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Nacque a Filottrano, nell'Anconetano, il 13 ott. 1865, dal conte Isidoro e dalla contessa Maria Segreti.
La famiglia, tra le più illustri di Filottrano, apparteneva a
un'antica nobiltà. Il padre, ufficiale della milizia pontificia,
aveva anche partecipato, con il grado di capitano, alla battaglia
di Castelfidardo nel 1860.
Insieme con il fratello primogenito, Edgardo, il G. ricevette una
severa educazione ispirata alla solida tradizione religiosa
coltivata in famiglia. Frequentò a Filottrano gli studi elementari
e ginnasiali, sotto la guida di don E. Bianchi, direttore del
locale ginnasio. Proseguì a Roma gli studi liceali, presso il
liceo statale E.Q. Visconti al Collegio romano, a fianco del quale
operava anche la Congregazione della Scaletta, dei padri gesuiti,
che il G. frequentò insieme con altri giovani studenti cattolici.
Si iscrisse, quindi, alla facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Roma, ove conseguì la laurea con pieni voti
all'età di ventuno anni.
Avviatosi alla carriera forense, il G. fece il tirocinio presso C.
Palomba, celebre penalista romano. In seguito aprì un proprio
studio, nel palazzo De Dominicis, nei pressi del Pantheon,
affermandosi come uno dei più noti avvocati della capitale. Nel
corso della sua attività professionale non mancò di difendere
personalità del mondo cattolico coinvolte in accuse e processi
relativi alla loro attività sociale, politica e giornalistica.
Nel 1898, di fronte alla dura repressione operata dai governi
Rudinì e Pelloux, il G. difese R. Passamonti, direttore del
periodico Il Lazio cattolico, ed E. Filiziani, direttore de La
Vera Roma. Difese anche il quotidiano bolognese l'Avvenire
d'Italia e i dirigenti del circolo cattolico S. Giuliano di
Macerata.
La sua attività professionale, tuttavia, cominciò a cedere il
posto all'impegno organizzativo e direttivo in seno al movimento
cattolico, soprattutto grazie al rapporto di amicizia e di
collaborazione che instaurò con mons. G. Radini Tedeschi, cui era
stato affidato, nel 1897, da G.B. Paganuzzi, presidente dell'Opera
dei congressi, il compito di rivitalizzare l'organizzazione del
movimento cattolico nelle Marche e in Umbria. Un anno dopo Radini
Tedeschi riusciva a costituire il comitato regionale marchigiano
dell'Opera, del quale il G. tenne la presidenza dal 1900 al 1903.
Fu tra i relatori di numerosi congressi cattolici, nazionali e
locali, e tenne conferenze e dibattiti in molte località del
paese. Altri rilevanti incarichi direttivi ebbe a Roma, divenendo,
tra l'altro, presidente dell'Unione cattolica. Fu mons. Radini
Tedeschi a celebrare, l'8 sett. 1900 a Roma, le nozze del G. con
Elena Teresa Calderai, in occasione delle quali Leone XIII volle
nominarlo cameriere di cappa e spada.
La crisi e il successivo scioglimento dell'Opera dei congressi,
operato da Pio X nel 1904, indussero il G. ad abbandonare la
militanza attiva in seno al movimento cattolico. Tra l'altro il
suo orientamento ispirato a una linea moderata, tradizionalista,
di piena e convinta adesione alle direttive della gerarchia
ecclesiastica, lo portò in forte conflitto con l'emergente
movimento della democrazia cristiana, guidata da R. Murri, che
auspicava un più incisivo impegno dei cattolici, sulla base di un
programma sociale e politico e di un organismo autonomo dai
controlli e dalle direttive delle gerarchie ecclesiastiche. Il G.,
dunque, abbandonò per il momento la partecipazione alle iniziative
del cattolicesimo organizzato per dedicarsi ad attività di altra
natura, quale presidente di una società produttrice di ceramica,
l'Eretum di Monterotondo.
Dopo lo scioglimento dell'Opera dei congressi, Pio X, nel 1905,
aveva deciso di riorganizzare l'Azione cattolica (enciclica Il
fermo proposito) sulla base di tre Unioni (popolare,
economico-sociale ed elettorale), con compiti di preparazione,
formazione e indirizzo da espletarsi anche sul piano sociale e
politico. Nel luglio 1909, il pontefice convinse il G. a rinnovare
il suo impegno politico e lo nominò presidente dell'Unione
elettorale cattolica italiana (UECI), in sostituzione di F. Tolli.
Pio X volle anche conferirgli la commenda di S. Gregorio Magno.
Tornato a contatto con i problemi, anche organizzativi,
dell'Azione cattolica, il G. si dedicò con particolare attenzione
al problema della partecipazione dei cattolici alle elezioni
politiche, dopo molti anni di astensionismo sancito dal non
expedit di Pio IX. Sul piano della partecipazione elettorale dei
cattolici, i primi anni del Novecento avevano segnato una svolta
significativa: infatti la ristrutturazione dell'Azione cattolica
da parte di Pio X era stata accompagnata anche dalla prima
parziale partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche a
sostegno di candidature liberali, dato che il papa, a partire
dalle elezioni del 1904, aveva loro consentito di andare a votare
in quei collegi nei quali, a giudizio dei vescovi, esisteva il
pericolo di un successo socialista o di candidati della sinistra
radicale e anticlericale.
Il G. condivideva questa impostazione e sollecitava un più ampio e
articolato intervento alle urne da parte dei cattolici. Parlando
al XX congresso nazionale cattolico svoltosi a Modena dal 9 al 13
nov. 1910, auspicò una più efficace organizzazione elettorale,
tale da consentire ai cattolici di far valere il peso della loro
forza numerica. "Il cattolico", affermò, "che per indifferenza o
per tradizionale lasciar fare, non intende la importanza del voto,
non si studia di impegnarsi a far argine alla marea montante,
tradisce la causa della Chiesa e della patria. […] I cattolici
sono la maggioranza numerica della nazione. I cattolici son sempre
gli sfruttati, i derisi, i conculcati. Da che cosa dipende tutto
questo? Dal fatto che i cattolici, nella maggior parte, non sono
consci della propria forza, non comprendono il loro dovere, non
pensano a organizzarsi sul serio" (Grossi Gondi, p. 33).
Il G. si mise all'opera per intensificare l'attività organizzativa
dell'Unione elettorale, trasformando il suo studio di avvocato, in
via A. Depretis a Roma, in sede degli uffici di presidenza e di
segreteria dell'Unione. Cominciò a viaggiare per tutta Italia,
soprattutto nelle regioni meridionali, quali le Puglie, la
Basilicata e la Calabria, nelle quali risultava difficile avviare
attività di azione cattolica. Proseguì, inoltre, l'iniziativa, già
avviata dal suo predecessore, di convocare annualmente a congresso
i deputati e i consiglieri comunali e provinciali cattolici eletti
in tutta Italia. Grazie a questo impegno, il G. riuscì a
rivitalizzare l'organizzazione dell'UECI, che alla fine del 1911
poteva contare su 177 associazioni aderenti. Ma il momento più
significativo della presidenza del G. si ebbe in occasione delle
elezioni politiche del 1913.
L'anno precedente il Parlamento aveva approvato l'introduzione del
suffragio elettorale maschile che allargava notevolmente il corpo
elettorale da 3 a 8 milioni e mezzo di elettori circa. Era chiaro
che se i cattolici, con il nuovo sistema, si fossero recati alle
urne alla spicciolata, la massa dei loro voti si sarebbe dispersa
in vario senso, smarrendo quel minimo di unità di intendimento e
di azione che la Chiesa riteneva necessaria per difendere i suoi
programmi.
L'atteggiamento da assumersi in vista di queste elezioni venne
affrontato in un documento del 2 apr. 1912, redatto dal G. e
sottoscritto anche dagli altri presidenti delle Unioni cattoliche.
In esso si affermava che l'allargamento del suffragio elettorale
rafforzava "l'obbligo di tutti i cattolici di impedire il male e
rafforzare il bene", che era alla base delle deroghe pontificie al
non expedit. Tanto più di fronte al rischio che le "masse operaie"
venissero condizionate da "una propaganda assidua e perniciosa
fatta dai nemici della religione" (Grossi Gondi, p. 64). La
questione fu ripresa nel corso di un'adunanza generale dell'Unione
elettorale bergamasca, guidata da R. Alessandri e N. Rezzara,
svoltasi a Bergamo il 26 ag. 1912. Alla riunione era presente
anche il G., il quale ribadì l'esigenza di individuare una strada
al fine di fare maggiormente pesare il voto dei cattolici.
Altre riunioni si ebbero a Milano, anche con la presenza di F.
Meda, che dopo aver tentato di dare vita a un partito politico di
ispirazione cristiana, collaborò attivamente con il G. nella
definizione degli strumenti da utilizzare per far pesare il voto
dei cattolici. Si giunse alla conclusione di redigere un
"eptalogo" nel quale erano indicati i punti programmatici che
stavano a cuore ai cattolici e che i candidati che desideravano il
voto dei cattolici dovevano accettare, dandone "sicure garanzie o
privatamente per iscritto o con la esplicita inclusione di tali
punti nel pubblico programma agli elettori". I sette punti
riguardavano la difesa della libertà di coscienza e di
associazione e l'impegno di opporsi "a ogni proposta di legge in
odio alle congregazioni religiose"; difesa dell'insegnamento
privato, "fattore importante di diffusione e di elevazione della
cultura nazionale"; difesa del "diritto dei padri di famiglia di
avere pei propri figli una seria istruzione religiosa nelle scuole
comunali"; difesa dell'unità della famiglia e "assoluta
opposizione al divorzio"; riconoscimento su un piano di parità di
"tutte le organizzazioni economiche e sociali indipendentemente
dai principii sociali o religiosi ai quali esse si ispirano";
riforma degli "ordinamenti tributari e degli istituti giuridici",
attraverso l'"applicazione dei principii di giustizia nei rapporti
sociali"; infine si chiedeva "una politica che tenda a conservare
e rinvigorire le forze economiche e morali del paese, volgendole a
un progressivo incremento dell'influenza italiana nello sviluppo
della civiltà internazionale" (Grossi Gondi, p. 67). Il G. si
affrettò anche a trasmettere il testo dell'accordo alle
personalità e organizzazioni cattoliche italiane, invitandole a
sostenere quei candidati "i quali, ritenuti personalmente degni
dei nostri suffragi", avevano accettato i sette punti
programmatici indicati dai cattolici.
Questo accordo, che prese il nome di patto Gentiloni,
rappresentava, in un certo senso, il presentimento, in modi, però
ancora informi e balbettanti, della necessità per il mondo
cattolico di avere, nella nuova fase storica apertasi con
l'allargamento del suffragio elettorale, un proprio partito.
L'esito elettorale non fece che confermare il peso del voto
cattolico nel quadro politico nazionale.
Tuttavia, l'operazione compiuta dal G. non trovò unanimi consensi
in seno al movimento cattolico, soprattutto da parte di coloro,
come L. Sturzo, che auspicavano l'ingresso dei cattolici nella
vita politica non a sostegno del moderatismo liberale ma come
espressione di una forza politica autonoma con una propria
organizzazione e un programma ispirato alle istanze del pensiero
democratico cristiano. Pur non trascurando il fatto che il patto
Gentiloni convogliò i voti dei cattolici a sostegno della
maggioranza ministeriale giolittiana e che da quelle elezioni non
uscì una forza organica di cattolici, risultò comunque evidente
che se i cattolici si fossero costituiti in forza organizzata
avrebbero potuto incidere profondamente e in maniera decisiva
nella vita pubblica del paese.
Le polemiche che seguirono i risultati elettorali del 26 ottobre -
2 nov. 1913, suscitarono vivaci contrasti nel paese. Luigi
Albertini, in un articolo sul Corriere della sera (25 ott. 1913),
aveva denunciato "il pericolo immenso di questo intervento diretto
di un conte Gentiloni in nome del Papa nelle più delicate elezioni
della penisola". Molti deputati liberali, alcuni dei quali noti
per il loro orientamento anticlericale e per la loro appartenenza
massonica, risultarono eletti con il voto dei cattolici, ma
cercarono di negare la loro adesione al patto. Il G., di fronte a
questi atteggiamenti, intervenne, concedendo una intervista al
giornalista A. Benedetti, pubblicata sul Giornale d'Italia del 7
nov. 1913.
Il G. vi affermava che ben 228 deputati erano stati eletti con il
voto dei cattolici, sottolineando lo straordinario successo
dell'operazione da lui guidata e precisando che era stato "tolto
il non expedit in 330 collegi", era stata "mantenuta l'astensione
più assoluta in 178 collegi", mentre i candidati sostenuti dai
cattolici erano stati sconfitti solo in 100 collegi. Il G.
prendeva in esame anche aspetti particolari della tornata
elettorale, in primo luogo definendo il patto "un vero e proprio
programma di libertà, tanto che alcuni candidati liberali che lo
chiesero e lo firmarono si sono meravigliati che si domandasse
loro così poco in compenso dell'appoggio leale, disinteressato e
fattivo dei cattolici". Rivendicava alcuni successi - quali la
mancata rielezione del socialista G. Podrecca e di esponenti
dell'anticlericalismo quali A. Campanozzi e L. Caetani - e si
soffermava in particolare sulla mancata elezione di R. Murri,
presentatosi nel collegio di Montegiorgio e battuto dal candidato
dei cattolici G. Falconi: "La democrazia", affermava il G., "ha
combattuto la più bella battaglia a favore dell'ex sacerdote
ammogliato, diventato a un tratto il puro vessillifero dei più
sublimi ideali. I buoni contadini, fedeli alla religione degli
avi, obbedienti al più scrupoloso clero, in tre ore hanno fatto
giustizia di un pallone gonfiato". L'intervista fu seguita da
pesanti polemiche; come sottolineò il direttore del Giornale
d'Italia, A. Bergamini, "ogni nome fu scrutato, indagato,
discusso. Con ironia si commentava che la gran parte dei duecento,
noti per le loro inclinazioni areligiose o miscredenti, ligi alla
massoneria, avevano consentito a combatterla in quel modo
drastico. Mai io avevo assistito a tanto strepito giornalistico e
parlamentare" (p. 99).
Le molte polemiche che questa operazione provocò in campo
giornalistico e parlamentare finirono per fare del G. il
personaggio più in vista e più discusso della vita politica
italiana sul finire del 1913. A qualche mese dalle elezioni
politiche, il G. si mise, comunque, di nuovo al lavoro per
preparare le successive elezioni amministrative comunali e
provinciali. In una circolare emanata il 3 febbr. 1914, invitava
le associazioni e gli elettori cat