da
Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975
FOLKLORE
Nell'accezione gramsciana, la definizione di folklore rinvia
immancabilmente a quella di senso comune perché è una
delle sue espressioni più specifiche; una delle sue forme, ma
anche uno dei suoi elementi costitutivi. Se ne distingue non per una
o più differenze minori, ma per la sua complementarità
con esso. Sono intimamente legati e dalla loro unione sorge
ciò che si chiama comunemente la cultura popolare.
Gramsci si è interessato al folklore perché per lui
rappresentava una via d'accesso alla conoscenza popolare, visto che,
fino allora, tutti i tentativi per conseguire questa conoscenza
erano falliti. Due ragioni essenzialmente giustificano questo
fallimento: una di ordine metodologico, l'altra concettuale. D'altra
parte, le sue «osservazioni sul folklore» sono una serie
di rilievi critico-metodologici a proposito dei diversi studi sul
fenomeno che, nel corso della loro analisi, spostano i termini del
problema della realtà che il folklore costituisce. Tanto
più quando pensano di farlo rientrare in categorie
precostituite, vaghe e imprecise come «la letteratura, l'arte,
la scienza, la morale popolare» (LVN, EI p. 215, ER p. 267) o
di degradarlo a «elemento pittoresco» o, infine, di
catalogarne le particolarità senza riuscire a organizzarle,
classificarle o selezionarle. Metodi dunque insufficienti ma anche
erronei perché fondati su una falsa concezione del folklore.
Esso «non dev'essere concepito come una bizzarria, una
stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è
molto seria e da prendere sul serio» (LVN, EI p. 218, ER p.
270).
In realtà il folklore «è» una concezione
del mondo e della vita in larga misura implicita di strati
(determinati nel tempo e nello spazio) della società in
contrapposizione con le concezioni del mondo «ufficiali»
(LVN, EI p. 215, ER p. 267). Questa formulazione riveste una grande
importanza perché le classi subalterne, che non hanno ancora
preso coscienza di sé, sono incapaci di elaborare la loro
concezione del mondo, cioè una filosofia coerente in grado di
opporsi alle «altre». Il folklore ha appunto questa
funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati
inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in
grado di resistere alle influenze delle filosofie
«superiori» e di formularne una critica
«rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò
che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza
«diffusa» degli elementi incolti della società,
costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e
dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato
è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che
si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la
fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si
presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.
Ma il folklore costituisce una via d'accesso alla «conoscenza
del popolo», se si ammette che il popolo in se stesso
«non è una collettività omogenea di cultura, ma
presenta stratificazioni culturali numerose, variamente combinate,
che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in
determinate collettività storiche» (LVN, EI p. 221, ER
p. 274), e che il folklore, in quanto produzione del popolo, ne
costituisce la più fedele immagine.
*
Wikipedia
Il termine folclore o folklore (dall'inglese folk, "popolo", e lore,
"sapere") si riferisce all'insieme delle tradizioni arcaiche
provenienti dal popolo, tramandate oralmente e riguardanti usi,
costumi, leggende e proverbi, musica al canto alla danza, riferiti
ad una determinata area geografica o ad una determinata popolazione.
La nascita del termine
L'origine del termine folclore è attribuita allo scrittore e
antiquario inglese William Thoms (1803-1900) che, sotto lo
pseudonimo di Ambrose Merton, pubblicò nel 1846 una lettera
sulla rivista letteraria londinese Athenaeum, allo scopo di
dimostrare la necessità di un vocabolo che potesse
ricomprendere tutti gli studi sulle tradizioni popolari inglesi.
Il termine fu poi accettato dalla comunità scientifica
internazionale dal 1878, per indicare quelle forme contemporanee di
aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche
pratiche popolari, ovvero tutte quelle espressioni culturali
comunemente denominate "tradizioni popolari", dai canti alle sagre
alle superstizioni alla cucina (e che già due secoli prima
Giambattista Vico chiamava "rottami di antichità").
Opere sul folclore in Italia
Le prime inchieste
La documentazione che più di ogni altra ha dato l'avvio allo
studio delle tradizioni popolari e dunque al folclore inteso come
scienza è stata l'inchiesta napoleonica del 1809-1811, svolta
nel Regno d'Italia sui dialetti e i costumi delle popolazioni
locali. L'inchiesta fu posta in essere principalmente per
individuare ed estirpare pregiudizi e superstizioni ancora esistenti
nelle campagne italiche. Gli atti dell'inchiesta e le relative
illustrazioni allegate sono custoditi nel castello Sforzesco di
Milano.
Una successiva inchiesta post-napoleonica, curata da don Francesco
Lunelli (1835-1856), riguardò il territorio del Trentino e il
Dipartimento dell'Alto Adige (con particolare attenzione ai proverbi
riguardanti le donne del Trentino), rimasti esclusi dall'indagine
napoleonica perché erano territori all'epoca non ancora
aggregati al Regno d'Italia.
Michele Placucci
La prima opera di rilievo, che anticipa di quasi cinquant'anni il
metodo della demologia scientifica italiana con una precisa
classificazione del materiale, è il trattato sulla regione
Romagna del forlivese Michele Placucci. Egli, avvalendosi di diversi
documenti, soprattutto di quelli raccolti all'epoca dell'inchiesta
napoleonica (come quanto redatto da Basilio Amati, cancelliere del
censo a Mercato Saraceno), a cui aggiunge anche altro materiale (ad
esempio, dalla Pratica agraria dell'abate Battarra), pubblica, a
Forlì nel 1818 (Tipografia Barbiani), l'opera intitolata Usi
e pregiudizj de' contadini della Romagna[1]. In Placucci ad esempio,
si racconta che i contadini romagnoli usavano mangiare fave
nell'anniversario dei morti (cioè il 2 novembre),
perché comunemente si riteneva che questa pianta avesse il
potere di rafforzare la memoria, così che nessuno
dimenticasse i propri defunti. Altra tradizione arcaica riportata
dal Placucci è quella di confezionare il ripieno dei
cappelletti privo di carne. A quel lavoro, altri faranno seguire
numerose pubblicazioni dedicate ad altre regioni italiane.
Giuseppe Pitrè
L'intellettuale che ha dato poi origine allo studio sistematico, su
base scientifica, del folclore italiano, è il medico
palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916) che, dopo aver dato
alle stampe la «Biblioteca delle tradizioni popolari
siciliane», ha realizzato un'opera editoriale insuperabile
(per ricchezza di informazioni), la «Bibliografia delle
tradizioni popolari italiane» nel 1894 e la «Rivista
Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» pubblicata
ininterrottamente dal 1882 al 1909. Per primo Pitrè ottenne
nel 1911 a Palermo una cattedra universitaria per lo studio delle
tradizioni popolari, sotto il nome di demopsicologia.
L'era fascista
Durante il fascismo questo tipo di studi fu utilizzato dalla
propaganda di regime inizialmente per rafforzare il mito romantico e
medioevaleggiante del Popolo legato alla propria terra e alla
tradizione, poi per creare "il popolo" a livello nazionale, cercando
di unificare con l'azione dell'istituto del dopolavoro le tradizioni
locali.
L'epoca repubblicana
Dopo la seconda guerra mondiale, grande impatto ebbe la
pubblicazione delle Note sul folclore, contenute nei Quaderni del
carcere di Antonio Gramsci. In particolare, Ernesto de Martino
condurrà le più celebri ricerche folcloriche italiane,
Morte e pianto rituale, Sud e magia, La terra del rimorso,
scegliendo come oggetto classi sociali considerate fuori dalla
storia, i contadini del sud Italia, con il dichiarato obiettivo di
utilizzare le tradizioni popolari, definite come folclore
progressivo, come elemento fondante di una futura coscienza di
classe.
Questa corrente di studi rimarrà dominante in Italia fino
agli anni ottanta (con Alberto Mario Cirese, che dagli anni sessanta
impose come nome per gli studi di folclore all'italiana il termine
demologia), periodo dal quale viene rimesso profondamente in
discussione l'oggetto di studio, criticando la reificazione delle
tradizioni, e ponendo l'accento più sui processi di
costruzione sociale e sull'uso che i soggetti fanno di esse.
Antropologia culturale
Oggi, lo studio della storia delle tradizioni popolari è
materia universitaria e la bibliografia relativa è molto
vasta, abbracciando diversi temi:
ciclo della vita umana
feste e usanze del calendario
dimore rurali
vita agricola, marinara e pastorale
letteratura
prosa
drammaturgia
canti popolari
danza
musica
magia
superstizione
religiosità
arte pittorica, ecc.
La mercificazione del folclore è, secondo Luigi Maria
Lombardi Satriani, il rischio che oggi il 'folclore' corre dopo che
è stato sdoganato. Per Satriani nonostante esso sia entrato
in un ampio circuito culturale (dai canti tradizionali, a feste e
manifestazioni ripristinate, recitals in teatri underground, film su
episodi e situazioni 'meridionali', proverbi popolari riportati a
formulazione dialettale) si rischia che questa 'riscoperta' del
mondo popolare sia una nuova maniera per mantenere tale mondo nella
sua subalternita' e per negarne, in forme diverse, la cultura.[2]
da
http://www.pontelandolfonews.com/index.php?id=1170
Antonio Gramsci la domologia
Antonio Gramsci e il folclore
La demologia, la scienza che studia le tradizioni popolari, assume
come oggetto di analisi i fenomeni culturali legati ad un gruppo
sociale all’interno delle società complesse occidentali:
considera i fatti culturali sotto il profilo della loro
rappresentatività sociale occupandosi delle diversità
createsi tra “ceti egemonici” e “ceti subalterni”. Nelle
società occidentali, le opposizioni sociali tra gruppi
detentori di diverso potere politico ed economico trovano riscontro
in opposizioni culturali. I comportamenti e le concezioni dei ceti
sociali “dominanti” sono diversi dai comportamenti e dalle
concezioni delle classi “dominate”: alla diversità della
condizione sociale si accompagna una diversità culturale
(diversità di convinzioni, conoscenze, usi, costumi,
credenze). La grande influenza esercitata in Italia dalla
pubblicazione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, avvenuta
nel secondo dopoguerra (momento di vivaci lotte sociali), ha
notevolmente influenzato l’indirizzo degli studi
demoetnoantropologici italiani. Le pagine relative alle
«Osservazioni sul folclore» pubblicate nel 1950 hanno
rivoluzionato lo studio delle tradizioni popolari ed è grazie
alle analisi gramsciane che per la prima volta il folclore e le sue
manifestazioni (poesia popolare, religiosità, morale e
diritto) vengono osservati utilizzando la categoria di “classe
sociale”.
Per Gramsci il folclore è una concezione del mondo e della
vita del “popolo”, popolo inteso come complesso delle classi
“subalterne e strumentali” che si contrappongono alle classi
“ufficiali”,“egemoniche”, “dominanti” di una determinata
società. La formulazione gramsciana costituisce una svolta
nell’ambito degli studi demologici italiani da tempo ancorati ad una
visione riduttiva delle scienze antropologiche, considerate nella
prima metà del novecento lo studio delle stravaganze dei
gruppi sociali “inferiori”. Se innegabile è il fatto che
Antonio Gramsci non fu mai un antropologo, è altrettanto
innegabile che il folclore fu sempre al centro dei suoi interessi,
infatti, già in Sardegna Gramsci sviluppò una forte
attenzione verso le tradizioni popolari legate alla sua infanzia.
L’interesse per l’ambiente in cui nacque e visse la prima parte
della vita, evidente durante la lettura delle Lettere dal carcere,
si mantenne vivo negli anni universitari torinesi.
L’idea che il folclore debba essere concepito non più come
una “bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola” ma “come una cosa
molto seria” non solo attraversa i Quaderni ma accompagna Gramsci
fin dall’inizio del suo itinerario intellettuale: “si può
dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come
elemento pittoresco (in realtà finora è stato solo
raccolto materiale da erudizione e la scienza del folclore è
consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la
selezione e la classificazione di tale materiale, cioè nello
studio delle cautele pratiche e dei principii empirici necessari per
svolgere proficuamente un aspetto particolare dell’erudizione,
né con ciò si misconosce l’importanza e il significato
storico di alcuni grandi studiosi del folclore). Occorrerebbe
studiarlo invece come «concezione del mondo e della
vita», implicita in grande misura, di determinati strati
(determinati nel tempo e nello spazio) della società, in
contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica,
oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in
senso più largo delle parti colte della società
storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo
storico.”8. Studiare il folclore da un nuovo punto di vista,
semplicemente come una diversa concezione del mondo, concezione non
ufficiale ma degna di rispetto, è la nuova prospettiva
proposta da Gramsci. Secondo Gramsci, solo riuscendo a non
considerare più il folclore come una “bizzarria”, ma come una
“cosa molto seria”, sarà possibile, nell’Italia della prima
metà del novecento, la nascita di una nuova cultura nelle
grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura
moderna (cultura degli intellettuali) e cultura popolare (cultura
degli umili).
Gramsci afferma anche l’esistenza di una “morale del popolo” ovvero
un insieme determinato di massime per la condotta pratica ed etica,
legate, come la superstizione, alle credenze religiose. In questo
ambito “occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che
rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e
reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso
creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e
condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in
contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati
dirigenti”9.
Secondo Antonio Gramsci, la stereotipata concezione del rapporto tra
“semplici” ed “intellettuali” è il maggiore ostacolo alla
crescita politica e sociale della popolazione italiana e soprattutto
di determinate zone della penisola. Una delle necessità di
Gramsci sarà proprio dimostrare che non esistono solo i
“filosofi professionisti”, ma che tutti gli uomini sono in
realtà dei “filosofi”, definendo i caratteri della “filosofia
spontanea” rappresentata dal lin-guaggio, dal senso comune, dalla
religione popolare e dal sistema di credenze, superstizioni, modi di
vivere che fanno parte di ciò che viene chiamato folclore:
“Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia
sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa
è l’attività intellettuale propria di una determinata
categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e
siste-matici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti
gli uomini sono «filosofi», definendo i limiti e i
caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di
tutto il mondo, e cioè della filosofia che è
contenuta:
1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di
concetti determinati e non già e solo di parole
grammaticalmente vuote di contenuto;
2) nel senso comune e nel buon senso;
3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di
credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che
si affacciano in quello che generalmente si chiama
«folclore»” .
Gramsci punta il dito contro gli intellettuali italiani
rappresentanti del gruppo dominante e aventi l’ambizione di
condizionare il popolo fornendo ideologie politiche e concezioni del
mondo estranee alla vita reale ed alle esi¬genze dei gruppi
subalterni (secondo il deputato, gli intellettuali a lui
contemporanei non sono riusciti a soddisfare le esigenze delle masse
perché la “classe colta”, con la sua attività
intellettuale, è rimasta staccata dal popolo). Gramsci
ritiene invece che il nuovo intellettuale deve non teoricamente ma
attivamente interessarsi e mischiarsi alla vita pratica dei gruppi
sociali subalterni ed elaborare “sul campo” una nuova coscienza
nazionale capace di diffondersi negli strati più semplici:
fondamentale è aprire le porte della cosiddetta “cultura”
alle classi subalterne. La posizione gramsciana, elaborata nel
periodo fascista ma allo stesso tempo ignorata durante il regime,
rivela la sua portata nel periodo immediatamente successivo alla
seconda guerra mondiale.
Sono questi anni in cui le nuove forze culturali italiane pongono le
basi per un nuovo rapporto tra intellettuali-cultura-società.
Molto è stato detto e scritto a proposito delle pagine
dedicate al folclore nei Quaderni: analisi dettagliate, prima fra
tutte quella di Alberto Maria Cirese11, hanno scandagliato
sistematicamente le considerazioni del pensatore sardo. Molto meno
è stato detto e scritto a proposito della presenza di
riflessioni relative al folclore nelle Lettere dal carcere.
Riconoscendo il primato teorico e l’importanza delle posizioni
gramsciane espresse nei Quaderni, credo che sia utile considerare
anche le Lettere uno strumento fondamentale per lo studio della
storia dell’antropologia italiana. Le Lettere, infatti, non fanno
parte dell’epistolografia convenzionale: sono una raccolta
particolare, differente da altri epistolari scritti con scopi
propagandistici al fine di far conoscere meglio il valore e la vita
di un qualsiasi personaggio.
Le lettere gramsciane assolvono questa funzione perché sono
dense di squarci autobiografici, ma vanno al di là di questo.
Sono un’opera dove elementi personali come l’infanzia in Sardegna e
gli affetti, ed elementi scientifici come la ricerca e
l’elaborazione intellettuale si fondono dando vita non ad
un’autobiografia ma ad un’opera für ewig (utilizzando la
definizione tanto cara a Gramsci). Come ho già detto le
tradizioni popolari hanno sempre interessato Antonio Gramsci ed il
folclore sardo conosciuto e vissuto negli anni dell’infanzia lo ha
segnato aprendogli gli occhi verso un mondo da tutti considerato
privo di interesse e non degno di considerazione. Molte lettere
scritte in carcere che raccontano osservazioni sui personaggi
dell’infanzia e molte che descrivono nuovi personaggi incontrati in
carcere, sono indicative di questa particolare attenzione di Gramsci
verso il mondo subalterno e verso la dimensione sociale. Per fare
solo alcuni esempi basta ricordare la lettera del 27 giugno 1927 in
cui Gramsci chiede alla madre l’invio della “Scomuniga de predi
Antiogu a su populu de Masuddas”, una composizione satirica di fine
ottocento rivolta ai parrocchiani di Masuddas, piccolo paese vicino
ad Oristano. Lo scopo di Gramsci era comporre sullo stesso stile un
poema in cui far entrare i personaggi conosciuti da bambino: tiu
Remundu Gana, Ganosu, Ganolla, maistru Andriolu, tiu Millanu, tiu
Micheli Bobboi, tiu Iscorza alluttu, Pippetto, Corroncu, Santu Jacu
Zilighertari. Fin da giovani i fratelli Antonio e Mario Gramsci si
divertivano a cimentarsi in improvvisazioni poetiche simili a quelle
fatte nelle gare delle feste patronali e in queste opere
descrivevano i personaggi più strani di Ghilarza. Nelle
lettere Gramsci ricorda le novelle popolari dell’infanzia come
quella della “mendicante di Mogoro” che avrebbe dovuto rapirlo “con
due cavalli bianchi e due cavalli neri per andare a scoprire il
Tesoro difeso dalla musca Maghedda”12.
La lettera a Tatiana del 19 dicembre 1926 è invece
interessante perché il termine folclore, impiegato per
descrivere antropologicamente i diversi gruppi regionali dei
detenuti di Ustica, viene utilizzato nell’accezione scientifica:
“La popolazione indigena è composta di siciliani, molto
gentili e ospitali; con la popolazione possiamo avere dei rapporti.
I coatti sono sottoposti a un regime molto restrittivo; la grande
maggioranza, data la piccolezza dell’isola, non può avere
nessuna occupazione e deve vivere colle 4 lire giornaliere che
assegna il governo. Puoi immaginare ciò che avviene: la
mazzetta (è il termine che serve a indicare l’assegno
governativo) viene spesa specialmente in vino; i pasti si riducono a
un po’ di pasta con erbe e a un po’ di pane; la denutrizione porta
all’alcoolismo più depravato in brevissimo tempo. Questi
coatti sono rinchiusi in speciali cameroni alle cinque del
pomeriggio e stanno insieme tutta la notte (dalle cinque del
pomeriggio alle sette del mattino), chiusi dal di fuori: giocano
alle carte, perdono qualche volta la mazzetta di parecchi giorni e
si trovano così presi in un girone infernale che dura
all’infinito. Da questo punto di vista è un vero peccato che
ci sia proibito di avere dei contatti con esseri ridotti a una vita
tanto eccezionale: penso che si potrebbero fare delle osservazioni
di psicologia e di folklore di carattere unico. Tutto ciò che
di elementare sopravvive nell’uomo moderno, rigalleggia
irresistibilmente: queste molecole polverizzate si raggruppano
secondo principi che corrispondono a ciò che di essenziale
esiste ancora negli strati popolari più sommersi. Quattro
divisioni fondamentali esistono: i settentrionali, i centrali, i
meridionali (con la Sicilia), i sardi. I sardi vivono assolutamente
appartati dal resto. I settentrionali hanno una certa
solidarietà tra loro, ma nessuna organizzazione, a quanto
pare; essi si fanno un punto d’onore del fatto che sono ladri,
borsaioli, truffatori, ma non hanno mai versato sangue. Tra i
centrali, i romani sono i meglio organizzati; non denunciano neanche
le spie a quelli delle altre regioni, ma riserbano per la loro
diffidenza. I meridionali sono organizzatissimi, a quanto si dice,
ma tra di loro ci sono delle sottodivisioni: lo Stato Napoletano, lo
Stato Pugliese, lo Stato Siciliano. Per il siciliano, il punto
d’onore consiste nel non aver rubato, ma nell’avere solo versato del
sangue. Tutte queste indicazioni le ho avute da un coatto che si
trovava al carcere di Palermo per scontare una pena buscatasi
durante il periodo di coazione e che era orgoglioso di avere,
secondo il piano prestabilito, procurato una ferita della
profondità di dieci centimetri (misurata, dice lui) al
padrone che lo trattava male: era stabilito di dieci centimetri, e
furono dieci centimetri, non un milli-metro di più. Questo il
capolavoro, che lo rendeva estremamente orgoglioso.”13.
Il 16 novembre 1931, scrivendo alla sorella Teresina, Gramsci
rievoca un episodio della sua giovinezza: “ti ricordi che zia Grazia
credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia,
tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater noster? Era
il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva
«donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo
passato, quando tutti andavano in Chiesa e c’era ancora un po’ di
religione in questo mondo. Si potrebbe scrivere una novella su
questa «donna Bisodia» immaginaria che era portata a
modello: quante volte zia Grazia avrà detto a Grazietta, a
Emma e anche a te forse: «Ah, tu non sei certo come donna
Bisodia!» quando non volevate andare a confes¬sarvi per
l’obbligo pasquale.”14. La fede in santi immaginari è
documentata frequentemente dalla storia delle tradizioni popolari e
la confusione del dona nobis hodie del Pater Noster con il
personaggio immaginario donna Bisodia è molto diffusa ed
incuriosisce a tal punto Gramsci da far si che egli voglia scrivere
una novella sull’argomento.
Questi esempi, tratti da alcuni passi delle Lettere dal carcere,
sono utili a dimostrare come gli elementi culturali attinti dal
patrimonio tradizionale sardo vengono evocati e ricordati da
Gramsci, il quale, a volte, sembra volerli utilizzare per
l’educazione dei propri figli.
Tramite lettera Gramsci racconta ai figli le favole che riempirono
la sua infanzia, descrive loro gli animali conosciuti da bambino e
dimostra praticamente di consi-derare ciò non solo inutili
bizzarrie ma un patrimonio cui attingere per la formazione delle
generazioni future. Gramsci, nelle Lettere dal carcere, esorta
continuamente i familiari ad informarlo su tutto ciò che
riguarda le tradizioni popolari sarde o le persone conosciute da
bambi-no: “Queste cose mi hanno sempre interessato molto”15 scrive
alla madre ripetutamente. Il suo interesse non si esaurisce nel
semplice ricordo dei tempi passati: Gramsci sembra essere, nei
limiti delle restrizioni carcerarie, un ricercatore di fronte
all’oggetto dei suoi studi.
Poco dopo l’arresto, nel marzo 1927, Gramsci scrive a Tatiana di
essere assillato dall’idea di fare qualcosa für ewig16, ossia
di applicarsi ad un lavoro disinteressato destinato
all’eternità. In realtà questa idea era il primo
progetto delle note del carcere e veniva scritta in un foglio che
inconsapevolmente avrebbe fatto parte di un’opera come le Lettere,
destinata ad avere uno straordinario quanto non pianificato futuro
(la conferma della popolarità dell’opera è
testimoniata dall’enorme successo editoriale, dalla diffusione in
Europa ed America e dalla traduzione in decine di lingue). Le pagine
gramsciane si leggono come un viaggio denso di racconti e di
pensieri.
Ogni lettera in cui Gramsci descrive o racconta osservazioni sulle
tradizioni popolari non è mai una mera esercitazione
letteraria: è segno del suo vivo interesse per una parte
dell’immensa cultura italiana. Le Lettere non sono soltanto un mezzo
di comunicazione: sono soprattutto uno strumento per non affondare
nell’aridità intellettuale, un aiuto simile a quello trovato
nelle decine di quaderni e, come questi, devono essere considerate
un’opera degna dal punto di vista teorico e scientifico. Le Lettere
e i Quaderni sono due opere complementari ed entrambe in perfetta
consonanza con le concezioni e con il pensiero dell’autore. Molti
punti essenziali delle Lettere, in mancanza dei Quaderni si
arresterebbero senza essere approfonditi: è così, per
esempio, per le considerazioni sul concetto di egemonia e per le
osservazioni sul folclore.È anche vero che l’approfondimento
dell’elaborazione teorica gramsciana non può prescindere
dallo studio rigoroso delle Lettere dal carcere, introduzione
indispensabile al pensiero gramsciano.
Le Lettere e i Quaderni, possono essere considerate una risorsa cui
attingere per lo studio della storia dell’antropologia italiana.
Settant’anni fa Gramsci auspicava lo studio scientifico del
folclore: oggi molto è stato fatto in questo senso e numerosi
antropologi e ricercatori nell’ambito delle scienze sociali sono
debitori nei confronti dell’insegnamento di Gramsci e del concetto
di folclore da lui formulato. Il ruolo delle culture subalterne
all’interno delle società complesse è stato definito
scientificamente per la prima volta da un intellettuale che non fu
né antropologo né demologo.