da

Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975


FOLKLORE

Nell'accezione gramsciana, la definizione di folklore rinvia immancabilmente a quella di senso comune perché è una delle sue espressioni più specifiche; una delle sue forme, ma anche uno dei suoi elementi costitutivi. Se ne distingue non per una o più differenze minori, ma per la sua complementarità con esso. Sono intimamente legati e dalla loro unione sorge ciò che si chiama comunemente la cultura popolare.

Gramsci si è interessato al folklore perché per lui rappresentava una via d'accesso alla conoscenza popolare, visto che, fino allora, tutti i tentativi per conseguire questa conoscenza erano falliti. Due ragioni essenzialmente giustificano questo fallimento: una di ordine metodologico, l'altra concettuale. D'altra parte, le sue «osservazioni sul folklore» sono una serie di rilievi critico-metodologici a proposito dei diversi studi sul fenomeno che, nel corso della loro analisi, spostano i termini del problema della realtà che il folklore costituisce. Tanto più quando pensano di farlo rientrare in categorie precostituite, vaghe e imprecise come «la letteratura, l'arte, la scienza, la morale popolare» (LVN, EI p. 215, ER p. 267) o di degradarlo a «elemento pittoresco» o, infine, di catalogarne le particolarità senza riuscire a organizzarle, classificarle o selezionarle. Metodi dunque insufficienti ma anche erronei perché fondati su una falsa concezione del folklore. Esso «non dev'essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio» (LVN, EI p. 218, ER p. 270).

In realtà il folklore «è» una concezione del mondo e della vita in larga misura implicita di strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società in contrapposizione con le concezioni del mondo «ufficiali» (LVN, EI p. 215, ER p. 267). Questa formulazione riveste una grande importanza perché le classi subalterne, che non hanno ancora preso coscienza di sé, sono incapaci di elaborare la loro concezione del mondo, cioè una filosofia coerente in grado di opporsi alle «altre». Il folklore ha appunto questa funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza «diffusa» degli elementi incolti della società, costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.

Ma il folklore costituisce una via d'accesso alla «conoscenza del popolo», se si ammette che il popolo in se stesso «non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività storiche» (LVN, EI p. 221, ER p. 274), e che il folklore, in quanto produzione del popolo, ne costituisce la più fedele immagine.

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Wikipedia

Il termine folclore o folklore (dall'inglese folk, "popolo", e lore, "sapere") si riferisce all'insieme delle tradizioni arcaiche provenienti dal popolo, tramandate oralmente e riguardanti usi, costumi, leggende e proverbi, musica al canto alla danza, riferiti ad una determinata area geografica o ad una determinata popolazione.

La nascita del termine

L'origine del termine folclore è attribuita allo scrittore e antiquario inglese William Thoms (1803-1900) che, sotto lo pseudonimo di Ambrose Merton, pubblicò nel 1846 una lettera sulla rivista letteraria londinese Athenaeum, allo scopo di dimostrare la necessità di un vocabolo che potesse ricomprendere tutti gli studi sulle tradizioni popolari inglesi.

Il termine fu poi accettato dalla comunità scientifica internazionale dal 1878, per indicare quelle forme contemporanee di aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche pratiche popolari, ovvero tutte quelle espressioni culturali comunemente denominate "tradizioni popolari", dai canti alle sagre alle superstizioni alla cucina (e che già due secoli prima Giambattista Vico chiamava "rottami di antichità").

Opere sul folclore in Italia

Le prime inchieste

La documentazione che più di ogni altra ha dato l'avvio allo studio delle tradizioni popolari e dunque al folclore inteso come scienza è stata l'inchiesta napoleonica del 1809-1811, svolta nel Regno d'Italia sui dialetti e i costumi delle popolazioni locali. L'inchiesta fu posta in essere principalmente per individuare ed estirpare pregiudizi e superstizioni ancora esistenti nelle campagne italiche. Gli atti dell'inchiesta e le relative illustrazioni allegate sono custoditi nel castello Sforzesco di Milano.

Una successiva inchiesta post-napoleonica, curata da don Francesco Lunelli (1835-1856), riguardò il territorio del Trentino e il Dipartimento dell'Alto Adige (con particolare attenzione ai proverbi riguardanti le donne del Trentino), rimasti esclusi dall'indagine napoleonica perché erano territori all'epoca non ancora aggregati al Regno d'Italia.

Michele Placucci

La prima opera di rilievo, che anticipa di quasi cinquant'anni il metodo della demologia scientifica italiana con una precisa classificazione del materiale, è il trattato sulla regione Romagna del forlivese Michele Placucci. Egli, avvalendosi di diversi documenti, soprattutto di quelli raccolti all'epoca dell'inchiesta napoleonica (come quanto redatto da Basilio Amati, cancelliere del censo a Mercato Saraceno), a cui aggiunge anche altro materiale (ad esempio, dalla Pratica agraria dell'abate Battarra), pubblica, a Forlì nel 1818 (Tipografia Barbiani), l'opera intitolata Usi e pregiudizj de' contadini della Romagna[1]. In Placucci ad esempio, si racconta che i contadini romagnoli usavano mangiare fave nell'anniversario dei morti (cioè il 2 novembre), perché comunemente si riteneva che questa pianta avesse il potere di rafforzare la memoria, così che nessuno dimenticasse i propri defunti. Altra tradizione arcaica riportata dal Placucci è quella di confezionare il ripieno dei cappelletti privo di carne. A quel lavoro, altri faranno seguire numerose pubblicazioni dedicate ad altre regioni italiane.

Giuseppe Pitrè

L'intellettuale che ha dato poi origine allo studio sistematico, su base scientifica, del folclore italiano, è il medico palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916) che, dopo aver dato alle stampe la «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane», ha realizzato un'opera editoriale insuperabile (per ricchezza di informazioni), la «Bibliografia delle tradizioni popolari italiane» nel 1894 e la «Rivista Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» pubblicata ininterrottamente dal 1882 al 1909. Per primo Pitrè ottenne nel 1911 a Palermo una cattedra universitaria per lo studio delle tradizioni popolari, sotto il nome di demopsicologia.

L'era fascista

Durante il fascismo questo tipo di studi fu utilizzato dalla propaganda di regime inizialmente per rafforzare il mito romantico e medioevaleggiante del Popolo legato alla propria terra e alla tradizione, poi per creare "il popolo" a livello nazionale, cercando di unificare con l'azione dell'istituto del dopolavoro le tradizioni locali.

L'epoca repubblicana

Dopo la seconda guerra mondiale, grande impatto ebbe la pubblicazione delle Note sul folclore, contenute nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. In particolare, Ernesto de Martino condurrà le più celebri ricerche folcloriche italiane, Morte e pianto rituale, Sud e magia, La terra del rimorso, scegliendo come oggetto classi sociali considerate fuori dalla storia, i contadini del sud Italia, con il dichiarato obiettivo di utilizzare le tradizioni popolari, definite come folclore progressivo, come elemento fondante di una futura coscienza di classe.

Questa corrente di studi rimarrà dominante in Italia fino agli anni ottanta (con Alberto Mario Cirese, che dagli anni sessanta impose come nome per gli studi di folclore all'italiana il termine demologia), periodo dal quale viene rimesso profondamente in discussione l'oggetto di studio, criticando la reificazione delle tradizioni, e ponendo l'accento più sui processi di costruzione sociale e sull'uso che i soggetti fanno di esse.

Antropologia culturale

Oggi, lo studio della storia delle tradizioni popolari è materia universitaria e la bibliografia relativa è molto vasta, abbracciando diversi temi:

ciclo della vita umana
feste e usanze del calendario
dimore rurali
vita agricola, marinara e pastorale
letteratura
prosa
drammaturgia
canti popolari
danza
musica
magia
superstizione
religiosità
arte pittorica, ecc.
La mercificazione del folclore è, secondo Luigi Maria Lombardi Satriani, il rischio che oggi il 'folclore' corre dopo che è stato sdoganato. Per Satriani nonostante esso sia entrato in un ampio circuito culturale (dai canti tradizionali, a feste e manifestazioni ripristinate, recitals in teatri underground, film su episodi e situazioni 'meridionali', proverbi popolari riportati a formulazione dialettale) si rischia che questa 'riscoperta' del mondo popolare sia una nuova maniera per mantenere tale mondo nella sua subalternita' e per negarne, in forme diverse, la cultura.[2]

da http://www.pontelandolfonews.com/index.php?id=1170

Antonio Gramsci la domologia

Antonio Gramsci e il folclore

La demologia, la scienza che studia le tradizioni popolari, assume come oggetto di analisi i fenomeni culturali legati ad un gruppo sociale all’interno delle società complesse occidentali: considera i fatti culturali sotto il profilo della loro rappresentatività sociale occupandosi delle diversità createsi tra “ceti egemonici” e “ceti subalterni”. Nelle società occidentali, le opposizioni sociali tra gruppi detentori di diverso potere politico ed economico trovano riscontro in opposizioni culturali. I comportamenti e le concezioni dei ceti sociali “dominanti” sono diversi dai comportamenti e dalle concezioni delle classi “dominate”: alla diversità della condizione sociale si accompagna una diversità culturale (diversità di convinzioni, conoscenze, usi, costumi, credenze). La grande influenza esercitata in Italia dalla pubblicazione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, avvenuta nel secondo dopoguerra (momento di vivaci lotte sociali), ha notevolmente influenzato l’indirizzo degli studi demoetnoantropologici italiani. Le pagine relative alle «Osservazioni sul folclore» pubblicate nel 1950 hanno rivoluzionato lo studio delle tradizioni popolari ed è grazie alle analisi gramsciane che per la prima volta il folclore e le sue manifestazioni (poesia popolare, religiosità, morale e diritto) vengono osservati utilizzando la categoria di “classe sociale”.

Per Gramsci il folclore è una concezione del mondo e della vita del “popolo”, popolo inteso come complesso delle classi “subalterne e strumentali” che si contrappongono alle classi “ufficiali”,“egemoniche”, “dominanti” di una determinata società. La formulazione gramsciana costituisce una svolta nell’ambito degli studi demologici italiani da tempo ancorati ad una visione riduttiva delle scienze antropologiche, considerate nella prima metà del novecento lo studio delle stravaganze dei gruppi sociali “inferiori”. Se innegabile è il fatto che Antonio Gramsci non fu mai un antropologo, è altrettanto innegabile che il folclore fu sempre al centro dei suoi interessi, infatti, già in Sardegna Gramsci sviluppò una forte attenzione verso le tradizioni popolari legate alla sua infanzia. L’interesse per l’ambiente in cui nacque e visse la prima parte della vita, evidente durante la lettura delle Lettere dal carcere, si mantenne vivo negli anni universitari torinesi.

L’idea che il folclore debba essere concepito non più come una “bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola” ma “come una cosa molto seria” non solo attraversa i Quaderni ma accompagna Gramsci fin dall’inizio del suo itinerario intellettuale: “si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento pittoresco (in realtà finora è stato solo raccolto materiale da erudizione e la scienza del folclore è consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la selezione e la classificazione di tale materiale, cioè nello studio delle cautele pratiche e dei principii empirici necessari per svolgere proficuamente un aspetto particolare dell’erudizione, né con ciò si misconosce l’importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del folclore). Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico.”8. Studiare il folclore da un nuovo punto di vista, semplicemente come una diversa concezione del mondo, concezione non ufficiale ma degna di rispetto, è la nuova prospettiva proposta da Gramsci. Secondo Gramsci, solo riuscendo a non considerare più il folclore come una “bizzarria”, ma come una “cosa molto seria”, sarà possibile, nell’Italia della prima metà del novecento, la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna (cultura degli intellettuali) e cultura popolare (cultura degli umili).

Gramsci afferma anche l’esistenza di una “morale del popolo” ovvero un insieme determinato di massime per la condotta pratica ed etica, legate, come la superstizione, alle credenze religiose. In questo ambito “occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti”9.

Secondo Antonio Gramsci, la stereotipata concezione del rapporto tra “semplici” ed “intellettuali” è il maggiore ostacolo alla crescita politica e sociale della popolazione italiana e soprattutto di determinate zone della penisola. Una delle necessità di Gramsci sarà proprio dimostrare che non esistono solo i “filosofi professionisti”, ma che tutti gli uomini sono in realtà dei “filosofi”, definendo i caratteri della “filosofia spontanea” rappresentata dal lin-guaggio, dal senso comune, dalla religione popolare e dal sistema di credenze, superstizioni, modi di vivere che fanno parte di ciò che viene chiamato folclore: “Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e siste-matici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di tutto il mondo, e cioè della filosofia che è contenuta:
1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto;
2) nel senso comune e nel buon senso;
3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama «folclore»” .

Gramsci punta il dito contro gli intellettuali italiani rappresentanti del gruppo dominante e aventi l’ambizione di condizionare il popolo fornendo ideologie politiche e concezioni del mondo estranee alla vita reale ed alle esi¬genze dei gruppi subalterni (secondo il deputato, gli intellettuali a lui contemporanei non sono riusciti a soddisfare le esigenze delle masse perché la “classe colta”, con la sua attività intellettuale, è rimasta staccata dal popolo). Gramsci ritiene invece che il nuovo intellettuale deve non teoricamente ma attivamente interessarsi e mischiarsi alla vita pratica dei gruppi sociali subalterni ed elaborare “sul campo” una nuova coscienza nazionale capace di diffondersi negli strati più semplici: fondamentale è aprire le porte della cosiddetta “cultura” alle classi subalterne. La posizione gramsciana, elaborata nel periodo fascista ma allo stesso tempo ignorata durante il regime, rivela la sua portata nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale.

Sono questi anni in cui le nuove forze culturali italiane pongono le basi per un nuovo rapporto tra intellettuali-cultura-società. Molto è stato detto e scritto a proposito delle pagine dedicate al folclore nei Quaderni: analisi dettagliate, prima fra tutte quella di Alberto Maria Cirese11, hanno scandagliato sistematicamente le considerazioni del pensatore sardo. Molto meno è stato detto e scritto a proposito della presenza di riflessioni relative al folclore nelle Lettere dal carcere. Riconoscendo il primato teorico e l’importanza delle posizioni gramsciane espresse nei Quaderni, credo che sia utile considerare anche le Lettere uno strumento fondamentale per lo studio della storia dell’antropologia italiana. Le Lettere, infatti, non fanno parte dell’epistolografia convenzionale: sono una raccolta particolare, differente da altri epistolari scritti con scopi propagandistici al fine di far conoscere meglio il valore e la vita di un qualsiasi personaggio.

Le lettere gramsciane assolvono questa funzione perché sono dense di squarci autobiografici, ma vanno al di là di questo. Sono un’opera dove elementi personali come l’infanzia in Sardegna e gli affetti, ed elementi scientifici come la ricerca e l’elaborazione intellettuale si fondono dando vita non ad un’autobiografia ma ad un’opera für ewig (utilizzando la definizione tanto cara a Gramsci). Come ho già detto le tradizioni popolari hanno sempre interessato Antonio Gramsci ed il folclore sardo conosciuto e vissuto negli anni dell’infanzia lo ha segnato aprendogli gli occhi verso un mondo da tutti considerato privo di interesse e non degno di considerazione. Molte lettere scritte in carcere che raccontano osservazioni sui personaggi dell’infanzia e molte che descrivono nuovi personaggi incontrati in carcere, sono indicative di questa particolare attenzione di Gramsci verso il mondo subalterno e verso la dimensione sociale. Per fare solo alcuni esempi basta ricordare la lettera del 27 giugno 1927 in cui Gramsci chiede alla madre l’invio della “Scomuniga de predi Antiogu a su populu de Masuddas”, una composizione satirica di fine ottocento rivolta ai parrocchiani di Masuddas, piccolo paese vicino ad Oristano. Lo scopo di Gramsci era comporre sullo stesso stile un poema in cui far entrare i personaggi conosciuti da bambino: tiu Remundu Gana, Ganosu, Ganolla, maistru Andriolu, tiu Millanu, tiu Micheli Bobboi, tiu Iscorza alluttu, Pippetto, Corroncu, Santu Jacu Zilighertari. Fin da giovani i fratelli Antonio e Mario Gramsci si divertivano a cimentarsi in improvvisazioni poetiche simili a quelle fatte nelle gare delle feste patronali e in queste opere descrivevano i personaggi più strani di Ghilarza. Nelle lettere Gramsci ricorda le novelle popolari dell’infanzia come quella della “mendicante di Mogoro” che avrebbe dovuto rapirlo “con due cavalli bianchi e due cavalli neri per andare a scoprire il Tesoro difeso dalla musca Maghedda”12.

La lettera a Tatiana del 19 dicembre 1926 è invece interessante perché il termine folclore, impiegato per descrivere antropologicamente i diversi gruppi regionali dei detenuti di Ustica, viene utilizzato nell’accezione scientifica:

“La popolazione indigena è composta di siciliani, molto gentili e ospitali; con la popolazione possiamo avere dei rapporti. I coatti sono sottoposti a un regime molto restrittivo; la grande maggioranza, data la piccolezza dell’isola, non può avere nessuna occupazione e deve vivere colle 4 lire giornaliere che assegna il governo. Puoi immaginare ciò che avviene: la mazzetta (è il termine che serve a indicare l’assegno governativo) viene spesa specialmente in vino; i pasti si riducono a un po’ di pasta con erbe e a un po’ di pane; la denutrizione porta all’alcoolismo più depravato in brevissimo tempo. Questi coatti sono rinchiusi in speciali cameroni alle cinque del pomeriggio e stanno insieme tutta la notte (dalle cinque del pomeriggio alle sette del mattino), chiusi dal di fuori: giocano alle carte, perdono qualche volta la mazzetta di parecchi giorni e si trovano così presi in un girone infernale che dura all’infinito. Da questo punto di vista è un vero peccato che ci sia proibito di avere dei contatti con esseri ridotti a una vita tanto eccezionale: penso che si potrebbero fare delle osservazioni di psicologia e di folklore di carattere unico. Tutto ciò che di elementare sopravvive nell’uomo moderno, rigalleggia irresistibilmente: queste molecole polverizzate si raggruppano secondo principi che corrispondono a ciò che di essenziale esiste ancora negli strati popolari più sommersi. Quattro divisioni fondamentali esistono: i settentrionali, i centrali, i meridionali (con la Sicilia), i sardi. I sardi vivono assolutamente appartati dal resto. I settentrionali hanno una certa solidarietà tra loro, ma nessuna organizzazione, a quanto pare; essi si fanno un punto d’onore del fatto che sono ladri, borsaioli, truffatori, ma non hanno mai versato sangue. Tra i centrali, i romani sono i meglio organizzati; non denunciano neanche le spie a quelli delle altre regioni, ma riserbano per la loro diffidenza. I meridionali sono organizzatissimi, a quanto si dice, ma tra di loro ci sono delle sottodivisioni: lo Stato Napoletano, lo Stato Pugliese, lo Stato Siciliano. Per il siciliano, il punto d’onore consiste nel non aver rubato, ma nell’avere solo versato del sangue. Tutte queste indicazioni le ho avute da un coatto che si trovava al carcere di Palermo per scontare una pena buscatasi durante il periodo di coazione e che era orgoglioso di avere, secondo il piano prestabilito, procurato una ferita della profondità di dieci centimetri (misurata, dice lui) al padrone che lo trattava male: era stabilito di dieci centimetri, e furono dieci centimetri, non un milli-metro di più. Questo il capolavoro, che lo rendeva estremamente orgoglioso.”13.

Il 16 novembre 1931, scrivendo alla sorella Teresina, Gramsci rievoca un episodio della sua giovinezza: “ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in Chiesa e c’era ancora un po’ di religione in questo mondo. Si potrebbe scrivere una novella su questa «donna Bisodia» immaginaria che era portata a modello: quante volte zia Grazia avrà detto a Grazietta, a Emma e anche a te forse: «Ah, tu non sei certo come donna Bisodia!» quando non volevate andare a confes¬sarvi per l’obbligo pasquale.”14. La fede in santi immaginari è documentata frequentemente dalla storia delle tradizioni popolari e la confusione del dona nobis hodie del Pater Noster con il personaggio immaginario donna Bisodia è molto diffusa ed incuriosisce a tal punto Gramsci da far si che egli voglia scrivere una novella sull’argomento.

Questi esempi, tratti da alcuni passi delle Lettere dal carcere, sono utili a dimostrare come gli elementi culturali attinti dal patrimonio tradizionale sardo vengono evocati e ricordati da Gramsci, il quale, a volte, sembra volerli utilizzare per l’educazione dei propri figli.

Tramite lettera Gramsci racconta ai figli le favole che riempirono la sua infanzia, descrive loro gli animali conosciuti da bambino e dimostra praticamente di consi-derare ciò non solo inutili bizzarrie ma un patrimonio cui attingere per la formazione delle generazioni future. Gramsci, nelle Lettere dal carcere, esorta continuamente i familiari ad informarlo su tutto ciò che riguarda le tradizioni popolari sarde o le persone conosciute da bambi-no: “Queste cose mi hanno sempre interessato molto”15 scrive alla madre ripetutamente. Il suo interesse non si esaurisce nel semplice ricordo dei tempi passati: Gramsci sembra essere, nei limiti delle restrizioni carcerarie, un ricercatore di fronte all’oggetto dei suoi studi.

Poco dopo l’arresto, nel marzo 1927, Gramsci scrive a Tatiana di essere assillato dall’idea di fare qualcosa für ewig16, ossia di applicarsi ad un lavoro disinteressato destinato all’eternità. In realtà questa idea era il primo progetto delle note del carcere e veniva scritta in un foglio che inconsapevolmente avrebbe fatto parte di un’opera come le Lettere, destinata ad avere uno straordinario quanto non pianificato futuro (la conferma della popolarità dell’opera è testimoniata dall’enorme successo editoriale, dalla diffusione in Europa ed America e dalla traduzione in decine di lingue). Le pagine gramsciane si leggono come un viaggio denso di racconti e di pensieri.

Ogni lettera in cui Gramsci descrive o racconta osservazioni sulle tradizioni popolari non è mai una mera esercitazione letteraria: è segno del suo vivo interesse per una parte dell’immensa cultura italiana. Le Lettere non sono soltanto un mezzo di comunicazione: sono soprattutto uno strumento per non affondare nell’aridità intellettuale, un aiuto simile a quello trovato nelle decine di quaderni e, come questi, devono essere considerate un’opera degna dal punto di vista teorico e scientifico. Le Lettere e i Quaderni sono due opere complementari ed entrambe in perfetta consonanza con le concezioni e con il pensiero dell’autore. Molti punti essenziali delle Lettere, in mancanza dei Quaderni si arresterebbero senza essere approfonditi: è così, per esempio, per le considerazioni sul concetto di egemonia e per le osservazioni sul folclore.È anche vero che l’approfondimento dell’elaborazione teorica gramsciana non può prescindere dallo studio rigoroso delle Lettere dal carcere, introduzione indispensabile al pensiero gramsciano.

Le Lettere e i Quaderni, possono essere considerate una risorsa cui attingere per lo studio della storia dell’antropologia italiana. Settant’anni fa Gramsci auspicava lo studio scientifico del folclore: oggi molto è stato fatto in questo senso e numerosi antropologi e ricercatori nell’ambito delle scienze sociali sono debitori nei confronti dell’insegnamento di Gramsci e del concetto di folclore da lui formulato. Il ruolo delle culture subalterne all’interno delle società complesse è stato definito scientificamente per la prima volta da un intellettuale che non fu né antropologo né demologo.