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di Marina Santucci
Nacque ad Arcevia (prov. di Ancona) il 5 ott. 1870 da Pietro e
da Felice Riderelli. Compì gli studi a Roma dove si
laureò in lettere nel 1894 discutendo con E. Monaci una tesi
sul Dottrinale diPier Iacopo Alighieri, pubblicata l'anno seguente a
Città di Castello, nella collana di studi danteschi diretta
da G. L. Passerini. Successivamente si laureò in filosofia e
vinse il premio di perfezionamento Corsi; in quegli anni
frequentò anche la scuola filologica romana, di ispirazione
tardopositivista, fondata dallo stesso Monaci: questi orientava la
scuola verso filoni di ricerca nuovi per la cultura italiana, come
lo studio della filologia romanza e la ricerca sul dialetto. Questi
studi giovanili e, in generale, la personalità del Monaci
furono determinanti per la successiva attività di ricerca del
C., che si sviluppò secondo due tendenze: una verso gli studi
di letteratura italiana, con importanti contributi filologici
sull'opera dantesca; l'altra verso il folklore, con particolare
attenzione all'ambiente e alla cultura delle Marche. Nel corso della
sua lunga attività di studioso, queste due componenti di
ricerca tenderanno ad unificarsi e a compenetrarsi nel tentativo di
dimostrare l'imprescindibile legame esistente tra letteratura colta
e letteratura popolare. L'altra caratteristica che connota il C.,
non solo come studioso ma anche come intellettuale attento ai
processi di trasformazione della società italiana, fu il suo
costante interesse per l'istituzione scolastica, testimoniato dalla
sua lunga attività rivolta alla realizzazione di una scuola
culturalmente qualificata, efficiente da un punto di vista
organizzativo, soprattutto aperta alle esigenze di una
società italiana che si presentava con caratteri estremamente
compositi. A questo scopo partecipò con G. Salvemini, G.
Kimer, P. Egidi, G. Luzzato, C. Marchesi e altri intellettuali, ai
primi tentativi di organizzazione sindacale nella scuola
intervenendo ai congressi della Federazione nazionale scuole medie
iniziatisi nei primi anni del Novecento ed interrottisi con lo
scoppio della prima guerra mondiale.
Fino alla morte del Kirner (1905), che ne era il presidente, la
Federazione nazionale svolse un ruolo di stimolo e di rinnovamento
nel dibattito sulla questione della scuola secondaria; nei congressi
si affrontavano problemi di pedagogia e di didattica, venivano
discussi i programmi di insegnamento e i piani di studio, e in
generale si auspicava un superamento della legge Casati in vigore
dal 1859. Gli aderenti alla Federazione partivano dalla convinzione
che un processo di rinnovamento della società dovesse avere
inizio nella scuola, soprattutto in quella secondaria, ritenuta un
importante terreno di azione per la presenza delle nuove forze
sociali emergenti nell'Italia prebellica. Inoltre, il dibattito
metteva in luce la contraddizione tra un apparato statale rigido e
accentratore, che prevedeva una continua ingerenza del ministero
nella vita della scuola, e una crescente domanda di cultura.
Le posizioni più significative portate avanti dal C., furono
la battaglia per un insegnamento, nella scuola media, a carattere
regionale, collegato, cioè, alle condizioni e alle
necessità storico-ambientali delle singole regioni (congresso
di Milano, 1904); la inutilità degli esami di Stato per gli
insegnanti, successivi alla iniziale abilitazione, dissentendo in
ciò dalla posizione del Salvemini (Milano, 1907);
l'introduzione dell'insegnamento della storia dell'arte nel liceo,
l'istituzione di biblioteche per gli studenti delle scuole medie
(ordine del giorno presentato al congresso del 1910). Ritornò
su questi argomenti sulla rivista Nuovi doveri fondata da G.
Lombardo Radice e, in seguito (194), curò per la federazione
delle biblioteche popolari il Prontuario per le biblioteche degli
studenti che rappresentò un concreto strumento per una
agevole consultazione dei libri nelle scuole.
Nel 1903 il C. vinse una cattedra per l'insegnamento dell'italiano e
della storia nei licei, e, nel 1913, ottenne la libera docenza in
letteratura italiana presso l'università di Bologna. Divenuto
provveditore agli studi nel 1913, nello stesso anno vinse il
concorso per'ispettore nelle scuole medie. Intanto aveva sposato
(1908) Maria Ruscelloni, esponente di una famiglia reggiana di
tradizioni risorgimentali; dal matrimonio nacquero quattro figli.
Nel 1923 il C. fu nominato provveditore regionale agli studi delle
Marche; quindi dal '26 al '35 esercitò lo stesso incarico a
Bologna. In seguito, fu trasferito prima a Perugia, poi a Trento.
Nel 1936 venne collocato a riposo per raggiunti limiti di età
e, due anni dopo, gli fu conferita una medaglia d'oro come
benemerito dell'educazione nazionale. Negli anni tra le due guerre,
il C. ricoprì un ruolo di particolare rilievo nella vita
culturale della sua regione e nell'organizzazione della ricerca
storica nazionale, presiedendo dal '22 al '35 la R. Deputazione di
storia patria per le Marche, e dirigendo la rivista Rendiconti
dell'Istituto marchigiano di scienze lettere ed arti, da lui fondata
nel 1925; curo inoltre con A. Solmi, E. Codignola, A. Monti una
collana storica del Risorgimento italiano per la Società
tipografica modenese. Lo scoppio della seconda guerra mondiale gli
impedì di portare a termine l'accordo con la casa editrice
Cappelli per curare due collane: una di "Scrittori italiani",
l'altra di "Saggi e monografle di letteratura italiana". Durante la
guerra il C. si ritirò ad Albinea; continuò tuttavia
ad interessarsi dei problemi della scuola italiana.
Morì in conseguenza di lesioni riportate in un incidente
automobilistico, il 22 giugno 1954 a Reggio nell'Emilia.
Le tesi sostenute dal C. (necessità di una autonomia
culturale e politica delle regioni, importanza della cultura
popolare come base per lo studio delle discipline tradizionali, il
ruolo della scuola nella ricerca di un rapporto paritario tra
realtà regionali e vita del paese) sono trattati nell'opera
Le Regioni e la cultura nazionale, dedicata a B. Croce e pubblicata
a Catania nel 1914 in una collana diretta da G. Lombardo Radice.
E volume fu accolto favorevolmente dalla critica (un'importante
segnalazione venne da A. Monti su La Voce del maggio 1914). Il C.
individuava una causa della crisi della scuola italiana nella
rigidità degli insegnamenti impartiti e dei manuali adottati
del tutto estranei al contesto storico-geografico delle singole
regioni italiane. Egli riteneva che la storia politica dell'Italia,
dall'età comunale alle complesse vicende che avevano portato
all'unificazione del 1860, e la sua configurazione geografica non
permettevano un modello di insegnamento unico, tale da cancellare la
conoscenza delle singole realtà regionali. Inoltre le
autorità scolastiche postunitarie non tenevano Conto, a suo
parere, del contributo culturale e delle esigenze delle regioni
meridionali nel definire gli orientamenti della cultura ufficiale:
si rendeva necessaria, perciò, una riforma amministrativa che
conferisse maggiore autonomia alle regioni, secondo quanto
già previsto nel disegno di legge proposto da M. Minghetti
nel 186 1 e, inoltre, l'istituzione di un ordinamento scolastico
più sensibile ai caratteri dell'ambiente culturale locale.
In questa direzione si colloca anche il volume Le Marche,
letteratura, arte e storia (Città di Castello 1914), che
avrebbe dovuto essere il primo di una collana per la scuola
secondaria, intitolata "Regioni".
Con due opere dell'immediato dopoguerra, Criteri fondamentali per il
rinnovamento della scuola media, Reggio Emilia 1918, e Ilprofessore
di scuola media, ibid. 1919, il C. approfondiva l'analisi della
crisi della scuola alla luce della difficile situazione postbellica.
Denunciava la crisi degli ideali risorgimentali, la mancanza di un
principio etico che rapportasse la scuola alla vita politica e
culturale del paese, la degradazione dello status sociale degli
insegnanti e la loro insufficiente retribuzione. Questi interventi
rappresentano un contributo al dibattito che portò alla
elaborazione della riforma Gentile (1923), di cui il C. fu un
convinto assertore.
Nella seconda ediz. del Professore di scuola media (Milano 1929), ne
sottolineò quelli che erano a suo avviso i punti
qualificanti: l'introduzione dell'insegnamento della storia
dell'arte, il ripristino di quello della religione nella scuola
elementare, il nuovo ordinamento giuridico degli insegnanti e,
soprattutto, il riconoscimento della importanza delle tradizioni
culturali regionali; però gli orientamenti della riforma
Gentile su questo punto divergevano da quelli auspicati dal C.:
questi, infatti, riteneva fondamentale lo studio del folklore per
sanare la frattura esistente tra cultura regionale e cultura
nazionale, fra discipline scientifiche e tradizioni popolari, la
riforma invece prevedeva e sanciva due forme di cultura: una a
carattere regionale per gli studenti destinati ad occupazioni
tecniche e manuali, l'altra, a dimensione nazionale, per gli
studenti che avrebbero proseguito negli studi: la stessa
discriminante che caratterizzava l'insegnamento della religione per
gli uni e quello della filosofia per gli altri. Il C. distingueva,
nella storia della cultura italiana due concezioni morali,
artistiche, letterarie, religiose con caratteristiche e canali di
comunicazione differenti, ma legate in un rapporto strettissimo che
non permetteva di stabilire un discrimine netto.
Con il volume Problemi fondamentali dei folklore, con due lezioni
sul folklore e D'Annunzio, Bologna 1928, il C. intendeva contribuire
a uno studio critico del folklore, oltre ad offrire un ulteriore
strumento didattico per gli insegnanti. Egli procedeva, nello studio
del patrimonio folklorico, secondo un metodo rigoroso di raccolta,
selezione e classificazione del materiale che gli consentiva di
svolgere un puntuale confronto tra elementi folklorici, generi
letterari e formazione culturale dei principali autori italiani
(segnaliamo a questo proposito le monografie su Leopardi,
D'Annunzio, Giusti, Muratori). Una prima distinzione divideva il
folklore in due grandi sezioni: una oggettiva o pratica, l'altra
spirituale od orale; la prima comprendeva tutte le norme riguardanti
le tecniche ed i mestieri che si tramandavano di generazione in
generazione, la seconda concerneva tutto il patrimonio di canti,
proverbi, motti, giochi, usanze. Un'ulteriore ripartizione
distingueva quattro sezioni: arte, letteratura, scienza e morale dei
popolo.
Nel volume pubblicato postumo, Le tradizioni nella letteratura, il
C. porta a termine il progetto di un'indagine complessiva sugli
elementi folklorici presenti nella letteratura italiana da Dante ai
veristi, con particolare attenzione per alcuni periodi in cui
è maggiormente visibile questo legame. Da questa analisi
risulta una ricostruzione metastorica della letteratura italiana
ritenuta una filiazione del patrimonio culturale di cui il popolo
è il depositario.