1.1 La formazione ed il clima culturale.
Adriano Tilgher nasce l'8 gennaio 1887 a Resina, l'odierna Ercolano,
su "suolo vulcanico", come amava ricordare a chi gli rimproverava il
carattere irruente e tellurico.Così come per il "suo"
Leopardi, lo spettacolo di una civiltà andata in rovina sotto
i colpi di una natura cieca e violenta lo segnerà in
profondità.[1][1] La sua famiglia è di condizione
modesta; il padre, vetraio a Capodimonte, di origine tedesca e la
madre valdostana di origine francese, due culture i cui ambiti
filosofici, Tilgher privilegerà sempre. Nel 1897 si
trasferisce a Napoli, città che amerà e che
immortalerà, nel suo saggio sulla poesia dialettale
napoletana, nel mondo di inizio secolo fermo in un tipo di
società ancora sostanzialmente ottocentesca e di cui Tilgher
ci descrive i contrasti tra i coloriti ambienti popolari e
l'aleggiante spirito hegeliano, condensati nell'etimologia dei
termini cafone e begriffo[2][2]. Le prime esperienze formative di
Adriano Tilgher, avvengono nello stimolante ambiente del liceo G. B.
Vico, a Napoli. Gli studi , gli incontri e le amicizie di questo
periodo saranno importanti e durature. Tra i banchi conosce la
futura moglie, Livia de Paolis, Mario Vinciguerra, che
diventerà suo cognato, e tra gli altri anche Guido De
Ruggero. Sono di questo periodo le letture e le passioni per gli
autori che incideranno sul suo futuro atteggiamento teorico e lo
accompagneranno per sempre. Nasce l'amore per Leopardi, la lettura
di Schopenhauer, il confronto con il pensiero di Kant e Fichte. Sono
anni difficili. Ma, alle ristrettezze economiche, Tilgher oppone la
tenacia negli studi e la bramosia nelle letture. A quindici anni
riesce a pubblicare, con l'aiuto degli amici, una sua recensione al
saggio di Cesare Lombroso Genio e degenerazione in cui mette in
relazione, l'uomo di genio, con le predominanti caratteristiche
irrazionali di personalità in cui si colgono, accanto alla
eccezionalità, una capacità intuitiva e una
sensibilità che rasentano la patologia. Scrive di Leopardi e
Schopenhauer, esaminando il pessimismo comune ai due autori. Sembra
emergere da queste prime elaborazioni "...l'esaltazione di un
volontarismo che, da un lato, lo costringe alla riscoperta di
Nietzsche, di un Nietzsche dionisiaco e ottimistico, dall'altro, gli
fa subire il fascino delle scienze moderne, con il carico di
negatività che esse gli imporranno."[3][3] Tutto condito con
l'entusiasmo che danno le prime scoperte giovanili.
Il primo decennio del secolo è decisivo per i futuri sviluppi
della storia civile e culturale italiana. Croce aspira ad essere il
leader della cultura italiana ed europea. Strumento di questa
egemonia diviene la Critica, fondata nel 1903, dalle cui pagine,
Croce si inserisce nel vivo del dibattito dell'epoca, in tutti i
campi di attività culturale, con un fine essenzialmente
pratico e pedagogico, sostenuto da un solido sistema teorico. "Croce
nel campo della cultura compiva una operazione che ha delle analogie
con l'operazione politica di Giolitti: assorbire i fermenti, le
inquietudini nuove della società italiana e inalvearle su una
base pacificamente progressiva"[4][4]. Nello stesso anno, Papini e
Prezzolini davano vita al Leonardo, Corradini al Regno, Borgese a
Hermes. "Cio che accomunò provvisoriamente la rivolta della
rivista napoletana e la scapigliatura dei fiorentini, fu la difesa
delle dimensioni dell'uomo, della vita spirituale, dell'iniziativa
umana. Anche se il sottointeso era, fin da allora, profondamente
diverso, il nemico per il momento era lo stesso: una posizione che
poggiava su strutture rigide del reale, che lo costringessero in una
fissità definita per sempre e da sempre…. Certo è che,
sia Papini che Prezzolini, una cosa avevano chiara fin da principio,
e cioè che l'uomo è un punto di assoluta
libertà, ossia rischio totale e possibilità
infinita."[5][5] Ma Croce già da quel primo numero della
Critica prendeva le distanze in nome di una funzione moderatrice. "…
questa rivista non darà quartiere a quelle molte persone
geniali che, infischiandosi della storia delle idee e dei fatti,
prendono audacemente a risolvere ardue questioni sulle quali l'uomo
s'è travagliato per secoli, sicure di afferrarle con un colpo
sbrigativo della loro asserita genialità." Era l'asserzione
di un graduale riformismo, rispetto alle ansie rivoluzionarie e
iconoclaste di molti giovani intellettuali di quel momento. Papini,
Prezzolini, Vailati, Serra, Corradini, Michelstaedter e molti altri
si ribellarono, allora, dalle pagine delle riviste fiorentine, a
quello che era stato il loro maestro, ma che sentivano ormai lontano
e quasi come un traditore delle aspettative che aveva saputo
alimentare. Si avvertiva intensamente la sensazione di una crisi
profonda che riguardava tutto il modo di intendere l'uomo e di
indagare la sua umanità attraverso la filosofia, "…il
pensiero umano era giunto a un limite, e non si poteva continuare
per la solita strada."[6][6] Furono anni decisivi per la formazione
di molti dei protagonisti delle vicende degli anni successivi in
cui, tutti questi sommovimenti premonitori, sarebbero stati
centrifugati dal precipitare della crisi nella catastrofe della
guerra. Riportiamo ancora il pensiero di Garin che, pur ravvisando
negli interpreti di questa stagione i vizi palesi di un
dilettantismo, di una retorica vuota e a tratti violenta, di una
irresolutezza che si tramutava in disinvoltura nel passare di volta
in volta da un atteggiamento teorico nel suo opposto, tutto
ciò unito ai facili equivoci che provocò l'esaltazione
dell'attivismo irrazionalistico, tuttavia conclude "In realtà
in quella lotta contro un intellettualismo vuoto, in quel senso
esasperato d'insoddisfazione di fronte alle troppo facili
sistemazioni della realtà, in quel sentimento tragico della
vita, in quella rivolta contro un troppo facile e superficiale
ottimismo, si esprimevano forse le esigenze più profonde
della nostra età."[7][7] Il conflitto è anche
generazionale. I giovani mostravano tutti i segni della crisi,
dell'inquietudine, di una società italiana in mutamento , in
cui emergevano forti contraddizioni. Le nuove generazioni erano
insofferenti a ogni egemonia ed estremamente permeabili a
suggestioni provenienti dagli ambienti e culture più diverse.
In un'Italia che sembrava solida, chiusa nella continuità con
la tradizione risorgimentale, covavano i germi di un disagio
profondo. La ribellione all'ottimismo crociano, spesso dava vita a
tentativi infecondi e destinati al fallimento, ma "…bisogna tener
presente che tutte queste operazioni culturali furono tentativi di
sprovincializzare la vita italiana…"[8][8].
Il giovanissimo Tilgher vive immerso nell'atmosfera di quegli anni.
Affronta con passione la lettura di testi letterari e filosofici che
può attingere di prima mano avendo conoscenza del francese e
dell'inglese, oltre che del tedesco. La lettura di Fichte e
Schopenhauer rimarrà, per lui, fondamentale.[9][9] "E' in
questo clima che si esprime il volontarismo di Adriano Tilgher e la
concezione sua attivistica dell'esistenza e della storia. E' in
questa esplosione di tensioni, nel paradosso di un idealismo che si
colora di irrazionale, che prende consistenza il suo modo di
intendere l'arte come fuga mundi, come immediata posizione di
oggetto e soggetto."[10][10] Dopo gli studi classici al liceo G. B.
Vico, si laurea in Giurisprudenza nel 1909, con una tesi di
filosofia del diritto. Negli anni dell'università, il suo
professore di filosofia del diritto lo fa conoscere a Croce. Il
maestro, apprezza a tal punto la precoce eccezionalità del
giovane Tilgher, che gli affida, sotto la sua super visione, una
serie di traduzioni per la casa editrice Laterza. I frutti
più importanti di questa collaborazione furono la traduzione
della Dottrina della scienza di Fichte, uscita nel 1910, e le
traduzioni del Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche di
Cartesio nel 1912. Già a partire da questo periodo il
rapporto comincia a deteriorarsi. I motivi sono insieme ideali,
teorici ma anche, se non soprattutto di natura caratteriale. Tilgher
ha più volte prospettato al maestro la sua vocazione per una
ricerca filosofico teoretica, Croce lo scoraggia e lo spinge verso
studi storici.[11][11] Una serie di lettere che Croce invia a
Giovanni Laterza, testimoniano il venire meno della fiducia
nell'allievo e una certa insofferenza. A partire dal 1914 Tilgher si
allontana progressivamente da Croce, guardando come nuovo
riferimento a Gentile, ma l'insegnamento crociano gli sarà
sempre presente sia pure come bersaglio critico. I primi tentativi
di approdare ad una visione personale ed originale hanno come campo
di prova le teorie estetiche, "…nella prospettiva di un ripensamento
dell'estetica di Croce."[12][12]
E' Croce, quindi, il primo maestro di Tilgher, ma sarà presto
ripudiato. Come molti altri allievi di Croce, anche Tilgher
intraprese la via tortuosa e difficile della autonomia speculativa
ma, sempre, tenne presente il magistero crociano che, ha insinuato
qualcuno, tese a emulare. La storia del fondamentale rapporto con
Croce e Gentile investe tutta l'attività filosofica di
Tilgher che si erge a vero terzo protagonista della cultura italiana
del tempo. Antagonista di entrambi, della loro egemonia, assume toni
spesso aspri che rivelano la commistione di rancori personali e
ragioni strettamente teoriche. Eppure l'aria di famiglia rimane.
Tilgher non riuscì mai ad emanciparsi totalmente dalla figura
di Croce e, per quanto riguarda l'altro, la evidente consonanza
teorica , più volte anche violentemente negata[13][13], fece
parlare di Tilgher come del 'fratellastro' di Gentile. Senza lo
sfondo culturale di Croce e Gentile certe sue enunciazioni
perderebbero sicuramente di significato.
Nel 1910 si trasferisce a Torino dove ha vinto un concorso per
bibliotecario. Arturo Carlo Jemolo lo ricorda come un 'signore
giovane' che 'mostrava più dei ventitre o ventiquattro anni
che aveva', così assorto nella lettura quotidiana dei
giornali che molto spesso dimenticava di essere per strada e zittiva
i passanti come se fosse in biblioteca.
1.2 Le opere, gli autori, gli avvenimenti.
Il volume Arte, conoscenza e realtà (1911) e il saggio
Immagine e sentimento nell'opera d'arte, sono testimonianza del
tentativo di Tilgher di affrontare i problemi estetici da un punto
di vista nuovo tenendo presenti gli apporti che, in questo periodo,
attinge e rielabora dagli ambiti culturali più diversi. Si
dichiara ancora fedele alla matrice idealistica e alla derivazione
crociana, ma tutto l'impianto teorico è fatto per smentire
queste premesse. Queste opere di carattere estetico, come più
tardi la Teoria del pragmatismo trascendentale, rivelano la natura
delle letture che Tilgher affronta e degli influssi che subisce e
che risulteranno decisivi per il futuro dela sua elaborazione
filosofica. In primo luogo l'incontro con la filosofia di Bergson e
la teoria dell'élan vital. Uno slancio vitale visto come
immediatezza che però non si traduce in un elogio della forza
ma, tende a correggere l'irrazionalismo vitalistico con la razionale
disciplina imposta dalla naturale autoformazione dell'esistenza. Una
dinamica di Vita e Forme, in cui il sistema razionale tenta di
fermare lo slancio vitale che tuttavia non riesce a contenere.
Questa componente vitalistica e soggettivistica della visione
tilgheriana, marca la differenza con la concezione crociana chiusa
nella distinzione tra teoria e pratica. "Della natura e della vita
umane la filosofia di Tilgher mira a carpire il flusso sotterraneo,
l'attimo fuori del tempo, il senso del bergsoniano slancio vitale,
nel suo immediato rivelarsi, libero dalle mutevoli e sempre parziali
regole di un'estetica e di un'etica codificate"[14][14] Le influenze
evidenti di Simmel, Bergson, Nietzsche si fondono in una visione in
cui razionale e irrazionale si compenetrano in modo che l'uno non
prevarichi mai l'altro.
Nel 1912 viene chiamato alla biblioteca Alessandrina. Sposa la
compagna di liceo, Livia de Paolis, e si trasferisce definitivamente
a Roma. Qui comincia una intensa attività pubblicistica che
lo porterà a collaborare con importanti quotidiani e riviste
dandogli la fama di attento osservatore e acuto polemista. Scrive su
Italia nostra, La Cultura, La Nuova Cultura, Rassegna contemporanea
e la Rivista di filosofia. Nel 1914 è, con Borgese, Guidi,
Varisco, Vinciguerra, Zottoli e altri, tra i fondatori del
Conciliatore. Sulla Concordia appare la sua firma in articoli di
critica letteraria e politico-sociale. E' questo il periodo che lo
vede idealmente più vicino a Giovanni Gentile. La vicinanza
si spiega con il rifiuto e la reazione alla tutela teorica di Croce.
Tilgher vede, in Gentile, il negatore del dualismo crociano di
conoscere e volere. Proprio nel tentativo di innestare le nuove
esigenze della filosofia contemporanea, che deduce il conoscere dal
volere, nel filone dell'idealismo trascendentale, nasce la Teoria
del Pragmatismo trascendentale (1915) , la raccolta di saggi e
articoli, che forma la prima sistemazione del suo pensiero.
Certamente non lo si può considerare un atto di piena
adesione alla filosofia attualistica. Tilgher, ancora non
completamente emancipato da Croce, sente il fascino e l'attrazione
delle teorie di Gentile ma vuole che, il conoscere inteso in senso
attualistico, trovi un fondamento trascendentale nel dovere. La
frammentarietà, l'imprecisione del vocabolario,
l'incongruenza di alcune conclusioni, rispecchiano lo stato
dell'elaborazione tilgheriana del momento. Del resto è lo
stesso Tilgher, nella Prefazione alla Teoria, ad avvertire il
lettore degli scopi e delle intenzioni ma anche dei limiti
dell'opera, dichiarando che l'autore "…non ha l'assurda pretesa di
aver detto l'ultima parola in filosofia, né per gli altri,
né, tanto meno per se stesso."[15][15] Si intravede,
nell'andamento dei saggi, la progressiva conquista di autocoscienza
nello sforzo di una volontà che spinge il pensiero sempre
più in profondità. L'esigenza sentita da Tilgher
è che l'individuo consegua una piena consapevolezza personale
e sociale che può essere data solo da un pensiero con un
solido fondamento etico. La Teoria è il resoconto di questo
processo insieme filosofico ed esistenziale. E' un'opera di
apprendistato filosofico scritta da un giovane e che per questo
viene bene accolta da un lettore giovane che ritrova, nelle pagine
tilgheriane, la propria stessa ansia di analisi e comprensione. La
Teoria è l'inizio di un percorso ma, con tutti i suoi limiti,
contiene, in nuce, tutti i futuri sviluppi della elaborazione
tilgheriana.
Gli anni tra il 1917 e il 1919 sono segnati da incontri importanti e
amicizie che influiranno sul futuro teorico e personale di Tilgher.
Presentato dal senatore Frassati, comincia a scrivere sulla Stampa.
In lunghe passeggiate notturne, durante le quali discutono dei temi
aperti dalla fine della guerra, stringe un legame fraterno con Mario
Missiroli che lo chiamerà a collaborare al Tempo e al Resto
del Carlino. In questo periodo, Tilgher approfondisce la critica
dello storicismo crociano, formulando una teoria della 'storia-caso'
in opposizione alla 'storia-ragione'. Si forma quel nucleo di temi
che rimarrà centrale nell'opera di Tilgher fra le due guerre,
"…la tensione di un profondo rinnovamento, ispirata dalla incertezza
che deriva alla nuova generazione, forgiata nei massacri del fronte,
dal crollo del precedente patrimonio di valori."[16][16] Frutto di
questa elaborazione è il trittico di pubblicazioni del 1921:
La crisi mondiale e Saggi di marxismo e socialismo, Relativisti
contemporanei e Voci del tempo. Profili di letterati e filosofi
contemporanei. Trova qui espressione una vera e propria 'filosofia
della crisi' tilgheriana. Con la teoria dello 'scetticismo
storicistico', in cui si fondono in modo originale una filosofia
della Vita e un nuovo scetticismo che ha acquisito la coscienza
storica della caducità delle culture e delle civiltà,
Tilgher si immette nel più ampio dibattito europeo. In quegli
anni, che preparano l'avvento del fascismo al potere, Tilgher dalle
pagine della Ronda, dello Spettatore e del Testimonio, non si fa
coinvolgere nel facile entusiasmo e assume un prudente distacco
critico rispetto ai turbolenti avvenimenti di quel momento.
Dal 1922 collabora al Mondo di Giovanni Amendola. Pubblica La
visione greca della vita e gli Studi sul teatro contemporaneo dove
raccoglie il materiale frutto di quegli anni di critica drammatica.
La polemica con Lucio d'Ambra intorno al dibattito aperto sul
concetto di 'teatro nuovo', la avversione al teatro di Goldoni che
lo avvicina a Gobetti, e infine il sostegno entusiastico all'opera
pirandelliana, fanno di Tilgher il protagonista principe della
critica teatrale italiana. Diventa l'incarnazione stessa del suo
ideale di critico che, nel rapporto con il pubblico, non ha solo una
funzione esplicativa ma, soprattutto, educativa e filosofica.
Il 1924 è un anno cruciale nella biografia di Tilgher. Si
intravedono le prime avvisaglie di quell'ostracismo che la sua
posizione non allineata alle tesi del regime, gli avrebbe procurato.
Tilgher era diventato una delle voci più significative e
ascoltate del tempo, e questo presto gli procurò le
avversioni e le invidie della cultura di regime. Viene costretto a
lasciare la biblioteca Alessandrina sotto le pressioni di quelle
"persecuzioni attualistiche" che facevano capo direttamente a
Gentile.[17][17] Si accentua la sua polemica anti-attualistica,
nella quale si affianca a Piero Gobetti, collaborando alla
Rivoluzione liberale. Del 1925 è anche Lo Spaccio del
Bestione trionfante una violenta critica e "stroncatura" della
filosofia e dell'uomo Gentile, "…un libro sotto taluni aspetti
alquanto infelice, anche se non del tutto infondato nella veste e
nella sostanza critica."[18][18] Nel 1926 la stretta del regime
colpiva il giornale il Mondo. Tilgher è costretto al silenzio
e abbandona la critica drammatica. Si spegne la voce di colui che
era chiamato il "Mussolini della critica" per i giudizi taglienti e
definitivi.
Ancora del 1928 è la pubblicazione di Storia e Antistoria in
cui giunge a maturazione la sua visione critica dello storicismo e
che gli procura una decisa censura crociana. Nel 1929 esce Homo
faber, una analisi storica e filosofica del concetto di lavoro nella
civiltà occidentale che gli darà un grande riscontro,
anche a livello internazionale. "Nella personalità di
Tilgher, nell'aspetto più contrastante del suo carattere,
vive anche lo stridore di questa antitesi: la evidente simpatia per
i temi dell'impostazione socialista e marxista, e il richiamo
costante di una nostalgia classica; il senso di una radicata
tradizione spirituale dell'uomo, e la carica 'progressista' di certe
considerazioni sulla tecnica e le scoperte
d'attualità…"[19][19] Anche se quest'ultima produzione di
Tilgher non contiene attacchi espliciti al sistema politico e
culturale del regime, nel 1930, Tilgher viene fatto oggetto di un
provvedimento di pubblica sicurezza e sorvegliato dalla polizia
fascista. "Quest'ultimo decennio di vita vede Tilgher tornare alle
passioni filosofiche e letterarie degli anni giovanili, nella
esigenza di tutto ripensare. La vicinanza di alcuni amici, tra cui,
ultimo, Giuseppe Capograssi, gli consente di confortarsi al tepore
di un'insperata notorietà, con crescenti recensioni dei suoi
libri, saggi e articoli, in riviste di taglio scientifico, e con
l'effetto ulteriore di una qualificazione, ancorchè
indiretta, del suo pensiero, che per la prima volta arriva a lambire
gli spazi di una cultura universitaria."[20][20]
1.3 Una coerente irregolarità.
L'aggettivo "irregolare", con cui lo abbiamo definito, mette in
evidenza, del pensiero e della figura tilgheriana, proprio quel
processo di dislocazione, straniamento, contraddizione permanente,
che è il modo tipico di vivere il proprio tempo da parte di
questo intellettuale. Risulta estremamente coinvolto ma, nello
stesso tempo, estraneo e profeticamente volto in avanti rispetto
agli avvenimenti. Diviene un irregolare di fronte a fenomeni e
movimenti che, dopo uno stato nascente, si irrigidiscono in sistema.
La sua scelta è per l'oscura imprevedibilità, la
tumultuosa irregolarità della Vita, piuttosto che la
staticità della Forma. Una caratteristica comune alla
filosofia del Novecento. Un irregolare, dunque, nei confronti di un
qualsiasi momento della contemporaneità, culturale, storico,
politico che si fissi, si consolidi. Non dimentichiamo che, per
primo, ha il merito di riconoscere lo stretto legame che corre tra
le più tipiche espressioni della cultura italiana del tempo:
l'attualismo gentiliano, il fascismo, il teatro di Pirandello;
eppure finirà col prendere, traumaticamente, le distanze da
tutti e tre, rimanendo in solitudine. Si legge in Relativisti
contemporanei: "Il Fascismo non è che l'assoluto attivismo
trapiantato in politica. Questo punto di vista - nuova prova
dell'unità assoluta di ciascuna Cultura - trova sua
espressione attuale nell'arte di Luigi Pirandello...".[21][21]
Quando l'idea diventa ideologia e sistema di verità, quando
si passa da una fase rivoluzionaria alla fase della legittimazione,
Tilgher vi si oppone in nome di forme relative e limitate. La sua
è un'irregolarità coerente, è il frutto di una
scelta coerente con la dinamica irregolare del suo pensiero e con le
vicende tumultuose del suo tempo.
Accostarsi allo studio di una personalità come quella di
Adriano Tilgher significa dover delineare i caratteri di tutta
un'epoca, di tutto un periodo, denso di avvenimenti, della storia
europea e non solo di quella strettamente culturale. E' necessario
addentrarsi nell'analisi del ruolo che gli intellettuali europei, e
in particolar modo italiani, seppero esercitare con il recepire o
meno i segnali di quel clima da 'crisi epocale ' che
attraversò l'Europa e che sfociò nella tragedia della
prima, catastrofica, guerra mondiale. La storia intellettuale di
Adriano Tilgher è segnata in modo traumatico e profondo da
questi avvenimenti che, comunque, si legano e influiscono sulla
stagione più feconda della sua attività di studioso,
poliedrico e atipico, ma fortemente inserito nel suo tempo di cui
vive, da protagonista, le contraddizioni, le angosce e le
disillusioni. Gli eventi storici si intrecciano indissolubilmente
con la sua biografia e ne condizionano fortemente il pensiero nel
suo farsi e l'evoluzione di questo segna le tappe e le vicende di
rapporti personali, collaborazioni, amicizie e aspre
contrapposizioni che influiranno, a loro volta, sulle posizioni
teoriche e politiche e sulla fortuna personale di Tilgher. In una
circolarità di vita , storia e pensiero che rimarrà
sempre il filo rosso della sua vicenda umana. La sua esistenza
è contrassegnata dall'impegno di intellettuale militante che,
in consonanza con le più profonde esigenze del suo pensiero,
cerca, attraverso modi e stili personalissimi, come giornalista,
saggista, critico letterario e teatrale, filosofo, storico e
sociologo, di esercitare un ruolo non passivo.
Gli si deve riconoscere il merito non solo di rispecchiare, in modo
quanto mai eloquente, lo spirito di un'epoca ma, anche, di avere
tentato di incidere nel proprio tempo perlomeno attraverso la scelta
di servirsi di tutti gli strumenti che permettono di arrivare ad un
pubblico più vasto. Consapevole, in questo, dell'importanza
sempre più grande e decisiva che nel secolo avranno i mezzi
di comunicazione di massa, sia come mezzi per la propaganda
ideologica che come immensa possibilità di orientare
l'opinione pubblica. Prova ulteriore di questa volontà
è l'uso di un linguaggio chiaro se pure inconfondibile nello
stile tagliente, limato dall'esercizio dialettico. E persino
nell'adozione di una certa dimensione del carattere di stampa dei
suoi libri, per altro, resi riconoscibili dal vivace arancione della
copertina degli editori Bardi.
Tilgher illustra le qualità del filosofo militante, nel
ritratto di uno dei suoi autori di riferimento, Ortega y Gasset, in
cui si rispecchia nella, consueta e rivelatrice, opera di
"tilgherizzazione": "Professore di filosofia nell'Università
di Madrid, non ha nulla del filosofo tradizionale, ridicolo
specialista dell'universale, occupato a dar fondo al cosmo in un
sistema in più volumi. Uomo di cultura svariatissima, egli
tratta con uguale profondità di storia e di politica, di
economia e di critica d'arte, ed è egli stesso artista di
squisita originalità. Non ha mai, credo, scritto un libro nel
senso classico e tradizionale della parola: i suoi libri non sono
che raccolte di saggi. E del successo che hanno, gli autori di libri
che nessuno legge si consolano come possono, poveretti, dandogli del
giornalista. Il suo procedimento abituale è sempre lo stesso.
Egli parte da un evento della vita quotidiana, da un fatto di
cronaca, dal libro del giorno, da qualcosa, insomma, evento
movimento tendenza moda, che occupa e interessa tutti, non solo
l'uomo colto ma anche l'uomo della strada, e, a poco a poco, ci
mostra i fili innumerevoli per cui quel fatto, quel movimento,
quella tendenza, quella moda, che prima appariva nel suo isolamento
cosa insignificante, si rilega all'infinito della storia e della
vita, che si è puntualizzato e concentrato in essa, e la fa
battere del suo ritmo e palpitare della sua vita." [22][22] Come
altri hanno rilevato[23][23], si tratta di un vero e proprio
autoritratto. Tilgher individua non solo un tipo ideale di
intellettuale, ma delinea anche un metodo di lavoro, di intervento
nella realtà, che sfrutta ogni occasione, ogni momento che
sembra frammentario, per intervenire nel dibattito culturale e
introdurre, per analizzarlo, una delle questioni 'vitali' e
'centrali' che investono la società contemporanea. Con queste
premesse, diventa naturale la rinuncia alla sistematicità: il
problema viene isolato e chirurgicamente scomposto in tutte le sue
parti e implicazioni, ma mai è possibile inserirlo in un
tutto che abbia la chiusura di un sistema. E' un metodo di lavoro e,
nello stesso tempo, un programma, un ideale di intima fusione tra
Vita e Filosofia a cui Tilgher rimarrà fedele.
Non gli pesa la riduttiva qualifica di 'giornalista' che, i suoi
detrattori e certo mondo accademico, gli affibbiano. Niente è
più alieno da lui, schopenhauerianamente, dell'ambizione a
titoli e cariche accademiche. Egli stesso definiva il proprio lavoro
come quello di semplice 'cronista' di un'epoca, che si lascia
trascinare dal flusso caotico della storia, mantenendo, tuttavia,
una "stabilità interiore" che è l'unico momento di
"...un assoluto, comunque, stretto nei limiti dell'orizzonte storico
e terreno"[24][24]. La sua attività di giornalista, svoltasi
sui maggiori quotidiani dell'epoca (la Stampa, il Resto del Carlino,
il Mondo, ecc.), rivela le caratteristiche fondamentali sia del suo
temperamento che del suo atteggiamento teorico. L'amore per la
polemica, il saper penetrare nel vivo delle questioni scontrandosi
duramente con tesi consolidate, il gusto per le posizioni
inconciliabili, in un andamento diadico che rifiuta una sintesi
qualsiasi, "indizio sicuro - questo - di distacco dallo
storicismo"[25][25], è il tipico atteggiamento delle
età rivoluzionarie "... in cui differenze e asimmetrie non
bruciano più nell'impazienza delle sintesi..."[26][26].
Testimonianze della matrice dialettica della sua impostazione, sono
le accese diatribe che lo videro protagonista sul futuro del teatro
italiano e sul ruolo che doveva avervi il critico (per un periodo
divenne il critico più ascoltato e autorevole d'Italia) che,
per lui, avrebbe dovuto essere un vero e proprio "suggeritore
filosofico" dell'artista.
Notissime le sue battaglie, prolungatesi dal 1916 al 1922, sul
teatro del "grottesco" con Lucio D'Ambra e poi la stagione della
scoperta del teatro di Pirandello, un incontro mai sereno e segnato
da contrasti evidenti, sulla cui interpretazione si scontra con,
l'altrettanto autorevole, Silvio D'Amico. Il teatro, per lui che
dà importanza centrale ad una visione estetica della vita,
diventa il rivelatore della crisi della società borghese e
del tramonto della sua ideologia. In questo i personaggi
pirandelliani gli sembrano emblematici della fase storica. Al teatro
assegna una funzione educativa e filosofica. Silvio Cumpeta, nella
sua opera su Tilgher, afferma che "Se fosse stato un pacifico
studioso, o anche un filosofo di massimi problemi, sarebbe difficile
- benché non impossibile - collegarlo strettamente a casi e
vicende politiche e di costume; ... certe sue opere sono così
contingenti, così legate all'aria del momento, che la
distinzione tra pratico e teoretico in un discorso su di lui
è senza significato."[27][27] Liliana Scalero, la studiosa
sua discepola e curatrice delle opere postume, mette in luce, nella
prefazione al Diario Politico[28][28], la natura dialettica del
procedere tilgheriano. Il suo pensiero prende coscienza e si fa nei
contrasti, nelle contrapposizioni, fichtianamente contro un
ostacolo, un limite. Sente sempre il bisogno di avere chiaro
l'interlocutore con cui battersi, per questo la sua filosofia ha
essenzialmente e complessivamente, una valenza politica e morale.
"C'è pensiero, nel senso proprio della parola, soltanto
là dove c'è dialettica, cioè conflitto di
opinioni diverse: nell'attrito reciproco le opposte opinioni perdono
ciascuna la sua unilateralità, ognuna si apre a ciò
che ha d'innegabile l'opinione opposta, perciò stesso esse si
irrobustiscono, sono meglio in grado di resistere a ulteriori
assalti."[29][29]
Lo rivela chiaramente la presa di posizione nei riguardi del famoso
libello di Benda, Il Tradimento dei Chierici[30][30], recensito con
diverso orientamento, anche da Croce. Tilgher non condivide un
modello di intellettuale che considera totalmente anacronistico, che
non è più adatto al ritmo di una società in
evoluzione vertiginosa, a cui il progresso tecnico ed economico pone
scenari inediti ed ineludibili. Per lui è necessario prendere
posizione, sporcarsi le mani, legare il proprio destino, la propria
esistenza al vortice irrazionale, casuale, della Vita e della Storia
che, pessimisticamente profetizzando, non si muove verso un futuro
certo e migliore.
1.4 Tilgher e la crisi.
E' il tema del Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, di cui
Tilgher fu il primo divulgatore in Italia e che diventerà uno
dei suoi più cari 'compagni di strada '. Nel clima del
dopoguerra, che Tilgher definiva di "interguerra", presago che le
contraddizioni che avevano scatenato il primo conflitto mondiale
restavano irrisolte e si erano acuite e avrebbero portato
inevitabilmente a nuove catastrofiche esplosioni, avviene la
scoperta e l'adesione alla visione spengleriana dello sviluppo delle
civiltà intese come organismi soggetti alla legge biologica
di un inesorabile declino. La coscienza della crisi e il crollo
della fiducia in una Ragione universale che governi una Storia in
perenne evoluzione verso il meglio in un progresso inarrestabile, si
incontrano inevitabilmente con la prospettiva spengleriana. E dove
la suggestione di questa tesi ha il sopravvento, Tilgher avverte il
senso della fine, dell'epilogo e del crollo definitivo della
civiltà europea. Tilgher può essere considerato il
'sismografo' di quel vero e proprio 'terremoto delle coscienze ' che
si avvertì dopo la fine del conflitto. Le voci più
alte e autorevoli si interrogarono sul destino dell'Europa e
dell'Occidente: Husserl, Valery, Huizinga, Mann, Toynbee, Ortega y
Gasset, Musil, Svevo, Freud, tutti fanno parte della vasta schiera
dei 'filosofi e letterati della crisi '.
Merito di Tilgher è essersi inserito in questo vasto
movimento e aver diffuso, in contrasto con un mondo filosofico e
accademico italiano non troppo recettivo o chiuso nel suo
neoidealismo, le correnti e le figure più vive della cultura
europea, di essersi fatto portavoce delle filosofie più
feconde e gravide di un potenziale praticamente illimitato di
suggestioni.[31][31] Sono indissolubilmente legati, da una parte, il
"cronista" della crisi, che intuisce e da conto delle trasformazioni
dell'arte, della società, della cultura che ha davanti, e,
dall'altra il "filosofo" della crisi, che fa assumere al momento
storico il valore paradigmatico di condizione umana. Eugenio Garin,
nelle sue Cronache di filosofia italiana, giudica in modo
inequivocabilmente negativo la tentazione, di questi interpreti
della crisi, di universalizzare una situazione di fatto a cui si
accompagna l'incapacità cronica a trovare soluzioni. "Si
accorgevano che erano ormai cadute le antiche strutture del mondo,
di cui la critica aveva svelato, al posto di una creduta
obbiettività, la genesi storica, umana. Sentivano, d'altra
parte, che nuove soluzioni ancora mancavano, o erano solo pensate,
non reali. Ma invece di cogliere il limite di una situazione per
integrarla, prorompevano in lacrime. Scoperto che il pensiero
critico aveva dimostrato l'umanità, e quindi la
relatività dei valori, piangevano sugli ancoraggi
perduti."[32][32] Con quella di Garin concorda l'analisi di Silvio
Cumpeta, che afferma "Quando Tilgher nei suoi più densi anni
- dal 1918 al 1926 - pensava che tutto ormai, valori e uomini,
andava alla deriva del relativismo integrale, dello scetticismo
assoluto, dell'attivismo convulso, prendeva con violenza certi
aspetti di una crisi etico-politico-economica, impossibili a
comprendersi se non fossero stati inseriti in un concreto processo
dello Stato e della società italiani, e li elevava a simboli
metafisici della crisi."[33][33]
L'Italia di quegli anni vive il fenomeno delle avanguardie e il
fiorire di numerosissime riviste, spesso dalla durata effimera e
dalla vita travagliata, che videro Tilgher attivissimo animatore e
collaboratore[34][34] insieme agli altri protagonisti di quella
"generazione dell'Esodo", esodo dallo storicismo e dall'egemonia
crociana e idealistica, che allora affilavano le armi della loro
critica e che presero, in seguito, strade diverse che li portarono
agli approdi più contrastanti. Sono alcuni di quei filosofi
che Tilgher raccoglie nella sua Antologia dei filosofi italiani del
dopoguerra che, in modo forse 'confuso', vedeva riuniti "...quelli
nella cui opera si è riflesso il tormento intellettuale e
morale del dopoguerra europeo..."[35][35] e non poteva certamente
includere i seguaci dell'idealismo, in quanto "...l'Idealismo
storicistico italiano è, in modo tipico, filosofia
dell'anteguerra."[36][36]. E' un mondo spirituale tramontato con la
guerra mondiale, "è l'ideologia del Progresso scritta in
linguaggio hegeliano invece che in linguaggio positivistico. E' la
filosofia tipica dell'Ottocento"[37][37]. Nelle Cronache di
filosofia italiana, il giudizio di Garin su questi filosofi, pur non
sottovalutandone l'inquietudine e l'acume nella critica dello
storicismo, è netto: "Gli scettici e i relativisti, ... si
esauriscono nel 'denunciare' la crisi, nel piangere sulla crisi, nel
dissertare intorno alla crisi"[38][38]. Garin li considera i 'figli
degeneri ' delle stesse dottrine che criticano. Dopo aver demolito i
valori assoluti e le verità definitive, non sapevano uscire
dallo sterile momento negativo e intravedere "... le soluzioni
positive che se ne potevano trarre"[39][39]. Nella stessa Antologia,
quasi alla fine della Prefazione che si prega di leggere, troviamo
un invito all'azione, proprio perché "... nulla esclude che
la vita - per forza propria o per soprannaturale intervento: qui
essi differiscono - possa un giorno attuarsi in forme del tutto
nuove e infinitamente superiori a quelle in cui si è
già attuata, in forme che non siano il semplice miglioramento
e arricchimento di queste, ma rompano con esse toto coelo. Un nuovo
cielo, una nuova terra, una vita nuova possono apparire. La cosa non
è logicamente impossibile. e se non lo è, può
essere oggetto di fede e di speranza. E fede e speranza possono
divenire le molle di un'azione adeguata"[40][40].
Questo è il cammino che Tilgher indica alla "generazione
dell'Esodo" per l'approdo ad una mai certa 'terra promessa'. Nella
Lettera a Ferrero, del 13 gennaio 1922, parzialmente pubblicata nei
Relativisti contemporanei, paragona le teorie storicistiche alla
"terraferma" di una "modesta isoletta" che ora sembra sicura, ma
basta che il fiume si ingrossi, il fiume della Vita, inarrestabile,
e l'isoletta sprofonderà perché la "tempesta si va
facendo sempre più alta e tremenda ed io non vedo riva a cui
riparare né zattera su cui avventurarmi". La metafora nautica
rende la situazione di chi ha rifiutato l'approdo dello storicismo e
deve cavarsela in mare aperto. Non c'è approdo ad una
qualsiasi Oggettività che non sia negazione
dell'attività dello spirito[41][41].
Tuttavia, scorrendo i titoli della bibliografia tilgheriana, si
intravede, ad una lettura più attenta, il filo rosso di un
percorso filosofico ed esistenziale da cui traspare l'intima
coerenza di una vita spesa nella ricerca di un punto d'appoggio, di
una solida terraferma da cui pronunciarsi sulla storia e sull'uomo.
La sua mai sopita attenzione alla grecità (si veda La visione
greca della vita) è testimonianza di una nostalgica ricerca
di un mondo perduto, in cui l'esistenza era scandita dall'andare
circolare del tempo e in cui tutto veniva interpretato,
vichianamente, alla luce del mito. Una lettura che, più che
di Nietzsche, risente dell'influenza di una mai dimenticata origine
magno greca.[42][42] Questo itinerario Tilgher testimoniò con
la sua stessa esistenza. L'impegno della sua vita, fu quello di
cercare di rimanere nell'ambito di un'ascesi completamente laica e
di uno stile di vita orientato e qualificato in senso etico e
morale. Ernesto Buonaiuti, l'amico con cui condivise vent'anni di
vita e di traversie teoriche e politiche,ricorda che Tilgher soleva
affermare che la grandezza di un filosofo è tutta nel vivere,
fino in fondo alla loro possibile conseguenzialità, i
presupposti del proprio sistema. Di fronte ad un mondo che crolla
dinanzi ai suoi occhi, l'ultima parola di Tilgher, pessimisticamente
rassegnata, può essere riassunta nella conclusione della sua
lettera di risposta a Guglielmo Ferrero, "Quanto a me, io sto a
guardare, cercando di fissarne come posso qualche tratto, il dramma
ideale di cui tutti siamo gli attori e gli spettatori, sforzandomi
di comprenderlo e di abbracciarlo in tutta la sua grandiosa
bellezza. Posizione di storico, se pure non freddo ed apata, ma
commosso e palpitante. Quanto a credere di poterlo arrestare non ci
penso neppure. Come ben disse Mario Missiroli, nella prefazione del
mio libricino: Accade e più ancora accadrà quello che
è inevitabile."[43][43]
Gennaro Sasso[44][44] rileva che la categoria fondamentale del
pensiero di Tilgher, sia pure con le evidenti contraddizioni tra le
varie fasi del suo sviluppo, non è, a differenza che nello
Spengler del Tramonto, la rigida necessità, la anagkh, ma,
piuttosto, Tilgher si appella alle infinite possibilità e
aperture che la Vita, sia pure nella sua "...caotica e
contraddittoria, incoerente e scissa, fluida e plastica, ribollente
e vulcanica..."[45][45] tragica e drammatica imprevedibilità,
concede. Tilgher "... proprio contro una forma di anagkh si
rivolgeva: contro la anagkh del progresso"[46][46] che disconoscendo
nella Storia la presenza del male, vede nella storia lo sviluppo del
Divino. Una visione che impedì ai suoi seguaci di riconoscere
per tempo le avvisaglie dei tempi tragici che si stavano avvicinando
e di comprenderne, poi, la reale portata. Difendendo sè
stesso e i suoi dall'accusa di inerte pessimismo, spronava a
comprendere la 'rivoluzione' che era avvenuta con la fine della
guerra. E' l' analisi tilgheriana della "crisi mondiale",
raffigurata in un limpido affresco. La sua chiara visione dei
problemi irrisolti dal conflitto in ambito politico e sociale,
dell'equilibrio rotto tra gli stati europei, della mistificazione
delle reali cause e finalità della guerra e, infine, la
consapevolezza che le tensioni derivanti da una sconfitta sentita
come ingiusta e umiliante, avrebbero portato una nuova catastrofe in
tempi brevi. Tutto in un clima da imminente "Finis Europae".
Tilgher analizza, inoltre, le forze in campo nella società
capitalistica e il ruolo che avrebbero potuto avere i partiti
socialisti. Sulla spinta delle speranze accese dalla rivoluzione del
'17, avvia una generale rilettura del marxismo. La "crisi mondiale"
consente che vengano alla ribalta forze nuove mentre, su quella che
egli , già nel '19, chiama "l'Italia del Fascio",
s'addensavano le ombre del tramonto. Con "Fascio", Tilgher indica
una coalizione eterogenea di forze , demomassoniche, nazionaliste,
astrattiste e dannunziane, che avevano voluto la guerra ma che la
guerra aveva spazzato via. Le nuove forze che emergono sono estranee
"...a una vittoria che premia ancora una volta minoranze esigue,
astratte, privilegiate e impopolari"[47][47]. Queste minoranze
Tilgher denomina "fascismo democratico" quando ancora sono lontane
le prospettive del fascismo mussoliniano. Dalla tragedia della
guerra e dal ribollire del dopoguerra, si fanno avanti come
protagoniste le masse, forze naturalmente rivoluzionarie, della cui
irrazionalità lo storicismo non sa dare una spiegazione, una
risposta adeguata al vortice del puro movimento in cui il fine e la
fine sono celati.
1.5 Tilgher e il Fascismo.
Nella Crisi mondiale, il fascismo viene interpretato in modo
acutamente originale. Lo annota Renzo De Felice che rileva per la
prima volta, nell'analisi di Tilgher, un filone che verrà
"ripreso e sviluppato"[48][48]. Tilgher vede il fascismo come un
fenomeno tipico piccolo - borghese. La classe media è quella
che più ha risentito della guerra, pur essendone stata la
più accanita sostenitrice. Stretta nella morsa dei nuovi
arricchiti che hanno sfruttato l'economia di guerra, da una parte, e
del proletariato che esce anche esso più forte politicamente
dalla guerra, dall'altra, la classe media guarda entrambi con
rancore, ritenendoli responsabili del proprio depauperamento e
"questo loro stato d'animo spiega il furore antisocialista degli
arditi e dei fasci di combattimento, i componenti dei quali
appartengono quasi tutti alle classi medie"[49][49].
Il capitolo dei rapporti di Tilgher con il regime fascista è
tra i più controversi e, come auspicato, "occorrerebbe un
studio specifico"[50][50]. In questa vicenda tormentata, viene
coinvolta sia la sua attività di filosofo che quella di
giornalista e critico, vendette personali e episodi
incresciosi[51][51] resero amari i suoi ultimi anni di vita. Subito
dopo la pubblicazione e il successo editoriale di Relativisti
contemporanei, sul Popolo d'Italia del 22 novembre 1921, esce una
entusiastica recensione di Mussolini dal titolo Relativismo e
fascismo. Per Mussolini "il Fascismo è stato un movimento
super - relativista, perché non ha mai cercato di dare una
veste definitiva ai suoi complessi e potenti stati d'animo, ma ha
proceduto per intuizioni frammentarie". Del resto le tesi di Tilgher
non potevano non incontrarsi con la prassi e l'ideologia del
nascente fascismo: "E' l'azione per l'azione, è l'azione fine
a sé stessa, in tutta l'infinità, ma anche in tutto il
vuoto, della sua natura. E poiché un'azione senza un
contenuto qualsiasi è un assurdo, ed un contenuto positivo
qui è impossibile, così all'azione non rimane che
proporsene uno negativo: il rovesciamento dell'ordine di cose
esistente. Annientare ciò che esiste è il solo scopo
che può proporsi un'azione che non volendo che se stessa non
vuole dissolversi corrosa dalla sua intima nullità. Sotto
questo punto di vista il Relativismo non solo prepara la
rivoluzione, è esso stesso essenzialmente
rivoluzionario"[52][52] Al di là degli esiti nichilistici, il
Relativismo prepara l'azione rivoluzionaria sgombrando il campo dal
mito di una Storia intesa come progresso capitalizzantesi, una
storia riformisticamente intesa. L'individuo così viene
liberato dal dominio della Ragione storicistica, non gli rimane che
"... voler agire che solo per agire, per strapparsi in qualche modo
con l'azione dalla disperazione di un mondo maledetto che non
consente più nemmeno la fuga nei deserti"[53][53]. "Il
Fascismo non è che l'assoluto attivismo trapiantato nel
terreno della politica"[54][54]. Non meraviglia che il libro di
Tilgher, anche tempo dopo la sua caduta in disgrazia, facesse bella
mostra di sè sulla scrivania del Duce.
Con queste premesse appare naturale accostare la figura di Tilgher
al fascismo o perlomeno che "... ambiguo risultasse, negli anni, o
in alcuni degli anni, che videro l'affermazione del fascismo, il suo
atteggiamento politico"[55][55]. Per Eugenio Garin, che considera
Tilgher un pensatore incoerente e di corto respiro, "... Tilgher non
si limitò a rovesciare malamente la prospettiva crociana
nella dialettica storia - antistoria, attribuendo ogni valore vitale
all'antistoria, ma trovò il modo di fare in sordina la sua
brava apologia del fascismo"[56][56]. Tilgher intravede nel fascismo
un modo nuovo di usare la storia, il fascismo crea e seleziona il
suo passato in maniera da averne giustificazione: è
l'antistoria che crea la storia. Ironia della sorte, sono proprio i
fascisti ad usare, praticamente, il detto crociano che la storia
è sempre contemporanea. Di diverso avviso sulla posizione di
Tilgher rispetto al regime, è uno degli studiosi che, nel
1988, partecipa a uno dei due convegni tenutisi in occasione del
centenario della nascita del filosofo napoletano e in cui si
è data una complessiva lettura rivalutativa. Giano Accame
afferma decisamente che Tilgher appartiene all'antifascismo. A
suffragare questo giudizio vi sono, per lui, innumerevoli fatti.
Oltre alle vicende persecutorie e l'ostracismo che subì dal
regime, è da ricordare che Tilgher firmò il manifesto
degli intellettuali antifascisti di Croce; non chiese mai
l'iscrizione al partito; collaborò, fino alla traumatica
chiusura del '26, con il Mondo di Giovanni Amendola;
precedentemente, dal '22 al '25, fu in stretto contatto col circolo
torinese di Gobetti, collaborando alla Rivoluzione Liberale e a Il
Quarto stato di Carlo Rosselli. Quindi Accame può affermare,
riferendosi al Garin, che "da quanto ho premesso mi sembra risulti
con molta chiarezza che l'accusa come tale è
infondata"[57][57] .
Neppure possiamo includere Tilgher in quella che Furio Jesi ha
definito "cultura di destra".[58][58] Molto lontana appare, l'opera
e la personalità tilgheriane, dall'irrazionalismo di
personaggi come Julius Evola.[59][59] Nel '24 Pirandello aderisce al
fascismo, è la fine del sodalizio con Tilgher. La
collaborazione era stata lunga e vantaggiosa per entrambi. Tilgher,
rispetto a Croce, rivaluta la figura dell'uomo artista, pone
l'attenzione non solo sulle opere e la loro artisticità e
liricità, ma anche alla persona dell'artista che, inserita
nel suo tempo, ne diventa interprete. L'autore va sempre unito
all'opera nel giudizio critico, l'uomo-artista è la massima
espressione della Weltanshauung del suo tempo. L'autosufficienza
dell'opera d'arte non significa mai, per Tilgher, negarne la
storicità, ma solo mettere l'accento sul momento unico della
creazione artistica che, tuttavia, continua ad esprimere ciò
che l'artista vive dei problemi posti dal suo tempo. Anzi l'artista
ne è l'interprete privilegiato. La sua sensibilità gli
permette di cogliere e di essere in sintonia con il movimento
più intimo della Vita e della Storia del suo tempo. E' capace
di cogliere in anticipo la direzione che il flusso caotico e
irrazionale della vita sta per imboccare. Tutta la storia della
interpretazione tilgheriana di Pirandello è fondata su questo
assunto. Pirandello, più di ogni altro , ha saputo
rappresentare, con i suoi personaggi, il paesaggio desolante della
crisi. La crisi di un mondo, quello borghese ottocentesco, fondato
su una immagine di sé e della società che la crisi
della razionalità ottimistica e di un insieme di valori
tenuti insieme dall'ipocrisia collettiva, fatalmente smaschera nella
loro verità. "L'arte di Pirandello, contemporanea non solo
cronologicamente ma anche idealmente della grande rivoluzione
spiritualistica e idealistica avvenuta in Italia e in Europa ai
primi del secolo, trasporta nell'arte quell'antiintellettualismo,
quell'antirazionalismo, quell'antilogicismo che riempie di sé
tutta la filosofia contemporanea e che oggi culmina nel
Relativismo."[60][60] "Quando poi si pensi che nel dramma di
Pirandello il punto nodale e cruciale è il minuto
irrevocabile e solenne in cui le costruzioni e formazioni
convenzionali, gli argini sociali cadono come foglie secche e l'uomo
si trova faccia a faccia col nudo volto, con l'informe abisso della
Vita…"[61][61] "…il problema artistico è, dunque, niente
altro che il nuovo senso della vita che cerca la sua espressione ed
individuazione artistica."[62][62] Tilgher lo scopritore di
Pirandello, colui che aveva dato al suo teatro lo spessore di una
filosofia, la dialettica Vita - Forma, in cui si rivelava il fondo
irrazionale dei personaggi pirandelliani, abbandona, dunque, per
sempre la critica teatrale. Diventa da quel momento un personaggio
scomodo. I suoi articoli vengono sempre più spesso rifiutati,
Tilgher sente l'umiliazione di non poter vivere del proprio lavoro,
è ossessionato dalla paura dell'isolamento e di essere
costretto a rifugiarsi all'estero. Nel marzo del '28 "si
rivolgerà a Mussolini e ne riceverà quell'accredito
che gli avrebbe permesso di tornare a scrivere"[63][63].
1.6 La morale e le ultime riflessioni politiche.
In questi anni, intorno al 1930, la riflessione di Tilgher giunge ad
un punto di svolta.. Comincia ad affiorare l'ansiosa ricerca di
punti solidi a cui cercare di ancorare il suo pensiero. Gli anni
della crisi e quelle esperienze insieme sconvolgenti ed
entusiasmanti, cominciano ad essere lontani. Sono gli anni in cui il
fascismo si consolida al potere e ottiene il consenso più
ampio. Il concordato con la Chiesa, oltre ad accrescere la
leggittimità del regime, è cruciale anche dal punto di
vista della politica culturale del fascismo. Il rapporto tra
fascismo e attualismo entra in crisi e vengono favorite concezioni
improntate ad un rinnovato realismo, di cui si fa portavoce, nei
congressi della Società filosofica italiana, l'Orestano.
Gentile viene attaccato come portatore di una filosofia estranea
alle radici nazionali che ,invece, vengono individuate in una
filosofia spiritualistica e realistica. Tilgher, in questo fervore
antiattualista, non rinnega mai la sua origine idealistica e, anzi,
sente il bisogno di ripubblicare parzialmente la giovanile Teoria
con il titolo di Saggi di etica e filosofia del diritto, una
operazione tanto più significativa "…perché indica
l'impegno a superare la anche potente descrizione della crisi,
rifacendosi ad alcuni concetti etici che aveva enunciati in
gioventù."[64][64] "Dall'Estetica in poi, passando attraverso
la Filosofia delle morali, Tilgher riuscì a conquistare
un'etica di sopportazione e di triste e dolorosa calma, che
può sintetizzarsi in un : è così, e
sopportiamo."[65][65] L'ossequio al regime rimase formale, ma il suo
atteggiamento si farà più prudente e il suo animo
inclina alla rassegnazione.
Sono gli anni della ricerca morale. Tilgher individua, convinto
della relatività delle morali, stili di vita che cerchino di
"fornire nell'aldiquà ciò che il tramonto del
Cristianesimo non permette più di cercare
nell'aldilà"[66][66]. Le preoccupazioni etiche sono sempre
state al centro della riflessione tilgheriana. Anche negli anni in
cui lo travolge il turbine della crisi, nelle sue analisi, in
controluce, traspare la necessità di un ancoraggio morale che
dia un senso, sia pure provvisorio e relativo, allo scorrere
irrazionale e caotico della vita. Il ruolo di 'cronista' e
'filosofo' della crisi, non lo esime, nei momenti più calmi e
rassegnati della sua riflessione, di anelare ad un mondo in cui ,
ancora, si possa fare appello ad un assoluto. In questa sua
attenzione al problema morale si rivolge allo studio, più che
dei processi individuali, dei riflessi morali delle condotte
sociali. Nella società contemporanea, i comportamenti delle
masse e della folla indifferenziate, offrono un nuovo campo di
indagine per comprendere l'azione sociale dei protagonisti della
società 'faustiana'.[67][67] Tilgher è qui più
sociologo che moralista. Nella sua analisi della "civiltà
faustiana", già presente nella Crisi mondiale, ma ampiamente
sviluppata in Homo faber, libro che lo segnala all'attenzione
europea[68][68], si sofferma sul "concetto di lavoro" inteso come la
forza vitale che, nel senso di un romantico streben, muove in modo
incessante lo sviluppo della civiltà capitalistica e della
tecnica. Del destino di questa civiltà e in generale della
fase della "civilizzazione", Tilgher ha una visione più
ottimistica che si allontana dal rigido determinismo spengleriano.
Si occupa, invece, pienamente di riflessione morale con l'opera del
1937 Filosofia delle morali. Abbiamo già accennato al clima
politico e culturale determinatosi dopo il 1930: il consolidarsi del
regime coincide con la crisi dell'attualismo e lo svilupparsi di
indirizzi realisti e spiritualisti. Ma si sente, anche, l'esigenza,
in conflitto con le istanze antiindividualistiche del Fascismo, di
occuparsi più a fondo delle caratteristiche esistenziali
dell'uomo. "Intorno al '30 Ernesto Grassi e Carlini fecero conoscere
Heidegger, e il Banfi e il Lombardi riproposero lo studio di
Kierkegaard."[69][69] Anche Tilgher, pur rimanendo fedele alle sue
impostazioni, sente il bisogno di una indagine più accurata
sulla natura dell'uomo. Il lavoro più significativo che
esprime questa esigenza è, appunto, la Filosofia delle
morali, uno studio delle forze, le forme, gli stili della vita
morale, in cui, Tilgher, afferma la relatività e
pluralità degli atteggiamenti morali e l'impossibilità
di ricondurre la vita morale ad un principio unico. Una funzione
moralizzatrice assegna anche alla politica. La visione dell'uomo
come individualità indefinibile dotato di
problematicità e possibilità infinite, il 'vivente
senza natura'; il rifiuto della fissità e identità a
favore della multiformità e dinamismo della vita; il dissidio
tra Vita e Forma, tra Pensiero e Reale, tra essere e dover-essere,
sono i presupposti teorici da cui Tilgher parte per avvicinarsi allo
studio dei processi dell'azione politica. La filosofia deve legarsi
all'azione politica. La figura dell'Eroe in cui si esalta la
funzione dell'atto creatore, fonte della decisione politica,
è emblematica di questa visione.
Tilgher, sulla scorta del suo relativismo e pluralismo
irrazionalistico, si avvicina al Liberalismo, fondandolo su queste
basi. "Il Liberalismo è tollerante perché nel suo
fondo è scettico, meglio: relativista, cioè nega che
ci siano uomini in possesso esclusivo di verità assolute,
ammette che la verità non è possesso esclusivo di
nessuno, ma che tutti ne afferrano un qualche lembo."[70][70] "…ed
inoltre egli ha fatto sua la teoria di Goethe della vita "che
può essere corretta", e anche quella dei liberali. Il
liberalismo è teoria aperta, che permette di volta in volta
la correzione dell'errore, in virtù di quella continua
vigilanza morale ch'egli consiglia nelle penetranti analisi del suo
Diario politico, e della cui mancanza egli accusa appunto le moderne
democrazie."[71][71]
Nel Diario politico, negli ultimi anni della sua vita, viene
annotando quasi quotidianamente, con un tono sempre più
amaro, pessimistico e demolitore, le riflessioni che, la situazione
sua personale e quella politica dell'Italia, gli dettavano. La sua
concezione pluralista della società si ergeva in contrasto
con la realtà di un regime pienamente monistico e
totalitario. Un regime in cui il gioco delle diverse opinioni viene
eliminato a favore del discorso unico, il discorso retorico,
l'enfasi, l'amore del gesto e della frase che copre il vuoto di
dialettica interna e cerca di coartare il consenso usando tutti i
mezzi e artifici della persuasione. Affida al Diario politico le
ultime visioni profetiche, pronosticando gli esiti nefasti del
conflitto appena cominciato per l'Italia, attirandosi così,
negli ambienti di regime, la fama di jettatore. In queste
giornaliere riflessioni, ci consegna il suo testamento politico.
Come abbiamo visto emerge la visione di un Liberalismo fondato su
basi relativiste e scettiche. Non essendo attingibile la
Verità, l'Assoluto, la dinamica politica si fonda sulla
libertà dei singoli, portatori di verità parziali che,
avendo coscienza di ciò, si danno come regola la Tolleranza,
unico principio che Tilgher reputa degno di essere difeso con la
forza, il solo che giustifichi una guerra. Lo Stato disegnato da
Tilgher è uno Stato leggero, certamente democratico, in cui
vige un'ampia autonomia. Questo si legge tra le righe della critica,
predominante, della dolorosa situazione presente. La condanna del
Leviatano del totalitarismo si leva severa dalle pagine del Diario
politico , e con essa si auspica la fine dei despoti, nelle cui
vivide descrizioni, si poteva intravedere la figura del Tiranno
nostrano. Nella Prefazione al Diario politico, Liliana Scalero, ci
imforma dell'intenzione di Tilgher di scrivere un libro su
Macchiavelli in cui affidava proprio alla politica un compito
moralizzatore. La politica poteva trarre l'uomo, naturalmente
cattivo e violento, a concetti universali. Quindi anche Tilgher,
come Macchiavelli descrittore di una situazione negativa e infelice,
ripone, infine, una speranza nell'attesa ansiosa di una soluzione in
cui la politica , nuovamente, sia congiunta alla morale.
Il 3 novembre 1941 Adriano Tilgher moriva in una clinica romana.
Tra i vecchi amici e i giovani discepoli che assistevano alla
cerimonia funebre, il solo Ernesto Buonaiuti prese la parola per
ricordare il "fratello scomparso". Tutti conservarono però
l'impressione che "... quella cerimonia...insieme con l'uomo portava
a sepoltura un intero mondo e la sua cultura"[72][72]. Sulla sua
bara fu deposta l'ultima sua opera: il Casualismo critico.[73][73]
E' il destino di pensatori forse non a torto considerati minori,
restare all'ombra di personalità più forti e di
più ampio spessore teorico. Non si giustifica, però,
l'oblio in cui è stato tenuto Adriano Tilgher. Egli ha
rappresentato in modo emblematico i fermenti più vivi e
l'essenza propria di un'epoca. Ha diffuso in Italia le voci
più significative della cultura europea, spesso
fraintendendole o sopravvalutandone alcune, ma svolgendo un compito
insostituibile e prezioso. Crediamo non ci si possa esimere, in sede
storica, dal fare i conti con l'eretico Tilgher.
Note
[1][1] Dedicò al poeta e filosofo di Recanati una Filosofia
di Leopardi che, spesso dimenticata, è una vera e propria
rivelazione della natura del pensiero tilgheriano in un'opera di
intima identificazione. Tanto che, Augusto Del Noce, può
parlare, a proposito di Tilgher e di Rensi, di "leopardismo
filosofico".
[2][2] Così venivano chiamati, in special modo nell'ambiente
degli affittacamere napoletani, gli studenti che erano soliti
vociare e, spesso, litigare in nome dell' hegeliano begriff.
[3][3] LAMI, Introduzione a Adriano Tilgher, Giuffrè, Milano,
1990, p. 50.
[4][4] CUMPETA, Adriano Tilgher, Edizioni di Filosofia, Torino,
1960, p. 11.
[5][5] GARIN, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, 1959,
p. 25.
[6][6] Ivi, p. 27.
[7][7] Ivi, pp. 35 – 36.
[8][8] CUMPETA, Adriano Tilgher, cit., p. 13.
[9][9] E' uno dei pochi esempi, insieme a Banfi, di formazione
filosofica tedesca, in Italia.
[10][10] LAMI, Introduzione, cit., p.105.
[11][11] In una lettera indirizzata a Gentile, Croce afferma di aver
consigliato Tilgher, "con tanta insistenza di lasciare le
disquisizioni teoriche e accingersi a qualche monografia storica,
che da allora prese ad odiarmi, e non cessa neppure ora di segregare
veleno contro di me." In Lettere a Giovanni Gentile, Milano, 1981,
p. 591.
[12][12] LAMI, cit., p. 93.
[13][13] Dedicò alla filosofia di Gentile un libello, Lo
spaccio del bestione trionfante, che, pur contenendo valide
argomentazioni teoriche sulla natura dell'attualismo, gli nocque
molto per la inutile violenza della polemica e la palese
infondatezza di certe accuse.
[14][14] LAMI, Introduzione, cit., p. 98.
[15][15] TILGHER, Teoria del Pragmatismo Trascendentale, Bocca,
Torino,1915, p. V.
[16][16] LAMI, Introduzione, cit., p. 11.
[17][17] Gian Franco Lami nella Introduzione a Adriano Tilgher,
riporta in nota la ricostruzione della vicenda, rendendo noto il
contenuto delle lettere che Gentile, allora Ministro dell'Educazione
Popolare, indirizza, il 19 febbraio 1924, al direttore delle
biblioteche universitarie, sollevando Tilgher dall'incarico alla
Alessandrina e assegnandolo alla Vittorio Emanuele, pregando
però di sorvegliarlo nell'orario e nel lavoro, considerandolo
sotto esperimento. Tilgher ferito nell'orgoglio e nel prestigio
darà le dimissioni. Cfr. LAMI, Introduzione, cit., p.28.
[18][18] LAMI, Introduzione, cit., p. 30.
[19][19] Ivi, p. 24.
[20][20] Ivi., p. 35.
[21][21] TILGHER A., Relativisti contemporanei, Libreria di Scienze
e Lettere, Roma, 1923, p. 76 - 77.
[22][22] TILGHER A., Filosofi e Moralisti del Novecento, Libreria di
Scienze e Lettere, Roma, 1932-X, pp. 135-136.
[23][23] MERCADANTE F., Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo
nell'orizzonte della crisi mondiale e il magistero di un irregolare,
in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di
LAMI G.F., Giuffrè, Milano, 1992, p. 313.
[24][24] LAMI G.F., Il ruolo di Adriano Tilgher nel pensiero
contemporaneo, in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario.
Atti a cura di LAMI G.F., Giuffrè, Milano, 1992, p. 41.
[25][25] MERCADANTE F., Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo,
cit., p. 317.
[26][26] Ibidem.
[27][27] CUMPETA S., Adriano Tilgher, ed. di Filosofia, Torino,
1960, p. 8 - 9.
[28][28] TILGHER A., Diario Politico 1937-1941, a cura di Liliana
Scalero, Atlantica, Roma, 1946.
[29][29] Ivi, p. 114.
[30][30] TILGHER A., Julien Benda e il problema del "Tradimento dei
Chierici", Libreria di Scienze e Lettere del dott. Bardi, Roma,
1930. [31][31] Augusto Del Noce, pur individuando il limite di
Tilgher nel non aver riconosciuto le conseguenze estreme del
relativismo e della sua critica dell'attualismo, lo accosta a
Heidegger: "Se non ci fosse questo limite, ci troveremmo innanzi a
Heidegger, non a Tilgher." Confr. DEL NOCE A., Un interprete della
cultura italiana tra le due guerre, in Adriano Tilgher.
Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di LAMI, op. cit., p.62.
[32][32] GARIN E., Cronache di filosofia italiana, cit., p. 428.
[33][33] CUMPETA, Adriano Tilgher, cit., p. 10.
[34][34] Sono veramente tante le riviste che, in quel periodo, si
avvalsero della firma di Tilgher; ne ricordiamo alcune: oltre al
"Commento" di Roma, fa parte della redazione di "Italia nostra";
collabora alla "Cultura", alla "Rivista di filosofia"; fonda con
Borgese, Varisco, Vinciguerra e altri il "Conciliatore", questo
prima della guerra. A guerra terminata, già trasferitosi a
Roma, collabora alla "Ronda", allo "Spettatore", alla "Nuova
Antologia" e a molte altre almeno fino a che nel '26 subisce
l'ostracismo del regime e viene costretto al silenzio. [35][35]
TILGHER A., Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra Guanda,
Modena, 1937, p. 13.
[36][36] Ivi, p.14.
[37][37] Ivi, p.14.
[38][38] GARIN, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 428.
[39][39] Ivi, p. 429. [
40][40] TILGHER, Antologia cit. p. 16.
[41][41] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit., p. 102.
[42][42] Così nella Lettera a Guglielmo Ferrero alla pag. 101
di Relativisti contemporanei: "Se Ella volesse stare veramente al
sicuro, se volesse poggiare davvero i piedi sulla terraferma, sa
cosa dovrebbe fare? Dovrebbe fare un salto indietro, non di cinque o
di sei, ma di venti secoli almeno e rifugiarsi sul terreno della
civiltà greca. Là sì che davvero verità,
bontà, giustizia, bellezza sono realtà esistenti in
sé, al di fuori dello spirito, prima e indipendentemente
dall'attività sua, e di cui allo spirito non resta che
prendere atto e inchinarsi sommessamente. Là, sì, che
davvero troverà quella oggettività di cui va in cerca,
e che, finché resta sul terreno della filosofia idealistica
del secolo XIX, non troverà mai."
[43][43] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit., p. 103.
[44][44] SASSO G., Tramonto di un mito. L'idea di "progresso" fra
Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1984.
[45][45] TILGHER, Antologia cit. p. 16.
[46][46] SASSO, Tramonto di un mito cit. p. 39.
[47][47] MERCADANTE, Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo cit.
p.318.
[48][48] DE FELICE R., Le interpretazioni del fascismo, Laterza,
Bari, 1996, p. 180.
[49][49] TILGHER A., La Crisi Mondiale, Zanichelli, Bologna, 1921,
p. 180.
[50][50] SASSO, cit., n. 50, p. 37.
[51][51] Tilgher viene più volte aggredito e insultato da
facinorosi fascisti. E' costretto a dimettersi, nel '24, dalla
Biblioteca Alessandrina, su pressione di Gentile. Nel '30 viene
colpito da un provvedimento di pubblica sicurezza e la sua casa
viene sorvegliata e lui stesso pedinato. Gli procura profonda
sofferenza la carcerazione e il confino del cognato, Mario
Vinciguerra.
[52][52] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit. p. 91.
[53][53] Ivi, p. 90. [54][54] Ivi, p. 66.
[55][55] SASSO, cit., p. 36 - 37.
[56][56] GARIN, Cronache, cit., p. 288.
[57][57] ACCAME G., Adriano Tilgher oltre il discrimine tra destra e
sinistra, Manifestazioni del Centenario, cit., p.267.
[58][58] JESI F., Cultura di destra, Garzanti, Milano, 1979.
[59][59] I due, in verità, si conoscono e stimano.
Collaborano strettamente, dal '24 al '28, alle pagine della rivista
Idealismo realisticofondata da Vittore Marchi, per lo più
tesi a definire la propria particolare religiosità.
[60][60] TILGHER A., Il teatro di Luigi Pirandello in Figure,
momenti, problemi del teatro moderno, Boni, Bologna, 1994, p. 52.
[61][61] TILGHER A., Il teatro italiano dopo Pirandello, ivi, p.
141.
[62][62] TILGHER, Vecchio teatro e teatro vecchio, ivi, p. 271.
[63][63] LAMI, Introduzione, cit., p.240.
[64][64] CUMPETA, cit., p. 38.
[65][65] Ivi, p.47.
[66][66] LAMI, Introduzione, cit., p. 291.
[67][67] In Homo faber, Tilgher si occupa di fenomeni come il gioco,
il risparmio, il lusso e della passione sportiva che interpreta come
un surrogato, a uso e consumo delle masse, dell'attività
fabrile.
[68][68] Viene citato anche da Hannah Arendt in Vita activa, Milano,
1964, p. 369 e 376.
[69][69] CUMPETA, Tilgher, cit., p. 51.
[70][70] TILGHER, Diario politico, cit., p. 4.
[71][71] SCALERO L., Pluralità di temi nella filosofia di
Adriano Tilgher in Adriano Tilgher. L'uomo, il pensiero, i luoghi,
l'attualità a cura di LILIANA SCALERO, Cedam, Padova, 1962,
p. 10.
[72][72] LAMI, Introduzione, cit., p. 203.
[73][73] TILGHER A., Il casualismo critico, Bardi, Roma, 1941. Il
cui capitolo dedicato al Tempo ricevette l'elogio del vecchio
Bergson.