www.treccani.it
di Giuseppe Izzi
Nacque ad Ancona il 25 febbr. 1883 da Paolo e da Amalia
Giacopelli. Si laureò in lettere e in legge a Bologna, avendo
come compagni di corso G. Bellonci e R. Serra. Sempre a Bologna
iniziò giovanissimo la collaborazione con Il Resto del
carlino e pubblicò le prime prove della sua attività
di scrittore e di studioso: I sette peccati (1908), novelle di
maliziosa e letteraria eleganza, e Andocide. Un pittore di donne e
di eroi (1908), documentatissimo studio sul ceramografo della fine
del VI secolo a. C., "divulgatore geniale" (p. 40) della tecnica a
figure rosse.
Nella città emiliana il G. frequentò A. Oriani e, tra
la fine del 1912 e il 1913, partecipò, anche come direttore
accanto a T. Salaroli, alla rivista San Giorgio. Giornale dei nuovi
romantici, polemico impasto di tradizione e misticismo, a cui
diedero una contrastata ma significativa collaborazione F. Tozzi e
D. Giuliotti (cfr. Tozzi, Carteggio con D. Giuliotti).
Durante gli anni della prima guerra mondiale, a cui partecipò
come soldato, il G. pubblicò presso Laterza il saggio Il
tramonto del liberalismo (Bari 1917), "largo nelle guardature
sintetiche e vivace nell'artistica rappresentazione" (B. Croce,
L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari 1965, p. 166).
Le inquietudini spirituali che avevano avvicinato il G. al gruppo
del San Giorgio si incarnano qui in una vasta sintesi storica e
religiosa che, partendo dal libro di F. Naumann sulla Mitteleuropa
(1915), risale dalla fine dell'economia liberale, soppiantata
dall'economia dell'organizzazione, alle radici religiose del
liberalismo, a "quella vivida corrente del cosmopolitismo evangelico
in cui l'idea liberale ebbe origine" (p. 127) e da cui soltanto
potrebbe rinascere. L'atteggiamento di profonda serietà di
fronte alla storia e alla vita, che pervade tutto il libro,
accompagnò sempre, del resto, l'opera del G., anche quella
apparentemente più mondana.
Dopo la guerra il G., insieme con la moglie Lucilla, americana e
cantante d'opera, che aveva lasciato la carriera dopo il matrimonio,
si trasferì a Roma, dove scrisse per Il Tempo, il Giornale di
Roma, IlCorriere italiano, collaborando anche, tra il 1920 e il
1922, a La Ronda, sia pure in posizione alquanto defilata rispetto
al programma della rivista.
Significativo il saggio La statua e l'ombra (La Ronda, IV [1922], 6,
pp. 392-395) in cui il G., discutendo la visione neoclassica di J.J.
Winckelmann evidenzia la dialettica tra apollineo e dionisiaco,
così importante negli sviluppi del suo pensiero.
Nel 1921, per le edizioni de La Voce, dirette da G. Prezzolini,
pubblicò Satyricon (1918-1921) (Firenze), antologia dei pezzi
scritti per la rubrica dallo stesso titolo che il G. teneva sul
quotidiano Il Tempo, commentando la letteratura, il costume e la
politica del momento in una serie di ritratti e riflessioni che
colpiscono per virtù di inaspettati accostamenti di persone e
letture.
Accolto con apprezzamenti concordi, in grazia dello stile e della
cultura dimostrati, e con riserve variamente articolate (da parte di
R. Bacchelli, P. Pancrazi, E. Cecchi) circa intravveduti pericoli di
moralismo, la rilettura del libro rivela tutta la sensibilità
morale sottesa al suo più evidente aspetto di specchio e
critica dei tempi.
Al versante narrativo "satirico" appartengono alcuni volumi, spesso
rielaborazioni di scritti già pubblicati in giornali, quali:
La compagnia della satira (Milano 1920); Il libro degli innamorati
inverosimili (Roma 1923); Quand'amai la prima volta. Confessioni dei
più illustri contemporanei (Milano 1928), non "propriamente
novelle ma gustosi pastiches letterari" (E. Montale, L'annata
letteraria, in Almanacco italiano, 1929): è questo lo
scrittore che fu poi accolto nella famosa antologia di E. Falqui,
Capitoli. Per una storia della nostra prosa d'arte del Novecento.
Ma il G., che continuò a esprimere nel Giornale d'Italia il
suo personalissimo modo di leggere e legare cultura e realtà
in rubriche quali "Arabeschi" o "I punti sugl'i", manifestò
il suo gusto per il grottesco e l'indocile anche sul versante degli
studi, curando un'antologia del Burchiello (Le più belle
pagine del Burchiello e dei burchielleschi, Milano 1923; v. anche la
recensione di V. Rossi in Giornale storico della letteratura
italiana, LXXXIII [1924], pp. 203-205), riproposta molti anni dopo
con poche modifiche in edizione numerata (Roma 1949), dopo aver
pubblicato il capitolo Quattrocentisti minori poeti popolari e
novellatori nella Storia illustrata della letteratura italiana
(Milano 1942), in cui il suo nome appariva accanto a quelli, tra gli
altri, di M. Casella, F. Neri, N. Sapegno, A. Schiaffini.
A Roma, tra il 1924 e il 1927, la casa del G. in via Gregoriana
ospitò un salotto letterario frequentatissimo (cfr. le
testimonianze di A. Frateili, S. D'Amico, Leonetta Cecchi
Pieraccini), in cui accanto ai letterati comparivano uomini di
musica e di teatro, a dimostrazione dell'interesse vivissimo del G.
per il mondo dello spettacolo.
Il 14 febbr. 1923 al teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia
venne rappresentato il mimodramma satirico Il dramma del n. 77, su
testo del G. e musica di G. Sommi Picenardi, mentre due anni dopo,
il 27 maggio 1925, nello stesso teatro fu applaudito lo "sketch
radiotelefonico" Ciaccona, che si può leggere in forma di
racconto nel successivo volumetto Sirene in vacanza (Roma 1927).
Allo stesso periodo risale la commedia Paulette, rappresentata al
teatro Odescalchi di Roma.
Assai più significativo il contributo dato dal G. al cinema,
non come autore ma come critico e teorico della nuova forma d'arte,
sia con recensioni e interventi su riviste di cultura e di settore
(Pegaso, Nuova Antologia, Comoedia, Scenario, Rivista italiana di
cinetecnica, Film), sia con l'importante saggio su Il cinema e le
arti meccaniche (Palermo 1930), in cui l'analisi tecnica dei
processi di produzione e riproduzione del film si sposa felicemente
con l'analisi dettagliata e attenta delle opere della cinematografia
mondiale. Il cinema come fatto estetico, come fatto sociale, come
fatto artistico-industriale (per richiamare i titoli di alcuni
capitoli del libro) è analizzato nel contesto delle altre
arti meccaniche: fotografia, fonografia, radiofonia e albori della
televisione.
Tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta il G. venne pian
piano riassorbito dai suoi interessi per il mondo classico, che del
resto non aveva mai abbandonato, come testimoniano anche tanti
articoli del Resto del carlino e del Giornale d'Italia. Prima una
lunga serie di traduzioni per la "Collezione romana" diretta da E.
Romagnoli per l'Istituto editoriale italiano, in cui comparve quasi
tutto Cicerone (Della Repubblica, Tusculane, Dell'oratore,
Epistolario, alcune Orazioni). In seguito pubblicò la
traduzione di Caesar. Storia della sua fama di F. Gundolf (Milano
1932), dove incontrò quello che fu d'allora in poi il suo
autore: J.J. Bachofen, nelle cui idee sembrano trovare un punto
d'approdo le sue inquietudini spirituali, nella prospettiva di un
umanesimo religioso che armonizzi spirito e natura, elemento
patriarcale ed elemento matriarcale.
Si legga quel che scrive il G. in Oriani patriarcale
(NuovaAntologia, 16 ott. 1934, pp. 572-581): "Per Bachofen, le
grandi virtù cavalleresche ed eroiche d'ogni popolo sono
inseparabili dal culto per la Madre, che dev'essere alla
sommità d'ogni civile costituzione. Ed il culto per la Madre
significa, nella mens bachofeniana, un ideale estetico-morale
cristianamente accessibile a tutte le classi, dall'alta alla umile.
Umile e alta più che creatura! è la Madre nella
preghiera di Dante come nella politica di Bachofen" (p. 580). Nello
stesso saggio il G., "di fronte a qualunque nuova tracotanza di
esaltatori del patriarcalismo ariano", scrive che "Cesare ha creato
l'impero di Roma in quanto, nell'ora decisiva, egli è
patriarcale e matriarcale ad un tempo, ariano e pelasgo e non crede
più che l'intelligenza del bello e del giusto debba essere il
privilegio d'una classe senatoria già pervertita e crede
invece ad un ideale di armoniosa giustizia accessibile a tutte le
classi" (p. 580).
È, in nuce, la tesi del volume La religione di Cesare (Milano
1937), preceduto da un intervento al IV Congresso nazionale di studi
romani del 1935 (I culti della Terra Mater ed il problema storico
delle origini romane, in Atti del IV Congresso nazionale di studi
romani, II, Roma 1938, pp. 326-333), e la cui uscita fu come
preparata da alcuni articoli, apparsi nel corso dell'anno sul
Giornale d'Italia - dedicati il 15 marzo a W. Otto, il 24 marzo a F.
Altheim, il 31 marzo a K. Kerényi -, e consacrata dalla lunga
recensione di R. Pettazzoni sullo stesso giornale l'11 sett. 1937.
Ben fondato dal punto di vista erudito e storiografico il libro, che
è anche una storia religiosa del mondo antico, individua nel
culto di Cesare per Venere Genitrice la ricomparsa dell'antichissima
religione matriarcale mediterranea, collegata alla tradizione
religioso-politica di Roma dalla funzione di pontefice massimo che
lo stesso Cesare assume. Il dionisiaco e l'apollineo, il divino e
l'eroico, il mediterraneo e l'europeo, il matriarcale e il
patriarcale, visti non come dati concettuali o storici ma come
momenti eterni dello spirito, trovano in Cesare una nuova sintesi
che si pone anche come lezione e messaggio per il futuro. A patto,
beninteso, di evitare i pericoli insiti in interpretazioni
degenerative delle idee di Bachofen e, soprattutto, di F. Nietzsche:
"Il nostro secolo tenta resuscitare una spiritualità del
terrigeno, del demoniaco, del sadicamente bestiario. Il nostro
naturismo è una degenerazione romantica che esalta le forze
tenebrose dell'irrazionale, pretendendo di vedervi un nuovo e
più profondo aspetto della divinità: il Dio oscuro,
Dioniso, non come l'eroe della tragedia attica, ma come principio
maschio della forza cosmica, come il vitalista atroce dell'India e
del Messico e dell'Etruria, non ha mai avuto così fervidi
sacerdoti nel nostro Occidente" (Teatro dell'uno e
dell'innumerevole, in Nuova Antologia, 16 genn. 1938, p. 173). Al
richiamo dell'abisso delle tenebre, affondamento di ogni vera morale
eroica, si può opporre solo la luce del Cristo: "L'unica via
di salvezza è nel pensare che la vittoria del Cristo […] sia
quella della terra intesa non come cosmica ferocia, ma come madre
dell'inesauribile amore […]. Quel che rinnova il mondo è non
la giustizia di per sé, ma la giustizia illuminata dalla
carità ch'è l'intuito umile e regale dell'amore. Non
l'energia demoniaca, ma la ragione innamorata che la vede e la
domina, è il vivente prodigio" (ibid., p. 174).
Nel 1944 il G. tradusse di Bachofen Il popolo licio (Firenze 1944),
che del metodo del mitologo svizzero è "il più
singolare, il più breve, il più scientifico e tipico
saggio" (p. 82), ma tradusse anche molto, in quell'anno e negli anni
successivi, dalle lingue moderne. Uscirono in sue traduzioni e
spesso con sue prefazioni presso l'editore Jandi Sapi (Milano-Roma):
H. James, I documenti Aspern (1944); J. Steinbeck, La lunga vallata
(1944); M. Proust, La precauzione inutile (1945); J.M. Cain,
Serenata (1945); D.H. Lawrence, L'amante moderno. Racconti (1945);
A. Gide, L'immoralista (1947).
Spicca in questa attività di traduttore e di prefatore la
cura di G. Keller, Lettere d'amore perdute e altri racconti (Milano
1944), per la collana "Il Centonovelle" di V. Bompiani, in cui
nell'Introduzione, nella descrizione della parabola umana e di
scrittore di Keller, si leggono parole illuminanti sulle convinzioni
del G. intorno all'arte, in particolare con il rinvio alla lezione
di G. Flaubert: "Gli artisti - egli ci ha insegnato - hanno una sola
moralità: la probità eroica del loro lavoro, cui tutto
deve sacrificarsi: ordine borghese, onori accademici,
rispettabilità, esistenza" (p. XI; ma si veda tutta la
pagina).
Negli ultimi anni il G. continuò la sua regolare
collaborazione al Giornale d'Italia, su cui, il 23 dic. 1950 (Storie
di demoni), scrisse: "La pace delle tombe, come purità e
chiarità e speranza senza fine, è il capolavoro del
genio materno".
Il G. si spense a Roma il 1° maggio 1951.