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Scrittore e politico nazionalista (Samminiatello, Montelupo
Fiorentino, 1865-Roma 1931). Dannunzianeggiante come letterato, il
suo nazionalismo si venne sempre più politicizzando, e nel
1903, fondata la rivista Il Regno, vi espose le tesi che poi
svilupperà in tutta una serie di scritti (La vita nazionale,
1907; L’ombra della vita, 1908): ci sono «nazioni
plutocratiche» e ci sono «nazioni proletarie»
(come l’Italia); le seconde hanno il diritto di espandersi, di
conquistare nuovi territori, e di procurarsi tutti quei vantaggi che
sono necessari alla loro rinascita e al loro sviluppo. Di qui la
violenta opposizione di C. al socialismo (sostenitore della
fratellanza fra le nazioni), al parlamentarismo, al giolittismo. Nel
1910 fondò l’Associazione nazionalista italiana, alla quale
l’anno dopo affiancò il giornale L’idea nazionale. Allo
scoppio della Prima guerra mondiale fu un acceso interventista e
condusse violente campagne di stampa contro i neutralisti. Nel 1922
fu tra i fautori di una convergenza fra i nazionalisti e i fascisti,
convergenza che fu realizzata nel 1923. Fu senatore dal 1923 e
ministro di Stato dal 1928.
*
DBI
di Franco Gaeta
CORRADINI, Enrico.
Nato il 20 luglio 1865 a Samminiatello di Montelupo (Firenze) da
Narciso e da Anna Setti in seno a una famiglia di piccoli proprietari
terrieri si laureò nel 1888 in lettere all'università fiorentina e
seguì poi, tra il 1889 e il 1891, i corsi dell'Istituto di studi
superiori della stessa città e, per alcuni anni, fu professore presso
il locale liceo "Galileo".
La sua iniziazione culturale - destinata a rimanergli sempre presente
nella vita - fu d'impronta positivistica, ricevuta attraverso
l'insegnamento di G. Trezza, e le sue prime prove letterarie ebbero
manifestazione sulle pagine della rivista Germinal, che egli stesso
fondò, assieme a un gruppo di altri giovani condiscepoli quali C.
Cordara, G. Gargano, D. Garoglio e A. Orvieto, e si pubblicò tra il
dicembre 1891 e il gennaio 1893, intendendo proporsi come un periodico
di letteratura militante con una funzione apertamente "civile".
Le formulazioni che il gruppo di Germinal fu capace di avanzare erano
soprattutto negative, insistendo sul rifiuto di forme e contenuti
lontani dalla realtà, senza per altro specificare la natura dei
rapporti tra la realtà stessa e l'arte: la più precisa caratteristica
era data dalla critica e dal rifiuto della civiltà urbana e dalla
rivendicazione della bontà della "campagna" e della campagna toscana in
particolare, nonché dalla convinzione di poter trovare nell'attività
artistica impegnata una via d'uscita alla crisi spirituale di cui i
giovani autori erano partecipi.
Il C., tra il 1892 e il 1895, si dedicò soprattutto alla stesura di
lavori teatrali che rimasero per lo più inediti (In riva all'Arno,
Firenze 1892; Gli ultimi Elisei, Le selve, e il Compleanno del 1893;
Dopo la morte, Firenze 1895) e vanno ricordati unicamente per
completezza bibliografica. Nel febbraio, per iniziativa del C., di
Adolfo e Angelo Orvieto, D. Garoglio, G. Gargano, M. Morasso, iniziò le
pubblicazioni il Marzocco, la cui direzione, affidata in un primo tempo
ad Adolfo Orvieto, venne assunta nel febbraio 1897 dal C. che impresse
alla rivista - già attestata a difesa delle "più elevate attività dello
spirito" secondo il vitalismo dannunziano - un tono di contestazione
estremizzante, antimaterialistica e venata di cospicue movenze
irrazionalistiche. Le nebulose proposte di rinnovamento, la sensazione
di trovarsi a vivere in un momento in cui stava per verificarsi una
svolta storica, comprovano che il C. e i suoi amici non avevano idee
chiare proprio sulla qualità dell'impegno politico che i letterati
avrebbero dovuto assumere, e la posteriore ricostruzione che il C.
diede di questi anni, nel 1923, collegando la sua "conversione" dalla
letteratura (in cui egli errava "disperato e cieco") alla politica allo
choc per la sconfitta di Adua, pare smentita dalla sua pertinace
operosità come drammaturgo e romanziere che restò per lui decisamente
prevalente fino alla fondazione del Regno.
La "cecità" e la "dissolutezza" corradiniane continuarono infatti ben
oltre il 1896 in una serie di tentativi narrativi e teatrali nei quali
egli affrontò una tematica esistenziale più che politico-sociale che lo
mostrò interessato a inserirsi nelle più attuali correnti che stavano
realizzando il passaggio dal romanzo e dal teatro di azione a quelli di
analisi e di idee, ed ancora sostanzialmente lontano dal conferire al
discorso politico un valore autonomo e tanto meno preponderante e a
subordinare alle ragioni di costruzione ideologica le limitate capacità
di narratore. Un minimo di problematica politico-sociale è certamente
presente nei romanzi scritti in questo periodo (Santamaura, Firenze
1896; La gioia, ibid. 1897; La verginità, ibid. 1898) e nei due drammi
La leonessa, in Flegrea, III (1899), 3-6, e Giacomo Vettori, in Nuova
Antologia, 15 genn. 1901: ma tale problematica costituisce, in verità,
soltanto l'inevitabile sfondo e ambientamento di vicende che sono
tuttavia in linea con la tematica personalistico-esistenziale dei primi
lavori e che si rifanno a precise suggestioni del teatro di Ibsen e di
Hauptmann e (in un rapporto di recezione e di suggestione) all'opera di
D'Annunzio, per lo meno nelle accezioni in cui essa si era concretata
nel Giovanni Episcopo e nella Gloria, con la palese intenzione di
rispecchiarla e di riviverla a un livello borghese-popolare.
L'elemento politico, in questo gruppo di opere corradiniane, si
presenta come un dato "negativo", strettamente connesso all'asserita
decadenza morale della civiltà e della cultura urbana, corrotta o
mistificante, che non trova come proprio contrapposto un incisivo
atteggiamento superomistico, ma un semplice ribellismo individualistico
il quale precipita i protagonisti in situazioni patologiche di degrado,
che, per la loro stessa eccezionalità, vanificano, con un'esacerbazione
realistico-naturalistica, ogni critica seria ed efficiente alla società
italiana del tempo. Il dramma dei personaggi di questi romanzi e lavori
teatrali resta un problema affatto personale e sostanzialmente intimo:
le soluzioni o gli epiloghi non hanno alcun valore propositivo, ma
consistono in una retrogressione all'ambito prepolitico e istintuale e
mettono quindi capo ad un esaltato rigetto di ogni norma e misura, che
non sono solo la norma e la misura della società contemporanea né
possono venire sostituite da una norma e da una misura alternative come
pure avrebbero potuto essere quelle del superuomo
nietzchiano-dannunziano o dell'"egoarca" di Mario Morasso.
Nel 1901, tuttavia, con Giacomo Vettori, si nota nel C. un'impostazione
potenzialmente diversa da quella sin allora osservata che si traduceva
in un pessimismo distruttivo e torbido. Il protagonista del dramma si
configura infatti come un eroe positivo che lascia in retaggio al
figlio un esempio concreto di operosità e di energia ed una ricchezza
vittoriosamente difesa contro un "ingiusto" assalto proletario respinto
e represso senza tentennamenti. È evidente nel Giacomo Vettori la
presenza di un messaggio politico che prese più concretamente corpo nel
dramma Giulio Cesare, pubblicato a Roma nel 1902 contemporaneamente al
secondo volume di Grandezza e decadenza di Roma di G. Ferrero del quale
parve un contraltare.
Il nuovo dramma corradiniano, nell'esaltazione di Cesare contro Bruto e
Cassio impersonanti i germi di distruzione e il dottrinarismo astratto,
fu una chiara presa di posizione per il superamento dei partiti-fazioni
in nome della grandezza nazionale, ostacolata e negata -secondo
l'autore - dalle correnti democratiche e socialiste e dalla pavida
oligarchia liberale.
Si era all'inizio del nuovo corso politico giolittiano, e alla
deprecazione dei tempi dispiegata negli anni precedenti stava
subentrando la formulazione, sia pur vaga, d'una proposta
antidemocratica e antisocialista, che nasceva come reazione alla
politica di apertura verso il movimento operaio. Il C., che già dal
1901 aveva polemizzato contro il pacifismo tolstoiano d'impronta
cristiano-socialista, in nome di un'arte "libera da qualunque missione"
e sgorgante dal bisogno di vivere "tutta la vita in un modo forte e
violento", nel 1902 aveva cominciato ad agitare una critica
"antimaterialistica" contro la lotta di classe, massima espressione
dell'egoismo e massimo pericolo per la coesione nazionale, ed aveva
compreso l'importanza e la necessità di un'azione di propaganda di
massa la quale comportava una conversione dall'arte alla politica e la
costruzione d'una retorica adeguata, in grado di selezionare pochi
semplici temi capaci di generare consenso ad un'alternativa politica e
- al limite - istituzionale.
Proprio in connessione con il dispiegarsi dell'iniziativa socialista e
del rivendicazionismo sindacale, il C. diede vita nel 1903 al Regno di
cui furono attivissimi collaboratori G. Prezzolini e G. Papini (che il
C. aveva conosciuto nel 1902) ed un gruppo di letterati, molti dei
quali avevano in precedenza collaborato al Marzocco. Si trattava d'un
vivace nucleo di scrittori, toscani di nascita o di formazione, che
nella nuova rivista trovarono soprattutto una palestra per esprimere
gli aspetti politici delle loro convinzioni, le quali, per quanto
concerneva la problematica estetica e letteraria, trovavano
contemporaneamente più appropriata sede di espressione in altri fogli.
In seno al gruppo, che portò rumorosamente alla ribalta della vita
politica e intellettuale italiana la tematica nazionalista, il C. si
distinse per il carattere lucido e conseguente dei suoi interventi, che
ne fecero il più accreditato e consapevole ispiratore del movimento e
il più convinto assertore di una linea espansionistico-imperialista
alla quale avrebbe dovuto raccordarsi non solo la borghesia, ma lo
stesso proletariato operaio una volta che fosse stato sottratto
all'egemonia socialista.
Il nucleo della proposta politica corradiniana stava nel porre la
"nazione" come valore fondamentale e supremo, oltre che come organismo
protagonista della vita di relazioni internazionali. Gli ingredienti
che egli adoperava per definire la nazione erano in parte mutuati dal
nazionalismo francese di Barrès e di Maurras e in parte derivati da una
tradizione che era stata ben presente nella storia del Risorgimento e
del postrisorgimento italiano, da Gioberti a Mazzini, fino a Carducci,
Oriani e D'Annunzio: l'intonazione "idealistica" del C. celava
malamente la vena positivistica alla quale egli si era originariamente
nutrito e che era spesso denunciata dal lessico e dalle immagini non di
rado mutuati dalla versione vulgata della scienza positiva; e
l'antipositivismo del C. aveva un'origine politica poiché la filosofia
"positiva" era in larga parte lo strumento di discussione corrente e di
propaganda dell'odiato riformismo socialista.
Nel primo numero del Regno, il C. espresse con estrema chiarezza il
senso della rivolta che dalla sfera intellettuale doveva ormai calarsi
sul terreno politico, nel momento in cui i ritmi dello sviluppo
industriale si acceleravano e i nuovi gruppi imprenditoriali
pretendevano un peso politico adeguato alla loro forza e funzione
economica. Ciò che il C. rifiutava - e invitava a rifiutare - era la
viltà della borghesia di governo e l'invilimento dell'"ignobile
socialismo" che nasceva sul terreno della democrazia e
dell'umanitarismo: la classe politica borghese e la dirigenza
socialriformista erano contestate contemporaneamente. Bisognava bandire
"il sentimentalismo, il dottrinarismo, il rispetto smodato della vita
caduca, la smodata pietà dell'umile e del debole, l'utile e il mediocre
posti come canoni di saggezza ... il dileggio dell'eroico" e levarsi
contro le "orde" e le "furie" del numero.
La riscossa borghese non doveva essere "una delle tante variazioni del
liberalismo italiano" e non doveva fondarsi sul "vecchio dogma della
libertà": essa doveva propugnare una politica estera imperialistica,
non fondata sull'espansionismo industriale e commerciale, per il quale
non esistevano le forze, ma sulla conquista di colonie. Tutte le forme
d'espansionismo dovevano essere praticate, ma, secondo il C., la forma
più naturale di espansione restava, per l'Italia, quella "territoriale
per conquista", che doveva precedere quella industriale e commerciale.
Per realizzare una tale politica, era necessaria la più profonda
compattezza della nazione, che il C. definiva con formule nelle quali
erano presenti venature positivistiche, mistiche e perfino metafisiche;
formule che egli ripeté sempre con variazioni di poco conto e che, in
sostanza, indicavano la nazione come "la maggiore unità di vita
collettiva" protagonista della storia del mondo la quale consisteva nel
conflitto degli antagonismi di cui le nazioni erano appunto gli organi
maggiori, sorti "per una forza di sviluppo dall'interno all'esterno".
La conseguenza pratica di questa nebulosa visione teorica era che
occorreva realizzare "una pace interna per una guerra esterna": una
pace che doveva scaturire dalla vittoria dell'"imperialismo di classe",
premessa del "vero e proprio imperialismo esterno".
L'attività di pubblicista politico, cui affiancò un'intensa attività di
conferenziere, non impedì al C. di continuare la sua operosa di autore
teatrale (L'apologo delle due sorelle, Firenze 1903; Gli Atti degli
apostoli, ined., 1904; Maria Salvestri, Milano 1907; Carlotta Corday,
Napoli 1906)e di narratore (Le sette lampade d'oro, Torino 1904); e la
direzione del Regno non sospese la sua collaborazione ad altre riviste
(Nuova Antologia, La Settimana, L'Illustrazione italiana, La Lettura,
Regina), al Giornale d'Italia e al Nuovo Corriere di Firenze.
Nel 1905 il C. abbandonò la direzione del Regno, pur continuando a
collaborarvi sino al dicembre 1906 quando la rivista cessò le sue
pubblicazioni: il mutamento della situazione politica in seguito alle
elezioni del novembre 1904, in occasione delle quali era stato
parzialmente abolito il "non expedit" e i cattolici erano intervenuti a
sostegno dello schieramento conservatore, aveva avviato un processo di
chiarificazione che accentuava le divergenze presenti in seno al gruppo
protonazionalista. Mentre A. Campodonico, che sostituì il C. nella
direzione della rivista, insisteva in una linea liberalconservatrice,
ma respingeva l'accordo clerico-moderato e propugnava una politica
laica e liberista, il C. si diede a teorizzare la necessità e
opportunità d'un blocco borghese del quale dovevano far parte anche i
cattolici, e a distinguere cristianesimo (religione "democratica") da
cattolicesimo (ideologia dell'"ordine" e conservatrice) aggiungendo
questa tematica a quella "romana" ed accentuando i toni antiliberali e
antiparlamentari. A questa varia azione intellettuale il C. collegò
un'opera di proselitismo politico e cercò d'intessere rapporti e
stabilire collegamenti con tutta una serie di gruppi d'intellettuali
che si esprimevano politicamente attraverso periodici d'orientamento
nazionalista (anche se spesso, in più o meno larga misura, discordanti
dalle impostazioni del Regno), moltiplicatisi soprattutto a partire dal
1908. In questo quadro, il più interessante approccio fu quello verso i
sindacalisti, che ebbe luogo mediante la collaborazione del C. al
Tricolore, diretto da M. Viana e Riego Girola. Secondo il C.,
l'antagonismo di classe poteva essere superato in nome della
solidarietà nazionale, che ne doveva segnare il limite: per ottenere
questo risultato bisognava spezzare il legame che esisteva tra le
organizzazioni operaie e il partito socialista e mirare alla formazione
di un blocco sindacal-nazionalista che avrebbe avuto (pur nella
diversità dei programmi) per comuni nemici "la borghesia liberale di
governo e il socialismo riformista". Al mito dello sciopero generale si
opponeva il mito della guerra vittoriosa: entrambi questi impulsi
comportavano però un'azione antidemocratica e antiparlamentare, e il
nazionalismo doveva porsi come movimento di massa agitando il proprio
mito guerresco ed espansionista.
I due romanzi La patria lontana (Milano 1910) e La guerra lontana
(ibid. 1911) rispondevano ormai in pieno a un'esigenza scopertamente
propagandistica e furono opere tutte politiche nelle quali i meccanismi
narrativi si rivelarono estrinseci e pretestuosi, costituendosi come
comici di parti essenzialmente suasorie: le uniche ad avere una qualche
validità e vitalità, per altro avulsa dal contesto dell'esile trama del
racconto.
Si trattò di due prodotti che segnarono l'ultimo exploit del C.
letterato. La pedagogia volontaristica e guerresca risultava, invero,
più efficace nelle forme del discorso e della saggistica politica che
non nella delineazione di vicende il cui sviluppo aveva parecchio di
estrinseco e si concretavano in esempi edificanti quanto privi di una
logica che non fosse quella della tesi che l'autore si proponeva di
dimostrare.
La stessa attività d'inviato speciale di giornali come Il Corriere
della sera e L'Illustrazione italiana, cui si dedicò tra il 1908 e il
1912, mostrò come il C. si rendesse conto di quali fossero le sue più
cospicue capacità, e nello stesso tempo indicò una scelta precisa per
un'azione politica di raggio più vasto e d'incidenza più immediata di
quella che si poteva svolgere collaborando a fogli di limitata
diffusione e d'intonazione elitaria. La fondazione de L'Idea nazionale,
un settimanale cui il C. diede vita insieme ai più giovani F. Coppola,
M. Maraviglia, L. Federzoni e R. Forges Davanzati, nel 1911, fu
un'operazione sintomatica che rispose ad una precisa finalità politica
imprimendo al movimento nazionalista una direzione conforme in
grandissima parte alle convinzioni corradiniane. Nel 1910, al primo
convegno dell'Associazione nazionalista italiana di cui era stato uno
dei promotori, tenutosi a Firenze, il C. svolse un'importante relazione
destinata ad essere una delle pièces fondamentali del nazionalismo.
Parlando su Classi proletarie: socialismo, nazioni proletarie:
nazionalismo, egli teorizzò l'esistenza di uno "sfruttamento di classe
semplice", operato dalla borghesia ai danni del proletariato in ciascun
paese, e di uno "sfruttamento di classe composto", che si verificava
sul piano internazionale e si concretava nell'opposizione tra nazioni
ricche e nazioni povere: "ci sono nazioni proletarie come ci sono
classi proletarie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con
svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi
... L'Italia è una nazione materialmente e moralmente proletaria". Come
il socialismo aveva dato coscienza, forza e volontà di vittoria al
proletariato, così il nazionalismo doveva fare nei confronti della
nazione italiana e doveva essere il socialismo nazionale", cioè
"insegnare all'Italia il valore della lotta internazionale" e suscitare
"la volontà della guerra vittoriosa", che era un "ordine morale", un
"metodo per creare la ragione formidabile e ineluttabile della
necessità della disciplina nazionale". Soppressa all'interno la lotta
di classe, bisognava affrontare la lotta tra nazioni proletarie e
nazioni capitalistico-plutocratiche, conferendo alla nazione la stessa
aggressività che il proletariato aveva mostrato di potere e di sapere
dispiegare nella lotta contro il suo avversario all'interno della
nazione, e perseguire una politica di rafforzamento militare e di
espansionismo.
Un'impostazione di questo tipo era destinata ad avere un buon successo
nella congiuntura che portò all'intrapresa della guerra di Libia, di
cui il C., dalle colonne dell'Idea nazionale, fu uno dei più accesi e
attivi propugnatori, quantunque il ruolo suo e del suo giornale debba
essere obbiettivamente ridimensionato, rispetto al vanto che i
nazionalisti ne menarono, perché la reale funzione di orientamento
dell'opinione pubblica fu svolta in questa circostanza da fogli ben più
autorevoli e diffusi del settimanale nazionalista, che tirava poche
centinaia di copie e aveva iniziato le pubblicazioni nel marzo 1911,
quando la campagna di stampa sollecitante l'impresa coloniale era già
in atto da parte della Tribuna, della Stampa e del Giornale d'Italia.
Il C., nel 1911, si era recato, prima della guerra libica, nell'Africa
settentrionale, per conto dell'Idea nazionale; seguì poi le operazioni
militari per conto dell'Illustrazione italiana: le corrispondenze
furono raccolte ne L'ora di Tripoli, Milano 1911, La conquista di
Tripoli e Sopra le vie del nuovo impero, ibid. 1912, che naturalmente
rinnovarono la tematica espansionistica, elemento costitutivo
dell'imperialismo corradiniano.
Tra il 1912 e il 1914 il C. (assieme agli altri redattori dell'Idea
nazionale) portò avanti in seno al movimento nazionalista un processo
di chiarificazione reso necessario sia dal successo colto da Giolitti
in politica estera, sia dal pronunciamento nazionale dei cattolici, sia
dall'approvazione della riforma elettorale che aveva istituito il
suffragio universale maschile.
Egli fu uno dei maggiori e certo il più ascoltato fautore di una linea
apertamente antidemocratica, militarista ed espansionista che segnava
lo spartiacque tra il nazionalismo e il liberalismo non solo
giolittiano, ma anche conservatore e, facendo saltare l'equidistanza
tra socialisti e cattolici, predisponeva ad un'alleanza con i secondi.
Nel secondo congresso dell'Associazione nazionalista italiana, tenuto a
Roma nel dicembre 1912, il C. criticò la condotta della guerra libica e
sostenne che la forza militare dovesse trasformarsi in forza guerresca,
che cioè l'Italia dovesse dotarsi di "uno spirito militare aggressivo,
di natura rivoluzionaria" e che il nazionalismo dovesse opporsi alle
forze disgregatrici, rappresentate, secondo lui dai partiti democratici
e sociali, ma, in qualche misura, presenti in tutti i gruppi politici
italiani nonché nella massoneria essenzialmente internazionalista e
cementatrice dei blocchi radicalsocialisti. Questa impostazione provocò
la scissione dell'A.N.I., chiarendo una serie di equivoci che erano
sempre stati presenti nel movimento nazionalista fin dai tempi del
Regno, e ne segnò l'individuazione nei confronti delle correnti
liberal-patriottiche, consumandone contemporaneamente il distacco dalle
concezioni classistico-borghesi che allora erano state sostenute
soprattutto da Prezzolini. Per il C., l'antidemocrazia nazionalista
nasceva dal fatto che la democrazia era ormai contaminata dal
"riformismo parassitario" del socialismo che essa favoriva nell'intento
di distogliere il proletariato dall'espropriazione della borghesia,
aggiungendo così al parassitismo proletario un parassitismo
plutocratico.
Il C. distingueva in seno alla borghesia una borghesia intellettuale,
una borghesia politica e una borghesia dei produttori: quest'ultima
soltanto era una forza sana, e si trovava in opposizione alla vecchia
borghesia politica pacifista e materialista: l'unica democrazia
accettabile era una democrazia dei produttori nella quale capitalisti e
proletari avrebbero potuto trovare una composizione dei loro interessi.
Si trattava di un parziale approfondimento di temi già da tempo
accennati, che però trovavano maggior mordente nella congiuntura
politico-economica postlibica, la quale sollecitava una serie di
riflessioni sui fenomeni della distribuzione e della produzione e
conduceva ad insistere con maggior forza sulla visione (priva di
fondamento teorico, ma efficace sul piano emotivo-propagandistico) del
nazionalismo come "socialismo della nazione italiana nel mondo" che
comportava un progetto di ristrutturazione internazionale e una
revisione dell'organizzazione interna.
Nel quadro dell'iniziativa e dell'azione antibloccarda, il C. si
presentò, nelle elezioni del 1913, candidato alla Camera nel collegio
di Marostica, ma non venne eletto, nonostante l'appoggio dei cattolici.
Continuò naturalmente la sua attività di propagandista e di
conferenziere e, nel corso del 1913-14, insistette con rinnovato vigore
sulla necessità della "revisione dei valori politici contemporanei in
Italia" prendendo sempre più nettamente le distanze nei confronti dei
liberali ed affermando con sempre maggior lucidità che i nazionalisti
dovevano essere "i dissolventi sempre più addentro e sempre più
corrosivi delle vecchie formazioni politiche" ed aprire la via a una
nuova formazione. La debolezza dell'Italia aveva la propria radice nel
fatto che alla base dello Stato unitario c'era stato il liberalismo
individualista: esisteva una chiara linea evolutiva da questo
liberalismo alla democrazia e da questa al socialismo, linea che
metteva in atto un processo di dissolvimento dello Stato. Il
nazionalismo doveva avere invece un'"anima statale" e "sviluppare il
pensiero statale, che cioè lo Stato è vivente per lo Stato, che la
nazione è vivente per la nazione e che l'Italia è vivente per l'Italia,
e che lo Stato è la forma visibile della sua vita". Il logico sviluppo
di queste idee conduceva, dunque, ad adottare una visuale organicistica
dello Stato che aveva bisogno di una proposta costruttiva e operativa:
il C. non aveva intrinsecamente la capacità di offrirla, e ciò spiega
come, a partire dal terzo congresso nazionalista del 1914, la sua
leadership cominciò a incrinarsi. Il vago progetto di ristrutturazione
dello Stato e dell'economia trovò più incisivi teorizzatori in
"tecnici" come Alfredo Rocco e Filippo Carli e la conduzione politica
del movimento nazionalista passò nelle mani di più abili e
spregiudicati condottieri, pur restando ancora il C. il nume tutelare e
il più brillante propagandista a livello del grande pubblico. Sotto un
certo aspetto, la tematica totalitario-corporativo-protezionistica che
venne allora alla ribalta fu una esplicitazione tecnico-giuridica di
quelle tesi che il C. era andato sviluppando sul terreno
politico-oratorio.
Lo scoppio della prima guerra mondiale vide il C. in prima linea nella
campagna per l'intervento cui egli impresse ovviamente una direzione
nettamente imperialistica. I contatti del C. con il mondo
imprenditoriale erano già molto stretti fin dal 1913 e fu soprattutto
per merito suo che l'Idea nazionale, attraverso la costituzione della
Società anonima, "L'Italiana" (nel cui consiglio di amministrazione,
assieme al C. e a P. L. Occhini, sedevano gli industriali D. Ferraris,
A. M. Bombrini e G. Rattazzi) riuscì a trovare finanziamenti che le
consentirono di trasformarsi da settimanale in quotidiano mediante gli
aiuti forniti da un gruppo d'imprenditori tra cui spiccavano personaggi
noti dell'industria siderurgica, meccanica e zuccheriera. L'intensa
attività propagandistica del C. durante il conflitto non si limitò a
svolgere una tematica patriottica, ma, in una serie di scritti raccolti
poi ne La marcia dei produttori, Roma 1916 e Il regime della borghesia
produttiva, ibid. 1918, sostenne che per l'Italia la guerra
antigermanica e l'espansione nel Mediterraneo dovevano costituire "un
tutto organico, come premessa e conseguenza" e che i produttori e i
costruttori (cioè gli appartenenti alla borghesia di produzione)
rappresentavano una nuova aristocrazia, la quale doveva organicamente
permeare lo Stato dei valori di cui era portatrice.
La nazione si identificava ormai chiaramente con la borghesia
produttiva, e la guerra, oltre al raggiungimento dei confini nazionali
sulle Alpi e nell'Adriatico e l'acquisizione di una "parte dell'eredità
orientale", avrebbe dovuto comportare la liquidazione del sistema
politico del passato e la liberazione del paese dall'asservimento al
capitale tedesco. La guerra, che l'Italia aveva affrontato "di libero
animo", si chiariva così come il primo atto di un processo
rivoluzionario che doveva imporre al proletariato il riconoscimento
della funzione dei produttori cui doveva essere consegnata la direzione
dello Stato per attuare quell'imperialismo che il C. aveva sempre
auspicato ed ora identificava con la legge naturale della storia umana
in quanto era "dinamica produttiva in marcia", ovvero "marcia dei
produttori attraverso la terra", "trasporto di dinamica produttiva" da
un territorio ad un altro, e trasmissione di vita e di civiltà, "spazio
convertito in ricchezza attraverso il lavoro". La dinamica esterna
dello Stato aveva come complemento, all'interno, una dinamica di
ricambio di classe dirigente alla quale era interessato il
proletariato, perché "il passaggio dalla classe dei lavoratori alla
classe capitalista ... si compie e in ragione dell'allargamento del
territorio d'impero e di produzione e in ragione dell'acceleramento del
processo di ricambio della dinamica produttiva".
Lo Stato organico e imperialista instaurava "il regime della ricchezza
che si muove" e avviava ad una tendenziale eguaglianza delle classi: da
qui, la teorizzazione, nel 1919, di uno Stato corporativo in cui si
sarebbe realizzata "una stabilizzazione di parti equilibrantisi con
parità di forze mercé una organizzazione... dei rappresentanti diretti
dei sindacati tutti, industriali ed operai". Il C. (insieme ad A.
Rocco) aveva ormai elaborato una dottrina precisa che illustrò al
congresso dell'A.N.I. tenuto a Bologna nell'aprile 1922 ed espose
organicamente ne L'unità e la potenza delle nazioni, Firenze 1922,
pubblicato nello stesso anno e da lui stesso definito libro del "novus
ordo".
A partire dal 1921 il C. aveva rivolto lo sguardo al partito fascista
ed aveva intuito che esso - al di là delle divergenze tattiche che si
sarebbero potute appianare - avrebbe potuto essere il movimento di
massa capace di realizzare le principali proposte politiche, economiche
e sociali dei nazionalismo. La vena populistico-sovversiva che era
presente nella sua concezione rendeva il C. più disponibile di ogni
altro leader nazionalista a un accordo con i fascisti. Nell'ottobre
1919 egli aveva cercato di spingere D'Annunzio ad intraprendere da
Fiume una marcia che si sarebbe dovuta concludere a Roma, ma aveva
rapidamente desistito dall'insistere su questo progetto tenendo conto
delle obiezioni di carattere tecnico che altri avevano avanzate e
soprattutto valutando il pericolo di una conclusione repubblicana
dell'iniziativa; tre anni dopo, nel giugno 1922, quando Mussolini aveva
mostrato la disponibilità a rinunciare alla tendenzialità repubblicana,
il C. fece da tramite tra lui ed il duca d'Aosta per informare di ciò
il sovrano e discusse col duca stesso l'eventualità di un'abdicazione
del re e di una sua reggenza: un'ipotesi che ebbe il suo peso nello
sviluppo della crisi dell'ottobre successivo. Poco dopo la marcia su
Roma, nel dicembre 1922, il C. fu il solo tra i componenti del gruppo
dirigente nazionalista a dichiararsi favorevole apertamente a una
fusione tra l'A.N.I. e il P.N.F.: egli (assieme a R. Forges Davanzati
ed a M. Maraviglia) fece parte della delegazione nazionalista
incaricata di condurre le trattative che si conclusero con il pratico
assorbimento organizzativo dell'A.N.I. nel P.N.F. e con una presa di
posizione ufficiale lealista-monarchica e antimassonica da parte dei
fascisti (febbraio-marzo 1923).
Nominato senatore del Regno nel marzo 1923 il C. fu chiamato a far
parte del "gruppo di competenza" per la riforma costituzionale (maggio
1923), della Commissione dei quindici per l'armonizzazione
dell'ordinamento giuridico con i "nuovi postulati della coscienza
nazionale" (settembre 1924) e fu vicepresidente della Commissione dei
diciotto (gennaio 1925) incaricata di studiare i "problemi presenti
alla coscienza nazionale" e concernenti i rapporti tra lo Stato e tutte
le forze che esso doveva "contenere e garantire", in seno alla quale
egli sostenne l'opportunità dell'istituzione del voto plurimo.
Nel processo di smantellamento dello Stato liberale e di edificazione
dello Stato autoritario, il C. svolse un'attività di rilievo; tuttavia,
man mano che si andarono precisando le caratteristiche di dittatura
personale permanente del regime fascista, che andavano ben oltre il
"ritorno allo Statuto" di sonniniana ascendenza, egli dovette
constatare di non poter consentire con lo spirito di adulazione verso
il capo che prendeva sempre più piede e di non poter giudicare
positivamente né lo spegnersi di ogni vero dibattito politico, né la
generale depoliticizzazione della vita pubblica causata dalla dittatura
che era incapace di creare quella nuova classe dirigente che era sempre
stata in cima ai suoi pensieri.
Non rese pubblica la sua disillusione, che lasciò consegnata a una
serie di appunti privati resi noti da L. Federzoni nel 1967: nel 1928,
con la nomina a ministro di Stato, venne politicamente giubilato e
l'emarginazione durò sino alla morte avvenuta in Roma il 10 dic. 1931,
cui seguì la tumulazione in S. Croce a Firenze: un onore che,
collocandone le spoglie assieme a quelle di Machiavelli, Alfieri e
Foscolo, appare, onestamente, esagerato.