][66] LAMI, Introduzione, cit., p. 291.
[67][67] In Homo faber, Tilgher si occupa di fenomeni come il gioco, il risparmio, il lusso e della passione sportiva che interpreta come un surrogato, a uso e consumo delle masse, dell'attività fabrile.
[68][68] Viene citato anche da Hannah Arendt in Vita activa, Milano, 1964, p. 369 e 376.
[69][69] CUMPETA, Tilgher, cit., p. 51.
[70][70] TILGHER, Diario politico, cit., p. 4.
[71][71] SCALERO L., Pluralità di temi nella filosofia di Adriano Tilgher in Adriano Tilgher. L'uomo, il pensiero, i luoghi, l'attualità a cura di LILIANA SCALERO, Cedam, Padova, 1962, p. 10.
[72][72] LAMI, Introduzione, cit., p. 203.
[73][73] TILGHER A., Il casualismo critico, Bardi, Roma, 1941. Il cui capitolo dedicato al Tempo ricevette l'elogio del vecchio Bergson.