CAPUANA, Luigi

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Scrittore italiano (Mineo 1839 - Catania 1915), prof. nell'Istituto superiore di magistero in Roma e poi (1902) nell'univ. di Catania. Esordì come poeta, ma la sua attività si volse ben presto alla critica letteraria e alla narrativa. In quella egli occupa un posto notevole non solo per l'acutezza e sensibilità del gusto che, formatosi sul De Sanctis, giovò a scrittori come Verga e Pirandello nel trovare la loro via, ma per il vigore con cui propugnò, primo in Italia, il romanzo naturalista (Studi sulla letteratura contemporanea, prima serie, 1880; seconda serie, 1882; Gli "ismi" contemporanei, 1898; ecc.). Come narratore, nelle sue numerose novelle (Le paesane, 1894; Nuove paesane, 1898; ecc.), e nei romanzi (Giacinta, 1879; Profumo, 1890; Il Marchese di Roccaverdina, 1902, il migliore), lo studio di psicologia e di casi d'eccezione lo fa spesso rimanere sul piano della curiosità scientifica, ma un'arguzia, poi, tutta paesana lo porta a una felice caratterizzazione di figure e ambienti di provincia. Il C. è anche autore di favole e racconti per ragazzi (C'era una volta, 1882; Scurpiddu, 1898; Cardello, 1907; ecc.).

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DBI

di Enrico Ghidetti

Nato a Mineo (Catania) il 29 maggio 1839, primogenito di sette femmine e due maschi di Gaetano, agiato possidente terriero, e Dorotea Ragusa, trascorse felice gli anni infantili fra la cittadina natale e la tenuta familiare nella campagna di Villa Santa Margherita, segnati dal primo diretto contatto col folclore paesano. La prima educazione gli fu impartita dallo zio don Antonio, patriarca riconosciuto della numerosa famiglia Capuana, quindi da un pedagogo. Nondimeno, verso i dieci anni - come scriverà molto tempo dopo nei Ricordid'infanzia (postumi, Palermo 1922) - la sua istruzione era ancora alquanto scarsa, se si eccettui l'affiorare di una precoce vocazione per la poesia dialettale, alimentata dalla ricca tradizione paesana e familiare, rappresentata questa dallo zio canonico don Giuseppe, autore fra l'altro di sacre rappresentazioni in dialetto. La sua istruzione non trasse molto giovamento neppure dai corsi di grammatica alla scuola comunale di Mineo, tenuta dai gesuiti, e a dodici anni il C. fu iscritto al Real collegio borbonico di Bronte, ove rimase fino al 1855.

Durante il primo anno di permanenza in questa scuola stampò il primo sonetto (Per l'Immacolata Concezione della B. V. Maria), su consiglio e desiderio di padre Gesualdo De Luca, sotto la cui guida iniziò anche la lettura dei classici italiani, da Dante e Ariosto a Manzoni e Guerrazzi: proprio la lettura della Battaglia di Benevento assumerà grande importanza, unitamente ai ricordi degli anni 1848-49 e della repressione in Sicilia guidata dal principe di Satriano, nella genesi del suo fermissimo sentimento patriottico e unitario.

Dopo il '55, lasciato il collegio per le precarie condizioni di salute e ritornato a Mineo, si occupò di letteratura, teatro, storia, scienze naturali e occultismo, rivelando quell'eclettismo che sarà una delle componenti più vinose della sua attività intellettuale. Nel 1857, per volontà dello zio Antonio, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza del Siculorum Gymnasium di Catania.

"Si studiacchiava qua e là, se se n'aveva un po' di voglia; ma si diventava medici avvocati, ingegneri e farmacisti egualmente. I professori universitari erano di manica larga… il pubblico avrebbe anch'esso distinto, alla prova, i buoni dai cattivi medici, i buoni dai cattivi avvocati..." ricorda egli stesso (Come io divenni novelliere, in Homo, Milano 1888, p. VI). In questi anni di "illusioni sublimi" si legò di particolare amicizia col poeta Giuseppe Macherione (assieme alquale nel 1859 inviò un messaggio patriottico al Guerrazzi) e con Emanuele Navarro della Miraglia; trascurati affatto gli studi giuridici, sotto l'influenza della Préface al Cromwell di V. Hugo si dedicò ad una intensa ma disordinata produzione drammatica, della quale restano soltanto i titoli e qualche frammento. Era entrato nel frattempo in amicizia con l'erudito di Acireale Lionardo Vigo, e aveva cominciato a collaborare all'edizione della Raccoltaamplissima dei canti popolari siciliani che questi stava preparando. Il Vigo, sostenitore accanito della "protostasi" siciliana, cioè di una lingua siciliana primigenia e autoctona, fu la prima vittima delle non comuni capacità mimetiche del C., il quale gli inviò, fra l'altro, come raccolto dalla viva voce popolare, la contraffazione di un canto dove un riferimento a "lu conti Ruggieri", potendo autorizzarne la datazione all'epoca normanna, suscitò grande interesse fra gli studiosi quando nel 1857 fu pubblicata la Raccolta ("Bedda ca aviti picciulu lu peri / d'oru e d'argentu la scarpa v'he fari / si vi scuprisci lu conti Ruggeri / ca di lu peri s'havi a 'nnamurari"). Del resto, con l'inserzione del dantesco "Donni c'aviti intellettu d'amuri" nel contesto di un'altra contraffazione di canto popolare, il C. mise in crisi persino la competenza filologica di A. D'Ancona, allora docente dell'università di Pisa, il quale non si era accorto dell'inganno.

Nel 1860, abbandonata ormai l'università, prese parte all'impresa garibaldina come segretario del comitato clandestino insurrezionale di Mineo, quindi come cancelliere del nuovo consiglio civico. Né mancò un suo contributo letterario alla spedizione dei Mille con la leggenda drammatica in tre canti Garibaldi (Catania 1861), inviata per un giudizio a molti letterati italiani, fra i quali A. Conti, P. Emiliani Giudici, N. Tommaseo. Sempre più cosciente dei limiti che l'ambito paesano poneva alla sua formazione e alla sua vocazione letteraria, si persuase della necessità di recarsi a Firenze, prossima anche se effimera capitale, e fervido centro di vita intellettuale. Nella primavera del 1864, vincendo con un sotterfugio le resistenze della famiglia, arrivò finalmente in Toscana, dove rimase per quattro anni.

A Firenze prese attiva parte alla vita culturale della città, e rinnovò la propria attardata preparazione letteraria spinto "dal vento della cosiddetta cultura moderna", frequentando il caffé Michelangelo (ove conobbe i macchiaioli e, fra gli altri, si legò di amicizia con T. Signorini e V. Boldini), i salotti del Dall'Ongaro e dei Pozzolini, dove incontrò G. Capponi, P. Emiliani Giudici, E. Nencioni, A. Aleardi, G. Prati, C. Levi (dal quale sarà spinto alla lettura delle opere di Balzac) e, nel maggio-giugno dell'anno 1865, il conterraneo G. Verga.

Dopo i primi tentativi critici nel 1865 sulla Rivista italica, l'anno successivo egli divenne critico drammatico del quotidiano La Nazione e "terrorizzò - scrive P. Vetro - gli autori drammatici con i suoi giudizi di un rigore eccezionale, e si fece in tal modo molti avversari letterari". Di questa fase di attività, documentata nella raccolta Il teatro italiano contemporaneo. Saggi (Palermo 1872), si deve ricordare la violenta polemica con F. Martini e L. Fortis a proposito de Ilduello di P. Ferrari, duramente criticato dal C., e per contro la valutazione positiva, nella prospettiva di un rinnovamento del teatro italiano, de I mariti di A. Torelli.

Nell'ottobre 1867 comparve sulla Nazione anche la sua prima prova narrativa, la novella Ildottor Cymbalus derivata per ammissione del C. dal racconto La boîte d'argent di Dumas figlio, con la quale inaugurava il filone fantastico e fantascientifico di una ricchissima produzione di novelle ispirate, oltre che al meraviglioso scientifico e all'occultistrio, a complessi casi di psicopatologia e a motivi e a figure della vita siciliana. Emblematiche di queste due ultime tematiche sono le celebri raccolte Le appassionate (Catania 1893) e Le paesane (ibid. 1894).

Ai primi del 1868 per motivi di salute ritornò a Mineo, dove si fermò sette anni anche per la sopravvenuta morte del padre e le conseguenti difficoltà economiche della famiglia. Nel 1870 era ispettore scolastico municipale e consigliere comunale, e fu anche sindaco (il "Depretis di Mineo", lo qualificherà ironicamente il Verga, cit. in Di Blasi, 1954, p. 130).

"Amministrò così bene il paese che la maggior parte dei mineoli lo ricordano ora più come sindaco provvido e intelligente che come scrittore, e fu veramente straordinaria la sua attività nel rinsanguare le finanze dell'erario e nell'intentare, con coraggio e con grandi noie, numerosi processi contro i debitori del comune" (Vetro, p. 35). Di questa attività politica e amministrativa rimangono due interessanti documenti: Ilbucato in famiglia, discorso pronunciato il 24 novembre per la solenne premiazione delle scuole elementari maschili e femminili di Mineo (Catania 1870), e Ilcomune di Mineo. Relazione del sindaco (ibid. 1875).

Durante il laborioso periodo della "sindacatura" trovò comunque il tempo per occupazioni disparate ("sciagurati passatempi" li considerava l'amico Verga, che vedeva con rammarico il C. distratto dalla attività letteraria): fotografia, incisione, disegno, ceramica, ma anche editore nel 1871 delle poesie in dialetto del concittadino Paolo Maura. Progettò saggi letterari, novelle e romanzi; e approfondì la conoscenza delle opere di Hegel e di F. De Sanctis. Da questo derivò il principio che la forma è il fondamento dell'opera d'arte, ciò che gli consentì di temperare, e quindi di superare attraverso l'esercizio di critico militante, la formula del romanzo sperimentale basato sullo studio dei documenti umani, inizialmente fatta propria in sede critica e narrativa, tanto che, ormai vecchio, rifiuterà con fastidio, nel saggio Arte e scienza (discorso letto il 6 nov. 1903 per la solenne inaugurazione degli studi della R. università di Catania, ibid. 1904), l'appellativo di capo del naturalismo italiano e si farà sostenitore del regionalismo letterario. A questo periodo risale anche la lettura di un libro fondamentale per lo svolgimento della sua attività critica, il romanzo-saggio Dopola laurea dell'hegeliano A. C. De Meis, dove apprese le linee generali della teoria della evoluzione e morte dei generi artistici, e della progressiva prevalenza del pensiero speculativo sulla fantasia creatrice.

Nel 1875 iniziò una relazione con una ragazza entrata come domestica in casa Capuana, Giuseppina Sansone (conosciuta da allora a Mineo come la "Beppa di don Lisi"), che durerà fino al 1892, quando la donna si sposò per volontà del C.: dalla relazione - di cui rimasero singolari documenti le appassionate lettere e i molti versi in dialetto indirizzati alla donna analfabeta - nacquero parecchi figli che finirono tutti all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone.

Alla fine del 1875 il C. fu a Roma, per un breve soggiorno durante il quale fissò le linee del romanzo Giacinta; ritornato poi a Mineo, si occupò dell'edizione del suo primo volume di novelle, Profili di donne (Milano 1877). Nel 1877, ormai pubblicato il libro, in seguito anche alle affettuose sollecitazioni del Verga, si recò a Milano, dove ottenne l'incarico di critico letterario e drammatico del Corriere della Sera e, sulla scorta di una personale rielaborazione delle teorie naturalistiche, iniziò la stesura di Giacinta, destinato ad assumere il valore programmatico di manifesto del verismo italiano (ibid. 1879). Aveva così inizio il periodo più proficuo della sua attività: pubblicava anche una nuova edizione delle poesie del Maura(ibid. 1879), e le due serie degli Studi sulla letteratura contemporanea (rispettivamente Milano 1880, e Catania 1882). Coi famosi saggi su Zola, E. de Goncourt, Sacchetti, Gualdo, Faldella, Dossi, Balzac, Verga, già comparsi sul Corriere della Sera.

Giacinta fu composto, come dichiarò il C., dopo la lettura di Balzac, di Madame Bovary e del Rougon Macquart, e fu dedicato a E. Zola. Ispirato da un caso realmente avvenuto, costituì forse l'esempio più cospicuo dal punto di vista programmatico, certamente il più noto, della narrativa naturalistica in Italia, e come tale si inserì nel clima arroventato delle battaglie pro' e contro il verismo. Del resto il C. lo aveva previsto, quando scriveva all'amico C. Guzzanti il 7 giugno 1879: "ancora non è comparso nessun articolo, cominceranno fra giorni. Se debbo arguire qualcosa dall'effetto della lettura nei pochi che l'hanno avuta prima della pubblicazione, il successo sarà strepitoso. Ma alle volte il pubblico applaude leggendo e la critica dice corna. Vedremo". In seguito a un articolo di E. Treves del 29 giugno 1879 sulla Illustrazione italiana, nel quale il romanzo era definito "libro immondo", al Verga, che pur con qualche riserva gli aveva dichiarato la sua approvazione, il C. furente scriveva nello stesso giorno da Milano: "gli ho scritto una lunga lettera in difesa del mio lavoro citando dei brani di esso. Se si rifiuta a pubblicarla son deciso di schiaffeggiarlo in pubblico in qualunque luogo lo troverò".

Con molta chiarezza, nel saggio Come io divenni novelliere, ponendo il problema del difficile e polemico rapporto della sua generazione con la tradizione letteraria, tracciava per linee sommarie il proprio itinerario verso il naturalismo dopo la lettura dei francesi, ed il proprio punto d'arrivo: "Naturalista? Verista? Il nome mi preoccupava poco. Dicendo: naturalista, verista, tanto per farmi intendere dagli altri, volevo significare che, secondo me, nel mettersi a scrivere delle novelle o dei romanzi, bisognava badare a foggiar quest'opera d'arte giusta la sua ultima forma; provvisoria anch'essa, ne convenivo; tanto che cercavo anch'io, nella misura delle mie deboli forze, di svolgerla, d'ampliarla o, per lo meno, di ripulirla togliendone via quanto ancora rimaneva in essa di fronde inutili, di rami morti... penoso lavorio, diretto ad ottenere il resultato di render la novella, dirò così, autonoma, qualcosa d'indipendente, di fuori del tutto dal suo autore... l'attenta osservazione della natura, lo studio minuzioso della verità ritenevo che non sarebbe bastato. Insomma, essendo l'opera d'arte principalmente anzi unicamente forma, occorreva che la sua rinnovazione accadesse appunto lì, o era inutile lo spendervi intorno lavoro, tempo ed ingegno..." (pp. XXVIII-XXXI).

Alla fine del 1880 tornò a Mineo. L'anno successivo conosceva il giovane F. De Roberto, che dirigeva a Catania il Don Chisciotte, pubblicava la raccolta di novelle Un bacio (Milano 1881), iniziava (ma col diverso titolo Il marchese di Santaverdina) il romanzo destinato a divenire più celebre e che pubblicherà a distanza di vent'anni, e si impegnava nella appassionata difesa dei Malavoglia del Verga.

Questi da Milano, l'11 apr. 1981, gli aveva scritto amareggiato: "I Malavoglia hanno fatto fiasco... Molti, Treves il primo, me ne hanno detto male, e quelli che non me l'hanno detto mi evitano come se avessi commesso una cattiva azione... Il peggio è che io non sono convinto del fiasco..." (Verga, Lettere a L. C., p. 168). Il C. rispondeva al Verga il 22 aprile, una settimana prima che venisse pubblicato il famoso saggio dedicato al romanzo sul Fanfulla della Domenica: "I Malavoglia non sono un fiasco... il fiasco in questo caso lo fa il pubblico e la critica che si ricrederanno presto come accade coi lavori che escono dalla solita carreggiata e che hanno elementi di grandissima vitalità. Per me I Malavoglia sono la più completa opera che si sia pubblicata in Italia dai Promessi sposi in poi".

Nel 1882 pubblicò la prima raccolta di fiabe, C'era una volta (Milano), inaugurando quella intensa attività di autore di libri per l'infanzia e la gioventù, che si verrà esplicando in due differenti direzioni, solo episodicamente con comuni motivi di remota ascendenza autobiografica: l'una, più propriamente fiabesca, direttamente influenzata dal ricco folclore isolano; l'altra, che offrire una libera versione, meno preoccupata di programmatiche istanze naturalistiche, della vita "paesana" della Sicilia contadina.

Il primo, copiosissimo filone, inaugurato nel 1882, e quindi ancora in piena polemica verista, con i diciannove racconti di C'era una volta, soprattutto notevoli per la sicura attitudine rivelata dall'autore alla imitazione di temi e procedimenti della fiaba popolare, e che, coerentemente con l'elaborazione di una poetica del verismo, comporta il rifiuto di ogni intento edificante e moralistico, segna l'avvio sicuro ad una letteratura per l'infanzia, grazie alla prevalenza dell'elemento fantastico, libera dalle pesanti ipoteche di antica tradizione pedagogica.

Il complesso rapporto con la tradizione popolare è del resto illustrato dal C. stesso nella novella, di intonazione chiaramente autobiografica, che conclude Ilraccontafiabe (Firenze 1894), seguito della prima raccolta del 1882, ove si narra di un "povero diavolo", cui era venuta "l'idea di andare attorno, a raccontare fiabe ai bambini" perché "gli pareva un mestiere facile", e che, accortosi del definitivo logoramento del repertorio tradizionale ormai contestato dal pubblico infantile, si rivolge dapprima per aiuto al mago Tre-Pi (anagramma dell'amico folclorista G. Pitrè) senza esito alcuno, e quindi comprende che risorsa estrema del "raccontafiabe" sarà il soccorso di fata Fantasia. L'adesione ai motivi del folclore popolare - in cui è da riconoscere con B. Croce una eccezionale anche se intellettualistica "abilità letteraria di contraffazione" - affiora con evidenza comunque nello schematico impianto di queste narrazioni, secondo il quale fra il mondo dei "reucci" e delle "reginotte" che gestiscono potere e ricchezza, e il mondo degli umili condannati alla quotidiana fatica del lavoro, l'unica possibilità di rapporto e scambio, in vicende governate da un cieco destino, è costituita dalla pratica della magia. In raccolte più tarde, come Chi vuol fiabe,chi vuole? (Firenze 1908), a un progressivo esaurimento dell'invenzione fantastica corrisponde la tendenza a concludere le vicende narrate con ammaestramenti morali, quando non addirittura, come nel caso del "romanzo fiabesco" Re Bracalone (Firenze 1905), con espliciti intenti di propaganda etico-politica in chiave moderata e conservatrice.

Della seconda direzione intrapresa dal C. i risultati più consistenti sono consegnati a Scurpiddu (Torino 1898) e Cardello (Palermo 1907), racconti ricchi di spunti autobiografici nei quali la sapiente alternanza di registri realistici nella descrizione della vita siciliana e di toni nostalgici nella rievocazione del mondo incantato dell'infanzia e dell'adolescenza riesce, non di rado, a esiti letterariamente fra i più sicuri e durevoli dell'intera produzione dello scrittore siciliano.

Trasferitosi a Roma, dove conobbe G. D'Annunzio ed E. Scarfoglio, assunse la direzione del Fanfulla della Domenica. Vi compariranno, oltre ai saggi poi raccolti nel volume Per l'arte (Catania 1885), i Semiritmi come traduzioni da un immaginario poeta danese, che meritano di essere ricordati come primo tentativo in Italia di elaborazione del verso libero e che per questo motivo gli attireranno più tardi l'interesse e la simpatia di G. P. Lucini e dei futuristi. Nel luglio del 1883 le condizioni di salute lo costrinsero nuovamente a tornare in Sicilia. Dal 1884 all'88 visse a Mineo, salvo brevi intervalli trascorsi a Catania, e nel 1885 fu nuovamente sindaco. Pubblicò il saggio Spiritismo? (Catania 1884), le Parodie (ibid. 1884) del Giobbe e del Lucifero del Rapisardi con una prefazione di G. Salvadori, la raccolta di novelle Ribrezzo (ibid. 1885), l'atto unico Il piccoloarchivio (ibid. 1886), la seconda edizione completamente rielaborata di Giacinta (ibid. 1885), le poesie Semiritmi (Milano 1888). Il 16 maggio 1888 mandava in scena al teatro Sannazzaro di Napoli la commedia in cinque atti Giacinta (Catania 1890), destinata ad ottenere un lusinghiero anche se effimero successo di pubblico e di critica. Nel luglio 1888 ritornò a Roma, dove si trattenne tredici anni, dal 1890 nominato docente di letteratura italiana all'istituto superiore femminile di magistero. In questo lungo periodo romano la produzione letteraria del C. non conobbe soste, anche perché era incalzato da una difficile situazione economica, dovuta principalmente all'incapacità di amministrare il proprio patrimonio. Pubblicò, tra l'altro, nove raccolte di novelle (di cui più importanti le già citate Appassionate e Paesane); i tre romanzi Profumo (in dieci puntate sulla Nuova Antologia dal 1º luglio al 1º dic. 1890, e in volume a Palermo nel 1892), La sfinge (in quattro puntate sempre sulla Nuova Antologia dal 1º settembre al 16 ott. 1895, e in volume a Milano nel 1897) e Ilmarchese di Roccaverdina (Milano 1901); le tre raccolte di saggi Libri e teatro (Catania 1892), Gli "ismi" contemporanei (ibid. 1898), Cronache letterarie (ibid. 1899); oltre a fiabe, scritti di attualità dedicati alla Sicilia, commedie.

Il marchese di Roccaverdina, dalla critica unanime considerato il capolavoro del C. romanziere, lo impegnò per circa un ventennio, e dapprima comparve incompiuto in appendice al quotidiano L'Ora di Palermo in ventidue puntate dal 12 settembre all'11 nov. 1900. Nella drammatica storia del marchese - progressivamente condotto alla follia dal rimorso per aver ucciso un sottoposto per gelosia, dopo che questi aveva acconsentito a sposare una contadina per anni concubina del nobile, e per aver fatto condannare un innocente - molti temi affrontati dal C. nella sua ormai lunga carriera di scrittore appaiono fusi sul fondale di una Sicilia bruciata dalla siccità, in pagine che sono tra le prove più significative della narrativa italiana di fine secolo. La fedele rappresentazione delle condizioni di vita nella Sicilia contadina e feudale dei baroni costituisce lo sfondo animato e affollato di un caso clinico di psicosi, a determinare il quale contribuiscono passione e orgoglio, violenza e superstizione che irretiscono l'individuo nelle maglie di un arcaico ma ancor vivo costume morale e psicologico. Il C. attenua sensibilmente il modulo deterministico del naturalismo quale aveva rigorosamente applicato in Giacinta, né indulge al pittoresco folclore isolano e alla demopsicologia come era accaduto in Profumo. I motivi fondamentali - il tormento della coscienza e la progressiva disgregazione della personalità del marchese assassino, l'amore e la devozione dell'amante contadina (nella quale è facile rintracciare non pochi tratti della "Beppa di don Lisi") - indagati con la consueta sicurezza e penetrazione psicologica, pur disponendosi nella fitta orditura della narrazione ancora elaborata secondo i moduli del verismo siciliano, nel quale la nota "appassionata" si fonde armonicamente con lo sfondo "paesano", rivelano in profondità echi e suggestioni non solo dalla grande narrativa russa - in questo caso Delitto e castigo di Dostoevskij - ma più in generale della contemporanea narrativa del decadentismo.

A Roma il C. rafforzò l'amicizia con D'Annunzio, all'opera del quale dedicò un corso universitario; conobbe nel 1890 Pirandello (dal 1897 suo collega d'insegnamento al magistero), il quale, ricordandolo in seguito con gratitudine di discepolo, attribuirà al suo incoraggiamento la scoperta della sua vocazione di narratore; incontrò E. Zola. Dal 1895 si era unito alla venticinquenne Adelaide Bernardini, conosciuta in circostanze romanzesche, dopo un tentato suicidio di lei, che sposerà il 23 apr. 1908, testimone il Verga, a Catania, ove si era trasferito fino dal 1902 come docente di lessicografia e stilistica nella locale università. Nel periodo catanese l'attività di critico del C. si ridusse molto: La scienza dellaletteratura, prolusione al corso letta alla università di Catania (Catania 1902), e Le lettere all'assente (Roma-Torino 1904). All'opposto, anche per le difficoltà economiche, molto ricca e varia fu ancora la produzione di novelle (tredici volumi), di fiabe e di racconti per ragazzi, e intensa la trasposizione e rielaborazione in commedie in dialetto di spunti e motivi di novelle "paesane", i cui frutti saranno raccolti nei volumi del Teatro dialettale siciliano (I-II, Palermo 1911; III, ibid. 1912; IV, Catania 1920; V, ibid. 1921), e che celebri attori siciliani, come G. Grasso e A. Musco, interpretarono con vivo successo (basterà ricordare Lu cavaleri Pidagna e Lu paraninfu).

Il 29 genn. 1910 si celebrò solennemente in Catania il giubileo letterario del C. settantenne, cui arrideva ormai una discreta fama europea; vi parteciparono, in misura diversa, scrittori italiani e stranieri, dal Verga al De Roberto, dal Cesareo al Croce. Nell'autunno il C., che come il Verga aveva manifestato simpatia per il futurismo ("Se avessi cinquanta anni di meno - aveva ammesso nel 1910 - io mi dichiarerei futurista"), difese brillantemente in tribunale F. T. Marinetti processato per oltraggio al pudore in seguito alla pubblicazione di Mafarka. Collocato a riposo nel 1914, al compimento del settantacinquesimo anno (nonostante le proposte della stampa e una interrogazione parlamentare per sollecitare un trattamento eccezionale, per consentirgli di raggiungere una decorosa pensione), tenne nel maggio l'ultima lezione all'università.

Morì il 29 nov. 1915 a Catania, e fu sepolto a Mineo.