Silvio Spaventa

 

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Patriota e uomo politico italiano (Bomba 1822 - Roma 1893), fratello di Bertrando. Per la sua attività antiborbonica fu condannato a morte, pena tramutata nel 1852 in ergastolo e nel 1859 in esilio perpetuo. Dopo l'unità d'Italia fu deputato (1861-89), consigliere di Stato e ministro dei Lavori pubblici.

Ispirandosi a Hegel, S. vide nello Stato l'organo supremo destinato a impersonare la coscienza direttiva della nazione.

Vita e attività

Si trasferì a Napoli (1843) per studiare diritto, ma si occupò principalmente di filosofia, seguì le lezioni di P. Galluppi e di O. Colecchi, aprì (1846) con Bertrando una scuola privata di filosofia che fu soppressa dalla polizia (1847). Deputato al parlamento napoletano, e fondatore del Nazionale (1848), propugnò la partecipazione di Napoli alla guerra d'indipendenza.

Non prese parte alla giornata del 15 maggio, ma fondò con L. Settembrini, C. Braico e F. Agresti la setta dell'Unità italiana, allo scopo di cacciare i Borboni e di diffondere l'idea unitaria. Arrestato (1849), dopo un lungo processo fu condannato a morte, ma, commutatagli la pena nell'ergastolo (1852), fu relegato nell'isola di S. Stefano, dove rimase per circa 6 anni, che furono per lui di fervida attività intellettuale.

Commutatagli la pena (1859) nell'esilio perpetuo, fu imbarcato con altri alla volta dell'America, ma riuscì con i suoi compagni a farsi sbarcare in Irlanda, e si recò prima a Londra poi a Torino. Tornato a Napoli (1860), si adoperò perché la rivoluzione si compisse nel continente in nome di Vittorio Emanuele, prima dell'arrivo di Garibaldi. Ministro di polizia della Luogotenenza napoletana, condusse una guerra a fondo contro la camorra.

Deputato (1861-89), fu segretario generale al ministero dell'Interno nel gabinetto Farini-Minghetti; a lui fu fatta risalire la maggiore responsabilità della sanguinosa repressione delle dimostrazioni torinesi contro la Convenzione di settembre (1864). Consigliere di stato (1868), ministro dei Lavori pubblici (1873), legò il suo nome a una serie di convenzioni per il riscatto e il passaggio allo stato di importanti linee ferroviarie, ma la sua proposta di adottare l'esercizio di stato urtò contro la resistenza del gruppo dei moderati toscani, che si staccò dalla maggioranza, provocando la caduta della Destra (1876). Dal 1889 senatore del regno, lo stesso anno fu nominato presidente della IV sezione del Consiglio di stato, da lui stesso auspicata, come organo della giustizia amministrativa.

Temperamento di giurista, ma con vigoroso abito filosofico del pensare, pose al centro della sua dottrina politica il concetto hegeliano dello stato, concepito come organo supremo destinato a impersonare la coscienza direttiva della nazione e a guidarla ai fini più alti dell'umanità. Da questo deriva un certo suo autoritarismo, ma anche la vigorosa esigenza di un efficiente sistema parlamentare fondato sui due partiti classici e la richiesta di una netta distinzione fra politica e attività amministrativa dello stato.

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A cura di Andrea Pili

Vita

Nacque a Bomba, nei pressi di Chieti, il 10 maggio 1822 da un’agiata famiglia abruzzese; fratello minore di Bertrando e figlio di Eustachio e Marianna Croce la cui famiglia era la stessa del filosofo Benedetto. Dopo aver ricevuto la prima educazione a casa, nel 1836 prosegue gli studi nel seminario di Chieti e poi in quello di Montecassino dove insegnava suo fratello. Nel 1843 giunse a Napoli e fece da precettore ai suoi cugini, figli di Benedetto Croce nonno dell’omonimo pensatore.

Nella capitale del Regno delle Due Sicilie viene a contatto con gli ambienti liberali ed introdotto al pensiero di Hegel. Il Regno era allora dominato del potere dispotico di Ferdinando II di Borbone che non vede di buon occhio l’orientamento politico liberale. Così il filosofo abruzzese è costretto a lasciare Napoli per dirigersi in Toscana, a Firenze, dove frequenta i circoli dei moderati.

Intanto, Re Ferdinando si decise a concedere la Costituzione suscitando le speranze di Spaventa che tornò a Napoli nel febbraio 1848 e fondò il quotidiano Il Nazionale il cui primo numero uscì il 1° marzo dello stesso anno. Il quotidiano divenne il punto di riferimento principale per la borghesia liberale ma trovò una grande stima anche tra i conservatori ed i filoborbonici.

Inoltre, fu eletto deputato e si impegnò per far partecipare le truppe del regno borbonico alla prima guerra d’Indipendenza. La sua dedizione alla causa fu inizialmente premiata dal Re, che inviò le sue truppe comandate da Guglielmo Pepe in appoggio al Regno di Sardegna contro l’Austria.

Tuttavia, le opinioni di Ferdinando cambiarono molto presto ed il 15 maggio effettuerà il suo ignominioso colpo di stato: revoca la Costituzione concessa poco prima e fa bombardare Napoli per fiaccare una possibile rivolta. La guerra, però, continua e Pepe combatte strenuamente per difendere Venezia ma a Napoli è sostenuto solo da Spaventa e non più dalla corte.

A causa di questo suo appoggio venne arrestato il 15 maggio 1849 e rinchiuso nel carcere di San Francesco; sottoposto a processo, l’8 ottobre 1852 fu condannato a morte per impiccagione con l’accusa di cospirazione alla sicurezza interna dello Stato. La pena fu commutata in ergastolo e per sei anni il filosofo rimase nel carcere di Santo Stefano, dedicandosi agli studi politici e filosofici.

L’11 gennaio 1859 la sua pena viene ulteriormente rivista e trasformata in esilio perpetuo. Il piroscafo Stewart avrebbe dovuto condurre in America 69 prigionieri politici tra cui il nostro Spaventa; grazie però ad un ammutinamento organizzato da un ufficiale della marina britannica la nave giunse in Irlanda. Da qui il pensatore raggiunse Londra e poi Torino, in cui fece un fondamentale incontro con Cavour diventando uno dei più grandi fautori della sua politica.

Dedito alla causa dell’Unità d’Italia, nel luglio 1860 viene inviato a Napoli per preparare il meridione all’annessione al Regno di Sardegna, cercando di fare prima di Garibaldi che con i suoi Mille è diretto verso la capitale del Regno borbonico ora comandato dall’inetto Francesco.

L’eroe dei due Mondi autoproclamatosi dittatore supera il filosofo ed in settembre lo espelle; Spaventa ritorna a Napoli un mese dopo per assumere la carica di Ministro della Polizia impegnandosi da novembre al luglio 1861 per fronteggiare la difficile situazione napoletana.

Nel neonato Regno d’Italia assunse molte cariche politiche a partire dalla lunga permanenza da deputato (dal 1861 al 1889) tra le file della Destra storica. Fu inoltre sottosegretario all’Interno (1862-64), consigliere di Stato (1868) e ministro dei Lavori Pubblici (1873-1876). Nel 1889 viene nominato Senatore del Regno.

Tra il suo operato politico spicca la strenua difesa della sicurezza interna dello Stato culminata nella repressione del brigantaggio meridionale e delle manifestazioni torinesi in protesta con lo spostamento della capitale a Firenze. Come consigliere di Stato divenne celebre il suo discorso sulla giustizia nell’amministrazione pronunciato il 6 maggio 1880. In qualità di ministro dei Lavori Pubblici provocò la caduta della Destra storica (1876) dopo il suo progetto di nazionalizzazione delle ferrovie.

Dopo il terremoto di Casamicciola (1883), diede ospitalità al giovane Benedetto Croce rimasto orfano, nella sua casa romana in via della Missione, oggi sede dei gruppi parlamentari della camera dei deputati.

Morì a Roma il 23 giugno 1893, gli furono riservati degni funerali di Stato e la sua salma è sepolta nel cimitero del Verano.

Pensiero

L’impegno politico di Silvio Spaventa nelle file della Destra non deve trarci in inganno nel considerarlo solo un politico o un giurista e non un filosofo. Infatti, fu anche un filosofo nonostante la politica ed il problema dello Stato e della giustizia sia in lui centrale. Per Spaventa la filosofia non è inutile contemplazione ma comprensione dell’utile pratica quotidiana sino ad arrivare alle origini di questa nella coscienza della storia; dunque la filosofia assume il ruolo di investigatore delle azioni che fanno la realtà. Spaventa era un idealista ed un liberale; solo nello Stato infatti si può attuare la soluzione liberale.

Idealismo

Il pensiero di Hegel fu importante per la sua formazione soprattutto negli anni napoletani, in cui dirigeva il quotidiano “Nazionale” e si dedicò allo studio del pensatore di Stoccarda di cui Bertrando fu storico interprete. Per il pensatore l’ “idealismo” è opposto ad un piatto materialismo ma è realista: concepisce l’uomo come «una dolente e potente creatura che vive di pane ed è materia, vive di idea ed è spirito».

Il primo problema che Spaventa si pone è quello della storia: tra la storia razionale hegeliana ovvero lo svolgimento necessario e la rivoluzione dogmatica o il mutamento improvviso. Se la storia è “ragione tutta spiegata” come nasce l’atto rivoluzionario e che diritto ha l’uomo di cambiare la storia? Il pensatore abruzzese risolve la questione con l’immanenza con cui lo spirito vive nell’individuo e la società nel cittadino, come la coscienza di un valore universale storico e civile in continua formazione. Non si tratta della scoperta dell’infinito che è la Società ma della piena consapevolezza di esso; per questo lo Stato non è più la verità dell’individuo come esterno da questo ma la verità della sua libertà.

È comprensibile a tutti quanto la sua visione della storia non sia tanto dissimile da quella di Hegel e della sua dialettica. Silvio Spaventa però ci mette del suo legando questa concezione al Diritto, da buon giurista. La libertà non è esterna alla legge ma una sintesi di arbitrio e volontà legale il cui risultato è il principio dello Stato.

 Stato

Il compito che Spaventa si diede fu quello di porre lo Stato in una posizione centrale nello spirito, senza nessuna trascendenza; per far questo era necessario formare il liberalismo superando il pensiero di Hegel e quello di Gioberti. Lo Stato non è per lui in contrasto con la libertà particolare, anzi, lo Stato rappresenta la perfezione della libertà del singolo che si fa Stato in quanto giunge a diventare l’autocoscienza della propria ragione. Quindi lo Stato si fa nazionale in quanto è concreto, determinato e storico, per cui non vi può essere trascendenza.

Lo Stato non può estendere senza confini la propria libertà: è il prodotto di un’elaborazione eterogenea, per questo è impossibile negare l’individualità e la volontà dei singoli individui nell’universale. Le individualità si muovono all’interno dello Stato e per lo Stato che dunque non può annullarle se non vuole minare la propria base- “come l’albero ha bisogno della propria radice come nutrimento della propria vita”- e se non vuole rischiare il ritorno ad un’epoca di degrado. Infatti, la volontà soggettiva è necessaria per il progresso della libertà e della legge e ne costituisce la forma primaria su cui si sviluppa quella perfetta della organizzazione statale.

Sulla base di queste teorie il filosofo legittima il regime rappresentativo in cui può esprimersi l’iniziativa particolare e giustifica l’esistenza dei valori politici locali quali il municipio, la provincia o la regione.

Allo stesso modo è assurda la negazione della statalità da parte degli elementi particolari. Quando si nega lo Stato si vuole allora affermarne un altro ed è questo l’atto rivoluzionario che si presenta come il nuovo che vuole abbattere l’antico. Tuttavia, quasi sempre la rivoluzione è figlia dello stesso regime che si vuole abbattere, inserito in un campo più vasto di giudizio.

Lo Stato spaventiano doveva essere: monarchico, laico e neutrale. Monarchico perché deve unificare democrazia ed aristocrazia, libertà ed autorità, governo rappresentativo e potere sovrano; solo la monarchia costituzionale sembra capace di far ciò.

Laico perché ha già in se stesso il divino e dunque una propria religione; questo concetto sta al centro della sua spiritualità anticlericale: la coscienza dell’infinito in cui si attua lo Stato- infinità temporale- esclude e supera ogni altra infinità e non può piegarsi a nessuna di queste. Era sua idea il fatto che un rinnovamento politico porti inevitabilmente anche un rinnovamento religioso; infatti, lo Stato nuovo crea già in sé la sua Chiesa: questa è la forma degli stati moderni colpiti dal protestantesimo. Spaventa non riesce a ben definire la sua laicità: si ferma ad un compromesso tra la statolatria e il riconoscimento di due libertà autonome: una della Chiesa e l’altra dello Stato.

Infine lo Stato deve essere neutrale ma non nel senso di indifferenza bensì nel senso di amministrazione al di sopra delle classi. Questo, per Spaventa, deve essere il compito della politica e perciò chi amministra l’interesse pubblico assume un valore. Il filosofo di  Bomba così definisce il suo Stato neutrale: lo “ Stato nasce come eguaglianza di tutte le classi nell’obiettività della legge, neutralità della sua azione, nella obiettività degli interessi”. Inoltre, la giustizia in uno Stato neutrale non deve essere intesa come mera tutela degli interessi individuali ma come comprensione degli interessi vitali e totali della società. Lo Stato non è il diritto contro l’individuo così come il cittadino non può essere l’individuo contro il diritto, bensì lo Stato è la coscienza del diritto e della giustizia che si attua nel cittadino ed è questa la forma della storia nazionale che assume i valori singoli senza annullarli. Sulla base di questo delinea il suo Stato di diritto in due sensi: la collettività per i suoi membri ed i membri per la propria comunità.

Per poter affermare il proprio divenire lo Stato non può rompere i legami con il passato ma neanche deve rifuggire dalla utopia. Ancora ritorna la dialettica hegeliana in cui ogni cosa si afferma (passato), si nega (utopia) e si supera (Stato).

 Liberalismo

Spaventa fu un grande liberale e giornalista esemplare. Il suo era un liberalismo particolare, quel “liberalismo italiano” tanto decantato dal grande Giovanni Gentile secondo cui il pensatore abruzzese direbbe ai liberali del novecento che hanno smarrito il senso dello Stato.

Infatti, vuole distanziarsi sia dal liberalismo anglosassone che dalla democrazia di sinistra; non ammetteva l’introduzione di valori economici nella politica liberale come divenne purtroppo tipico nella Destra “degenere”. Poiché in questa visuale economica del governo liberale, una classe non accetta più di essere uguale nella legge ma vuole anche modificare lo Stato secondo le sue concezioni del bene pubblico.

Come grande giornalista, Spaventa si impegnò per una stampa libera e da uomo politico ebbe sempre un occhio di riguardo per i giornalisti. La sua casa romana era luogo d’incontro per molti giornalisti e lui fu sicuramente il politico dell’epoca con maggiori contatti con loro.

La sua attività giornalistica iniziò a Napoli durante il 1848 come direttore del Nazionale, il giornale durò molto poco (sessantasei numeri in tutto) ma a causa della sua ispirazione liberale gli costò dieci anni di carcere. Esule a Firenze collaborò con la Nazione prima che il suo impegno politico prendesse il sopravvento.

Le sue idee sulla stampa sono tuttora attualissime e fu lungimirante quando, passata un’epoca in cui i giornali non si facevano rabbiosa concorrenza tra loro, affermò che si sarebbe corso il rischio di compromettere l’indipendenza della stampa. Infatti, questa, per potersi finanziare, si stava esponendo troppo all’influenza del potere politico ed economico.

La stampa deve anche avere una certa morale, poiché è essenziale il suo ruolo in un sistema politico democratico. Compito dei giornali, per lui, è quello di giudicare gli atti della politica e mettere così i cittadini nella situazione di potersi opporre a leggi autoritarie. Ciò non è in contraddizione con la sua idea di Stato forte dato che, come già abbiamo visto, questo doveva saper coniugare libertà ed autorità e quindi non era uno Stato autoritario. La morale della stampa doveva anche essere patriottica e badare agli interessi e alla dignità del proprio Paese; dunque, doveva fare a meno di pubblicare certe indiscrezioni sulla politica estera o sulla sicurezza interna soltanto per poter vendere più copie.

 Spaventa oggi

Analizzando la sua esemplare figura, si rimane scoraggiati e ci si accorge di quanto il nostro paese abbia purtroppo dimenticato Silvio Spaventa. La cosiddetta Destra odierna sembra averlo cancellato per inseguire il liberalismo anglosassone tutto su valori economici (vedi Forza Italia); i giornalisti d’oggi sembrano aver dimenticato il suo impegno per una stampa libera, morale ed indipendente e ci appaiono - salvo alcune eccezioni - sempre più servi di questo o quel politico o di questo o quello imprenditore e sempre attenti a vendere copie più di un quotidiano concorrente che ad offrire un reale servizio al paese ed ai suoi cittadini; i liberali italiani non lo citano mai preferendogli qualche figura anglosassone o anglicizzata.

Infine si vuole negare e ripudiare lo Stato etico di Spaventa o Gentile affermando erroneamente che questi avrebbe legami con il totalitarismo. Sappiamo bene invece che ben diverse furono le intenzioni dell’idealista abruzzese e ben pochi o nulli i suoi legami con l’autoritarismo.

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Vincenzo Riccio


Prefazione
ai
DISCORSI PARLAMENTARI di SILVIO SPAVENTA PUBBLICATI PER DELIBERAZIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
ROMA
TIPOGRAFIA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
 I913

Silvio Spaventa entrò nella Camera nel 1861, in quella ottava legislatura che segnò il passaggio dal Parlamento subalpino all'italiano. Fu eletto nei collegi di Atessa e di Vasto, in provincia di Chieti, e nell'undecimo collegio di Napoli (Pendino), nel quale vinse in ballottaggio Don Liborio Romano, Optò per Vasto, lasciando al fratello diletto Bertrando il collegio di Atessa. Nella legislatura seguente riuscì ad Atessa ed a Montecorvino in provincia di Salerno. Optò per il collegio di Atessa, del quale faceva, e fa, parte il paese nativo. Bomba, e rimase deputato di Atessa fino al 1876, quando, fatto oggetto di aspra lotta in quelle elezioni generali nelle quali caddero gli uomini più autorevoli della Destra, perdette il collegio.

Stette fuori della Camera solo pochi mesi, perchè nel 1877 fu eletto nel collegio di Bergamo, vacante per l'annullamento dell' elezione dell' onorevole Tasca, e rimase deputato di Bergamo anche a scrutinio di lista, quantunque Atessa nel 1880 lo avesse rieletto, e quantunque nel 1882, a scrutinio di lista, gli elettori del secondo collegio di Chieti, del quale Atessa faceva parte, avessero raccolto su lui i loro suffragi, facendolo riuscire primo nella lista.

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Benedetto Croce ha narrato con grande diligenza di particolari, con una serie copiosa di documenti inediti e con serena imparzialità, la vita di Silvio Spaventa anteriore alla sua entrata nel Parlamento italiano; né è il caso di ripeterla qui, né in breve si potrebbe. Nelle sue linee generali, essa è conosciuta dagli italiani. Giovine ed ardente professore di filosofia a Napoli, fondatore e direttore del giornale Il Nazionale nel 1848, deputato al Parlamento napoletano, coraggioso scrittore anche dopo i fatti di sangue del 1 5 maggio di quell'anno, fondatore della Società dell' Unità Italiana, con Settembrini, con Braico, con Luigi Agresti e con altri, egli, fin da quegli anni, fu uno dei convinti sostenitori della politica di Casa Savoia, quale punto di rannodamento per r indipendenza ed unificazione d' Italia.

Sarebbe opportuno raccogliere e pubblicare integralmente i discorsi pronunziati da lui nel Parlamento napoletano, improntati a grande fierezza, a coraggio meraviglioso, a continuità di criterio politico. Parve esaltato e violento, ed in realtà violento fu contro i Borboni, desiderando fin d'allora l'unità italiana con a capo la Casa di Savoia. Nel 1882, ringraziando gli elettori del secondo collegio di Chieti, che, come ho detto, lo avevano eletto deputato, egli ricordò le antiche sue idee del 1848:

Io sono orgoglioso dei vostri suffragi. Vi ha non pochi tra voi, che mi diedero il loro voto ben dodici volte dal 1848 sino ad oggi; da quando, cioè, io vi era designato dalla stampa borbonica come uno dei quattro Albertisti della Camera napolitana (con quel nome si voleva allora indicare un partigiano della monarchia unitaria sotto la Casa di Savoia).

In realtà nel 1848 a Napoli i più arditi arrivavano ad una federazione fra i vari Stati italiani. I pochi unitari erano repubblicani. Nessuno pensava all'unità italiana con Casa di Savoia. Spaventa era un solitario, ma risoluto, convinto, entusiasta. Gli articoli suoi sul Nazionale, coraggiosissimi, esprimevano apertamente la convinzione sua della necessità dell'unità nazionale, la fede sicura che presto sarebbe stata raggiunta.

Il 18 aprile 1848 scriveva:

Con la nostra rivoluzione noi ci siamo fatti un inganno, ma il risultato di questo inganno è positivo e grande: lo Stato che noi cercavamo non esiste nella coscienza napoletana, sibbene in un dominio più vasto, più sostanziale, nella coscienza italiana. Dello Stato qui non c' è che la forma: lo spirito è in Italia tutta. Nel carattere particolare e finito che ebbero già gli Stati italiani, ogni individuo, che cercava in essi la sua personalità, obbliava un principio più elevato. Gli Stati particolari italiani non potevano presentare questa suprema soddisfazione della vera personalità: i grandi uomini, come Dante, Machiavelli ed Alfieri, disprezzarono queste morte reliquie. La vera personalità d'uomo nato in qualunque canto d'Italia non può raggiungere la sua perfezione che nella personalità Italiana.

E tre giorni dopo, il 21 aprile 1848, scriveva questo articolo pieno di fede e di entusiasmo:

Altri Crociati napoletani partono oggi per Lombardia, la terra santa della libertà italiana. Dio lo vuole. Dio lo vuole. La grande anima d'Italia è risorta e si è assisa di nuovo in Roma alla destra di Dio. Il corpo prezioso di lei è ancora in mano degl'Infedeli; i quali ce ne disputano il possesso, ma invano. Fu il Papato che sacrificò l'Italia per la liberazione del mondo dalla barbarie, onde convertirla a civiltà. L'Italia bevve tutto il calice dell'amarezza della servitù, e spirò sulla croce austriaca: i satelliti dell'Austria se ne divisero le spoglie coi dadi della diplomazia, i trattati. Finalmente è giunto il giorno della sua risurrezione. Fra poco l'Italia tornerà ad essere un grande Stato nel mondo. Allora sì che il dire: Io sono Italiano, sarà un'infinita soddisfazione per qualunque ebbe i natali su questa non mai abbastanza lodata e compianta terra. Anche oggi c'è grato e glorioso pronunciare questa divina parola: sono Italiano; infamia incancellabile su chi rinnega questo nome. Ma chi si sente già pari all'idea che esso esprime? Nessuno. Colpa non nostra. Sarà nostro vanto, se fra breve potremo rispondere: Tutti.

Dopo il 15 maggio 1848, il Nazionale, naturalmente, dovette sospendere le sue pubblicazioni. Ma Spaventa tratto tratto ne faceva uscire qualche numero, continuando la coraggiosa campagna contro i Borboni ed in favore dell'unità. Le pubblicazioni si alternavano con le sospensioni e con i sequestri. Gli scritti attiravano sul capo dell'ardito scrittore polemiche, minacce, aggressioni. Nel 5 giugno 1848, all'annunzio della battaglia di Goito, il Nazionale pubblicò un articolo che è un grido di gioia, un inno a Carlo Alberto ed al Piemonte, un' imprecazione contro Ferdinando II:

Il Nazionale si tacque dal giorno 15 maggio, giorno di rovina e di lutto abborrito ed orribile. Il Nazionale rialza oggi la sua voce, giorno d'allegrezza e di vittoria per l'Italia. Esso risorge come l'ombra di Banquo per rinfacciare il sangue sparso degl'innocenti, ed al pari della strega di Shakespeare, annunzia l'approssimarsi della foresta allegorica e la vittoria delle legioni vindicatrici. Noi dunque rompiamo il nostro silenzio per il desiderio e la gioia d'annunziare un fatto di gloria e di grandezza italiana, il quale ci fa certi che non andrà guari ed i nemici nostri dovranno scontare il fio della loro temerità nel fare il male dell'Italia. Le nostre sventure sono compensate in gran parte da' fatti eroici di Carlo Alberto, di questo re italiano di stirpe e d'animo, che solo rappresenta e compie su' campi di Lombardia i voti, i desideri, e le speranze di tanti italiani.

Con questi sentimenti, si comprende l'azione di lui nel Parlamento napoletano. Seduto alla sinistra estrema, fu il partigiano delle proposte più ardite. Così lo vediamo difendere la necessità di una severa responsabilità ministeriale, sostenere la più ampia libertà di stampa. Il 24 agosto 1848 annunziò un'interpellanza sul fatto che il Re non aveva ancora ricevuto la Commissione parlamentare apportatrice dell'indirizzo di risposta al discorso della Corona:

Presidente. Passiamo all'ordine del giorno: Rapporto sulla legge della Guardia nazionale. Favorisca alla tribuna il relatore.

Spaventa. Io domando la parola.

Presidente. Se vorreste farmi il favore di serbarla per dopo che sarà esaurito l'ordine del giorno...

Spaventa. Signor Presidente, prima che si cominci l'ordine del giorno è necessario che io l'abbia.

Presidente. Lo credete importante?

Spaventa. Ho domandato la parola a solo fine di annunziare che io voglio fare una interpellazione al Ministero; perciò vorrei che fosse invitato a recarsi in questo recinto alla prossima seduta per rispondere. Intanto conformandomi all'uso stabilito da quest'Assemblea, io dichiaro anticipatamente l'oggetto della mia interpellazione. Sono venti giorni, o signori, che questa Camera votava un indirizzo di risposta al discorso della Corona, ed eleggeva al tempo stesso una deputazione incaricata di recarlo a chi andava diretto; sono venti giorni, e questa deputazione non è stata ricevuta. Signori, questo è un fatto grave, troppo grave, ed io intendo domandare al Ministero se egli prende sopra di sé scientemente la responsabilità di un procedere così sconvenevole ed incostituzionale.

Dopo la relazione dell'onorevole Imbriani sulla guardia nazionale, la questione della interpellanza Spaventa fu ripigliata in quella seduta. Vari deputati consigliarono calma e prudenza. Erano freschi i ricordi del 15 maggio, del sangue sparso per i dissensi fra Re e Camera. Spaventa mantenne il diritto suo:

Io mi credo nel diritto di fare qualunque interpellazione senza che la Camera debba antecedentemente deliberare se io abbia no questo diritto.

La questione si inasprì. Molti deputati volevano parlare contemporaneamente. Pisanelli fece appello alla concordia: La Camera ha dato esempio di fortezza e di concordia civile sapientissima; la Camera non si smarrisca, non si divaghi da questa via; si sposino le irrequiete ansie ai temperati consigli, e così una ed indipendente sarà la voce di questa Camera, come una ed indipendente io credo che sia la voce di ciascun deputato.

Ma Spaventa insistette sul diritto suo di interpellare, e solo quando la Camera si accinse a votare il passaggio all'ordine del giorno, quando egli si accorse che la maggioranza gli avrebbe impedito di svolgere la sua interpellanza, la ritirò, accogliendo l'invito di Poerio, per non vulnerare un principio sacro.

Pochi giorni dopo, la sessione era prorogata fino al 30 novembre, ed alla proroga ne seguiva un'altra fino al 1° febbraio 1849. Spaventa, che in quelle forzate vacanze aveva, fatto un giro per l'Italia a Roma, a Torino, a Pisa si trovò al suo posto alla ripresa dei lavori parlamentari, più vivace, più risoluto del solito, presentatore di interpellanze più violente contro il Governo. Il 12 marzo 1849, a proposito di una proposta di legge elettorale definitiva, accusò il Governo di preparare illegalità elettorali e di non avere scrupoli morali. Il 13 marzo la Camera era sciolta, e per sempre. Il 19 marzo Silvio Spaventa era arrestato. Processato, condannato a morte, portato due volte in confortatorio per l'esecuzione della condanna, ebbe commutata la pena in quella dell'ergastolo. Sereno sempre, ascoltò con calma la condanna di morte e con uguale calma la commutazione.

Mirabile per logica e per vigore è la difesa che egli pronunziò innanzi la Gran Corte Speciale:

«Io attenderò il vostro pronunciato con sicura e tranquilla coscienza; con coscienza certamente più imperturbata di quella con cui il mio accusatore chiede la mia morte: minori tamen timore, quam ille sententiam in me fert».

È stata pubblicata la lettera che egli scrisse al fratello il 19 ottobre 1852, vigilia della partenza per l'ergastolo, come sono state pubblicate parecchie delle altre lettere che mandò da Santo Stefano, ammirevoli tutte per serenità, per calma tranquilla, per acume e profondità di pensiero.

In quei lunghi anni di ergastolo coltivò la mente con studi profondi di filosofia, di storia, di diritto. Mai dalle sue labbra uscì parola di ira, di disperazione, di sconforto. Quel l'uomo austero e forte scriveva al fratello intorno agli studi filosofici di Germania, come se fosse in una comoda stanza di studio e non in un ergastolo. Non si può comprendere con esatta misura la superiorità dell'animo di Silvio Spaventa se non si leggono le lettere, gli appunti, le meditazioni scritte da lui negli anni passati in ergastolo. Né questa superiorità compresero quanti nei primi anni di vita nazionale si trovarono in rapporto con l'uomo politico. Egli schivò sempre non che di vantarsi, di parlare di quanto aveva fatto per il suo paese. A chi gliene domandava, rispondeva vagamente, in modo distratto, procurando di cambiar discorso. Fatto segno ad attacchi ingiusti e violenti, mai mise avanti il suo glorioso passato patriottico. Nel Parlamento italiano raramente vi accennò, e sempre incidentalmente, di sfuggita.

Nel 1879, in una discussione su di un omnibus ferroviario, raccomandando una linea che giovava alla provincia di Bergamo, dove egli aveva trovato un collegio dopo di aver perduto quello di Atessa, disse:

... Io, dal canto mio, vi confesso che sento altissimamente gli interessi che la provincia di Bergamo ha impegnato in questa questione... La mia vita politica è oramai lunga e non è stata interrotta che due volte. Una volta veramente l'interruzione fu un po' lunga; fu per opera dei Borboni; e finì nel 1859 con la liberazione generale d'Italia; un'altra volta avvenne nel 187 6 ed io devo alla provincia di Bergamo se io siedo in mezzo a voi. Ma non è dalla riconoscenza che io ho tratto l'intiera persuasione della bontà della causa...

Così per Silvio Spaventa la condanna a morte ed il lungo e terribile ergastolo non rappresentavano che un' interruzione, una soluzione nella continuità della sua vita pubblica, dal Parlamento napoletano all'italiano: una interruzione soltanto più lunga dì quella prodotta dalla perdita del collegio di Atessa. La condanna di morte e l'ergastolo erano considerati con lo stesso criterio di una disgrazia elettorale.

Nella seduta del 16 dicembre 1881, rispondendo all'on. Pierantoni, disse:

L'on. Pierantoni ha finito il discorso dicendo che vi sono di quelli che inventano i tiranni per darsi il merito di salvatori della patria. Io, onorevole Pierantoni, ho combattuto dei tiranni veri. {Benissimo!) Ho sofferto e non me ne sono mai vantato, e forse è la prima volta in questa Camera che io lo ricordo. {Benissimo! Bravo!) Ma, o signori, se ci sono di quelli che, come dice l'onorevole Pierantoni, inventano i tiranni per vantarsi di aver salvato la patria, ci sono anche di quelli che, senza aver fatto nulla per la patria, se ne vantano sempre, {Benissimo!)

Fu quella forse la sola volta nella quale parlò alla Camera della lotta gloriosa contro i Borboni, né mai consentì che altri in presenza sua ne parlasse.

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E stato lungamente narrato il modo audace, romanzesco, con cui quei condannati politici, mandati nel 1859 da Ferdinando II a Cadice per proseguire per l'America, obbligarono il capitano a far rotta per la Gran Bretagna. Sbarcarono a Cork in Irlanda. Ebbero a Londra accoglienze entusiastiche: un trionfo. Spaventa tornò presto in Italia, ricominciando risolutamente la vita di giornalista politico. Scrisse sul Risorgimento, sulla Perseveranza, sulla Nazione, fondata nel luglio 1859 da Alessandro D'Ancona, e nella quale collaboravano chiarissimi uomini di ogni parte d'Italia. Spaventa aveva 150 lire al mese. Doveva scrivere due articoli la settimana, ma ne pubblicò in tutto ventisette fino al 14 marzo 1860.

Poiché quelli erano tempi più che di scrivere, di operare, ed a lui, uomo attivo ed impaziente, crucciava di doversi trovar lontano da Napoli, dove maturavano gli avvenimenti che dovevano condurre all'unità della patria. Infine andò a Napoli nel luglio 1860, sdegnando i consigli prudenti di amici e parenti. Voleva fondare un giornale che sostenesse l'immediata unione con il Piemonte, partecipò attivamente al Comitato dell' Ordine, e quando Garibaldi entrò a Napoli, fu tra i promotori di un indirizzo a Vittorio Emanuele per invitarlo a venire nel Regno al più presto.

La sua natura risoluta e tenace lo rendeva impaziente di ogni indugio, disposto a sfidare chiunque ritardasse l'attuazione dell'opera. Garibaldi, in un burrascoso colloquio che ebbe con lui a Caserta, lo invitò a lasciare il Regno di Napoli. Ricoverò di nuovo a Torino. Di là scriveva al fratello:

Torino, 29 settembre 1860,

Mio caro Bertrando, Che cosa dirai tu a sentire che sono qui? Sono giunto alle due, venendo da Napoli direttamente a Genova con un vapore dello Stato: ho lasciato Napoli la notte dei 26. Come e perchè son partito sarebbe lungo a dire: è una storia di due mesi e più, che si compendia in questo fatto. Il generale Garibaldi mi ha pregato ad allontanarmi dal Regno: ecco tutto. Leggerai forse nei giornali i particolari. Per ora io mi restringo ad annunciarti la cosa, prima che ti venga dai giornali, e a dirti che sto bene. Verrò a vederti subito, e ti racconterò a lungo il resto. Si è voluto far ricadere sopra di me la responsabilità di una politica, che io ho seguito costantemente e per profondo convincimento, e sopra me solo; e in questo si sono uniti mazziniani, borbonici e ambiziosi di ogni natura, tutti d'accordo. E inutile che ti dica come, tra questo numero, vi sono parecchi che di questa politica si volevano fare i principali rappresentanti, e che poi l'hanno indegnamente tradita: vi sono stati anzi di quelli che si spacciavano, più che rappresentanti, incaricati. Il giorno innanzi di partire, ho avuto col Generale un abboccamento di due ore e mezzo insieme con cinque di costoro. Io gli ho detto franco l'animo mio senza sbigottirmi. Egli è stato violento e scortese. Non perciò ho piegato una linea. Gli altri hanno cagliato.

Tornò a Napoli dopo che Vittorio Emanuele era entrato nel Regno delle Due Sicilie, e da Napoli scriveva il 28 ottobre 1860 al fratello:

...Già questa mia dimora a Napoli non potrà essere lunga: promulgato il plebiscito, venuto il Re e instaurato il nuovo Governo, il Parlamento non tarderà a convocarsi: avremo le elezioni, e via a Torino, non dubitando di essere uno dei deputati della provincia. Se con la deputazione potrà conciliarsi altro incarico, non lo rifiuterò: ma, pria di tutto, amo di esser deputato. Mi fa mille anni che mi vegga per tale occasione fuori di Napoli: il lezzo e il fracidume che è qui, mi ammorba i sensi. Non ti puoi fare un' idea di quello che avviene e di quello che si fa: è un chiedere, un acchiappare da tutte le parti quanto si può, un armeggìo, ed uno intrigare, e un rubacchiare da per tutto. Non si vede ne modo ne verso come questo paese possa rientrare in assetto ragionevole; pare come se i cardini dell'ordine morale fossero stati sconficcati: temo che la stessa venuta del Re e del suo Governo gioverà poco o niente...

Il desiderio di lasciar Napoli non venne allora soddisfatto. Spaventa fu nominato consigliere e direttore di polizia nella luogotenenza Farini. Cercò di portar rimedio ai mali che affliggevano quel disgraziato paese. Le condizioni della sicurezza pubblica erano terribili. Liborio Romano, al cessar della polizia borbonica, aveva affidato alla camorra, allora fortemente organizzata, la polizia di Napoli. E la camorra era diventata padrona. Spaventa resistette: volle cominciare l'epurazione, rimosse 42 impiegati dal Dicastero dell'interno, 58 dalla prefettura, 250 dalla polizia attiva. Molti che avevano avuto impieghi quantunque avessero compiuto reati, vennero da lui mandati a domicilio coatto.

Attaccato dai borbonici, oggetto dell'ira dei malviventi che egli colpi senza pietà, fatto segno a minacce, ad intimidazioni, ad aggressioni personali, resistette con coraggio. De Cesare ha narrato efficacemente qualcuna delle dimostrazioni che si succedevano contro di lui nel marzo 1861: «Si imprecava a lui, chiamandolo traditore, prepotente, nemico della libertà, e se egli, scendendo per una scala segreta, non fosse andato al Palazzo Reale ad informare il luogotenente di quanto avveniva, avrebbe fatto la fine del ministro Prina. La dimostrazione, non trovandolo al Ministero, corse alla sua casa, ne ruppe i mobili, ne rubò i valori, ed uno dei dimostranti, affacciandosi al balcone del palazzo Latilla, dove lo Spaventa abitava, presso suo zio Onorato Croce, e facendo mostra di forbire al braccio una lunga lama, urlava a squarciagola: «Ecco il ferro con cui l'ho ttcciso, ed ecco il suo sangue». E la folla applaudiva.

La sera di quel giorno, egli uscì dal Palazzo Reale, con Costantino Nigra, segretario della luogotenenza, e desinò al Caffè d'Europa. Dopo il pranzo, a piedi, accompagnato dal Nigra, da Diomede Marvasi, da Federico Quercia e da Tommaso Arabia, tornò al Ministero, dove con molta calma ordinò l'arresto dei promotori della dimostrazione. E adempiuto questo dovere, andò al San Carlo, in un palco di seconda fila dei suoi parenti Petroni e, finito lo spettacolo, dando il braccio alla signora, attraversando la folla, stupita di tanta audacia, scese per lo scalone maggiore del teatro, accompagnò la signora alla vettura, e solo, a mezzanotte, traversò Toledo, e tornò a casa con maggiore tranquillità. Tanto coraggio, se accrebbe le ire dei suoi nemici, accrebbe del pari il suo prestigio.

Paese fantastico, e in quei giorni commosso ed eccitato, creò subito una leggenda attorno a questo ministro, che aveva sofferto dieci anni di ergastolo, non aveva tremato all'annunzio della condanna di morte, ed ora sprezzava con incredibile temerità odii di rivoluzionari e odii di retrivi».

«La triste sommossa di Napoli, non da lui provocata, fu la sua glorificazione. Tutta la parte buona della città si levò a favore di lui; tutta l'Italia ne celebrò il coraggio, e il dì seguente, a Bertrando, che era a Torino, e che corse al Ministero per avere notizie, il conte di Cavour disse: Suo fratello si è condotto da eroe ».

Rimase in ufficio con le luogotenenze del principe di Carignano e di Ponza di S. Martino. Si dimise nel luglio 1861 quando al San Martino succedette Cialdini, per dissensi che ebbe con il nuovo luogotenente.

*

 Ed eccolo finalmente nel Parlamento italiano. Le lotte napoletane, così fieramente combattute, l'attaccamento alla sua parte politica, della quale presto divenne una delle figure più notevoli, la sua rude franchezza, l'antipatia che non sapeva dissimulare per gli avversari, lo resero oggetto di attacchi violenti. In quel primo periodo della vita nazionale. Spaventa fu l'uomo politico forse più malmenato, più violentemente combattuto dalla stampa. Nulla gli fu risparmiato. Gli articoli diffamatori, gli opuscoli ricchi di calunniose affermazioni, di ingiurie plateali, di testimonianze mendaci, si moltiplicarono contro di lui. Tenne testa con grande calma e serenità a quella tempesta di fango. Alla Camera sostenne con pari coraggio gli attacchi personali.

Alla fine del 1861, svolgendosi le interpellanze sulla questione romana e sulle condizioni delle provincie meridionali, la Sinistra vivacemente attaccò la politica del Governo nell'Italia meridionale. La discussione si prolungò per molte sedute; in quella del 7 dicembre 1861 Bertani fu severo con gli uomini che erano succeduti a Napoli alla dittatura di Garibaldi. Gli risposero in parecchi, e la discussione procedette vivace: Spaventa la rese violenta. Parlò nella seduta dell' 8 dicembre, difendendo con coraggio risoluto l'opera propria e dei suoi amici, attaccando gli avversari con asprezza e senza misura. La Sinistra in piedi urlava contro di lui, mentre egli imperterrito continuava. Saffi, Bertani, Miceli, Crispi, Nicotera lo interrompevano, altri deputati meno autorevoli e più violenti lo ingiuriavano. Invano si tentò di indurre il Presidente a levargli la parola. Riuscì ad andare fino alla fine, mal sorretto dai suoi, ai quali parve eccessivo il suo linguaggio e che in certi momenti lo lasciarono solo contro tutto un partito violento ed irritato.

Nicotera gli rivolse le ingiurie maggiori: Non voglio ricordare al signor Spaventa che cosa egli fece quando era al potere: potrei dirigergli dei rimproveri tali da farlo arrossire se ne fosse capace. Spaventa lo sfidò. Il giorno dopo, crucciato del contegno dei suoi amici più che di quello degli avversari, scriveva al fratello:

Mio caro Bertrando, Saprai dai giornali quel che m'è accaduto. Ti prego di leggere per intero il mio discorso e vedi se vi è alcuna offesa personale contro nessuno. La maggiorità si è condotta con suprema vigliaccheria. Non ti allarmare; l'affare è ora in mano di Bixio e di Finzi .

Il duello non ebbe luogo. L'Opinione il 9 dicembre annunziò:

Oggi correva voce per Torino che avesse avuto luogo un duello fra i deputati signori Spaventa e Nicotera. Siamo lieti di apprendere che questa notizia è senza fondamento, e che in seguito a verbali spiegazioni lo spiacevole incidente di ieri non avrà ulteriori conseguenze.

Ma egli non sapeva darsi pace di quella tempesta. Vari giorni dopo scriveva al fratello:

Torino, 24 dicembre 181.

Se hai letto il mio discorso, avrai veduto se io dissi nulla da giustificare l'ignobile irritazione che mi si levò contro dalla Sinistra della Camera. Ti confesso che io, sapendo bene di dir delle cose molto dure, non avrei mai immaginato uno scoppio di ira (qui nella lettera non si comprende bene la parola)... Aveva meditato molto ciò che voleva dire, anzi aveva voluto consultare l'opinione di alcuni amici sulla convenienza di prendere la parola sopra quegli argomenti, né io né altri avevano saputo vedere che la Sinistra dovesse offendersene personalmente. Del resto basta di ciò. Non credo di aver scapitato nella stima di tutti quelli che sono in caso di apprezzarmi. La maggiorità stessa, per vero dire, nel primo momento credè che io avessi trasceso i limiti della convenienza, ma poi, letto il discorso, tutti mi hanno detto di aver trovato nulla nelle mie parole che giustificasse le villanie degli avversari e contravvenisse al decoro parlamentare.

*

 
Quell'incidente parlamentare lo tenne per un certo tempo lontano dal potere, né egli se ne dolse. Già nel settembre di quell'anno 1861, scrivendo da Firenze al fratello, dopo di aver detto delle cortesie che gli avevano usato il Re, Cordova, Farini, il principe di Carignano, che lo diceva il solo uomo sul quale si potesse contare a Napoli, soggiungeva:

Ti ho fatto questa storia insignificante, poiché tu l'hai voluto, ma non perché io pensi attaccarvi il menomo valore. In generale, il concetto che mi fo ora della mia posizione è questo: mi credono capace di sostenere i più difficili incarichi di governo, ma ora non abbastanza autorevole, o troppo preso di mira dai partiti estremi, perchè mi possano adoperare ora. Vi è poi la folla dei pretendenti che non lascia niun posto onesto a chi aspetta di essere chiamato. Io quindi sono persuaso che per qualche tempo resterò a spasso, né in fondo me ne duole, perchè desidero di riposarmi.

Nel novembre, Massari gli disse che Ricasoli gli avrebbe offerto il portafoglio dell'interno ed egli ne avvisò subito il fratello, scrivendo che avrebbe preferito il riposo, e che propendeva per il rifiuto. Poi l'incidente violento della Camera fece abbandonare ogni possibile offerta:

Un effetto del resto l'ha prodotto, ed è questo: senza quell'incidente, io non avrei saputo schermirmi di diventar ministro dell'interno. Ora io te lo giuro, io non aveva ninna voglia di tornare ora al potere, e se questo incidente mi salva ora da un tal carico, io ne sono quasi contento.

Frequentò invece attivamente la Camera, non trascurando gli Uffici, intervenendo anche alle più modeste Commissioni parlamentari:

«Ti dissi come era infreddato, e questo raffreddore è andato sempre più crescendo. Non vedo modo di disfarmene. Ciò mi dà una noia ed un malessere indicibili. Nulladimeno assisto ogni giorno alle discussioni ed agli Uffici della Camera».

E un'altra volta:

«Ho lavorato in questi due mesi nelle Commissioni e negli Uffici».

Attentissimo alle pubbliche discussioni, parlava raramente, con voce lenta, alquanto nasale, con accento provinciale, di cui non era riuscito a sbarazzarsi.

Io ho sempre ritenuto di essere un cattivo parlatore, disse più volte alla Camera, e altre volte accennò alla sua inesperienza della parola improvvisa. I suoi discorsi, infatti, erano chiari, precisi, lungamente meditati, rivelanti uno studio esauriente dell'argomento. Parlava senza appunti. Io non soglio prendere appunti, e se li prendo è come se non li prendessi, perchè non li guardo più.

I suoi discorsi, perciò, quando non li animava la passione politica, che era in lui potente, pareva avessero del cattedratico. Oggi siamo a scuola, disse un giorno l'onorevole Mazzarella, mentre egli parlava. Ed egli di rimando: Se aveste studiato prima, non ne avreste bisogno ora. E un'altra volta, rispondendo all'onorevole Cenala: Io non intesi, né intendo di far qui il dottore in queeste materie; mi permisi di esprimere il convincimento mio per difendermi da un accusa che mi era fatta qui ed altrove. Perciò la necessità può scusarmi, se fui indotto ad entrare in quelle, per così dire, definizioni, le quali non stanno bene in Parlamento. In Parlamento si discutono gli affari e i principi immediati che li regolano; non vi è bisogno di risalire alle altezze della scienza, dove chi vi penetri per tempo, vi abita; chi non vi è salito, non vi sale più. Ed il resoconto segna: Applausi a Destra, esclamazioni a Sinistra, perchè parve che in quelle parole vi fosse una lezione ai suoi avversari politici.

Con gli avversari che, specialmente nei primi anni della sua vita parlamentare, furono numerosissimi, era sarcastico e sprezzante. Il sarcasmo breve e corrosivo di Spaventa, disse Petruccelli. Usava quasi sfidare gli avversari, guardandoli in viso, animato da un senso di rude e franco coraggio che lo rendeva alieno da ogni ipocrisia. All'onorevole La Porta, che nella seduta dell' 8 giugno 1875 ebbe il torto di muovergli un indiretto ed ingiusto rimprovero per il sangue che era stato sparso a Torino per la Convenzione di settembre, rispose con una ingiuria:

La Porta. Pensi l'onorevole Spaventa che non è con la violenza, non è col sangue...

Spaventa. Sono sciocchezze.

La Porta. Pensi ai fatti di Torino. Si metta una mano sul cuore...

Spaventa. Siete uno sciocco.

Così, in altra circostanza, rispondendo al ministro Baccelli, con tuono meno irritato ma più sprezzante: Alla compassione, al perdono, all'oblio che mi dona, non ha mancato di soggiungere anche qualche insinuazione, che io disprezzo. Ed ai rumori, alle proteste degli avversari per la cruda frase, egli si volse ai contradittori, fiero e coraggioso: Ma come? Si stupiscono che un uomo onesto disprezzi le insinuazioni che gli si fanno ? E poco dopo, continuando nel vivace discorso, volgendosi ai deputati di Sinistra che rumoreggiavano: Che cosa è? Non ammetto rumori e contradizioni.

Presidente. Onorevole Spaventa, la prego di non apostrofare i colleghi. Prosegua, lasci a me di fare il Presidente. Io le mantengo la facoltà di parlare.

Spaventa. Io parlo così, e se non parlo così, parlo male; parlo con impeto.

Ed era così. Nelle questioni politiche parlava con impeto, come l'animo dettava. Ma quando dalle questioni di parte assurgeva agli alti problemi di diritto pubblico, allora la Camera attentissima seguiva la sua parola lenta ed elevata. Tutti sentivano la superiorità di quella mente, nutrita di forti studi, che aveva lungamente meditato su tutti i problemi della vita pubblica, e che li esponeva con chiarezza mirabile, senza lenocini di forma, con semplicità e vigore. Aveva tesori di bontà e finezza di sentimento che non si supponevano in quell'uomo dall'apparenza dura e sprezzante. Chi legge le lettere scambiate con il fratello Bertrando, con amici, con parenti, prova un senso di stupore per la delicatezza e bontà di quell'animo solitario e forte. Aveva il culto dell'amicizia e lo spingeva fino all'esagerazione.

Aveva abitudini di vita semplice e frugale. Visse per anni con il ricavato dalla vendita delle poche terre di Bomba. Il fratello gli amministrava quelle piccole sostanze e le lettere sono piene dei particolari di quella vita modesta e coscienziosa. Io consumo dugento lire al mese, non posso fare con meno, e gli pareva la spesa grande, sicché se ne voleva giustificare con il fratello. Nel 1866, chiedendo le ultime 500 lire ricavate dalla vendita di un piccolo fondo: Se tu vuoi puoi mandarmi quei cinquecento franchi che ancora mi restano, farai bene. Ma ora non ho che 30 lire in tasca. Ecco i milioni che mi ha dato l'Italia! Sia lodato Iddio!. Poiché fra le numerose accuse che i violenti suoi denigratori gli avevano lanciato contro, vi era anche quella che egli si fosse arricchito a Napoli ! In una lettera del 12 aprile 1863, quando egli era sottosegretario all'interno, parlando delle sue piccole difficoltà finanziarie, soggiungeva: Basta: è anche una grande soddisfazione vedersi passare per le mani milioni e milioni e stare così. E stato l'orgoglio maggiore che io abbia provato al mondo!

*

Fu nominato segretario generale al Ministero dell' interno l'8 dicembre 1862 con Peruzzi ministro. Il presidente del Consiglio era Farini, a cui successe Minghetti. Aveva nel partito una posizione che gli dava diritto ad aspirare ad un portafoglio, ma la sua figura politica era troppo discussa ed era stata recentemente troppo combattuta, perchè gli si potesse dare uno dei primi posti. Poco tempo prima, sia durante il Ministero Rattazzi, sia durante la crisi, con quella franchezza spesso inopportuna che lo distingueva, egli non aveva mancato di censurare Vittorio Emanuele per le intenzioni che gli si attribuivano di far un Ministero fuori del Parlamento. Usci su di un giornale di allora, La Discussione, un articolo: L'Abdicazione del Re, di cui si disse che fosse autore o ispiratore Spaventa, il che non era vero, ma contribuì a metterlo in cattiva luce con la Corte. Però Vittorio Emanuele era un uomo superiore e non si lasciò vincere da quelle dicerie e da quelle prevenzioni e non fece obiezioni alla nomina di lui a segretario generale.

È piena di interesse la lettera che Silvio Spaventa scrisse il 25 dicembre 1862 al fratello, narrandogli il primo colloquio che ebbe da segretario generale con il Re:

Ho visto il Re ed a lungo: ho parlato un'ora e un quarto con lui. Egli mi accolse colla più grande cordialità. Entrando io nel suo gabinetto mi disse: Ecco colui che voleva distruggermi, e mi stese la mano. Io risposi: Maestà, sono io io quello. Ed egli: Raccontami dunque ciò che hai detto. Ed io per filo e per segno gli dissi quello che aveva detto al Ballanti, che fu poi l'autore di quelle infami calunnie. Il Re mi disse: Hai avuto torto di credere che io volessi formare un Governo al di fuori del Parlamento: in ogni modo non sarebbe stata una cosa così incostituzionale come può parere a primo aspetto. Ed allora ci mettiamo a discutere insieme questa questione ed egli finisce col darmi ragione. Quindi abbiamo parlato di tante cose che è inutile e difficile a ridire. Uscendo da lui, mi disse con lo stringermi di nuovo fortemente la mano: Sono contentissimo di questa conversazione che ho avuta con voi: già io vi conosceva bene e voi me. Io risposi: Maestà, io vi ringrazio di tutta la confidenza che avete riposta in me ed il colloquio di questa mane è la prova della confidenza maggiore che io potessi ricevere dalla Maestà Vostra.

Durò in ufficio fino al settembre 1864, quando il Ministero Minghetti cadde per la convenzione di settembre con la Francia.

Io pubblico alcuni brani di lettere, che mostrano nel modo migliore l'animo suo e l'opera che egli compì e l'ardore che egli mise nell'ufficio, come egli soleva in qualunque cosa si accingesse a fare:

Torino, 25 dicembre 1862.

Tutto il Ministero mi sta sulle spalle: il Peruzzi ha troppa fiducia in me. Questo è per me un male serio, al quale non vedo rimedio. Vengo qui alle sei del mattino, n'esco alle sei della sera e vi torno alle otto per restarvi fino a mezzanotte...

(La lettera continua narrando vari fatti che mostrano l'azione decisiva che egli ebbe in quel Gabinetto e come le proposte sue, accettate sempre dal Consiglio dei ministri, uscissero dalle ordinarie funzioni di un segretario generale, come allora si chiamavano i sottosegretari di Stato. Si occupava delle riforme amministrative, della repressione del brigantaggio, dell'indirizzo generale politico e parlamentare del Gabinetto. La lettera accenna alla lotta che egli aveva intrapresa contro l'alta burocrazia del Ministero).

... Abolirò le direzioni generali, salvo quella delle carceri per ora, che sono il mezzo più potente come la burocrazia sia giunta ad essere indipendente dai Ministeri...

Torino, 24 gennaio 1863.

Io sono un uomo che lavoro di entusiasmo e non so fare le cose a mezzo, e da quaranta giorni che sono qui mi ammazzo da mattina a sera senza riposarmi mai...

Che frutto ne risulterà, tu mi chiederai ? Io non lo so. So che ho una volontà fortissima di fare il bene senza piegarmi da un lato e vedo la mia via diritta innanzi a me e vi incedo sicuro...

[Dice che i ministri lo stimano e vanno spesso da lui ed egli cerca di infondere loro la stessa stia risolutezza).

... Gli uomini che ora reggono lo Stato sono le più brave persone del mondo, ma ci hanno una carne stracca ed uno spirito né pronto né nuovo. ...

Questa burocrazia é la pianta più tenace e triste che ci possa essere. Pure un taglio serio l'avrà. Se no, io non ci resto qui...

... Sai che io non sento nessuno che mi chieda cosa ingiusta o nociva allo Stato. Sono così fatto. Dunque tu non ti prenderai mai collera se non sentirò nemmeno te quando mi ti facciano chiedere cose non utili al Governo.

Torino, 23 febbraio 1863.

... Per l'ufficio che ho d'ingegno me ne sento un po' d'avanzo, E pure credimi non aspiro più alto. Sono così noiato e disgustato della vita politica che mi mancherebbe quella dose necessaria di amor proprio, necessaria a comparire agli occhi del pubblico che ci é qualcuno. Mi pare che io mi debba contentare piuttosto di esserlo, se lo sono...

23 ottobre 1863. ...

Sento però bisogno grandissimo di riposo, massime alla testa. Quella tensione continua di cervello in cui sono stato sì lungamente per poter comprendere e risolvere tanta massa di affari mi ha prodotto questo effetto, che talvolta provo come uno svenimento e vado quasi in cerca delle mie idee e paio a me stesso uno sbalordito.

29 marzo 1864.

... Io sono stanco di quest'ufficio. Se trovassi un pretesto per andarmene lo farei subito. Ma qui é la difficoltà. Un pretesto politico é sempre un principio di divisione fra uomini politici: se fosse serio, e non pretesto, ma cagione (e ne avrei parecchie) rovinerei il Ministero: se fosse frivolo, nuocerei a me stesso. E così resto al mio posto e tiro innanzi e tirerò forse fino alla fine dell'amministrazione attuale. E quando questa finirà?

... Finì con la Convenzione di settembre e con i fatti di sangue di Torino. E Spaventa fu accusato di esserne l'autore. Lo dipinsero autoritario, cinico, brutale, fumando tranquillamente dopo di aver dato l'ordine di sparare sulla folla e mentre si sparava. Fu allora ancora una volta l'uomo più impopolare d'Italia.

Torino. 25 settembre 1864.

...saprai tutto quello che è avvenuto; e, come io prevedeva, il Ministero ha dovuto ritirarsi. I particolari del modo sarebbe troppo lungo a dire. Io non ho nulla a rimproverarmi, perchè nulla ho fatto o voluto di male. Spero che oggi il nuovo gabinetto si formi ed io sia rilevato da ogni peso e responsabilità di ciò che può accadere.

La Convenzione con la Francia è la chiave di Roma. Il trasporto della Capitale è la cessazione del governo piemontese e la creazione del governo italiano davvero. Ma la stessa forza propria e quindi municipale di questa provincia che ha contribuito tanto a fare l'Italia è oggi un ostacolo serio a compierla. Speriamo che il nuovo Ministero comprenda tutta la gravità della situazione e riesca superiore alla stessa. Ma io temo che la stessa ipocrisia ed inganno che sono stati i mezzi principalissimi di disfarsi degli uomini della Convenzione non riescano a disfare la cosa. Io sto benissimo. Partirò stasera con Pisanelli per gli Abbruzzi.

Firenze, 7 ottobre 1864.

... Io sto bene, anzi non sono stato mai così. Gli otto giorni passati con De Vincenzi sono bastati a temperarmi alquanto quel profondo ribrezzo da cui ero compreso allorché lasciai Torino.

Chi poteva prevedere cose simili ?

... Se fosse stato in me forse le cose sarebbero andate altrimenti. Dico questo senza orgoglio né vanità, Ma io fino dal primo giorno sentivo-la necessità dei partiti risoluti ed audaci. Ma io non ho potuto mai meno che in tale occasione. Figurati il Consiglio intero dei ministri istallato notte e giorno nel mio ufficio. Io non ho preso né firmato niuna risoluzione. E le cose andarono così come sai. Ma mi dirai: come dunque tanta animosità contro di te? Che vuoi che io te ne dica? E' una di quelle fatalità la mia che dovunque ci è una responsabilità da avere in pronto, là ci sia io.

E i torinesi hanno gridato contro di me, come se io fossi l'autore principale dei loro malanni. E pure in quei giorni io non ho fatto proprio nulla. E nulla ci era nemmeno da fare per nessuno. Ci si fu fatto intorno ad un tratto un tal vuoto come se fossimo in un deserto. A chi comandare, se nessuno obbediva ? In chi confidare, se erano tutti contro ? Ecco quale divenne la nostra posizione. Del resto gli ordini del Governo, per quanto si potè ordinare, furono tutti più che prudènti e legalissimi. Se io non ho firmato nulla, io però non esiterei un momento a prenderne su di me tutta là responsabilità.

Tornò a Torino subito dopo, per la discussione della Convenzione. Andò alla Camera, pronto a parlare ove lo avessero attaccato. Aveva preparato un discorso che gli amici gli pregarono di non pronunziare per non compromettere maggiormente il partito. Tutti temevano che a Torino qualcuno lo aggredisse o che la folla lo maltrattasse. Restò sereno al suo posto durante la discussione, né mancò ad una seduta fino al termine dei lavori parlamentari.

Se mi accadrà qualche malanno, così scriveva, pazienza. Non ci è modo di fare in questo mondo il proprio dovere che non ci si debba lasciar la pelle.

Malanni non gliene accaddero, ma quella sua grande impopolarità lo tenne per anni lontano dal potere. Riusciva molesto qualche volta al suo stesso partito, al quale pareva pericoloso per l'indole franca, recisa, intransigente. Si tenne in grande riserbo, non risparmiando consigli ai suoi amici politici. Volevano mandarlo alla Corte dei Conti, ma rifiutò; gli offrirono il posto di direttore generale delle gabelle con la nomina a senatore. Rifiutò egualmente: non voleva lasciar la Camera.

Nel 25 novembre 1868 fu nominatato consigliere di Stato, e, pur continuando a frequentare la Camera, si dedicò con attività al nuovo ufficio. Qualche mese dopo poteva scrivere:

Al Consiglio lavoro e piuttosto molto. Il mio posto l'ho, credo, quasi preso. Finora nessun parere mio è stato, non dico rifiutato, ma mutato di una sillaba, e ne ho fatto già sopra affari gravissimi. So che il presidente della mia Sezione Spinola è stracontento di me.

*

 Nel 1873 venne nominato ministro dei lavori pubblici nei Ministero Minghetti. Fu una rivelazione. Si rese in poco tempo padrone di tutti i problemi del suo Ministero. Discutendo il suo bilancio, senza un appunto, egli rilevò la conoscenza completa, minuta, esauriente di ogni questione, la conoscenza di ogni angolo d'Italia, dei bisogni di ogni regione, dello stato di ogni controversia, la perfetta padronanza di tutto il materiale legislativo, amministrativo, contrattuale, riguardante i lavori pubblici.

In ogni controversia portò il suo spirito indagatore, acuto, severo, ispirato ad elevati propositi di pubblico interesse. I discorsi pronunziati in quell'epoca, e che fanno larga parte dell'attuale raccolta, si leggono con il più vivo interesse. È notevole il tono di sicurezza, di austerità severa e coscienziosa che portò nell'amministrazione. I funzionari si sentivano sorretti e spronati sotto la direzione di questo uomo intelligente, severo, laborioso, che li puniva, occorrendo, ma che ugualmente li incoraggiava e difendeva. Così sorresse Baccarini e lo lodò alla Camera: così punì severamente parecchi impiegati negligenti.

L'amministrazione dei lavori pubblici prese sotto la sua direzione un'impronta energica ed operosa, alla quale non si era abituati in Italia.

Nell'amministrare, le passioni politiche erano scomparse interamente. Guardava obbiettivamente ai bisogni delle varie regioni, poco curando il colore politico dei loro rappresentanti. Cercò di aumentare i lavori nel Mezzogiorno, lottando con difficoltà finanziarie grandissime che qualche volta lo spingevano ad andarsene. Non aveva mezzi sufficienti per la gravità dei bisogni e per la sua fervida volontà di fare. E scriveva:

... E certissimo che la mia posizione si fa ogni giorno più difficile. Il ministro dei lavori pubblici non è che per far delle spese. Ma queste non si vogliono o possono fare. A che dunque rimanere? Non è questa una buona occasione per andarsene? Certo se non pensassi che a me non vi sarebbe occasione migliore. Io ci guadagnerei una immensa popolarità in coteste provincie e mi troverei a capo di tutti i deputati napoletani di opposizione e ministeriali.

Ma sarebbe ciò un bene? Ci guadagnerebbe il Paese? Ci guadagnerebbero coteste provincie? Ci guadagnerei io stesso? Io non avrei altra ragione di dimettermi che accusando anche più che non sia giusto il Ministero di poca simpatia pei lavori pubblici di coteste provincie. Io mi porterei così testimonio della verità dell'accusa che già gli fanno. Mi troverei quindi unito a tutti gli oppositori del Governo e trascinerei con me anche i deputati che finora sono stati amici. Sarebbe ciò la consacrazione o il principio di una vera Permanente napolitana.

Quale sarebbe il programma politico di questa Permanente ? Vogliamo delle opere pubbliche. E possibile un partito così ? Avrebbe vera e reale importanza? Non riunirebbe contro di sé tutti gli altri deputati d'Italia ? E quella considerazione che fin qui io ho goduto di essere superiore ad ogni interesse particolare e regionale non sarebbe perduta? Queste considerazioni o interrogazioni che fo su di me stesso mi paiono molto gravi. Che ne dici tu? Scrivimi.

Rimase al suo posto, fece per il Mezzogiorno quanto meglio poteva, ma deplorò più volte l'abbandono in cui erano lasciati i lavori nell'Italia meridionale e le lagnanze ripetette anche quando non era più deputato di quelle regioni.

Affrontò con l'abituale ardore il vasto problema ferroviario, urgente allora, ma che avrebbe spaventato ogni altro uomo di governo che non fosse stato come lui ardito e risoluto. Per lui la soluzione logica e completa di ogni problema ferroviario è sempre: che le strade ferrate di interesse nazionale siano di proprietà dello Stato ed esercitate dallo Stato. Nella tesi dell'esercizio di Stato egli si confermò studiando le condizioni nelle quali erano allora le Società ferroviarie, e quella tesi sostenne con l'eloquenza che viene dalla profonda convinzione. Difese l'esercizio di Stato da ministro, e poi da deputato, da scrittore, sempre con energia, con abbondanza di argomenti decisivi, che trent'anni dopo dovevano condurre all'attuale soluzione del problema. Il suo libro Lo Stato e le ferrovie è stato anche recentemente consultato da quanti hanno studiato l'arduo problema dell'assetto delle ferrovie in Italia.

Con la forza di convinzione che gli era propria, trascinò i colleghi del Gabinetto, del quale negli ultimi tempi era diventato la mente dirigente, la volontà forte ed illuminata. Ma la questione ferroviaria divise il partito. Caddero per essa il Ministero Minehetti e la Destra.

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 Nelle elezioni generali del novembre 1876, che seguirono la vittoria della Sinistra, fu oggetto di lotta asprissima. Girò durante il periodo elettorale per il collegio suo e per quello di Gessopalena, di cui era deputato il fratello Bertrando, e ne trasse buona impressione, sicché, pur non nascondendosi la gravità del pericolo, era sicuro di superarlo. Le lettere sue rivelano la convinzione del trionfo. Pareva che i suoi vecchi elettori, parecchi dei quali avevano votato per lui sotto i Borboni e gli erano stati fedeli attraverso tante vicende, non dovessero abbandonarlo.

Invece cadde, ed ebbe l' impressione di un grande isolamento, come dì un vuoto che si fosse fatto nella sua vita. Non era più consigliere di Stato essendosi dimesso quando la Sinistra andò al governo, non era più deputato: che avrebbe fatto? Scriveva al fratello pochi giorni dopo la sconfitta:

Di me non so che mi dire. Cosa farò e dove andrò non io so ancora. Capisci che dopo trent'anni che non faccio altro, il non occuparmi della cosa pubblica gli è come perdere la coscienza di me stesso. Eppure in che maniera ora occuparmene, non vedo: me ne occupava più in prigione...

Dopo pochi mesi, nel marzo 1877, Bergamo lo rimandò in Parlamento. Da quell'epoca cominciò un nuovo periodo della sua vita parlamentare. Fu uno dei più fieri e decisi deputati di opposizione, ma, poco per volta, mitigando le asprezze delle lotte partigiane, fu condotto dalla sua mente acuta, educata a forti studi, a meditare sui mali della vita pubblica italiana e sulla necessità dei rimedi. Di qui una serie di discorsi, pronunziati in Parlamento e fuori, tutti idealmente legati fra loro da un nesso logico, e nei quali si sviluppa la necessità di riforme valevoli ad assicurare la giustizia nell'amministrazione. Essi ebbero grandissima eco in Italia e furono la base di tutto il nostro sistema legislativo sulla giustizia amministrativa.

Già, presentandosi agli elettori di Bergamo nel marzo 1877, egli aveva detto che: l'ordinamento amministrativo di uno Stato libero è lo scoglio in cui hanno urtato quasi tutte le costituzioni moderne.

Volle studiare come possa in Italia evitarsi questo scoglio e quali provvidenze legislative fossero allora necessarie. A Bergamo, nell'aprile dello stesso anno, ringraziando gli elettori per averlo eletto, esaminò i provvedimenti proposti dal Governo e li censurò: a Roma, nel marzo 1879, ringraziando i soci della Costituzionale, che lo avevano nominato presidente, contrappose ai metodi di governo degli avversari quelli che avevano guidato il suo partito ed i suoi amici.

Finalmente nel 1880, a Bergamo, assurgendo da queste competizioni di partito ad un esame più elevato ed obbiettivo dei problemi politici, proclamò: Il problema della giustizia e della legalità nell'amministrazione è il maggiore che si incontra nella vita dei governi parlamentari, massime oggi che l' amministrazione pubblica degli Stati moderni ha preso tali dimensioni e sviluppo, da non potersi nufyierare i rapporti, in cui i cittadini si trovano con essa ad ogni loro passo.

E del problema studiò le cause, alcune di indole generale, comune agli altri Stati moderni, altre speciali a noi, allora aggravate dalla riforma amministrativa del 1865, che, abolendo radicalmente la giurisdizione amministrativa, privò molti interessi di qualsiasi garantia di giustizia, e lasciò molti diritti senza più giudici, in balìa dell' amministrazione così detta attiva, e di giurisdizioni speciali, informi o rudimentali, confuse con essa e che in essa mettono capo.

Studiò i rimedi, spiegando come il problema era stato risoluto altrove, esaminando una ad una le varie legislazioni dei popoli liberi, e specialmente come in Germania erano stati riformati gli istituti amministrativi per garantire la giustizia nell'amministrazione. Additò specificamente i rimedi da proporre in Italia: la riforma del Consiglio di Stato, con la creazione di una Sezione giurisdizionale: la creazione di un ente giurisdizionale locale: la creazione insomma di veri giudici e di veri giudizi di diritto pubblico in tutte le sfere dell'amministrazione: la rigorosa responsabilità degli amministratori: una legge sullo stato degli impiegati civili che definisca le condizioni ed i modi con cui gli uffici pubblici sono conferiti e come vi si possa avanzare e come si possano perdere: il sindaco elettivo.

Con parola resa eloquente dalla persuasione, fece appello ai migliori sentimenti degli italiani:

La prima cosa, di cui ci fa mestieri, è di rientrare un pd in noi stessi, riflettere sopra di noi, ritrovare nei nostri niigliori sentimenti e nella coscienza del diritto e della giustizia la guida ed il lume per orientarci in mezzo alla confusione delle idee e degli interessi, in citi si dibatte e si smarrisce da venti anni il nostro diritto pubblico. Imperocché il vero rimedio del male non può aversi se non in un diritto pubblico certo, chiaro, completo, che a noi manca.

Il caldo appello proveniente da Bergamo trovò eco favorevole in tutte le persone colte del paese. Pubblicisti, uomini politici, giureconsulti, si misero per la via tracciata da Spaventa. Il quale a Bergamo conchiuse dicendo che sulla bandiera dell'Opposizione doveva scriversi il motto: Giustizia nell'amministrazione, e soggiungendo che se un giorno la Destra fosse tornata al potere non avrebbe dimenticata questa promessa.

Silvio Spaventa non prevedeva che un uomo politico, seduto alla parte opposta della Camera, che gli era stato sempre fiero avversario, che come lui aveva combattuto lotte ardenti e violente, ma che aveva un passato patriottico egualmente purissimo, mente egualmente acuta, tatto e finezza di uomo di Stato, avrebbe raccolto quella bandiera.

Francesco Crispi era il solo che potesse comprendere Silvio Spaventa. La legge sulla riforma del Consiglio di Stato del 31 marzo 1889, la legge 1° maggio 1890 sull'ordinamento della giustizia amministrativa, seguirono le orme segnate nel discorso di Bergamo, e trovano in quel discorso la loro origine e la loro ragion d'essere. E per opera di Crispi si ebbero: la larga riforma della legge comunale e provinciale, la legge sulla pubblica beneficenza, quella sulla pubblica sicurezza, quella sull'igiene e sanità pubblica.

Ma quale nello Stato libero deve essere il compito dei partiti politici? E a che erano ridotti in quell'epoca i partiti politici? E come rimediare alla loro decadenza? Ecco l'argomento di un altro discorso che Spaventa aveva in mente di pronunziare a Bergamo nel 1882, in occasione delle elezioni politiche di quell'anno.

Ci ho per il capo -così scriveva al senatore Camozzi - un discorso sulla condizione in cui sono ridotti i partiti politici in Italia, che per me costituisce il problema più grave dell'avvenire delle nostre istituzioni.

Ma il discorso non fu pronunziato: ne fu trovato il principio fra le carte sue, e venne pubblicato.

I discorsi parlamentari di questo secondo periodo della vita politica di Silvio Spaventa rispecchiano l'indirizzo della sua mente e la natura degli studi ai quali si era dedicato. Tratta in essi con l'abituale chiarezza le più ardue quistioni di diritto pubblico, cercando di persuadere la Camera dell'importanza di alcuni problemi.

A me duole il cuore, disse un giorno, ogni volta che mi accade di scorgere il modo col quale le nostre leggi di diritto pubblico sogliono essere trattate.

Ogni argomento era da lui lungamente e profondamente svolto, e la Camera, malgrado fosse composta in gran parte di oppositori, era costretta a seguirlo. Notevole il discorso sulle Convenzioni di Basilea che durò due giorni (23 e 24 giugno 1876) e nel quale svolse ampiamente il tema prediletto dell'esercizio delle ferrovie da parte dello Stato: notevole quello [novembre 1877) sulla funzione della burocrazia in Italia, sulla necessità di maggiori garanzie agli impiegati, nel quale svolse il concetto della ubbidienza costituzionale, cioè prestata dentro i limiti della legge e per l'osservanza delle leggi, ubbidienza che, egli diceva, darà la vera amministrazione costituzionale: notevole quello sulla ricostruzione del Ministero di agricoltura (giugno 1878) in cui esaminò i limiti del potere esecutivo nell'assetto dei pubblici servizi: notevoli quelli sul Ministero di pubblica istruzione (16 dicembre 1881) e sull'autonomia universitaria (23, 26, 28 gennaio, 25 febbraio 1884).

Parlava raramente, e perciò pochi sono i discorsi di questa raccolta, ma sono lungamente meditati, originali, efficaci.

Il 19 dicembre 1889 venne nominato senatore.

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Accettò di entrare in Senato perchè doveva rendere un nuovo, importante servizio al suo paese. La legge 31 marzo 1889 aveva creato la sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato. Il programma della giustizia amministrativa, quale egli lo aveva enunciato a Bergamo, si attuava. Chi poteva essere il Presidente della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, se non colui che, primo in Italia, aveva mostrato la urgente necessità della giustizia nell'amministrazione? Egli era già tornato al Consiglio di Stato nel novembre 1878 mandatovi dal Ministero Cairoli-Zanardelli: Crispi lo nominò Presidente della IV Sezione sorta allora, per effetto della legge 31 marzo 1889.

Accettò con entusiasmo, portando nella difficile opera l'ardore suo abituale, grande dottrina, serenità di giudizio spoglio da qualsiasi passione. L'uomo parve trasfigurato. La IV Sezione cominciò l'opera sua benefica nella vita pubblica italiana, riparando ingiustizie ed illegalità e fungendo da freno, rimedio preventivo agli eventuali abusi delle amministrazioni. Elevò a gran dignità l'ufficio suo, che ebbe per lui e con lui efficacia vera nella vita pubblica del paese.

L'uomo politico in quegli ultimi tempi era ormai scomparso; forse riviveva qualche volta nei ricordi del passato, opportunamente risvegliati in un piccolo cerchio di amici. Rimase il giudice delle pubbliche amministrazioni, l'uomo a cui, per consenso unanime del paese, era stata affidata un'alta e serena funzione di controllo, il restauratore della legge, spesso offesa dal trasmodare delle amministrazioni. E quest'alta funzione, con il plauso generale e lasciando ricordi che mai saranno dimenticati, egli serbò fino a morte.