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Scrittore italiano (Mineo 1839 - Catania 1915), prof. nell'Istituto superiore di magistero in Roma e poi (1902) nell'univ. di Catania. Esordì come poeta, ma la sua attività si volse ben presto alla critica letteraria e alla narrativa. In quella egli occupa un posto notevole non solo per l'acutezza e sensibilità del gusto che, formatosi sul De Sanctis, giovò a scrittori come Verga e Pirandello nel trovare la loro via, ma per il vigore con cui propugnò, primo in Italia, il romanzo naturalista (Studi sulla letteratura contemporanea, prima serie, 1880; seconda serie, 1882; Gli "ismi" contemporanei, 1898; ecc.). Come narratore, nelle sue numerose novelle (Le paesane, 1894; Nuove paesane, 1898; ecc.), e nei romanzi (Giacinta, 1879; Profumo, 1890; Il Marchese di Roccaverdina, 1902, il migliore), lo studio di psicologia e di casi d'eccezione lo fa spesso rimanere sul piano della curiosità scientifica, ma un'arguzia, poi, tutta paesana lo porta a una felice caratterizzazione di figure e ambienti di provincia. Il C. è anche autore di favole e racconti per ragazzi (C'era una volta, 1882; Scurpiddu, 1898; Cardello, 1907; ecc.).
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DBI
di Enrico Ghidetti
Nato a Mineo (Catania) il 29 maggio 1839, primogenito di sette
femmine e due maschi di Gaetano, agiato possidente terriero, e
Dorotea Ragusa, trascorse felice gli anni infantili fra la cittadina
natale e la tenuta familiare nella campagna di Villa Santa
Margherita, segnati dal primo diretto contatto col folclore paesano.
La prima educazione gli fu impartita dallo zio don Antonio,
patriarca riconosciuto della numerosa famiglia Capuana, quindi da un
pedagogo. Nondimeno, verso i dieci anni - come scriverà molto
tempo dopo nei Ricordid'infanzia (postumi, Palermo 1922) - la sua
istruzione era ancora alquanto scarsa, se si eccettui l'affiorare di
una precoce vocazione per la poesia dialettale, alimentata dalla
ricca tradizione paesana e familiare, rappresentata questa dallo zio
canonico don Giuseppe, autore fra l'altro di sacre rappresentazioni
in dialetto. La sua istruzione non trasse molto giovamento neppure
dai corsi di grammatica alla scuola comunale di Mineo, tenuta dai
gesuiti, e a dodici anni il C. fu iscritto al Real collegio
borbonico di Bronte, ove rimase fino al 1855.
Durante il primo anno di permanenza in questa scuola stampò
il primo sonetto (Per l'Immacolata Concezione della B. V. Maria), su
consiglio e desiderio di padre Gesualdo De Luca, sotto la cui guida
iniziò anche la lettura dei classici italiani, da Dante e
Ariosto a Manzoni e Guerrazzi: proprio la lettura della Battaglia di
Benevento assumerà grande importanza, unitamente ai ricordi
degli anni 1848-49 e della repressione in Sicilia guidata dal
principe di Satriano, nella genesi del suo fermissimo sentimento
patriottico e unitario.
Dopo il '55, lasciato il collegio per le precarie condizioni di
salute e ritornato a Mineo, si occupò di letteratura, teatro,
storia, scienze naturali e occultismo, rivelando quell'eclettismo
che sarà una delle componenti più vinose della sua
attività intellettuale. Nel 1857, per volontà dello
zio Antonio, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza del
Siculorum Gymnasium di Catania.
"Si studiacchiava qua e là, se se n'aveva un po' di voglia;
ma si diventava medici avvocati, ingegneri e farmacisti egualmente.
I professori universitari erano di manica larga… il pubblico avrebbe
anch'esso distinto, alla prova, i buoni dai cattivi medici, i buoni
dai cattivi avvocati..." ricorda egli stesso (Come io divenni
novelliere, in Homo, Milano 1888, p. VI). In questi anni di
"illusioni sublimi" si legò di particolare amicizia col poeta
Giuseppe Macherione (assieme alquale nel 1859 inviò un
messaggio patriottico al Guerrazzi) e con Emanuele Navarro della
Miraglia; trascurati affatto gli studi giuridici, sotto l'influenza
della Préface al Cromwell di V. Hugo si dedicò ad una
intensa ma disordinata produzione drammatica, della quale restano
soltanto i titoli e qualche frammento. Era entrato nel frattempo in
amicizia con l'erudito di Acireale Lionardo Vigo, e aveva cominciato
a collaborare all'edizione della Raccoltaamplissima dei canti
popolari siciliani che questi stava preparando. Il Vigo, sostenitore
accanito della "protostasi" siciliana, cioè di una lingua
siciliana primigenia e autoctona, fu la prima vittima delle non
comuni capacità mimetiche del C., il quale gli inviò,
fra l'altro, come raccolto dalla viva voce popolare, la
contraffazione di un canto dove un riferimento a "lu conti
Ruggieri", potendo autorizzarne la datazione all'epoca normanna,
suscitò grande interesse fra gli studiosi quando nel 1857 fu
pubblicata la Raccolta ("Bedda ca aviti picciulu lu peri / d'oru e
d'argentu la scarpa v'he fari / si vi scuprisci lu conti Ruggeri /
ca di lu peri s'havi a 'nnamurari"). Del resto, con l'inserzione del
dantesco "Donni c'aviti intellettu d'amuri" nel contesto di un'altra
contraffazione di canto popolare, il C. mise in crisi persino la
competenza filologica di A. D'Ancona, allora docente
dell'università di Pisa, il quale non si era accorto
dell'inganno.
Nel 1860, abbandonata ormai l'università, prese parte
all'impresa garibaldina come segretario del comitato clandestino
insurrezionale di Mineo, quindi come cancelliere del nuovo consiglio
civico. Né mancò un suo contributo letterario alla
spedizione dei Mille con la leggenda drammatica in tre canti
Garibaldi (Catania 1861), inviata per un giudizio a molti letterati
italiani, fra i quali A. Conti, P. Emiliani Giudici, N. Tommaseo.
Sempre più cosciente dei limiti che l'ambito paesano poneva
alla sua formazione e alla sua vocazione letteraria, si persuase
della necessità di recarsi a Firenze, prossima anche se
effimera capitale, e fervido centro di vita intellettuale. Nella
primavera del 1864, vincendo con un sotterfugio le resistenze della
famiglia, arrivò finalmente in Toscana, dove rimase per
quattro anni.
A Firenze prese attiva parte alla vita culturale della città,
e rinnovò la propria attardata preparazione letteraria spinto
"dal vento della cosiddetta cultura moderna", frequentando il
caffé Michelangelo (ove conobbe i macchiaioli e, fra gli
altri, si legò di amicizia con T. Signorini e V. Boldini), i
salotti del Dall'Ongaro e dei Pozzolini, dove incontrò G.
Capponi, P. Emiliani Giudici, E. Nencioni, A. Aleardi, G. Prati, C.
Levi (dal quale sarà spinto alla lettura delle opere di
Balzac) e, nel maggio-giugno dell'anno 1865, il conterraneo G.
Verga.
Dopo i primi tentativi critici nel 1865 sulla Rivista italica,
l'anno successivo egli divenne critico drammatico del quotidiano La
Nazione e "terrorizzò - scrive P. Vetro - gli autori
drammatici con i suoi giudizi di un rigore eccezionale, e si fece in
tal modo molti avversari letterari". Di questa fase di
attività, documentata nella raccolta Il teatro italiano
contemporaneo. Saggi (Palermo 1872), si deve ricordare la violenta
polemica con F. Martini e L. Fortis a proposito de Ilduello di P.
Ferrari, duramente criticato dal C., e per contro la valutazione
positiva, nella prospettiva di un rinnovamento del teatro italiano,
de I mariti di A. Torelli.
Nell'ottobre 1867 comparve sulla Nazione anche la sua prima prova
narrativa, la novella Ildottor Cymbalus derivata per ammissione del
C. dal racconto La boîte d'argent di Dumas figlio, con la
quale inaugurava il filone fantastico e fantascientifico di una
ricchissima produzione di novelle ispirate, oltre che al
meraviglioso scientifico e all'occultistrio, a complessi casi di
psicopatologia e a motivi e a figure della vita siciliana.
Emblematiche di queste due ultime tematiche sono le celebri raccolte
Le appassionate (Catania 1893) e Le paesane (ibid. 1894).
Ai primi del 1868 per motivi di salute ritornò a Mineo, dove
si fermò sette anni anche per la sopravvenuta morte del padre
e le conseguenti difficoltà economiche della famiglia. Nel
1870 era ispettore scolastico municipale e consigliere comunale, e
fu anche sindaco (il "Depretis di Mineo", lo qualificherà
ironicamente il Verga, cit. in Di Blasi, 1954, p. 130).
"Amministrò così bene il paese che la maggior parte
dei mineoli lo ricordano ora più come sindaco provvido e
intelligente che come scrittore, e fu veramente straordinaria la sua
attività nel rinsanguare le finanze dell'erario e
nell'intentare, con coraggio e con grandi noie, numerosi processi
contro i debitori del comune" (Vetro, p. 35). Di questa
attività politica e amministrativa rimangono due interessanti
documenti: Ilbucato in famiglia, discorso pronunciato il 24 novembre
per la solenne premiazione delle scuole elementari maschili e
femminili di Mineo (Catania 1870), e Ilcomune di Mineo. Relazione
del sindaco (ibid. 1875).
Durante il laborioso periodo della "sindacatura" trovò
comunque il tempo per occupazioni disparate ("sciagurati passatempi"
li considerava l'amico Verga, che vedeva con rammarico il C.
distratto dalla attività letteraria): fotografia, incisione,
disegno, ceramica, ma anche editore nel 1871 delle poesie in
dialetto del concittadino Paolo Maura. Progettò saggi
letterari, novelle e romanzi; e approfondì la conoscenza
delle opere di Hegel e di F. De Sanctis. Da questo derivò il
principio che la forma è il fondamento dell'opera d'arte,
ciò che gli consentì di temperare, e quindi di
superare attraverso l'esercizio di critico militante, la formula del
romanzo sperimentale basato sullo studio dei documenti umani,
inizialmente fatta propria in sede critica e narrativa, tanto che,
ormai vecchio, rifiuterà con fastidio, nel saggio Arte e
scienza (discorso letto il 6 nov. 1903 per la solenne inaugurazione
degli studi della R. università di Catania, ibid. 1904),
l'appellativo di capo del naturalismo italiano e si farà
sostenitore del regionalismo letterario. A questo periodo risale
anche la lettura di un libro fondamentale per lo svolgimento della
sua attività critica, il romanzo-saggio Dopola laurea
dell'hegeliano A. C. De Meis, dove apprese le linee generali della
teoria della evoluzione e morte dei generi artistici, e della
progressiva prevalenza del pensiero speculativo sulla fantasia
creatrice.
Nel 1875 iniziò una relazione con una ragazza entrata come
domestica in casa Capuana, Giuseppina Sansone (conosciuta da allora
a Mineo come la "Beppa di don Lisi"), che durerà fino al
1892, quando la donna si sposò per volontà del C.:
dalla relazione - di cui rimasero singolari documenti le
appassionate lettere e i molti versi in dialetto indirizzati alla
donna analfabeta - nacquero parecchi figli che finirono tutti
all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone.
Alla fine del 1875 il C. fu a Roma, per un breve soggiorno durante
il quale fissò le linee del romanzo Giacinta; ritornato poi a
Mineo, si occupò dell'edizione del suo primo volume di
novelle, Profili di donne (Milano 1877). Nel 1877, ormai pubblicato
il libro, in seguito anche alle affettuose sollecitazioni del Verga,
si recò a Milano, dove ottenne l'incarico di critico
letterario e drammatico del Corriere della Sera e, sulla scorta di
una personale rielaborazione delle teorie naturalistiche,
iniziò la stesura di Giacinta, destinato ad assumere il
valore programmatico di manifesto del verismo italiano (ibid. 1879).
Aveva così inizio il periodo più proficuo della sua
attività: pubblicava anche una nuova edizione delle poesie
del Maura(ibid. 1879), e le due serie degli Studi sulla letteratura
contemporanea (rispettivamente Milano 1880, e Catania 1882). Coi
famosi saggi su Zola, E. de Goncourt, Sacchetti, Gualdo, Faldella,
Dossi, Balzac, Verga, già comparsi sul Corriere della Sera.
Giacinta fu composto, come dichiarò il C., dopo la lettura di
Balzac, di Madame Bovary e del Rougon Macquart, e fu dedicato a E.
Zola. Ispirato da un caso realmente avvenuto, costituì forse
l'esempio più cospicuo dal punto di vista programmatico,
certamente il più noto, della narrativa naturalistica in
Italia, e come tale si inserì nel clima arroventato delle
battaglie pro' e contro il verismo. Del resto il C. lo aveva
previsto, quando scriveva all'amico C. Guzzanti il 7 giugno 1879:
"ancora non è comparso nessun articolo, cominceranno fra
giorni. Se debbo arguire qualcosa dall'effetto della lettura nei
pochi che l'hanno avuta prima della pubblicazione, il successo
sarà strepitoso. Ma alle volte il pubblico applaude leggendo
e la critica dice corna. Vedremo". In seguito a un articolo di E.
Treves del 29 giugno 1879 sulla Illustrazione italiana, nel quale il
romanzo era definito "libro immondo", al Verga, che pur con qualche
riserva gli aveva dichiarato la sua approvazione, il C. furente
scriveva nello stesso giorno da Milano: "gli ho scritto una lunga
lettera in difesa del mio lavoro citando dei brani di esso. Se si
rifiuta a pubblicarla son deciso di schiaffeggiarlo in pubblico in
qualunque luogo lo troverò".
Con molta chiarezza, nel saggio Come io divenni novelliere, ponendo
il problema del difficile e polemico rapporto della sua generazione
con la tradizione letteraria, tracciava per linee sommarie il
proprio itinerario verso il naturalismo dopo la lettura dei
francesi, ed il proprio punto d'arrivo: "Naturalista? Verista? Il
nome mi preoccupava poco. Dicendo: naturalista, verista, tanto per
farmi intendere dagli altri, volevo significare che, secondo me, nel
mettersi a scrivere delle novelle o dei romanzi, bisognava badare a
foggiar quest'opera d'arte giusta la sua ultima forma; provvisoria
anch'essa, ne convenivo; tanto che cercavo anch'io, nella misura
delle mie deboli forze, di svolgerla, d'ampliarla o, per lo meno, di
ripulirla togliendone via quanto ancora rimaneva in essa di fronde
inutili, di rami morti... penoso lavorio, diretto ad ottenere il
resultato di render la novella, dirò così, autonoma,
qualcosa d'indipendente, di fuori del tutto dal suo autore...
l'attenta osservazione della natura, lo studio minuzioso della
verità ritenevo che non sarebbe bastato. Insomma, essendo
l'opera d'arte principalmente anzi unicamente forma, occorreva che
la sua rinnovazione accadesse appunto lì, o era inutile lo
spendervi intorno lavoro, tempo ed ingegno..." (pp. XXVIII-XXXI).
Alla fine del 1880 tornò a Mineo. L'anno successivo conosceva
il giovane F. De Roberto, che dirigeva a Catania il Don Chisciotte,
pubblicava la raccolta di novelle Un bacio (Milano 1881), iniziava
(ma col diverso titolo Il marchese di Santaverdina) il romanzo
destinato a divenire più celebre e che pubblicherà a
distanza di vent'anni, e si impegnava nella appassionata difesa dei
Malavoglia del Verga.
Questi da Milano, l'11 apr. 1981, gli aveva scritto amareggiato: "I
Malavoglia hanno fatto fiasco... Molti, Treves il primo, me ne hanno
detto male, e quelli che non me l'hanno detto mi evitano come se
avessi commesso una cattiva azione... Il peggio è che io non
sono convinto del fiasco..." (Verga, Lettere a L. C., p. 168). Il C.
rispondeva al Verga il 22 aprile, una settimana prima che venisse
pubblicato il famoso saggio dedicato al romanzo sul Fanfulla della
Domenica: "I Malavoglia non sono un fiasco... il fiasco in questo
caso lo fa il pubblico e la critica che si ricrederanno presto come
accade coi lavori che escono dalla solita carreggiata e che hanno
elementi di grandissima vitalità. Per me I Malavoglia sono la
più completa opera che si sia pubblicata in Italia dai
Promessi sposi in poi".
Nel 1882 pubblicò la prima raccolta di fiabe, C'era una volta
(Milano), inaugurando quella intensa attività di autore di
libri per l'infanzia e la gioventù, che si verrà
esplicando in due differenti direzioni, solo episodicamente con
comuni motivi di remota ascendenza autobiografica: l'una, più
propriamente fiabesca, direttamente influenzata dal ricco folclore
isolano; l'altra, che offrire una libera versione, meno preoccupata
di programmatiche istanze naturalistiche, della vita "paesana" della
Sicilia contadina.
Il primo, copiosissimo filone, inaugurato nel 1882, e quindi ancora
in piena polemica verista, con i diciannove racconti di C'era una
volta, soprattutto notevoli per la sicura attitudine rivelata
dall'autore alla imitazione di temi e procedimenti della fiaba
popolare, e che, coerentemente con l'elaborazione di una poetica del
verismo, comporta il rifiuto di ogni intento edificante e
moralistico, segna l'avvio sicuro ad una letteratura per l'infanzia,
grazie alla prevalenza dell'elemento fantastico, libera dalle
pesanti ipoteche di antica tradizione pedagogica.
Il complesso rapporto con la tradizione popolare è del resto
illustrato dal C. stesso nella novella, di intonazione chiaramente
autobiografica, che conclude Ilraccontafiabe (Firenze 1894), seguito
della prima raccolta del 1882, ove si narra di un "povero diavolo",
cui era venuta "l'idea di andare attorno, a raccontare fiabe ai
bambini" perché "gli pareva un mestiere facile", e che,
accortosi del definitivo logoramento del repertorio tradizionale
ormai contestato dal pubblico infantile, si rivolge dapprima per
aiuto al mago Tre-Pi (anagramma dell'amico folclorista G.
Pitrè) senza esito alcuno, e quindi comprende che risorsa
estrema del "raccontafiabe" sarà il soccorso di fata
Fantasia. L'adesione ai motivi del folclore popolare - in cui
è da riconoscere con B. Croce una eccezionale anche se
intellettualistica "abilità letteraria di contraffazione" -
affiora con evidenza comunque nello schematico impianto di queste
narrazioni, secondo il quale fra il mondo dei "reucci" e delle
"reginotte" che gestiscono potere e ricchezza, e il mondo degli
umili condannati alla quotidiana fatica del lavoro, l'unica
possibilità di rapporto e scambio, in vicende governate da un
cieco destino, è costituita dalla pratica della magia. In
raccolte più tarde, come Chi vuol fiabe,chi vuole? (Firenze
1908), a un progressivo esaurimento dell'invenzione fantastica
corrisponde la tendenza a concludere le vicende narrate con
ammaestramenti morali, quando non addirittura, come nel caso del
"romanzo fiabesco" Re Bracalone (Firenze 1905), con espliciti
intenti di propaganda etico-politica in chiave moderata e
conservatrice.
Della seconda direzione intrapresa dal C. i risultati più
consistenti sono consegnati a Scurpiddu (Torino 1898) e Cardello
(Palermo 1907), racconti ricchi di spunti autobiografici nei quali
la sapiente alternanza di registri realistici nella descrizione
della vita siciliana e di toni nostalgici nella rievocazione del
mondo incantato dell'infanzia e dell'adolescenza riesce, non di
rado, a esiti letterariamente fra i più sicuri e durevoli
dell'intera produzione dello scrittore siciliano.
Trasferitosi a Roma, dove conobbe G. D'Annunzio ed E. Scarfoglio,
assunse la direzione del Fanfulla della Domenica. Vi compariranno,
oltre ai saggi poi raccolti nel volume Per l'arte (Catania 1885), i
Semiritmi come traduzioni da un immaginario poeta danese, che
meritano di essere ricordati come primo tentativo in Italia di
elaborazione del verso libero e che per questo motivo gli
attireranno più tardi l'interesse e la simpatia di G. P.
Lucini e dei futuristi. Nel luglio del 1883 le condizioni di salute
lo costrinsero nuovamente a tornare in Sicilia. Dal 1884 all'88
visse a Mineo, salvo brevi intervalli trascorsi a Catania, e nel
1885 fu nuovamente sindaco. Pubblicò il saggio Spiritismo?
(Catania 1884), le Parodie (ibid. 1884) del Giobbe e del Lucifero
del Rapisardi con una prefazione di G. Salvadori, la raccolta di
novelle Ribrezzo (ibid. 1885), l'atto unico Il piccoloarchivio
(ibid. 1886), la seconda edizione completamente rielaborata di
Giacinta (ibid. 1885), le poesie Semiritmi (Milano 1888). Il 16
maggio 1888 mandava in scena al teatro Sannazzaro di Napoli la
commedia in cinque atti Giacinta (Catania 1890), destinata ad
ottenere un lusinghiero anche se effimero successo di pubblico e di
critica. Nel luglio 1888 ritornò a Roma, dove si trattenne
tredici anni, dal 1890 nominato docente di letteratura italiana
all'istituto superiore femminile di magistero. In questo lungo
periodo romano la produzione letteraria del C. non conobbe soste,
anche perché era incalzato da una difficile situazione
economica, dovuta principalmente all'incapacità di
amministrare il proprio patrimonio. Pubblicò, tra l'altro,
nove raccolte di novelle (di cui più importanti le già
citate Appassionate e Paesane); i tre romanzi Profumo (in dieci
puntate sulla Nuova Antologia dal 1º luglio al 1º dic.
1890, e in volume a Palermo nel 1892), La sfinge (in quattro puntate
sempre sulla Nuova Antologia dal 1º settembre al 16 ott. 1895,
e in volume a Milano nel 1897) e Ilmarchese di Roccaverdina (Milano
1901); le tre raccolte di saggi Libri e teatro (Catania 1892), Gli
"ismi" contemporanei (ibid. 1898), Cronache letterarie (ibid. 1899);
oltre a fiabe, scritti di attualità dedicati alla Sicilia,
commedie.
Il marchese di Roccaverdina, dalla critica unanime considerato il
capolavoro del C. romanziere, lo impegnò per circa un
ventennio, e dapprima comparve incompiuto in appendice al quotidiano
L'Ora di Palermo in ventidue puntate dal 12 settembre all'11 nov.
1900. Nella drammatica storia del marchese - progressivamente
condotto alla follia dal rimorso per aver ucciso un sottoposto per
gelosia, dopo che questi aveva acconsentito a sposare una contadina
per anni concubina del nobile, e per aver fatto condannare un
innocente - molti temi affrontati dal C. nella sua ormai lunga
carriera di scrittore appaiono fusi sul fondale di una Sicilia
bruciata dalla siccità, in pagine che sono tra le prove
più significative della narrativa italiana di fine secolo. La
fedele rappresentazione delle condizioni di vita nella Sicilia
contadina e feudale dei baroni costituisce lo sfondo animato e
affollato di un caso clinico di psicosi, a determinare il quale
contribuiscono passione e orgoglio, violenza e superstizione che
irretiscono l'individuo nelle maglie di un arcaico ma ancor vivo
costume morale e psicologico. Il C. attenua sensibilmente il modulo
deterministico del naturalismo quale aveva rigorosamente applicato
in Giacinta, né indulge al pittoresco folclore isolano e alla
demopsicologia come era accaduto in Profumo. I motivi fondamentali -
il tormento della coscienza e la progressiva disgregazione della
personalità del marchese assassino, l'amore e la devozione
dell'amante contadina (nella quale è facile rintracciare non
pochi tratti della "Beppa di don Lisi") - indagati con la consueta
sicurezza e penetrazione psicologica, pur disponendosi nella fitta
orditura della narrazione ancora elaborata secondo i moduli del
verismo siciliano, nel quale la nota "appassionata" si fonde
armonicamente con lo sfondo "paesano", rivelano in profondità
echi e suggestioni non solo dalla grande narrativa russa - in questo
caso Delitto e castigo di Dostoevskij - ma più in generale
della contemporanea narrativa del decadentismo.
A Roma il C. rafforzò l'amicizia con D'Annunzio, all'opera
del quale dedicò un corso universitario; conobbe nel 1890
Pirandello (dal 1897 suo collega d'insegnamento al magistero), il
quale, ricordandolo in seguito con gratitudine di discepolo,
attribuirà al suo incoraggiamento la scoperta della sua
vocazione di narratore; incontrò E. Zola. Dal 1895 si era
unito alla venticinquenne Adelaide Bernardini, conosciuta in
circostanze romanzesche, dopo un tentato suicidio di lei, che
sposerà il 23 apr. 1908, testimone il Verga, a Catania, ove
si era trasferito fino dal 1902 come docente di lessicografia e
stilistica nella locale università. Nel periodo catanese
l'attività di critico del C. si ridusse molto: La scienza
dellaletteratura, prolusione al corso letta alla università
di Catania (Catania 1902), e Le lettere all'assente (Roma-Torino
1904). All'opposto, anche per le difficoltà economiche, molto
ricca e varia fu ancora la produzione di novelle (tredici volumi),
di fiabe e di racconti per ragazzi, e intensa la trasposizione e
rielaborazione in commedie in dialetto di spunti e motivi di novelle
"paesane", i cui frutti saranno raccolti nei volumi del Teatro
dialettale siciliano (I-II, Palermo 1911; III, ibid. 1912; IV,
Catania 1920; V, ibid. 1921), e che celebri attori siciliani, come
G. Grasso e A. Musco, interpretarono con vivo successo
(basterà ricordare Lu cavaleri Pidagna e Lu paraninfu).
Il 29 genn. 1910 si celebrò solennemente in Catania il
giubileo letterario del C. settantenne, cui arrideva ormai una
discreta fama europea; vi parteciparono, in misura diversa,
scrittori italiani e stranieri, dal Verga al De Roberto, dal Cesareo
al Croce. Nell'autunno il C., che come il Verga aveva manifestato
simpatia per il futurismo ("Se avessi cinquanta anni di meno - aveva
ammesso nel 1910 - io mi dichiarerei futurista"), difese
brillantemente in tribunale F. T. Marinetti processato per oltraggio
al pudore in seguito alla pubblicazione di Mafarka. Collocato a
riposo nel 1914, al compimento del settantacinquesimo anno
(nonostante le proposte della stampa e una interrogazione
parlamentare per sollecitare un trattamento eccezionale, per
consentirgli di raggiungere una decorosa pensione), tenne nel maggio
l'ultima lezione all'università.
Morì il 29 nov. 1915 a Catania, e fu sepolto a Mineo.