FRACCHIA, Umberto

 

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Nacque a Lucca il 5 apr. 1889 da Francesco e da Gemma Scerni. Dal padre piemontese, ufficiale di cavalleria, ereditò il riserbo e lo "scrupolo del lavoratore" mentre dalla madre genovese "l'amore alle dolci evasioni": aspetti, entrambi, che si riverseranno a contraggenio tanto nel suo carattere quanto nella sua scrittura. Visse ad Alessandria sino all'età di sette anni, e quindi a Roma, dove compì studi classici e si laureò in legge.

Unanime il giudizio tra coloro che lo ebbero amico - da A. Frateili a G. Titta Rosa, da A. Gargiulo a G. Ravegnani a G.B. Angioletti - nel sostenere che la conoscenza dell'uomo straordinariamente abbia potuto giovare a quella dell'artista. A scrivere il F. cominciò prestissimo: quando nel 1911 partecipò al primo congresso nazionalista, che si tenne a Firenze, erano già state pubblicate - entrambe intrise d'un dannunzianesimo latente - la raccoltina di novelle Le vergini (Roma 1908) e la parabola sceneggiata La favola dell'innocenza (ibid. 1910), mentre L'Idea nazionale (settimanale) già lo contava tra le sue firme. Tuttavia notevole deve ritenersi, negli anni della giovinezza, la fondazione insieme ad A. Onofri della rivista Lirica.

Nata nei conciliaboli e nelle dispute del caffè Aragno e pubblicata da U. Nalato (celebre poi con lo pseud. Gian Dauli), Lirica "spalancò le finestre a un'aria diversa": sensibile al gusto del "frammento" e alle punte più nuove e avanzate della ricerca poetica, non senza uno sguardo alla Firenze de La Voce, negli otto fascicoli del 1912 e nell'unico del 1913 accolse contributi - tra gli altri - di V. Cardarelli e A. Baldini, G.A. Borgese e G. Vigolo, P.M. Rosso di San Secondo e C. Angelini, preannunziando una stagione qual fu quella della prima metà del Novecento in cui il dibattito sulle riviste avrebbe svolto un compito insostituibile.

Nel 1914 il F. collaborò all'Idea nazionale (quotidiano). Interventista, prestò servizio dapprima in artiglieria, quindi in marina, e venne congedato coi gradi di ufficiale, non senza aver dato alle stampe un trattatello sulla neutralità greca nel corso della grande guerra, Venizeloscontro lo Stato di Atene (ibid. 1917). Subito dopo l'armistizio fu ammesso come redattore de L'Idea nazionale, che, diretta da G. De Frenzi, raccoglieva alcuni nomi di spicco del futuro universo giornalistico-letterario: tra questi basti rammentare Orio Vergani, cui il F. rimase legato da sincera amicizia. Nel 1918 ottenne - insieme con M. Corsi - la direzione artistica della Tespi Film.

Regista di levatura mediocre, al F. si deve - tra il 1919 e il 1920 - la direzione di alcuni lungometraggi: Piccolo harem; La volete sapere la novità? (da un suo soggetto); Labella e la bestia; Indiana (da G. Sand); Sei mia!; La studentessa di Gand; La sonata a Kreutzer (tratto da L. Tolstoj). Due piccoli exempla tratti dalla critica del tempo (rispettivamente su La bella e la bestia e su La sonata a Kreutzer) possono facilmente evidenziare i limiti macroscopici di codeste esperienze: "Anche qui siamo nel regno più o meno pretenzioso e vacuo del simbolo… Così è che questo lavoro della Tespi è, sotto tutti i punti di vista, un disastro" (A. Piccioni, in Apollon, febbr. 1920). "È veramente deplorevole in una terra così feconda di cose buone, vedere come molti dei nostri intellettualisti abbiano sentito il bisogno di cimentarsi così ignaramente in lavori stranieri e peggio ancora il bisogno di appropriarsene senza riguardo alcuno" (Zadig, in La Rivista cinematografica, 10 ag. 1922).

Prima di far ritorno al mondo delle lettere il F., nel 1920, fondò il quindicinale Romanzo Film (sorta di fotoromanzo ante litteram, che pubblicava per immagini il racconto delle pellicole "più acclamate"), affidandone la direzione a L. D'Ambra. Gli è però che, in senso globale, l'esperienza cinematografica e registica del F. - sebbene modesta dal punto di vista dei risultati concreti ottenuti - non deve esser considerata alla stregua d'un insignificante eccentrico interludio, bensì per un verso quale tappa significativa nella formazione del narratore (se è vero che dietro la scrittura talvolta facilmente si indovina - legato al cinema dell'epoca s'intende - il gusto per l'inquadratura o pel movimento di macchina), e per l'altro la testimonianza di un "regista intellettuale" che tentò di "recare un contributo di intelligenza e sensibilità non volgare al "muto" italiano" (Filmlexicon…, Roma 1959, s.v.).

Del F. sono una traduzione de Le pedant joué di S. Cyrano de Bergerac (Il pedante gabbato, Roma 1913) e la stesura di una commedia, Olimpio ovvero La locanda della luna (ibid. 1925; rappr. postuma, San Remo, 14 nov. 1933 [una sola scena pubblicata in L'Italia letteraria, 19 nov. 1933]: "un'invenzione avventurosa di gusto interamente o quasi letterario" d'ambientazione settecentesca, "nient'altro che un'esercitazione", Del Beccaro, p. 213; ma anche De Michelis, p. 53). Tradusse La leggenda di Till Ulenspiegel di Ch. De Coster (Genova 1914) e più tardi anche il Paul et Virginie di P. Bernardin de Saint-Pierre (postumo Milano 1931). Curò una scelta delle Più belle pagine di Vincenzo Monti (Milano 1927); fu inviato in Oriente della Tribuna, critico drammatico e letterario del Secolo e de LoSpettatore italiano; diresse, acquistati appena dalla Mondadori sul principio degli anni '20, Novella e Comoedia, sorta - specialmente il primo - di incunaboli dei moderni rotocalchi di massa.

E proprio quella prima metà degli anni Venti deve ritenersi momento decisivo nella formazione del F.: "… fu la vita del giornale, e i vari stimoli ch'essa provocava, a indicargli che la sua vera vocazione lo portava non tanto verso il giornalismo quotidiano, quanto verso il giornalismo letterario, tipo Les nouvelles littéraires" (Ravegnani, p. 128). Nel far sua l'esperienza e dopo aver collaborato alle riviste promosse dal Frateili nel corso del 1924 (Lo Spettatore italiano e Terza pagina: l'una, condiretta con G. Bottai, arenatasi dopo una dozzina di numeri, l'altra nove "volumetti" a stampa tra il maggio e il settembre), il F. si trasferì l'anno seguente a Milano, dove finalmente poté dar vita al settimanale di scienze lettere ed arti La Fiera letteraria, di cui tenne la direzione fino al 1929 (dal 1927 con G.B. Angioletti), quando, approdata a Roma, divenne L'Italia letteraria. Nel frattempo, dal 1921, era entrato alla Mondadori e, per sua cura, dal 1925 cominciò a uscire l'Almanacco letterario della casa editrice milanese destinato a far epoca. Nel 1921, sempre a Milano, era apparso il suo primo romanzo, Il perduto amore; nel 1923 il secondo, Angela, "che segnò il suo ingresso tra gli autori di Mondadori e al quale arrise un successo notevolissimo confermato da traduzioni in parecchie lingue" (Del Beccaro, p. 205).

Il F. sempre conservò il senso eminentemente etico del giornalismo culturale e una concezione della società letteraria senza "classi", scevra di qualunque elemento pregiudiziale. Mai cessò di adoperarsi per una più capillare diffusione della letteratura contemporanea e, in particolare, per quella generazione di scrittori allora giovani e giovanissimi, accolti sempre "con tutti gli onori, senza umiliazioni, senza tirocinii", che sulle colonne del giornale non solo ebbero modo di pubblicare, ma di superare senza troppe difficoltà la cerchia ristretta dei lettori amici; "… come riceveva tutti gli aspiranti collaboratori senza che mai l'orario delle visite fosse rispettato, così leggeva tutti i manoscritti; rispondeva a tutti gl'ignoti, li consigliava se era costretto a rifiutare i loro scritti, e una buona parola non è mai mancata in fine a ogni sua lettera" (Titta Rosa, in L'Italia letteraria, 14 dic. 1930). La Fiera letteraria, nel raccogliere all'indomani della grande guerra le punte più intelligenti del rinato dibattito culturale, funzionò da tramite tra le esperienze appena trascorse della Voce e della Ronda e le successive Solaria, Circoli, Letteratura, rappresentando il terreno sul quale poterono confrontarsi già noti e celebrati autori quali G.A. Borgese, L. Pirandello, A. Panzini, Grazia Deledda, Ada Negri, S. Di Giacomo ecc., con gli allora scrittori "nuovi": V. Cardarelli e C. Alvaro, A. Baldini e B. Tecchi, C. Malaparte, A. Capasso, A. Soffici, G. Ungaretti, R. Cicognani, U. Saba, C.E. Gadda, R. Bacchelli e molti altri. Tutto ciò ben traspare nell'editoriale programmatico a titolo Esistere nel tempo (si legge nel primo numero della rivista apparso il 13 dic. 1925), dove il F. discorre del compito che deve assolvere un giornale letterario che concorrono a redigere "scrittori di ogni età e tendenza, di fama tanto dissimile, e che questi scrittori stiano insieme non per difesa contro un comune nemico, ma con l'animo pacifico di chi contribuisce volontariamente a un lavoro utile".

Il F. e la Fiera - rammenterà il Ravegnani (p. 134) - "avevano mosso l'aria, allargando l'orizzonte degli interessi letterari: l'uno e l'altra persuadevano a credere, non soltanto nei valori dei singoli, ma soprattutto in quelli collettivi"; e in quella Milano e a quegli anni risalgono la scoperta da parte di due "fieraioli", R. Bacchelli e A. Franci, della trattoria toscana del Pepori in via Bagutta e la nascita, nel 1927, del primo premio letterario italiano (il Bagutta, appunto), assegnato il 14 genn. 1928 "tra canti e luminarie a G.B. Angioletti per il suo volume Il giorno del giudizio" (ibid., p. 141).

Sempre nel 1927 il F. dette vita alla Festa del libro: A. Gramsci, a tal proposito (p. 99), criticamente annoterà: "L'iniziativa in sé non era cattiva e ha dato qualche piccolo risultato: ma la quistione non fu affrontata nel senso che il libro deve diventare intimamente nazionale-popolare per andare al popolo e non solo "materialmente"". Anche a voler far salva l'osservazione tal quale, va tuttavia riconosciuta al F., e in questo ingiusta pare invero l'accusa di "conformismo", quel senso di apostolato delle lettere che in lui fu sempre vivissimo.

Nel 1925 erano frattanto apparsi i racconti di Piccola gente di città, e di piccoli "vinti" si tratta, prossimi al Dostoevskij più che al Verga e sospesi - come la massima parte dei personaggi del F. - tra dolore e purificazione, amarezza e pietà. Sul finire del 1927 il F. fu corrispondente da Parigi per il Corriere della sera, ma per breve tempo. Sempre più frequentemente, negli ultimi anni, tra l'estate e l'autunno avanzato, volentieri sostò nella casa materna di Bargone (nell'entroterra di Sestri Levante) alla ricerca di tranquillità per scrivere. Nascono qui - tra il 1928 e il '30 - quegli elzeviri per il Corriere che poi saranno raccolti in Gente e scene di campagna (postumo, Milano 1931), ma anche l'ultimo suo romanzo - La Stella del Nord - (ibid. 1930).

Lettore curioso e onnivoro (per le fonti si vedano gli ampi riferimenti del De Michelis: pp. 39 s., 48, 57 ss. e passim), in ambito narrativo il F. scelse di ignorare le punte più avanzate dello sperimentalismo e dell'innovazione principio di secolo, tenendo saldo il riferimento al grande romanzo ottocentesco, italiano e straniero. Difficile come non mai - anche a causa della prematura scomparsa - sostenere riguardo all'arte del F. se di evoluzione o involuzione si sia nel corso degli anni trattato; tra chi, come E. Cecchi ritiene che la massima espressione raggiunta sia quella dell'Angela (o più in generale del romanziere tout court: De Michelis) e chi, come E. Ragni, di quel romanzo sottolineando gli squilibri, individua nel posteriore Gente e scene di campagna un nuovo traguardo dello scrittore e una diversa maturità nel fondere quegli elementi - "fantastico" e "realistico" o, sempre nell'accezione del De Michelis, "pathos" e "giuoco letterario" - che costituiscono indubbiamente i due poli della sua narrativa. Scrittore irreale e insieme realistico, dunque: "favolista triste" - lo definì J. Busoni - concordemente a quanti, numerosi, han voluto vedere nell'arte del F. la tematizzazione di un realismo amarognolo (di "desolazione tranquilla", "smemoramento triste" parlerà il Momigliano), percorso però di una venatura fiabesca. Certo è che s'indovina una disposizione che si direbbe spontaneamente "crepuscolare", sebbene non gravata di malinconia soverchia: una tendenza a situarsi sul versante più prossimo alle cose, ora con pienezza solare o sorvegliato lirico abbandono (come, ad esempio, in Gente e scene di campagna; compiere insomma il giro del mondo passeggiando intorno al proprio giardino), ora servendosi invece dell'ampia livida tavolozza dei grigi. A motivi "patetici, fiabeschi, letterari, scherzosi" può ricondursi l'altro libro postumo del F., Fogli di diario (Milano 1938), nato sulla scorta d'una trasferta giornalistica in Portogallo.

Nel 1949, per cura di G.B. Angioletti, un "omnibus" mondadoriano - Romanzi e racconti - lo celebrò raccogliendo l'intera sua produzione in prosa.

Morì a Roma il 5 dic. 1930. Subito dopo la morte del F., che ne era stato l'ideatore, si decise di intitolare il "Premio Fiera letteraria" alla sua memoria. L'assegnazione (vinse A. Capasso) avvenne la sera del 10 genn. 1931.