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di Piero Floriani
Nacque a Milano il 7 marzo 1785 in una casa sui Navigli, in contrada
S. Damiano 20 (oggi via Visconti di Modrone 16); la madre era Giulia
Beccaria e il padre legale Pietro. L'8 marzo fu battezzato, coi nomi
di Alessandro Francesco Tommaso Antonio, nella cura di S. Babila.
Pochi giorni dopo fu messo a balia presso Malgrate, vicino a Lecco.
Fu ricondotto in famiglia a circa due anni.
Il padre legale, 49 anni alla nascita del M., veniva da una famiglia
originaria della Valsassina poi stabilitasi a Lecco, arricchitasi
dal Seicento con attività minerarie, affari immobiliari e
finanziari, e nobilitata con del tribunale araldico nel 1771, previo
l'acquisto a fine Seicento del feudo di Moncucco nel Monferrato. Il
rango periferico e recente della sua nobiltà aveva indotto
Pietro, vedovo senza figli, a chiedere in sposa Giulia Beccaria,
primogenita di Cesare (mediatore Pietro Verri), accettando una dote
ridotta.
Giulia, sposatasi con Pietro a vent'anni, il 20 sett. 1782, aveva
continuato a frequentare gli ambienti dei Verri, dove si era legata
di amicizia sentimentale con Giovanni, il più giovane dei
fratelli, già nel 1781. Che padre del M. fosse costui si
ritiene accertato, in assenza di prove in contrario, poiché
è testimoniato in modo indipendente da più fonti, la
più attendibile delle quali è una lettera scritta da
G. Gorani, il 16 genn. 1808, all'amico Giovanni Verri per annunciare
le nozze del M. con Enrichetta Blondel (cfr. P. Campolunghi,
Ritrovata la lettera del Gorani a Giovanni Verri del 16 genn. 1808,
in Annali manzoniani, n.s., III [1999], pp. 305-314).
Tra i coniugi la nascita del M. non portò beneficio. Quando
si separarono, il 23 febbr. 1792, egli era a Merate in un collegio
retto dai somaschi. Ve lo aveva accompagnato la madre il 13 ott.
1791, dopo averlo condotto a fare visita a Cesare Beccaria (unica
memoria che il M. conservò del nonno). La donna andò
poi a vivere con Giovanni Carlo Imbonati: lasciò Milano,
tornandovi dapprima ogni tanto e stabilendosi infine a Parigi.
Pietro si trasferì in contrada S. Prassede; lì e al
Caleotto presso Lecco, palazzo da cui traevano nome i Manzoni "del
Caleotto", il M. ebbe residenza fino alla morte del padre.
Nel 1796 il M. passò al collegio S. Antonio a Lugano, diretto
anch'esso dai somaschi, dove rimase fino al marzo 1798 (vi ebbe
maestro per breve tempo F. Soave), quando fu fatto rientrare per
disposizione del governo della Cisalpina. Pochi mesi dopo
entrò nel collegio Longone dei barnabiti, allora a
Castellazzo de' Barzi; nel 1799 il collegio tornò a Milano e
il M. vi concluse gli studi nell'anno scolastico 1800-01.
Dell'educazione ricevuta avrebbe ricordato con avversione, anche in
testi poetici, gli aspetti atti a generare paura e doppiezza. Ebbe
una precoce vocazione poetica, sostenuta da una viva memoria;
precoce fu anche la scelta "giacobina" di stampo nazionale. Prima
prova di tale vocazione del M. fu un sonetto apparso tra il 1801 e
il 1802 nelle Vite degli eccellenti italiani di F. Lomonaco.
Non risulta che il M. si sia iscritto all'Università di
Pavia, ma è probabile che abbia seguito (1802-03) le lezioni
di V. Monti, e quelle di P. Tamburini e G. Zola, i maggiori
giansenisti lombardi. Suoi amici furono G.B. Pagani, L. Arese e I.
Calderari, e immigrati come A. Mustoxidi, allievi di Monti e
studenti a Pavia.
Negli ultimi anni di scuola il M. ebbe contatti anche con esuli
d'origine non lombarda: Monti e U. Foscolo, V. Cuoco e Lomonaco.
Prima ancora aveva letto G. Parini (nel 1799 la notizia della sua
morte, giunta in collegio, gli aveva procurato forte emozione) e V.
Alfieri, che ammirò come poeta geloso della libertà e
trageda, per prenderne poi le distanze. Con Monti e Foscolo i
rapporti furono intensi. Nel primo riconobbe un maestro, e fu
ricambiato come promessa della poesia; il secondo lo ricordò
nelle note ai Sepolcri (1807) e se ne disse guida dai primi anni.
Degli esuli napoletani, Cuoco lo introdusse a G.B. Vico e gli
donò una copia del primo tomo del Platone in Italia (ora a
Brusuglio, "dono dell'autore"), dove lo aveva rappresentato nel
personaggio di Nearco.
Il M. divenne noto nel mondo letterario nel 1803 col poemetto Il
trionfo della libertà, iniziato nel 1801 dopo la pace di
Lunéville, pubblicato postumo a Milano nel 1878 ma circolato
ampiamente manoscritto. Monti ne assunse la paternità poetica
e il M. stette al gioco, fino a farsi tramite con Cuoco
perché dal Platone in Italia fosse tolto un attacco contro
Monti.
Nell'ottobre 1803 il M. si trasferì a Venezia. Il soggiorno
gli permise di allargare le sue esperienze e di concludere la prova
dei quattro Sermoni (composti nel 1803-04), tentando il registro
satirico in sciolti: seguì Giovenale in Amore a Delia e in
Panegirico di Trimalcione e Orazio nel sermone A Giovan Battista
Pagani e in quello sulla poesia Se alcun da furia d'irritato nervo:
queste poesie, diffuse in manoscritti, furono stampate solo postume
da Stoppani (in I primi anni di A. M., Milano 1874, pp. 201 ss.) e
da R. Bonghi (in Opere inedite o rare di Alessandro Manzoni, Milano
1883, I, pp. 78 ss.). Tornato a Milano nell'agosto 1804, riprese i
rapporti con Monti.
Il 15 marzo 1805 morì a Parigi Imbonati dal quale Giulia
ereditò un grande patrimonio: il M. raggiunse la madre a
metà luglio. L'incontro fu decisivo per ambedue. Si
creò una condizione nuova: la ricchezza della madre
liberò infatti il M. dalla soggezione al padre. L'intesa dei
due coinvolse gli amici, in particolare Monti, Sophie de Grouchy
vedova di N. de Condorcet, C. Fauriel e P. Cabanis, A. Destutt de
Tracy con le rispettive mogli. Anche Foscolo (accolto però
con freddezza) incontrò i due a Parigi. Negli ultimi mesi del
1805 il M. scrisse l'epistola In morte di Carlo Imbonati. Versi di
Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre, in endecasillabi
sciolti, datata gennaio 1806.
Poesia provocatoria contro la società per i commenti
pettegoli sulla propria nascita e sulla relazione della madre, fu
stampata a Parigi da Didot all'inizio del 1806 ed ebbe in aprile
replica a Milano per cura di Pagani, che aggiunse una dedica a Monti
che il M. non gradì. Altre due stampe uscirono a Brescia e
Roma. La forma fu quella del sermone, dialogica e satirica:
prosopopea di Imbonati e, di nuovo (dopo i già citati sermoni
A Pagani e Se alcun da furia d'irritato nervo), l'appello alla
responsabilità di poeta e al culto del "santo vero".
Tra il 19 maggio e il settembre 1806 madre e figlio tornarono in
Italia: si incontrarono a Torino (allora sotto il dominio francese)
con il procuratore di lei e con la sorella di Imbonati per decidere
il destino di Brusuglio, il maggiore fra i beni ereditati. Un altro
viaggio (febbraio-maggio 1807) ebbe come mete Genova e Torino. A
Genova il M. rivide (era lo scopo del viaggio) Luigia (Luisina)
Visconti, di cui era stato innamorato da adolescente, sorella di
Ermes Visconti; la Beccaria, che sperava in un sollecito matrimonio
del figlio, restò tuttavia delusa nell'apprendere che la
donna era già sposata. Proprio a Genova furono informati il
20 marzo che Pietro Manzoni, malato, voleva rivedere il figlio, ma
giunti a Brusuglio seppero che aveva fatto testamento ed era morto.
Senza entrare in città ripartirono per Torino.
La scomparsa del padre permise al M. di aggiungere l'eredità
paterna ai beni Imbonati. Il patrimonio, divenuto notevole,
costituiva una responsabilità e una sfida. La critica ai
costumi italiani espressa fino ad allora esigeva che il giovane
possidente provasse a far meglio dei nobili suoi conterranei,
amministrando e costruendo una nuova famiglia. Brusuglio e il
Caleotto erano i posti giusti per quell'esperimento. Caduta l'idea
di matrimonio con la figlia di Destutt de Tracy, Augustine, proposta
da Fauriel, nel settembre 1807 madre e figlio tornarono a Milano
nutrendo progetti su Brusuglio e per investire nei poderi. C'era
anche una candidatura nuziale: Enrichetta Blondel, sedicenne
ginevrina, calvinista, estranea all'aristocrazia milanese ostile ai
Manzoni. Il matrimonio civile fu celebrato a Milano in municipio il
6 febbr. 1808; poi, nel palazzo che i Blondel avevano acquistato da
Giulia, il pastore G.G. Orelli benedisse gli sposi con rito
calvinista, visto il rifiuto delle autorità ecclesiastiche
milanesi di consentire la celebrazione di un matrimonio "misto".
Per porsi al riparo dalle maldicenze, dopo il matrimonio fu esteso
alla sposa il regime già vigente a Brusuglio: "Viviamo nella
più grande solitudine, tremando di paura ogni volta che
sentiamo una carrozza entrare in cortile, perché potrebbe
essere un importuno che viene a toglierci la nostra giornata per
disfarsi della sua" (Carteggio Manzoni - Fauriel, p. 62).
Giulia non si adattò però all'esperimento: preda di
malesseri, incapace di affrontare le chiacchiere, ottenne dal figlio
di poter tornare a Parigi. Il viaggio di Giulia e degli sposi si
concluse in una casa del boulevard des Bains chinois. Il 23 dic.
1808 nacque la prima figlia, Giulia Claudia (Giulietta).
Cominciò il biennio decisivo per l'acquisizione del cognome
Beccaria (il M. lo aggiunse al proprio), per l'amicizia con Fauriel
e il legame con Enrichetta.
Dal 1806 all'ottobre 1825 Fauriel rappresentò un riferimento
imprescindibile per il M.: più vecchio di 13 anni, critico di
Napoleone, custode di ortodossia politica, storico e letterato amico
di Anne-Louise-Germaine Necker (madame de Staël) e di Cabanis,
Destutt de Tracy e H. Grégoire, A. Thierry e V. Cousin,
Fauriel fu garante, traduttore, correttore del Manzoni. Le sue
lettere sono tra le poche fonti confidenziali del M., per il quale
fu come un fratello maggiore.
Fra i coniugi, nella scarsità di notizie documentarie sul
ménage (nessuna lettera al marito, tranne lo struggente
testamento), l'accordo pare pieno, non incrinato da divergenze
acute. Negli atti importanti come l'abiura del protestantesimo di
lei e il ritorno del M. alla fede, si coglie un convergere di
sentimenti che suppone il "sospiro segreto del cuore", cui serve che
l'"amore venga comandato, e si chiami santo" (capitolo VIII dei
Promessi sposi). Nei 25 anni di matrimonio dieci parti e numerose
malattie gravarono pesantemente sul fisico e sulla psiche di
Enrichetta; ma l'importanza del suo ruolo fu partecipata e compresa
da tutti, in specie dalla suocera che la riconobbe guida morale.
A Parigi (giugno 1808 - giugno 1810) gli interessi del M. si
estesero alla riflessione sull'etica classica cui era volto Fauriel
(la "storia dello stoicismo", che il M. incitava a scrivere), e alla
letteratura tedesca. L'atmosfera libera da pregiudizi gli
consentì una rinnovata disponibilità verso i rapporti
con vecchi e nuovi amici: decisiva fu, tuttavia, la comune scelta
della fede cattolica.
Anticipò la "conversione" l'ultimo frutto del classicismo del
M.: Urania, un poemetto in sciolti pubblicato a Milano nel settembre
del 1809. Sorretto da una concezione della letteratura in cui si
palesa lo sforzo di attualizzare un'etica della civiltà (in
polemica con le guerre coeve), il M. vi celebrò in veste
mitica l'idea di poesia civilizzatrice (le Muse), che svolge la sua
funzione con la mediazione delle Grazie le quali accompagnano le
Virtù (Pietà, Perdono, Onore, Fede, "ospital Genio")
presso gli umani. Fu, peraltro, l'ultima volta che, in chiave
metaletteraria, il M. ricorse all'artificio di far poesia sulla
poesia.
Al lento lavoro per Urania e A Parteneide (nata in tempi vicini, di
interesse per il genere idillio) si accompagnò (ma senza
tracce chiare) il ritorno alla fede cattolica. Otto mesi dopo la
nascita, Giulia fu battezzata nella chiesa di St-Nicolas di Meulan,
padrini nonna Giulia e Fauriel. Accolta la supplica del M. al papa
Pio VII per poter sposare Enrichetta con rito cattolico, la
celebrazione del matrimonio ebbe luogo il 15 febbr. 1810. In aprile
E. Degola, prete giansenista attivo nel proselitismo,
incontrò più volte Enrichetta alla presenza del M. per
istruirla al cattolicesimo e il 22 maggio accolse la sua abiura,
delegato dal capitolo di Notre-Dame. Assistettero laici e religiosi
inclinati per lo più a opinioni filogianseniste e gallicane.
Si chiuse così la prima fase della regolarizzazione della
famiglia, in vista del ritorno in Italia. Era un netto cambiamento:
certo per Enrichetta e Giulia, probabile per il M., il cui processo
fu più lento.
La leggenda accredita la conversione del M. a un incidente avvenuto
durante le feste per le nozze di Napoleone e Maria Luisa, il 2 apr.
1810: perduta la moglie in un movimento di folla, in preda a crisi
nervosa il M. sarebbe entrato nella chiesa di St-Roch invocando
l'aiuto del Dio di cui non aveva certezza. Nel ritrovamento di lei
avrebbe riconosciuto una prova per la propria fede. Sebbene il M.
non volle raccontare ai suoi questa vicenda, la connessione tra
l'ansia per la moglie e la percezione dell'aiuto divino non appare
priva di fondamento: confermano l'esperienza emotiva d'un aiuto di
Dio le voci riportate dai parenti (la figlia Vittoria, Stefano
Stampa) che parlano di gratitudine per la grazia della fede e del
ricordo di Saulo sulla via di Damasco. D'altra parte la religione
del M. denunciò sempre un aspetto raziocinante e G.B.
Giorgini sostenne che il M. giunse a credere "per via della logica":
la fede fu, pertanto, logicamente, quel che spiegava la
contraddizione tra "ciò che è e ciò che
dovrebbe essere" (la frase, presente nella prima lettera a Fauriel,
è tal quale si rinviene poi nella Morale cattolica): di
fronte alle cose inconoscibili, occorreva che la ragione non negasse
né sospendesse la domanda di senso, e accettasse la risposta
della Scrittura, dove dà conto di un bene, l'amore di Dio,
che soddisfa misteriosamente il senso umano di giustizia (per ultimo
F. Mattesini, Dalla "Morale cattolica" ai "Promessi sposi", in M. e
Gadda, Milano 1996, p. 13). Se tra bene e male non ci fosse
compensazione, varrebbe il paradosso della Colonna infame: negare la
Provvidenza o accusarla. Ciò porterebbe alla disperazione.
Vi erano ormai le premesse per il ritorno in Italia del 1810: orfano
di padre, capo famiglia ormai regolare, il M. fu anche libero
dall'obbligo di leva. E l'amore per Parigi sembra esaurito: in "ce
Paris que je n'aime point du tout" (Carteggio Manzoni - Fauriel, p.
133) unico riferimento rimase Fauriel.
A Milano, la famiglia mutò case e luoghi (lavori a Brusuglio;
abbandono del tempio funerario in cui era stato inumato Imbonati nel
1806; acquisto della casa di via Morone, unica proprietà in
città dal 1813; vendita del Caleotto nel 1818), principiando
abitudini nuove (pratiche di pietà con rituali dettati dai
direttori spirituali Degola e L. Tosi).
Benché sul ritorno gravasse l'ira dei Blondel per l'abiura
della figlia, essi erano sereni: il cattolicesimo dell'abbandono
alla grazia divina dava norma e induceva al raccoglimento. In agosto
il M. si confessò; in settembre i tre presero la prima
comunione. Milano assentiva, l'esperimento ebbe successo.
La vita fu regolata negli aspetti pratici da Giulia, nel modello
etico da Enrichetta: la famiglia fu strettamente nucleare per la
centralità del rapporto marito-moglie, volto alla
fecondità e all'educazione dei figli. I rapporti esterni
erano ridotti (nessuna frequentazione; c'era solo la presenza, per
consiglio e aiuto, di Giulio Beccaria, fratellastro di Giulia). I
figli, allevati finché fu possibile in casa, seguirono gli
spostamenti dei genitori che decidevano secondo competenza, avendo
pari autorevolezza morale.
L'adattamento a questa nuova fase non fu, tuttavia, un processo
senza contraddizioni. Il M. conservò affezione per i luoghi
d'infanzia, per il Caleotto in particolare - come confessò
nel capitolo I del Fermo e Lucia - ma allora aveva già
venduto la casa e gli altri beni di Lecco. Nella cappella rimase la
tomba del padre, ripudiato dal M. in favore della madre. Sulla
liquidazione dei beni ereditati, sul rifiuto di curare il sepolcro
paterno e sul silenzio che sempre gravò sull'infanzia, certo
pesò la scelta della figura materna. Ma è possibile
che a favorire quest'oblio abbia concorso un giudizio severo sui
tentativi della famiglia Manzoni di accreditarsi come nobile. Al
ritorno dell'Austria, infatti, i Manzoni richiesero le vecchie
patenti, mentre il M. non ne fece domanda. I Beccaria, patrizi,
avevano riscattato il privilegio con l'impegno nel governo e nella
cultura; i Manzoni no.
Il M. dette nuovo impulso anche all'attività di agricoltore,
nell'esercizio delle proprietà sue e della madre e
nell'organizzazione delle tenute. Da allora e per molti anni
studiò e mise in atto nuove tecniche di coltivazione di
specie arboree, cereali, vigne (con vinificazione diretta), cotone,
allevamento di bachi da seta (ancora attività dominante),
frutticoltura, giardinaggio. Coltivò specie ancora poco usate
(per esempio la robinia) e studiò le forme di rapporto con
fittavoli e operai applicate al suo tempo. Quando il 26 ag. 1833
scrisse l'unica lettera a J.Ch.L. Simonde de Sismondi (Lettere, II,
pp. 18 s.), nominò solo il suo Tableau de l'agriculture
toscane, primo libro ad avergli ispirato gusto per la vita rurale,
mai raffreddatosi. L'agricoltura fu praticata con passione e spirito
imprenditoriale, da seguace della tradizione lombarda più
aperta. Ci furono momenti di crisi, per carestie o tentativi di
innovazione non riusciti (per esempio la coltura del caffè);
ma l'interesse del M. per l'agricoltura non venne mai meno e
costituì, più ancora dell'attività poetica, una
risorsa vitale.
La vita religiosa della famiglia fu curata da Tosi, canonico di S.
Ambrogio fino al 1823, poi vescovo di Pavia, anch'egli di formazione
giansenista, incline a una pietas nutrita di penitenze e
carità. Degola e Tosi provarono a usare a fini apologetici
l'attività di scrittore del M., ma il poeta in un primo tempo
non fu disponibile come il credente. A Degola che chiedeva notizie e
apologie, rispose nel febbraio del 1812 che lavorava a un'operetta
"pensata a Parigi", non "sostanzialmente religiosa". Era la Vaccina,
poema idillico in ottave, portato non oltre 66 versi. Doveva
rappresentare la Lombardia delle valli, dove i pastori avevano usato
l'immunizzazione naturale contro il vaiolo ("vaccino, Lombardia,
montagne, tradizione" fu la tematica riferita a Fauriel il 5 ott.
1809). Poco si può dire tuttavia del progetto, abbandonato
nel 1814.
Quanto a sé, il M. operò, introspettivamente, una
revisione della propria vita: la conversione comportò un
riesame dei testi, anzitutto (ma non solo) quelli pubblicati. Gli
sciolti a Imbonati richiamavano lo scandalo della madre; Urania
usava un linguaggio idolatrico (la mitologia); neanche il sonetto su
Dante per Lomonaco sfuggiva all'autocritica, ché ricordava il
suicidio del destinatario. Il M. non distrusse tutti gli inediti che
erano circolati tra amici. Di altri si trovò poi copia:
scoperti di recente i versi contro un maestro di Longone, G. Volpini
mentre, da ultimo, il ritrovamento della dedica a Fauriel (36
sciolti) in un volume di opere di Alfieri (Manzoni inedito, a cura
di F. Gavazzeni, Milano 2002). Tra le cose perdute una "novellaccia
in ottave […] pessima", richiesta a un amico.
Il primo impegno "religioso" risale all'aprile 1812. La data
è nel manoscritto di Brera degli Inni sacri, nella prima
pagina con il primo abbozzo della Risurrezione, recante in fine la
data 23 giugno. Seguono i fogli con gli altri inni e le date di
inizio e fine: Il nome di Maria, 6 nov. 1812 - 19 apr. 1813; Il
Natale, 15 luglio - 29 sett. 1813; La Passione, 3 marzo 1814 -
ottobre 1815.
Gli argomenti e l'ordine degli inni fanno pensare a un'ispirazione
che trasceglie le ricorrenze per coincidenze di tempi: aprile
è mese pasquale per calendario; Il Natale fu cominciato
subito prima della nascita del figlio Pietro; La Passione fu scritta
quando Napoleone "cadde, risorse e giacque"; Il nome di Maria non
rivela coincidenze tra scrittura e calendario. I quattro Inni,
stampati entro il 20 nov. 1815 a Milano (la seconda edizione
uscì a metà 1822), ebbero scarso successo e poca
attenzione (lodati dallo Spettatore, furono recensiti con ritardo da
G.B. De Cristoforis nel Conciliatore del 4 luglio 1819). L'ultimo,
La Pentecoste, cominciato il 21 giugno 1817, interrotto più
volte, radicalmente modificato e compiuto tra settembre e ottobre
del 1822, fu stampato sempre a Milano alla fine di quell'anno; nel
1823 gli Inni sacri furono riuniti in ordine liturgico, cominciando
da La Pentecoste.
La novità fu clamorosa non per l'argomento né per
l'aspetto metrico, ma per la nuova configurazione del soggetto:
all'io (eroico, lirico o satirico che fosse) della poesia
tradizionale subentrava un io collettivo senza tratti sociali
determinati: un io/noi non definito per funzione poetica, latore di
una promessa di redenzione. Cose, oggetti e vicende sacre sono
caratterizzati con nuova sicurezza storica e realistica. "J'ai
tâché de ramener à la religion ces sentiments
nobles grands et humains qui découlent naturellement d'elle",
scrisse a Fauriel inviandogli il testo degli Inni il 25 marzo 1816
(Carteggio Manzoni - Fauriel, p. 199). I sentimenti sono nobili,
grandi e umani in sé: riportarli alla religione è
leggerli come valori cristiani per origine e storia.
Alla caduta di Napoleone il M. si schierò per l'autonomia del
Regno d'Italia, firmando il 19 apr. 1814 la petizione dei milanesi
per la convocazione dei Collegi elettorali. Il 20 il presidio di
folla al Senato finì col linciaggio del ministro G. Prina nei
pressi della casa di via Morone in cui i Manzoni erano appena
entrati. I firmatari, aristocratici come F. Confalonieri o
proprietari avversi ai Francesi come il M., non trovarono ascolto. A
posteriori il M. motivò la propria partecipazione al moto con
la canzone Fin che il ver fu delitto (poi Aprile 1814), iniziata il
22 aprile ma inedita fino al 1883 (in Opere inedite o rare, a cura
di R. Bonghi, I, Milano 1883, pp. 145-150), chiamando in causa il
risentimento per il regime caduto e l'autonomia promessa dai
vincitori. Un anno dopo, rimaste deluse le attese, il tentativo di
Gioacchino Murat d'invocare il sostegno italiano in nome della
nazione sedusse per breve tempo il M., che scrisse il frammento di
canzone Il proclama di Rimini, reso noto nel 1848.
Il M. soffrì particolarmente la sconfitta di Napoleone a
Waterloo. Ciò aggravò i sintomi di nevrosi già
affiorati a Parigi: vertigini e agorafobia, per testimonianze sue e
d'altri. Legato al Paese, rifiutò di collaborare alla
Biblioteca italiana, dicendosi, nella lettera a G. Acerbi del 26 ag.
1815, "sempre risoluto di non entrare in qualsivoglia associazione
letteraria" (Lettere, I, pp. 145s.). La scelta gli servì per
tenersi poi libero di fronte a ogni richiesta sgradita o a
onorificenze.
Assorbito il trauma, a cavallo tra il 1815 e il 1816 il M.
aprì il fronte del teatro tragico. Misurarsi con la tragedia
era una sfida forte, considerando anche la discussione recente in
Germania e Francia, che aveva avuto come protagonisti la Staël
del saggio Sull'utilità delle traduzioni e Sismondi con De la
littérature dans le Midi de l'Europe. Sulla scia delle teorie
romantiche il M. criticò la tragedia di tradizione (Corneille
e Racine in Francia, S. Maffei e Alfieri in Italia) e aprì al
dramma di W. Shakespeare e Fr. Schiller. Contro le regole del teatro
classico, attaccò le unità di tempo e di luogo che
strutturavano i testi in nome della verosimiglianza e sostenne,
d'accordo con A.W. Schlegel, modi di costruzione del testo che
accordavano libertà all'autore. Il M. affermava, così,
la funzione etica e sociale del testo teatrale, mentre la
libertà dell'autore diceva l'intimo vero degli uomini nel
momento del loro confronto con la storia.
A chiusura del biennio, riprendendo i contatti con Fauriel nelle tre
lettere del 1816, il M. sembrava un altro uomo. Se in quella del 30
gennaio - che portava tre copie degli Inni, di cui una per l'abate
Grégoire da parte di Giulia - diede notizie della famiglia e
scrisse dei propri mali ("mais il me paraît être en
chemin d'en guérir"), in quella del 25 marzo rievocò i
tempi di Meulan, confessando i disturbi nervosi ma anche
l'entusiasmo per il lavoro (una tragedia dedicata a lui, "son
meilleur ami").
Il M. sentiva che l'"imagination relativement aux idées
morales", come Fauriel aveva detto, "se fortifie avec l'âge
à la place de se refroidir". Ciò era avvenuto
"après avoir bien lu Shakespeare" e ciò che di teatro
si era scritto di recente, e "après y avoir songé". I
drammi di Shakespeare (letti nella traduzione francese di Pierre Le
Tourneur) erano dunque i modelli. Esperienza letteraria e cultura
morale aprivano il tempo delle opere nuove, con un metodo che si
sarebbe rivelato valido fino al romanzo: il M. partiva da un genere
di cui discuteva le regole d’uso e identificava un tema innovativo
nel campo teorico per ridefinire la forma dell’opera. Altra costante
la storia, dimensione di verità e condizione di poesia. Il 15
genn. 1816 è la data sulla prima pagina dell’abbozzo del
Conte di Carmagnola.
La vicenda era in Sismondi: il condottiero Francesco Bussone detto
il Carmagnola, assoldato dai Veneziani, batte per loro il duca di
Milano ma, sospettato di tradire i loro interessi, è
imprigionato a tradimento e messo a morte. Per la tragedia il M.
teorizzò e usò il coro – luogo di espressione
dell’autore – a esecrare le vecchie guerre tra Italiani. Il tema
poteva considerarsi d’attualità dopo le guerre recenti, ma
l’idea tragica rimane legata all’interpretazione della storia come
affermazione della dignità dell’uomo (singolo e nazione) e
della libertà.
Il lavoro sul Carmagnola durò fino al settembre 1819. Mentre
lo scriveva il M. compose la Pentecoste, iniziata nel giugno 1817 e
sospesa alla definizione di 10 strofe, poi rifiutate. Nel 1818 il
Carmagnola fu a sua volta sospeso, uscendo poi, per cura di E.
Visconti, all’inizio del 1820, mentre il M. si trovava a Parigi.
La famiglia era rapidamente cresciuta dopo la nascita della
primogenita Giulia: nel 1811 Luigia Maria Vittorina, vissuta poche
ore; Pietro Luigi, primo maschio, nel luglio 1813; Cristina nel
luglio 1815; Sofia nel novembre 1817; Enrico nel giugno 1819;
nell’agosto 1821 nacque Clara, vissuta due anni; 13 mesi dopo,
Vittoria; Filippo nel marzo 1826 e Matilde nel maggio 1830, quando
Enrichetta aveva 39 anni. Ai figli non mancarono affetto e premura,
inusuali anche in famiglie ricche come quella dei Manzoni. Ma
l’attenzione principale in casa era riservata al M., coi suoi
malesseri e i travagli, tra censura e autocensura.
Il desiderio del M. di tornare a Parigi, rimasto tale a causa del
rifiuto del passaporto, era cresciuto fin dal principio del 1817,
durante la stampa degli Inni. È a quest’altezza che si
colloca l’oscura crisi che investì il M., su cui ci si
è interrogati a partire dalla lettera di Tosi a Degola del 14
giugno 1817: il mittente diceva superato un «errore
gravissimo, che [il M.] andava a commettere» (Carteggio di
Alessandro Manzoni, I, p. 402), ma esprimeva il timore che Parigi ne
avrebbe messo a rischio l’equilibrio. Vinta la delusione, il M.
abbozzò La Pentecoste e compose l’Avviso che a dicembre 1817
precedette (in forma anonima) la traduzione dell’Essai sur
l’indifférence en matière de religion di F.-R. de
Lamennais. La lettura delle altre parti dell’Essai nel 1823 rese
infine chiara l’ispirazione integralista dell’autore, che
allontanò quanti non gradivano misture di trono e altare. Il
M. non tradusse l’opera (che si fermò al primo tomo,
diversamente da altre italiane); ma il suo nome entrò nel
carteggio tra Tosi e Lamennais.
Nel 1818-19 il M. scrisse Sulla morale cattolica. Osservazioni
(Milano 1819), opera apologetica dell’etica cattolica rivolta, in
particolare, contro le critiche mosse da Sismondi nell’ultimo
capitolo del XVI volume dell’Histoire des Républiques
italiennes du Moyen-Âge, uscito all’inizio del 1818. Malgrado
l’importanza del tema, è dubbio che il M. abbia scelto da
sé la difesa del cattolicesimo e, infatti, è
documentato un suggerimento di Tosi. Si tratta della prima prosa del
M. su un grande tema ideologico culturale.
Riprendendo la critica fiorita dal Cinquecento sull’Italia
postcomunale, mescolata alle polemiche riformate e a critiche
illuministiche, Sismondi affermava non esservi popolo in Europa
tanto occupato in pratiche religiose e meno osservante delle
virtù prescritte. Il M. rispose in difesa del cattolicesimo
come sistema di valori rivelati, e di una perfezione che risponde ai
bisogni morali dell’uomo: considerando la «legge
divina», accade che «l’intelletto passi di verità
in verità […] tutto si spiega col Vangelo […] e le cose
visibili s’intendono per la notizia delle cose invisibili» (Al
lettore). Vero che ci sono abusi ed errori più o meno gravi;
ma «bisogna chieder conto ad una dottrina delle conseguenze
legittime che si cavano da essa, e non di quelle che le passioni ne
possono dedurre» (p. VII). Deviazioni e colpe non condannano
il cattolicismo, confermano la corruzione della natura umana; rimedi
sono le virtù e l’adozione dei modi di penitenza che
risanano. L’opera è singolare, anzi unica per il tono
rispettoso e un argomentare che, celebrando i principî,
ammette le inadempienze. Anni dopo Sismondi confessò a T.
Mamiani: «il vostro Manzoni argomenta bene, ma i vostri preti
lavorano male; e poniamo pure che il règolo non sia distorto,
la Curia lo storce ella al bisogno e avvezza gli occhi del volgo a
falsar le misure» (cfr. M. e Leopardi, p. 344). Calda
accoglienza per solidarietà d’opinione ottenne il M. dalla
Chronique religieuse di Grégoire, che nel gennaio 1820
recensì le Osservazioni sottolineandone l’aspetto edificante.
Tra il 1816 e il 1819 il M. stabilì relazioni con ambienti
d’opposizione al governo austriaco. Legato a Confalonieri, buon
conoscente di L. Porro Lambertenghi, L. Arborio Gattinara di Breme,
G. Berchet, P. Borsieri, G.B. De Cristoforis e di S. Pellico, forte
estimatore della «cameretta» di C. Porta (con cui fu in
rapporto, e di cui ebbe notizie dal 1817 tramite T. Grossi, Gaetano
Cattaneo, G. Torti, L. Rossari e Visconti), vi è tuttavia
penuria di documenti circa la collaborazione. Nota è la
renitenza del M. a gruppi e sette, ma si può anche richiamare
l’avversione di Tosi, che voleva evitare alla coppia turbamenti
esterni. Tra i segni di rinsavimento del M. dopo la crisi del 1817
Tosi cita espressamente il non parlare più «di cose
politiche», e «attendere ai […] doveri cristiani»
con vantaggio dei suoi. Il M. non negò appoggio nemmeno al
Conciliatore, cui era abbonato: ma si trattò, in
realtà, di un consenso esterno e silenzioso (forse con
gradimento della rivista stessa). Peraltro l’atteggiamento di
estremo riserbo non fu destinato ai familiari né agli amici
più cari; alla fine del 1818 inviò a Fauriel le Idee
elementari sulla poesia romantica di Visconti, da poco comparse nel
Conciliatore.
Il foglio fu pubblicato fino all’ottobre 1819, esposto a una
pressione che si avvertì bene al di fuori della cerchia dei
redattori. Non è noto sapere quanta ne avvertisse
personalmente il M. che si dispose, quell’estate, a quel viaggio in
Francia cui aveva rinunciato nel 1817. In luglio furono stampate le
Osservazioni; il 23 dello stesso mese gli fu rilasciato il
passaporto; al 26 data l’ultima lettera a Fauriel prima del viaggio,
in cui si parla del libro e del Carmagnola giunto ormai quasi al
termine. All’urgenza di finire i lavori in corso prima della
partenza, si aggiungevano propositi d’ordine pratico – vendere
Brusuglio e la casa in città –, espressi nella corrispondenza
con Giulio Beccaria.
I Manzoni (compreso Enrico di soli tre mesi) lasciarono casa il 14
sett. 1819 e giunsero a Parigi il 1° ottobre. Il 7 si recarono a
Meulan dalla Condorcet, dove si trattennero fino al 20 novembre. A
Parigi risiedettero vicino al Luxembourg, donde partirono per Milano
il 25 luglio 1820, rincasando l’8 agosto.
Il primo periodo parigino trascorse serenamente; da febbraio, invece
(anche per l’assassinio di Carlo Ferdinando d’Artois, duca di Berry)
e ancor più dal 10 maggio, data di un évanouissement
grave, la salute del M. cominciò a peggiorare, tanto da dover
affrettare il ritorno, anche per i richiami di Tosi, cui Enrichetta
rispose con forza. Molti furono gli incontri di rilievo durante il
soggiorno parigino: alcuni con Grégoire, malgrado gli impegni
di questo come deputato e le polemiche suscitate dai reazionari.
Il giudizio del M. sul clero integralista – l’accusa suona di
«pelagianismo trionfante» – si legge in una lettera a
Tosi datata 7 aprile. Più felice fu, senza dubbio, il
rapporto con gli storici del milieu liberalmoderato, che ponevano il
tema dell’origine delle nazioni nell’alto Medioevo: F. Guizot e A.
Thierry, allievi di Fauriel e impegnati nel rivendicare il ruolo dei
popoli gallo-romani antenati della roture (il terzo stato), oppressi
dai Germani, generatori di valori democratici e liberali. Un utile
contatto fu quello con V. Cousin, per un decennio riferimento del M.
circa la conoscenza sul dibattito filosofico, e quindi amico per la
vita.
Intanto Il conte di Carmagnola e la sua prefazione suscitavano
polemiche: in Italia si registrarono attacchi di F. Pezzi nella
Gazzetta di Milano (cui risposero Porta e Grossi), in Francia
intervenne F.S. Salfi nella Revue encyclopédique. Frutto di
tali discussioni fu l’abbozzo di un testo sul nuovo teatro, che
faceva tesoro di riflessioni a partire dai Materiali estetici degli
anni precedenti. Il testo, stampato nel 1823 nell’edizione parigina
Bossange delle tragedie tradotte dal Fauriel, dopo la lunga
maturazione che coinvolse il M. e Fauriel, e che, pare, ebbe prima
della stampa un lettore come Stendhal (Christesco, pp. 49-51), fu la
Lettre à M.r Ch*** sur l’unité de temps et de lieu
dans la tragédie: il «manifesto più intenso del
romanticismo italiano» (Nencioni, La lingua del M., p. 139).
Si tratta della risposta a Victor Chauvet, sostenitore di posizioni
liberali su vari temi, recensore del Carmagnola nel Lycée
français del 1820. La Lettre non fu testo
«d’occasione»: vi ebbe luogo, con i temi delle
«unità», quello cruciale della corruzione
derivante dalla rappresentazione delle passioni, nonché il
tema nuovo della storia come condizione della poesia.
Tornato a Milano, il M. lavorò senza sosta fino al giugno
1827, data della prima edizione (la cosiddetta
«ventisettana») dei Promessi sposi.
All’altezza del 1820, il M. era pronto a continuare la scrittura
teatrale, interessato alla storia medievale e ai testi narrativi che
vi si ambientavano. Una lode di W. Goethe per il Carmagnola, non
attesa e perciò più gradita, fu di incoraggiamento e
salvaguardia contro possibili censure. La fama europea mise il M. in
vista e non ne compromise l’immagine, di puro poeta. Malgrado che,
con la fine del Conciliatore e la morte di Porta (nei primi giorni
del 1821), la casa del M. restasse unico luogo di innovazione, la
sua riservatezza non mutò; i maturi G. Cattaneo e Torti, il
coetaneo Visconti, Grossi e Rossari, legati alla
«cameretta» più che al periodico, mantennero
l’accesso, ma senza funzione politica. Unico
«conciliatore» nominato in lettere coeve fu G. Berchet
che, anche perché noto a Fauriel, fino alla fuga del dicembre
1821 tenne assidui contatti col Manzoni.
Il 17 ott. 1820 il M., per tramite di Cousin, fece giungere una
lettera a Fauriel. L’invio privato consentì di allegare alla
lettera testi rischiosi: un elenco di articoli del Conciliatore,
alcuni testi romantici e antiromantici, nonché il saggio di
Goethe sul Carmagnola. Documenti del passato recente, servivano per
un lavoro di Fauriel sui romantici lombardi. Il M. allegò
pure l’Ildegonda di Grossi, lodando l’autore e la novità
dell’opera. Dando notizia dello studio per un’altra tragedia, non su
«Adolphe» (Ataulfo), ma su «Adelgise»,
ultimo re dei Longobardi, aggiunse di non avere materiale per
spiegare i rapporti tra «conquérans barbares» e
«peuples indigènes subjugués et
possedés». Il primo manoscritto di Adelchi sarà
datato al 7 novembre.
La scrittura di Adelchi si intrecciò con quella del Discorso
sur alcuni punti della storia longobardica in Italia. I tempi,
desumibili dai manoscritti, furono: novembre 1820 - febbraio 1821, 2
giugno - 17 luglio, e, dal 2 agosto al 21 settembre l’atto V, con
revisione del progetto, che si rifletté sull’intero dramma
dai «primi di agosto 1821»; il 6 marzo 1822 la tragedia
fu consegnata al copista, dopo la stesura dei cori (13 dic. 1821 -
19 genn. 1822). Più di un mese servì per risistemare
tutto.
Adelchi mette in scena l’ultimo scontro tra i regnanti Longobardi,
che avevano schiacciato l’Italia, e Carlo re dei Franchi, che li
sconfisse e li sostituì nel dominio. La vicenda è
inscenata quale storia dei figli di Desiderio, Adelchi ed
Ermengarda, protagonisti-vittime: uno che vede con lucidità
la logica di forza impersonata dai re, e muore, patendo un torto che
non vuol più fare ad altri; l’altra che, dopo il ripudio
subito da Carlo (che ama ancora), muore offrendosi vittima che
sconta le colpe della sua stirpe di oppressori. La tragedia mostra,
nell’intreccio e nel disegno dei personaggi, una sensibilità
nuova e quasi un sapore di romanzo («dramma
romanzizzato» lo definisce Lonardi), e una traccia
cristologica, nella figura del sacrificio espiatorio da cui solo si
attinge una possibile salvezza.
Impegni coevi all’Adelchi, d’occasioni e generi vari, sono
accomunati dal rapporto tra storia e poesia. La prima occasione fu
data dai moti del 1821, presto soffocati, che produssero molte
vittime giudiziarie. A commento il M. compose l’ode Marzo 1821,
distrutta dopo lo scacco, mandata a memoria e pubblicata nel 1848 a
Milano con Il proclama di Rimini nell’opuscolo Pochi versi inediti.
Lo sfondo è dato dallo scontro tra dominati e dominanti e
dalle logiche di forza, che hanno fondamento nell’età
longobarda. Il tono parenetico evoca la profezia che trova in Dio il
garante della liberazione, ma si motiva pure con altri temi
profondamente storici.
Altro testo d’occasione fu Il cinque maggio, scritto in pochi
giorni, quando la Gazzetta di Milano diede il 16 e 17 luglio notizia
dell’avvenuta morte di Napoleone e della benedizione voluta dal
morente.
L’«ultima ora dell’uom fatale», suggello di una vita
privata che aveva acquistato valore universale, conteneva il senso
misterioso dell’amore di Dio. Davanti alla storia universale, di cui
Napoleone era interprete non valutabile («fu vera
gloria?»), sta l’identità di cui la poesia parla, la
persona sommamente degna di rispetto perché riscattata
attraverso il crocefisso, «disonor del Golgota», che le
fa scudo. D’ispirazione urgente, che porta a un’esecuzione senza
pentimenti, ripensamento della storia europea, è il coro
della tragedia vissuta dal poeta e dai contemporanei. Componimento
«misto di storia e di invenzione» in cui si esercita la
facoltà poetica, non di un individuo, del suo genio: la forza
intima che ha taciuto finché prevalsero motivi
d’opportunità, e «sorge commossa» a tracciare la
vicenda, universale pure nei presupposti individuali. Il
cattolicesimo antipelagiano del M., che celebrava la potenza della
grazia divina, riscosse grande consenso emotivo, legato
all’attualità e alla forza del racconto, storia di
un’esperienza di vitalità non riducibile alla regalità
d’ancien régime. Adeguata alla sensibilità
contemporanea è anche la proiezione della vicenda nello
spazio del mistero, che pone la grandezza sul bordo del nulla.
La stesura finale del Cinque maggio fu portata alla censura in due
copie. Il M. fece conto che, rifiutato il permesso, una copia fosse
restituita, l’altra diffusa senza responsabilità sua. E l’ode
presto circolò in Europa. La prima stampa fu a Lugano, luogo
franco per testi a rischio. Di lì cominciarono storia e
gloria, per un testo (lodato e tradotto da Goethe) che il M.
poté vedere stampato in Italia nel 1823 a Torino.
Altri testi non furono occasionali, ma progetti di respiro: La
Pentecoste, già citata, fu il più ideologico degli
Inni, perché invocava la dignità dell’essere umano e
l’universalità della comunione di cui la Chiesa è
«figura». L’evento pentecostale riscatta la
schiavitù (la tratta, di cui si parla in Europa e America) e
la povertà di tanti, ed è messaggio che non esclude
stato o età. Chi contempla l’intervento assume la voce degli
uomini per cui la preghiera si leva.
Il 24 apr. 1821 il M. cominciò a scrivere un romanzo. Aveva
letto quelli di Walter Scott (in francese), aveva riflettuto sul
rapporto tra la storia, accertamento di fatti umani senza privilegio
dei grandi, e la poesia, ritratto veridico dei sentimenti dell’uomo.
La riflessione, applicata alla tragedia nella Lettre à M.r
Ch***, valeva pure per la narrazione romanzesca su base storica:
«verosimiglianza e interesse, nei caratteri drammatici come in
ogni espressione poetica [comme dans toutes les parties de la
poésie], derivano dalla verità», storica e
psicologica. A Fauriel scrisse che, terminato Adelchi, si sarebbe
dedicato al romanzo, o alla tragedia su Spartaco (per cui aveva
raccolto materiale e predisposto la sceneggiatura), a seconda
dell’animo.
Fece la scelta più forte: non avrebbe più messo in
scena eroi «tragici» per funzione e profilo sociale, ma
persone di popolo: non Ninetta né Marchionn, cittadini, ma
Lucia e Fermo, operai della seta dalle valli vicine; non nel
presente, di cui non si parlava con libertà, ma nel passato
prima degli Austriaci, non troppo lontano. La storia è quella
di un matrimonio d’amore, che un signorotto proibisce minacciando un
curato pusillanime, e che si potrà celebrare solo quando
sulla scena d’inizio (un paese vicino a Lecco) e sull’intero
territorio lombardo saranno trascorsi gli anni (1628-31) e i drammi
della carestia, della rivolta, della guerra, della peste. Ricerche
sul Seicento il M. aveva fatto tra la fine del 1820 e l’inizio del
1821, lo testimoniano richieste di libri all’amico G. Cattaneo, che
glieli prestava dalla «grande Biblioteca» di Brera.
Degli schemi e appunti preparatori per la struttura dell’opera,
pochissimi sono giunti sino a noi; ci sono ipotesi di scadenze per
la conclusione di parti del romanzo, spesso mancate. Restano i
manoscritti cui fu affidato il lavoro di composizione, correzione,
riscrittura, che copre più di sei anni, dal 24 apr. 1821 al
12 giugno 1827, quando l’opera fu messa in commercio in tre volumi,
i primi due datati 1825, il terzo 1826, da Vincenzo Ferrario,
già editore delle tragedie e della Pentecoste. La
composizione del romanzo (che non ebbe subito titolo: fu Visconti a
chiamarlo, in una lettera a G. Cattaneo, Fermo e Lucia)
cominciò con due capitoli e un’introduzione, 24 aprile - fine
maggio 1821. Seguì la pausa di Adelchi, e solo il 29 maggio
1822 il M. si disse a Fauriel «enfoncé dans mon
roman»; a novembre era finito il secondo dei tomi previsti. La
fine giunse il 17 sett. 1823 (data nel manoscritto): il M. aveva
steso 37 capitoli in 4 tomi, ognuno dei quali numerava in serie
separate i capitoli, assumendo così precise delimitazioni.
Finita la scrittura del romanzo, il M. isolò un’appendice,
che iniziava da ciò che si diceva, alla fine del capitolo 4
del tomo IV, «sulla colonna infame», prima storia degli
untori, supposti colpevoli di diffusione della peste. E vergò
un’altra introduzione. Il 22 settembre, cinque giorni dopo la
conclusione del romanzo, scrisse al marchese Cesare Taparelli
d’Azeglio, autorevole esponente cattolico piemontese
tradizionalista, una lettera «sul romanticismo» inteso
come indirizzo letterario che si integra col pensiero religioso
moderno (Lettere, I, pp. 315-345, n. 191). Il testo, che doveva
rimanere privato, entrò piuttosto tardi in circolazione come
decisiva espressione della poetica manzoniana.
Fu così che il M. dedicò i mesi successivi al tema
della lingua: la questione, già precedentemente emersa
nell’incontro con Fauriel (la prima lettera a lui, 9 febbr. 1806,
dice l’italiano «quasi lingua morta»), si ripropose nel
dar voce a personaggi di grande varietà sociale e culturale,
quasi tutti lombardi che parlano tra loro.
Riaffiorato in testi di puristi (A. Cesari) e di innovatori moderati
(Monti e G. Perticari), il tema era tornato di cogente
attualità nel primo Ottocento. Ciò «pone da
subito e per sempre il problema […] della lingua, in una prospettiva
diversa e a lungo lontana dai contemporanei, perché coinvolge
i destinatari del messaggio letterario, il pubblico, una intera
società, per ragioni storiche nazionali» (Stella -
Vitale, Introduzione a Scritti linguistici inediti, p. XXXIII). Del
discorso linguistico abbozzato tra 1823 e 1824 il M. bruciò
quasi tutto, e ciò che resta non basta a definire
precisamente la posizione, eclettica quanto a modello, assunta al
momento.
Seguì per il M. un lavoro di correzione e riscrittura, cui
furono associati per un periodo Fauriel (ospite dei Manzoni dal
novembre del 1823 all’aprile del 1824, e dall’estate all’ottobre del
1825) e Visconti.
La più recente proposta riguardo alla storia del romanzo
(Isella, 2006) fissa la «Prima minuta» e la edita col
titolo Fermo e Lucia; definisce una fase seguente di «Seconda
minuta» (datata: «1824») con titolo Gli sposi
promessi, pensato per la stampa e modificato appena prima
dell’entrata in tipografia; si impegna alla prossima nuova edizione
critica de I promessi sposi sulla base della stampa Ferrario del
1827.
Il grande tour de force, dalla prima minuta a I promessi sposi,
affrontando la censura e il lavoro in tipografia, è stato
illustrato dai maggiori studiosi. A distanza di tempo il M.
raccontò al genero G.B. Giorgini il piacere della prima
scrittura. La fatica della scrittura finale si avverte da molti
documenti coevi.
È opinione diffusa che Fermo e Lucia e I promessi sposi
possano considerarsi romanzi diversi; i due testi narrano le stesse
vicende ma differiscono per altri aspetti: la successione dei
segmenti narrativi in Fermo e Lucia non rivela speciale cura per la
proporzione e armonia tra i tomi; l’autore si esprime senza filtri
ironici né scrupoli di spazio (Fermo e Lucia è
saggistico quanto narrativo); l’espressione di concetti religiosi o
etici è frequente; i comportamenti condannabili si narrano
liberamente. Ciò ha indotto a considerare Fermo e Lucia
«un’esperienza narrativa interrotta» (Varese). E non
è mancato chi abbia preferito il piglio di Fermo e Lucia
all’andamento armonioso, «virgiliano», dei Promessi
sposi.
L’attesa del romanzo era cresciuta nel tempo e nello spazio: da
Thierry e altri, in Francia erano venuti nel 1824 segni d’attenzione
per le soluzioni che – per il genere del romanzo storico – il M.
avrebbe adottato (Christesco), quasi fosse in gestazione un nuovo
modello. Inviato agli amici o venduto da metà giugno del
1827, I promessi sposi ottenne enorme successo; le prime edizioni,
quella del Ferrario curata dall’autore (2000 copie) e quelle
stampate in fretta da altri, risultarono presto esaurite.
A metà luglio il M. partì con la famiglia (tranne
l’ultimo nato) per la Toscana, meta la cui scelta, di interesse per
la questione della lingua, teneva anche conto di legami recenti come
quello col granduca Leopoldo II (un esemplare del romanzo gli era
stato inviato il 4 luglio). Il viaggio, con soste a Genova e
Livorno, sarebbe stato utile anche a Enrichetta, stremata dalle
gravidanze. Ai motivi pubblici e privati si aggiungeva quello di
stabilire legami con G.P. Vieusseux e G. Capponi, rafforzando
così una cultura nazionale articolata, realistica, capace di
superare le frontiere.
Firenze – dove rimase dal 29 agosto al 7 ottobre – fu per il M.
luogo di contatti lusinghieri. Il gabinetto Vieusseux fu sede di
vari incontri: G.B. Niccolini, M. Pieri, P. Giordani, G. Micali, G.
Montani, G. Cioni (cui si associa il nome di G. Borghi); N.
Tommaseo, G. Leopardi, T. Mamiani e altri collaboratori di riviste
di Vieusseux come A. Benci, stranieri come A. de Lamartine e F.K.
von Savigny. Il M. scelse anche chi poteva aiutarlo nella correzione
dei Promessi sposi secondo l’uso di lingua dei fiorentini colti.
Altre consulenze (G. Libri) furono trovate più tardi.
Seguì la nomina alla Crusca come socio corrispondente, decisa
nel dicembre e sanzionata dal granduca: cosa notevole per chi
passava da «capo setta» dei romantici milanesi, e non
indolore, date le differenze di tesi linguistiche. La consacrazione,
di cui si discuteva, non fu solo riconoscimento di una posizione
eminente allo scrittore che dava un romanzo europeo all’umile Italia
da tanti secoli senza riscatto. La Toscana dell’Antologia si
accreditava a sua volta stringendo nuove relazioni con la Lombardia.
Di ritorno a Milano il M. riprese la correzione linguistica,
giovandosi di strumenti più raffinati rispetto a quella
cominciata dopo la «prima minuta».
In Italia non mancarono, con le approvazioni, le critiche dei
tradizionalisti. Tutti avvertirono la novità dei Promessi
sposi, e interventi positivi vennero da P. Zaiotti, che però
avanzò riserve sui protagonisti, da A. Cesari e da P.
Giordani, che, senza recensire in proprio, puntarono su alcuni
aspetti del romanzo (quello religioso il primo, quello politico
l’altro). Salfi contestò la presenza, a fronte di
«grands personnages», di altri «si vulgaires et si
bas»: Renzo, Lucia e Agnese. G. Salvagnoli Marchetti
deprecò in Gertrude «tanta pittura di scostumatezza e
sceleraggine». Notevoli gli interventi di Tommaseo, pieno di
riserve, e di G. Scalvini. Leopardi, che apprezzò il M. nei
colloqui fiorentini («un bellissimo animo e un caro
uomo», confidò al padre il 17 giugno 1828),
avvicinatosi ai Promessi sposi con diffidenza, giudicò infine
il romanzo «veramente una bell’opera» (ad A. Papadopoli
25 febbr. 1828): lettore troppo attento per negarne la
qualità, ma di troppo diversa opinione per sentirla vicina.
Riserve politiche gli attribuì Mamiani, a carico
dell’ambientazione spagnola che riteneva filoaustriaca, e del
«sugo» utile per «una riforma morale», non
tale «che basti a levar su dal fango una nazione invilita e
spirarle ardimento» (M. e Leopardi, pp. 347 s.). Goethe,
entusiasta dei primi due tomi, apparve deluso dagli inserti storici
del terzo, che a suo giudizio soffocavano la poesia.
Negli anni successivi il M. si erse a teorico equanime sul tema nel
discorso Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di
storia e d’invenzione (poi, in Opere varie, Milano 1850), forse il
lavoro che meglio esprime il suo spirito di riesame.
Nel romanzo storico – cui si possono accostare epica e tragedia,
anch’essi generi misti – «c’è un’unità verbale e
apparente», non una «unità razionale». Per
la rappresentazione del vero il mezzo è la storia: su di essa
il M. si sofferma con accenti ancora condivisibili in una grande
apologia. La riserva espressa sul romanzo parve sorprendere persino
lui se, pubblicando il saggio, ne additò la differenza con la
Lettre precedente: «se ho mutato opinione, non fu per tornare
indietro». Così il M. sottolineava la ricerca di
verità, motivo comune ai due testi; ma c’era anche un
distanziamento dai Promessi sposi, in nome del rifiuto del genere,
già invecchiato rispetto al nuovo impegno per la
realtà presente nel quadro europeo.
«Manzoni bleso, magro, alto, cortese molto […] è poco
sano, e scrive poco», è l’appunto di Libri (13 marzo
1830) che lo visitò passando per Milano e fu eletto tra gli
esperti per la lingua. Sebbene non produttivo quanto negli anni
1815-29, d’ora in poi il M. fu sempre più onorato da
viaggiatori d’ogni provenienza, europei e americani di diverse
nazionalità. I francesi in specie, malgrado l’esaurimento
dell’amicizia con Fauriel, continuarono ad alimentare l’attenzione
per lui.
Ebbe ancora in sorte di assistere a grandi eventi: dalla rivoluzione
di luglio nel 1830 al 1848 italiano ed europeo, dalla nascita dello
Stato unitario alla fine del potere temporale. In tale quadro non
ebbe motivo di cambiare i suoi parametri di giudizio. La lunga
maturità portò nuove conoscenze e frequentazioni
sociali impegnative: un moderatismo più evidente, un coraggio
morale meno aperto, ma, nei campi frequentati, l’intrepidezza nella
capacità di motivare le sue scelte.
Mentre finiva I promessi sposi, strinse amicizia con A. Rosmini
Serbati, che dopo un primo contatto nel marzo del 1826 fu introdotto
presso i Manzoni da Tommaseo, loro ospite da tempo. Il M. gli fece
leggere i due tomi del romanzo già stampati e ne
ricavò un giudizio entusiastico (tranne che per la lingua, su
cui Rosmini nutriva riserve di matrice puristica).
Da allora i due non si persero di vista, anche se non sempre si
scrissero con frequenza; per il M., Rosmini fu punto di riferimento,
filosofo e teologo di un cattolicesimo forte, con un tono di
conservatorismo nobiliare, ma, dopo una fase reazionaria, critico
del temporalismo e in dialogo col pensiero liberale. Il M. ritenne
che con Rosmini nascesse una filosofia italiana, prima inesistente.
Il convincimento lo aiutò a staccarsi dall’eclettismo di
Cousin, poi a diffidare del nuovo idealismo di V. Gioberti. Tuttavia
mantenne con Rosmini autonomia di giudizio (o resistenza a lasciarsi
persuadere): dai dubbi iniziali sulla definizione dell’idea di
essere, fondamento del Nuovo saggio sull’origine delle idee, a
quelli sulle tesi federaliste che Rosmini sostenne nella crisi del
1848-49, alle riserve sul duro giudizio contro i nemici del potere
temporale. Non è certo, ma è sostenibile che il M.
abbia potuto leggere Delle cinque piaghe della S. Chiesa (uscito
anonimo a Lugano e messo all’Indice il 30 maggio 1849) e ne abbia
condiviso rilievi e proposte. Tuttavia i piani su cui i due
affrontavano la crisi rimasero distinti.
L’opera del M. maggiormente segnata dalle idee rosminiane fu
Dell’invenzione, (dialogo forse impostato nel 1848 e confluito
anch’esso nelle Opere varie).
Tema ne è la cosiddetta «creazione» artistica, in
realtà ritrovamento dell’«idea»,
«invenzione», «ab eterno in mente di Dio».
La dottrina produsse un dialogo «più concertante che
confutante» (Nencioni, Premessa a Scritti linguistici inediti,
p. XXV), in cui si proclama un nuovo accordo tra ragione e fede:
traguardo mai abbandonato e ora cercato in una gnoseologia
teocentrica che integra la morale cattolica. Se la dottrina è
pacificante, nell’ultima parte riappaiono J.-J. Rousseau,
disinteressato, onesto, spinto da una metafisica erronea, e M.
Robespierre, credente nella bontà dell’uomo, nato
«senza inclinazione viziosa», e persuaso «che la
sola cagione del male che fa e del male che soffre, sono le viziose
istituzioni sociali». Altro oggetto di polemica è la
massima di H.G. Riqueti de Mirabeau: «La petite morale tue la
grande», detto che fa della trasgressione un atto sapiente,
«della violazione del diritto un’opera bona». Il M.
polemista produce risultati quando esce dalle formule e tocca i temi
della contraddizione.
La morte di Enrichetta avvenne il 25 dic. 1833: per il M. la
rassegnazione fu conquista durissima, non senza intime ribellioni.
Ne fu prova il tentativo di un inno (1835), Il Natale del 1833,
incompiuto, che avverte il «mistero della sorda e terribile
onnipotenza divina» (Nencioni, Premessa a Scritti linguistici
inediti, p. XXV), non formulato nelle Osservazioni sulla morale
cattolica che insisteva sulla misericordia di Dio. L’anno dopo
morì Giulietta, primogenita e moglie male amata di Massimo
Taparelli d’Azeglio.
Se il M. era acutamente sensibile, non era però fragile.
Nelle crisi trovava la capacità di adattarsi, con istinto
fermissimo. Sapeva di essere uomo uxorius e sposò, il 2 genn.
1837, Teresa Borri, di 38 anni, vedova dal 1822 del conte Stefano
Decio Stampa. Il matrimonio, che pur suscitò critiche nei
suoi confronti, gli ridiede equilibrio psicologico ma cambiò
nel profondo l’orizzonte familiare. Teresa (che portava con
sé il figlio Stefano) prese la guida del ménage
scalzando Giulia Beccaria, pur riluttante ma stanca, e si
affermò nel ruolo di custode del Manzoni. Con
difficoltà si definirono nuovi equilibri; sempre pronto a
difendere Teresa, il M. preservò la riservatezza della
famiglia e molte amicizie (non tutte), allargando le frequentazioni
al côté Borri e Stampa, aristocratico e moderato. Il
matrimonio durò fino alla morte di Teresa nel 1861, non senza
un percettibile ispessimento delle distanze psicologiche fra i due.
Il gruppo familiare si disperse: i figli formarono nuove famiglie
lontano da Milano e Brusuglio. Nel 1841 morirono Cristina, sposata
con C. Baroggi, e Giulia Beccaria, custode di affetti e memorie; nel
1845 morì Sofia, sposa di Lodovico Trotti, nel 1856 a Siena
Matilde, ultima figlia, lontana dal padre e desiderosa di rivederlo.
Vittoria, che aveva sposato Giorgini nel 1846 e si era presa cura di
Matilde, fu l’unica figlia che sopravvisse al Manzoni. Nel 1868
morì Filippo, ormai ribelle al padre.
Dall’aristocratica Teresa, con interessi d’arte e di novità,
venne forse l’idea, o la spinta, a una nuova edizione dei Promessi
sposi (Milano 1840-42), curata e intrapresa a sue spese dal M. con
la collaborazione degli stampatori Guglielmini e Redaelli,
illustrata secondo la moda per i libri più noti sui mercati
d’Europa.
Per la prima volta un’iniziativa letteraria del M. si motivava dal
lato economico. L’idea di illustrare (che s’aggiungeva alla nuova
veste linguistica) prendeva atto che i romanzi arricchivano gli
autori capaci di promuoverli; in più, il M. non aveva
abbandonato il progetto dell’operetta in appendice ai Promessi
sposi, il processo agli untori, vera novità.
Tutto ciò rimise in moto la revisione linguistica in senso
fiorentino (tra i consulenti, due donne di ceto modesto, Emilia Luti
e sua madre Giovanna Feroci, utili in particolare per il lessico e
la fraseologia d’uso quotidiano), sollecitò lo spirito
d’impresa, mise il M. davanti a una forma mista di narrazione. Le
vignette, disegnate dal pittore F. Gonin e incise da vari artisti
con una tecnica ancora rara in Italia, avevano lo scopo di dar
pregio all’opera facilitando la lettura popolare e di rendere
impossibili le contraffazioni.
Sul piano economico l’impresa fallì. Più di
metà della tiratura (10.000 copie) rimase invenduta. Molti
leggevano ancora l’edizione del 1827 (nella «quarantana»
il fiorentino del M. suscitava resistenze anche più forti).
La fortuna infine toccata alla «quarantana» (non nella
forma illustrata, fino a oggi) non fu dovuta però solo
all’accesso dei Promessi sposi tra i classici per la scuola. Al
netto della polemica contro il fiorentinismo, le analisi comparative
delle redazioni documentano la plasticità e la
vitalità espressiva del romanzo: che un fiorentino del 1840
potesse cogliere in fallo il M. conta oramai poco.
L’edizione 1840-42 comprendeva la Storia della colonna infame,
racconto dell’indagine, condanna ed esecuzione di alcuni pretesi
untori, tra la fine di maggio e l’agosto del 1630. La Colonna infame
comparve nel volume a stampa dopo il romanzo, di cui pareva far
parte perché annunciata come un «opuscolo in fine del
volume», e perché la parola «Fine», a
chiusura del volume, stava dopo l’«opuscolo». Ma il
frontespizio non allude alla natura di Appendice della Colonna
infame, non c’è coerenza tra i toni narrativi dei due testi e
nemmeno tra i registri: la Colonna infame carica di sentimenti
d’orrore etico e religioso e il romanzo pervaso di complessa ironia.
In ciascuna delle tre stesure la Colonna infame appare un vertice
nell’opera storica del Manzoni. Il genere non è il romanzo,
ma la cronaca storico-saggistica. Vivono qui personaggi più
che verosimili (in presa diretta dagli atti giudiziari, fonte del
racconto) e oggetto della pietas del narratore. La tesi che pone la
colpa nei giudici più che nella legislazione (che ammette la
tortura, pure uso barbaro) prende peso nell’affermare la
responsabilità dell’uomo, e, accanto, il mistero
inattingibile della volontà divina. L’opera non ebbe
successo, a prova del distacco del M. dal gusto corrente.
Dopo l’edizione Guglielmini-Redaelli, «celebre e
sfortunata», il M. concordò con Redaelli la
pubblicazione delle Opere varie, prevista in pochi fascicoli (8 o 9,
uno al mese), a un prezzo modico. L’iniziativa riuscì, ma non
in tempi brevi: l’ultimo fascicolo (le Osservazioni sulla morale
cattolica, con molte varianti per influenza di Rosmini, e una grande
giunta sulla morale utilitaristica) comparve nel 1855. Consapevole
che le Opere varie non avevano l’attrattiva del romanzo, il M.
tuttavia affidava loro la sua figura di intellettuale. Fu
perciò assai attento nel rivedere i testi, dal punto di vista
della lingua e da quello dei contenuti: le Osservazioni sulla morale
cattolica, come il Discorso sopra alcuni punti della storia
longobardica ebbero sostanza e forma diverse.
Nel 1845 il M. aprì un confronto legale con Felice Le
Monnier, poiché l’editore aveva inserito nella collana
«Biblioteca nazionale» I promessi sposi nella stesura
del 1827. Il M., che s’avvaleva della convenzione del 1840 tra gli
Stati italiani sui diritti d’autore, denunciò l’operazione.
Pubblicò nel 1860 a Milano la Lettera all’economista G.
Boccardo intorno a una questione di così detta
proprietà letteraria, che ebbe posto tra gli allegati alla
causa. E alla fine riuscì vincitore; patrono in un grado di
giudizio era stato G. Montanelli. Il risarcimento ottenuto fu
rilevante.
Quanto all’evoluzione sul tema della lingua, il percorso si snoda
dalla soluzione del problema della prassi linguistica per I promessi
sposi 1840-42 alle tesi esposte in Sulla lingua italiana. Lettera a
Giacinto Carena (26 febbr. 1847, apparsa nel fascicolo VI delle
Opere varie) e Dell’unità della lingua e dei mezzi di
diffonderla. Relazione al ministro della Pubblica Istruzione… (in
Nuova Antologia, marzo 1868, pp. 425-441). Altri scritti confermano
problemi e soluzioni. Il percorso rivela il travaglio del M. sul
piano della linguistica teorica e il suo indirizzo innovativo
rispetto alle tradizioni che interpretavano la lingua come tema
estetico, non come fatto comunicativo di interesse civile.
Dopo il cosiddetto «libro d’avanzo», il M. fu costretto
a usare, nella definizione della lingua dei Promessi sposi, una
pratica contaminatoria: cercare le parole nel Vocabolario della
Crusca, nel Vocabolario milanese-italiano di F. Cherubini, negli
autori toscani di ogni secolo. Il primato storico della lingua
toscana (e di quella fiorentina) gli fu presto presente, tra il 1824
e il 1825. Qualcosa più che una ipotesi è per tali
anni l’esistenza di «una fonte orale» toscana, di
conoscenza di Grossi e di Rossari (Stella - Danzi, p. 1002). Accordi
tra toscano e lombardo attirarono l’attenzione del M. a lungo, fino
agli anni Trenta. L’ideale di questa fase era una lingua comune,
fatta di parole e modi esistenti in toscano e corrispondenti in
altri dialetti.
Non è facile stabilire il momento nel quale la lingua toscana
(con le varietà locali e sociali caratterizzanti) fu adottata
senza riserve come sola e vera lingua degli Italiani. Quel momento
si fissò al tempo di ideazione e di reiterati tentativi di
scrivere Della lingua italiana, «inconcluso» tra
«un vasto materiale eterogeneo» anteriore al 1830 e
cinque «redazioni» su cui, con interruzioni, l’autore si
impegnò fino a dopo l’Unità. Si ritiene che la scelta
radicale del fiorentino dell’uso colto debba essere collocata verso
la metà degli anni Trenta.
Ma questo fu soltanto l’aspetto relativo alla decisione che la
nazione (ancora divisa) doveva prendere sullo strumento della
comunicazione tra le sue storiche componenti. Ciò che
riuscì al M. fu in realtà di convincere (con
difficoltà, mai del tutto e in molto tempo) che
l’«uso», il fisiologico movimento del linguaggio,
dovesse essere promosso da problema della letteratura a soluzione e
regola linguistica: è «di quelle risposte che, non dico
risolvon le questioni, ma le mutano». Appunto: indicato il
luogo dell’«uso» più ricco, contrattualizzato,
aderente alla conversazione, «diastratico», basta
insediarsi in esso, dov’è il discorso necessario e
sufficiente. Non quello della poesia, che è un
«idioletto» ma quello del dialogo sociale,
«democratico».
Recentemente Nencioni (Introduzione al Congresso internazionale sui
problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del
Manzoni… 1985, Milano 1987) ha ben indicato ispirazione e risultati
della scommessa del M., leggendo la ricerca dei recenti studiosi in
un’ottica convergente. Forse alla nostra distanza la faglia che
separò l’immagine di Firenze dai bisogni
«politecnici» e dalla linguistica storica di matrice
tedesca, può essere non diciamo saldata, ma letta in modo
diverso. Se la proposta del M. non fosse stata fatta, c’è da
chiedersi, allora, quale soluzione si sarebbe prospettata in vista
di un necessario indirizzo politico.
La nuova entità statuale, unitaria e indipendente, liberale
e, a scapito di sue preferenze ideali, monarchica, fu per il M. un
fermo obiettivo. Ciò motivò il suo rapporto con gli
intellettuali toscani (oltre a Vieusseux e Capponi, i giovani
Montanelli, Giorgini – che sposando Vittoria fu il più vicino
a lui – e G. Giusti) e, nel 1848, l’adesione alle Cinque giornate di
Milano, culminata nella firma del proclama-appello del 22 marzo, in
cui la Municipalità chiese l’aiuto dei «popoli e
prìncipi italiani, e specialmente del vicino e bellicoso
Piemonte». Data l’emergenza, nel M. non si avvertì
traccia dei contrasti tra federalisti repubblicani e unitari
filo-piemontesi. Filippo, il solo figlio che abitasse con lui
(Parenti, 1973, p. 190), combatté con l’assenso del padre e
fu catturato dagli Austriaci (e liberato a luglio). La famiglia
donò materiali sanitari e beni di soccorso ai combattenti. In
giugno il M. fece pubblicare a beneficio dei patrioti veneti i Pochi
versi inediti del 1815 e del 1821.
Tornati gli Austriaci, il M. riparò prudentemente a Lesa, sul
lago Maggiore, nella villa Stampa che aveva frequentato dal 1839
(anche per incontrare Rosmini a Stresa), e vi restò due anni.
Rientrato a Milano, la sua posizione ferma e costante fu quella
filopiemontese che appare dai rapporti con l’ex genero d’Azeglio,
con i Provana di Collegno e altri esponenti della nobiltà
piemontese, unitari e cattolici, conservatori più di lui. Nel
1850 incontrò Camillo Benso conte di Cavour:
«Quell’omino promette assai bene», scrisse poi al
Berchet (Lettere, II, p. 667). Fu lui il politico ammirato come
autore dell’Italia unita (ibid., III, pp. 179 s.) e compianto per
l’immatura morte.
Il 9 ag. 1859, «a titolo di ricompensa nazionale», il re
Vittorio Emanuele II assegnava al M. una pensione annua di 12.000
lire: il fatto, carico di senso politico, andava ben oltre il
riconoscimento culturale. Il M. (che non voleva accettare impegni,
per esempio di presidente perpetuo dell’Istituto lombardo di scienze
e lettere, che infine gli fu conferito a titolo onorario), neanche
gradiva croci o cordoni cavallereschi, schermendosi dietro rifiuti
opposti ad altri sovrani.
Il 29 febbr. 1860 fu nominato senatore. La monarchia aveva interesse
a manifestare gratitudine al M., rappresentante di un’opinione
cattolica consenziente all’impresa nazionale. Qui s’incardina
l’altro aspetto radicale della posizione del M., il pensiero
antitemporalista sotteso al voto favorevole alla creazione del Regno
d’Italia (marzo 1861) e a Firenze come capitale provvisoria del
Regno (novembre 1864). Per votare nel 1864 il M. resistette ai
suggerimenti di d’Azeglio, degli Arconati e d’altri, che lo
sconsigliavano.
Nel 1864 erano stati pubblicati due documenti papali, l’enciclica
Quanta cura e il Sillabo. Chi era stato turbato dal cattolicesimo
politico nel 1820, e nel 1832-33 aveva assistito alla condanna delle
tendenze liberali di Lamennais, ascoltando su sé e su Rosmini
le insinuazioni di giansenismo, per difendersi avrebbe dovuto
pentirsi della propria vita. S’intende che non c’era posto nella sua
prospettiva per il neoguelfismo né per il laicismo di Cavour.
Lo Stato non poteva, secondo il M., assumere valori morali di
dignità al pari della religione; no dunque, per esempio, al
matrimonio civile, sebbene identità e sovranità dei
popoli non fossero in discussione (su ciò era fondata anche
la simpatia per Garibaldi, che lo visitò nel marzo 1862).
Avverso al potere temporale, il M. accolse tuttavia con qualche
sollievo il dogma dell’infallibilità pontificia del Vaticano
I, giacché, come cattolico, aveva temuto che le condizioni
per l’esercizio della prerogativa potessero limitare
l’infallibilità.
La figura politica del M. ebbe risalto dal punto di vista simbolico
per la risonanza e l’ispirazione delle sue convinzioni: eppure,
anche in questo campo, il M. rimase sostanzialmente un isolato. I
liberali toscani avevano posizioni diverse; i riformatori religiosi
tra loro apparivano più radicali. Il movimento cattolico che
avrebbe potuto trovarlo vicino per certi aspetti, era lontano dal
nascere. I cattolici liberali erano dispersi, il clero per lo
più integralista e d’opposizione.
L’ultima impresa del M. scrittore fu raccontare La Rivoluzione
francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Il progetto
non fu condotto a termine, e l’ipotesi di lavoro, irrealistica (si
tratterebbe di due rivoluzioni simili, la seconda giusta
perché moderata e non violenta), fu accennata ma non svolta.
Ciononostante il racconto dei primi passi della Rivoluzione di
Francia si legge con piacere, per la tenuta della narrazione e la
capacità d’analisi morale e psicologica dei moventi personali
e di gruppo.
All’inizio del 1873 una caduta sulla scalinata di S. Fedele
procurò al M. un trauma fisico cui seguì un
intermittente ma rapido declino, dal M. sintetizzato così il
27 aprile: «sono passato dalla mia verde vecchiaia a una
rapida decrepitezza» (Fiorentino, Gli ultimi momenti…, p.
264). Alcuni testimoni parlarono di interruzioni del controllo della
coscienza, e di paure ossessive del giudizio divino. Quattro
settimane prima di lui era morto il figlio Pietro, unico maschio che
non gli avesse dato gravi preoc;cupazioni.
Il M. morì a Milano nel pomeriggio del 22 maggio 1873, dopo
un ultimo lucido intervallo, e fu un evento di rilievo nazionale.
Per il solenne funerale, una settimana dopo, furono mobilitati il
Paese e la città.