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Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma (in devanagari मोहनदास
करमचन्द गांधी , [moːɦənˈdaːs kəɾəmˈtʂənd ˈɡaːndʱiː]) (Porbandar, 2
ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948), è stato un
politico e filosofo indiano.
Firma del Mahatma Gandhi
Importante guida spirituale per il suo paese, lo si conosce
soprattutto col nome di Mahatma (in sanscrito महात्मा, "grande
anima"), appellativo che gli fu conferito per la prima volta dal
poeta Rabindranath Tagore. Un altro suo soprannome è Bapu,
che in hindi significa "padre". Gandhi è stato uno dei
pionieri e dei teorici del satyagraha, la resistenza all'oppressione
tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l'India
all'indipendenza. Il satyagraha è fondato sulla satya
(verità) e sull'ahimsa (nonviolenza). Con le sue azioni
Gandhi ha ispirato molti movimenti di difesa dei diritti civili e
grandi personalità quali Martin Luther King, Nelson
Mandela e Aung San Suu Kyi.
In India Gandhi è stato riconosciuto come Padre della nazione
e il giorno della sua nascita (2 ottobre) è un giorno
festivo. Questa data è stata anche dichiarata «Giornata
internazionale della nonviolenza» dall'Assemblea generale
delle Nazioni Unite.
Biografia
Anni giovanili
Nasce il 2 ottobre 1869 a Porbandar, una città di pescatori
nell'attuale Stato di Gujarat, in India. La sua famiglia appartiene
alla comunità modh, gruppo tradizionalmente dedito al
commercio: il nome Gandhi significa infatti "droghiere".
Nei primi anni di scuola viene poco apprezzato. Segue poi gli studi
superiori presso la Alfred High School a Rajkot, dove il padre si
era trasferito per ricoprire l'incarico di Primo ministro del locale
principato.
Nel 1881, all'età di 12 anni Gandhi sposa, con un matrimonio
combinato secondo la tradizione indù, Kastürbā Gāndhi,
sua coetanea: Gandhi in seguito condannerà più volte
"la crudele usanza dei matrimoni infantili". La coppia
avrà 4 figli maschi.
Il trasferimento in Europa
Gandhi, all'età di diciassette anni e tre anni dopo la morte
del padre, parte per studiare da avvocato presso la University
College di Londra. Considerando l'impossibilità di rispettare
i precetti induisti in Inghilterra, la sua casta si oppone alla
partenza. Gandhi parte nonostante tutto e viene condannato a essere
un fuori casta dal capo della sua comunità.
A Londra Gandhi si adatta in una certa misura alle abitudini
inglesi, vestendosi e cercando di vivere come un gentleman.
Il ritorno a casa
Due giorni dopo aver passato gli esami di giurisprudenza parte
dall'Inghilterra, il 12 giugno 1891, per tornare in India: una volta
sbarcato a Bombay apprende che la madre è morta. Con l'aiuto
del fratello viene riammesso nella sua casta e inizia a praticare
l'avvocatura; avrà però difficoltà ad
esercitare la sua professione: le sue conoscenze sono soprattutto
teoriche e non conosce ancora bene il diritto indiano. Inoltre
è imbarazzato nel parlare in pubblico. Tenta di sistemarsi a
Bombay, ma rinuncia dopo sei mesi per le entrate insufficienti.
Movimento dei diritti civili in Sudafrica (1893-1914)
L'inizio del militantismo
Gandhi ritorna allora a Rajkot per lavorare presso suo fratello,
anch'egli avvocato. Due anni dopo, la ditta indiana Dada Abdullah
& C., che commercia nel Natal, lo incarica di difendere una
causa in Sudafrica. A questo punto della sua vita Gandhi è un
individuo dolce, timido, politicamente indifferente ed è
impacciato quando deve parlare in tribunale.
In Sudafrica entra in contatto con l'apartheid (segregazione dei
neri). Ma viene soprattutto a contatto con il pregiudizio razziale e
con le condizioni di quasi schiavitù nelle quali vivono i
suoi 150 mila connazionali. Questa situazione lo spinge a compiere
un'evoluzione interiore spettacolare. Diversi aneddoti sono stati
raccontati direttamente da Gandhi a titolo di «esperienze di
verità» e meritano di essere riportati per capire
questo cambiamento: un giorno, in un tribunale di Durban, il
magistrato gli domanda di togliere il turbante. Gandhi si rifiuta di
obbedire e viene espulso dal tribunale. Si fa espellere anche da un
treno a Pietermaritzburg, non avendo accettato di passare dal vagone
di prima classe in quello di terza classe, dato che possedeva un
biglietto valido per la prima classe. In seguito prende una
diligenza ed il responsabile prima gli vieta di viaggiare
all'interno con gli altri passeggeri europei e poi lo picchia
perché si rifiuta di spostarsi sul predellino.
Questi incidenti, descritti in diverse biografie come punto di
svolta della sua vita, sono anche quelli che hanno agito da
catalizzatore per il suo militantismo. In quanto testimone diretto
dell'intolleranza, del razzismo, dei pregiudizi e dell'ingiustizia
verso gli indiani in Sudafrica, Gandhi comincia a riflettere sullo
stato del suo popolo e sul proprio posto nella società.
Questi ed altri episodi convincono Gandhi a dover prendere parte
attiva nella lotta contro i soprusi a cui sono sottoposti i
cittadini indiani nel Natal: scrive numerose lettere di protesta
alla stampa, indice a Pretoria una riunione a cui prendono parte
tutti i connazionali del Sud Africa pronunciando il suo primo
discorso pubblico e redige una petizione di protesta.
Gandhi non ebbe lo stesso riguardo nei confronti della situazione
della gente di colore nel paese, anzi nella raccolta dei suoi
scritti (Collected Works of Mahatma Gandhi, Vol. 89) se ne possono
trovare diversi in cui il Mahatma stesso rivolge definizioni
razziste verso i nativi africani, in cui i "kaffirs" (neri) vengono
definiti come incivili, ignoranti, animali. "La sola ambizione dei
kaffirs è raccogliere una certa quantità di bestiame
con cui comprare una moglie e poi passare la loro vita nudi,
nell'indolenza. Sono degli sfaticati, una specie di umanità
quasi sconosciuta tra gli indiani".
Molte di queste affermazioni razziste nei riguardi della gente
sudafricana di colore furono pubblicate sul "The Indian
Opinion", diretto e edito da Gandhi dal 1904 al 1914.
Il voto in Natal e la guerra boera
Alla fine del suo contratto, Gandhi si prepara a rientrare in India.
Durante la festa di addio indetta in suo onore, viene però a
sapere che l'assemblea del Natal sta preparando una legge per
abolire il diritto di voto degli indiani e per tassarli pesantemente
a fine contratto, nel caso non ritornino in patria. Questi
provvedimenti sono dettati dalla paura per la crescente ricchezza
economica della comunità indiana. Gli ospiti di Gandhi gli
chiedono di restare per essere aiutati, visto che non dispongono
delle competenze per opporsi a questo progetto di legge. Gandhi
organizza allora la circolazione di diverse petizioni indirizzate al
governo del Natal e a quello britannico, contro questa legge. Anche
se non può impedirne il voto, questa campagna permette di
attirare l'attenzione sulle difficoltà degli indiani in
Sudafrica e fa sviluppare lo spirito di solidarietà tra le
varie componenti della comunità indiana.
Nel 1893 Gandhi fonda il Natal Indian Congress di cui diviene il
segretario. Questa organizzazione trasformerà la
comunità indiana in una forza politica omogenea.
Dopo un soggiorno di 6 mesi in India (fine 1896-gennaio 1897), per
informare i compatrioti sulla drammatica situazione degli indiani in
Sudafrica e per portare con sé moglie e figli, Gandhi ritorna
nel Natal.
Nel 1899, agli inizi della Seconda guerra boera, Gandhi dichiara che
gli indiani devono sostenere lo sforzo della guerra se vogliono
legittimare la loro richiesta di cittadinanza. Organizza
perciò un corpo di ambulanzieri volontari composto da 300
indiani liberi e 800 coolie indiani. Alla fine della guerra,
però, la situazione degli indiani in Sudafrica non migliora e
tende anzi a peggiorare.
L'ashram di Phoenix
Nel 1901 Gandhi ritorna con la sua famiglia in India, dove partecipa
per la prima volta al Congresso Indiano, da cui ottiene una
risoluzione a favore degli indiani del Sudafrica. Nello stesso anno
ritorna da solo in Sudafrica, dopo aver girato l'India in treno su
carrozze di terza classe, vestito come un povero pellegrino.
Ormai leader degli indiani in Sudafrica, contribuisce a fondare nel
1903 il giornale Indian opinion. L'anno successivo legge con grande
interesse i libri sacri dell'induismo, ed un saggio che lo convince
ad operare profondi cambiamenti: Fino all'ultimo (Unto This Last) di
John Ruskin. Così acquista 100 acri (circa 50 ettari) a
Phoenix, presso Durban, dove si stamperà il giornale e dove
risiederanno la sua famiglia e i suoi collaboratori. Qui, tutti i
membri della comunità, compresi i redattori di Indian opinion
partecipano ai lavori agricoli e sono retribuiti con lo stesso
salario indipendentemente dalla nazionalità o dal colore
della pelle. La fattoria di Phoenix è il primo modello di
ashram in cui si pratica, in un regime di vita monastico, la
povertà volontaria, il lavoro manuale e la preghiera.
Nel 1906 fa voto di castità (brahmacharya) per affrancarsi
dai piaceri della carne, elevare lo spirito e liberare energie per
le attività umanitarie.
Gandhi comincia proprio in questo centro di preparazione spirituale
la pratica del digiuno e smette di consumare latte. Si taglia da
solo i capelli e pulisce le latrine, attività che in India
era riservata alla casta degli intoccabili, che Gandhi chiamava
harijan, figli di Hari (Dio). Incita anche sua moglie e i suoi amici
a fare la stessa cosa.
La prima satyagraha
Quando nel 1905 il Congresso Indiano sfida per la prima volta
l'Impero britannico con un boicottaggio di tutte le merci
britanniche, proposto da Banerjea Sureundranath, Gandhi vi aderisce.
L'anno successivo crea il Corpo Sanitario Indiano per portare
assistenza nella guerra contro gli zulu: al suo ritorno dalla
guerra il governo del Transvaal vota una nuova legge, di chiaro
stampo razzista, che obbliga gli indiani residenti nel Transvaal ad
essere schedati. Durante una protesta all'Empire Theatre of
Varieties di Johannesburg, l'11 settembre 1906, Gandhi adotta per la
prima volta la sua metodologia della satyagraha, una nuova parola
coniata a seguito di un concorso su Indian opinion, chiamando i suoi
compagni a sfidare la nuova legge e a subire le punizioni previste,
senza ricorrere alla violenza.
Il piano viene adottato e porta ad una lotta che dura sette anni.
Migliaia di indiani, tra cui Gandhi, e cinesi vengono imprigionati e
frustati per aver scioperato, per essersi rifiutati di iscriversi,
per aver bruciato la propria carta di registrazione o per aver
resistito in maniera non-violenta. Alcuni di essi saranno persino
uccisi.
Nel 1908, durante la sua prima prigionia, Gandhi legge il libro
Disobbedienza civile di Henry David Thoreau e l'anno successivo
inizia una corrispondenza con Lev Tolstoj che dura fino alla morte
di quest'ultimo (1910).
Le manifestazioni di protesta si intensificano quando il governo del
Transvaal rende illegali i matrimoni tra non cristiani. La
disobbedienza culmina nel 1913 con lo sciopero e la marcia delle
donne indiane. Malgrado il successo della repressione dei
manifestanti indiani da parte del governo sudafricano, l'opinione
pubblica reagisce con vigore ai metodi estremamente duri applicati
contro i pacifici manifestanti. Finalmente il generale Jan
Christiaan Smuts viene obbligato a negoziare un compromesso con
Gandhi. I matrimoni misti ridiventano legali e la tassa di tre livre
(equivalente a sei mesi di salario) imposta agli indiani che
vogliono diventare lavoratori liberi, viene abolita: la campagna
satyagraha può così essere interrotta.
Lotta per l'indipendenza dell'India (1915-1945)
Il viaggio attraverso l'India
Dopo aver lasciato definitivamente il Sudafrica nel 1914, giunge in
Inghilterra al momento dello scoppio della guerra contro la
Germania: offre il suo aiuto nel servizio di ambulanza, ma una
pleurite mal curata lo costringe a ritornare in India. Vi giunge il
9 gennaio 1915: sbarca nel porto di Mumbai dove viene festeggiato
come un eroe nazionale. Il leader del Congresso indiano Gokhale gli
suggerisce un anno di "silenzio politico", nel corso del quale
è invitato a viaggiare in treno per conoscere la vera India:
Gandhi accetta e decide di percorrere il paese in lungo e in largo,
di villaggio in villaggio, per incontrare l'anima indiana e
conoscerne i bisogni. Così per tutto il 1915, Gandhi viaggia
per conoscere la condizione dei villaggi indiani il cui numero si
eleva a 700.000.
Nel maggio 1915 fonda un âshram nella periferia di Ahmedabad
vicino al fiume Sabarmati, con i membri della comunità di
Phoenix ed altri amici. Questa viene chiamata Satyagraha Ashram. Qui
alloggiano 25 uomini e donne che hanno fatto il voto di
verità, di celibato, d'ahimsa, di povertà e di servire
il popolo indiano.
Nel 1918 partecipa alla Conferenza di Delhi per il reclutamento di
truppe indiane ed appoggia la proposta per aiutare i britannici
nello sforzo bellico. Il suo ragionamento, rifiutato da molti,
è che se si desidera la cittadinanza, la libertà e la
pace nell'Impero, bisogna anche partecipare alla sua difesa.
Champaran e Kheda
I primi grandi successi di Gandhi si realizzano negli anni 1917-1918
e si riferiscono all'abolizione dell'immigrazione indiana a termine
verso il Sud Africa e alla campagna di satyagraha nel Champaran e
nel Kheda.
Nel Champaran, un distretto del Bihar, organizza la disobbedienza
civile di decine di migliaia di contadini senza terra che sono
costretti a coltivare l'indigofera, la pianta da cui si ricava
l'indaco, e altri prodotti di esportazione invece di coltivare gli
alimenti necessari alla loro sussistenza. Oppressi dai grandi
proprietari britannici, ricevono dei magri compensi, che li riducono
in condizioni di povertà estrema.
Gandhi crea un'organizzazione di volontari e col loro aiuto inizia
una campagna di pulizia dei villaggi, la costruzione di scuole e di
ospedali.
L'autorità locale tenta di processarlo ed il culmine della
crisi viene raggiunto quando Gandhi viene arrestato dalla polizia
per «turbamento dell'ordine pubblico», ma l'accusa viene
ritirata grazie all'efficacia dell'azione di Gandhi e alla presenza
di centinaia di migliaia di manifestanti nei pressi del tribunale.
Gandhi raccoglie una grande quantità di dichiarazioni scritte
dai mezzadri e cerca, senza successo di dialogare coi proprietari
per giungere ad un compromesso.
Finalmente l'autorità locale prende atto dell'esistenza del
problema ed istituisce una Commissione, alla quale partecipa Gandhi,
col compito di indicare una soluzione. La Commissione si pronuncia a
favore dei contadini ed ha così fine il sistema vessatorio
dei contadini del Champaran.
Quasi contemporaneamente, Gandhi apprende che i contadini del Kheda
non ce la fanno a pagare le imposte a causa di una grave carestia.
Gandhi organizza i contadini, li istruisce sul satyagraha e promuove
il loro sciopero che dura fino a quando si giunge ad un accordo,
dopo 21 giorni. Questo, seppure non del tutto soddisfacente per
Gandhi, dà una grande risonanza al satyagraha che prende
così "piede fermamente sul suolo del Gujarat" segnando il
risveglio della coscienza politica indiana.
È da questo momento che Gandhi viene battezzato dal popolo
Bapu (padre) e la celebrità di Gandhi si estende a tutta
l'India.
Il massacro di Amritsar
Il 18 marzo 1919 viene approvato dal governo britannico il Rowlatt
Act, che estende in tempo di pace le restrizioni di libertà
entrate in vigore durante la guerra. Gandhi si oppone con un
movimento di disobbedienza civile che ha inizio il 6 aprile, con uno
spettacolare hartal, uno sciopero generale della nazione con
astensione di massa dal lavoro, accompagnato da preghiera e digiuno.
Gandhi viene arrestato. Scoppiano disordini in tutta l'India, tra
cui il massacro di Amritsar (13 aprile) nel Punjab, durante il quale
le truppe britanniche guidate dal generale Edward H. Dyer massacrano
centinaia di civili e ne feriscono a migliaia: i rapporti ufficiali
parlano di 389 morti e 1000 feriti, mentre altre fonti parlano di
oltre 1000 morti. Il massacro genera un trauma in tutta la nazione
accrescendo la collera della popolazione. Questo genera diversi atti
di violenza a seguito dei quali Gandhi, facendo autocritica,
sospende la campagna satyagraha.
Dopo questo massacro Gandhi critica sia le azioni del Regno Unito,
sia le violente rappresaglie degli indiani esponendo la sua
posizione in un toccante discorso nel quale evidenzia il principio
che la violenza è malefica e non può essere
giustificata.
Entrata in politica e inizio della non-cooperazione
Sempre nel 1919 Gandhi entra nel partito del Congresso Nazionale
Indiano, l'organizzazione dell'élite politica moderata
indiana con la quale si batterà per ottenere l'indipendenza
del suo paese. L'obiettivo che Gandhi si prefigge per il movimento
anticoloniale è la Swaraj, ovvero un'indipendenza completa:
individuale, spirituale e politica (che si realizza
nell'autogoverno). Secondo Gandhi tale obiettivo può essere
raggiunto solamente attraverso una strategia che pone limiti precisi
alla lotta, basandosi esclusivamente sul concetto di satyagraha.
Questa nuova linea emargina le correnti radicali del partito del
congresso, alcune delle quali proponevano il ricorso ad azioni
terroristiche.
Nel 1920 Gandhi prende le difese del Califfato musulmano:
indù e musulmani si schierano a sostegno del Califfato,
promuovendo una campagna di non cooperazione con gli inglesi.
In poco tempo Gandhi diventa il leader del movimento anticoloniale
indiano, e nel 1921 diventa il presidente del Partito del Congresso.
Sotto la sua direzione viene approvata una nuova costituzione nella
quale si menziona la Swaraj come scopo da raggiungere. L'adesione al
partito è aperta a tutti quelli che sono pronti a pagare una
partecipazione simbolica. Viene stabilita una gerarchia del comitato
per migliorare la disciplina, ed il partito si trasforma da elitista
a un'organizzazione di massa con rappresentatività nazionale.
Gandhi allarga il suo principio di nonviolenza al movimento Swadeshi
puntando all'autonomia e all'autosufficienza economica del paese,
attraverso l'utilizzo dei beni locali, vedendola come una parte del
più ampio obiettivo della Swaraj. "Swadeshi" significava
"autosufficienza" dell'India dall'economia inglese, puntando
sulla produzione interna alla nazione dei prodotti necessari alla
popolazione. A questo proposito nell'agosto del 1931 Gandhi aveva
affermato:
« Un paese rimane in povertà, materiale e
spirituale, se non sviluppa il suo artigianato e le sue industrie e
vive una vita da parassita importando manufatti dall'estero
»
Inizia così il boicottaggio dei prodotti stranieri, in
particolare di quelli inglesi; soprattutto un settore viene visto
come essenziale, quello tessile:
« I tessuti che importiamo dall'Occidente hanno letteralmente
ucciso milioni di nostri fratelli e sorelle»
Se da una parte sprona al boicottaggio delle merci tessili straniere
Gandhi chiede a tutti gli indiani, sia poveri che ricchi (in
un'ideale di uguaglianza), di vestire il khadi, vestito filato
a mano con l'arcolaio a ruota (il charka) per boicottare le stoffe
inglesi. Gandhi propone la produzione casalinga del khadi come
soluzione alla povertà dovuta alla disoccupazione invernale
dei contadini indiani: almeno un'ora al giorno ogni indiano avrebbe
dovuto filare e tessere a mano. Inoltre questa attività
permette di includere le donne nel movimento di indipendenza. Lo
stesso Gandhi filava ogni giorno, perfino quando era all'estero,
e andava in giro sempre avvolto in un dhoti (abito contadino)
bianco, fatto in khadi, che diventerà l'uniforme del Partito
del Congresso Indiano.
L'importanza culturale di questa lotta nel settore tessile che
Gandhi condusse fece sì che il khadi sarebbe diventato la
stoffa simbolo della lotta per l'indipendenza indiana e il charka
sarebbe stato inserito nella bandiera dell'India del 1931 (nella
bandiera del 1947 verrà sostituito dal chakra), che per legge
deve essere tessuta in khadi.
Gandhi si appella inoltre al boicottaggio delle istituzioni
giudiziarie e scolari, alla dimissione dai posti governativi e al
rigetto dei titoli e delle onorificenze britannici.
Il massacro di Chauri Chaura
La non-cooperazione beneficia di un grande successo, aumentando
l'entusiasmo e la partecipazione di tutti gli strati della
società indiana. Al momento del suo più grande apogeo
si arresta bruscamente dopo i violenti scontri avvenuti nel febbraio
1922 nella città di Chauri Chaura nell'Uttar Pradesh: un
corteo di manifestanti, provocato dalla polizia britannica, reagisce
furibondo massacrando e ardendo vivi ventidue poliziotti. Gandhi,
profondamente deluso dall'immaturità del popolo indiano e
temendo che il movimento si converta in un movimento violento,
interrompe la campagna di disobbedienza civile e digiuna per cinque
giorni. Il 10 marzo 1922 viene arrestato e processato con l'accusa
di sovversione. Gandhi si dichiara colpevole e chiede il massimo
della pena: è condannato a sei anni di prigione. Viene
liberato dopo due anni di prigionia, nel febbraio del 1924, a
seguito di un'operazione di appendicite.
Durante la permanenza di Gandhi in prigione, mancando la sua
personalità unificatrice, il partito del congresso si divide.
Appaiono due fazioni: la fazione Swarajista, guidata da Chitta
Ranjan Das e da Motilal Nehru, è favorevole alla
partecipazione del partito agli organi legislativi indiani. L'altra,
che vi si oppone, è condotta da Chakravarti
Râjagopâlâchâri e Sardar Vallabhbhai Patel.
Anche la cooperazione tra indù e musulmani, che era stata
forte durante la campagna di nonviolenza, si è sgretolata
completamente con la disfatta del Movimento del Califfato.
Gli anni venti
Gandhi si astiene dal provocare agitazioni durante la maggior parte
degli anni venti, preferendo risolvere i problemi tra il partito
Swaraj e il congresso nazionale indiano. Moltiplica anche le
iniziative contro la segregazione degli intoccabili, l'alcolismo,
l'ignoranza e la povertà. Tra il 1925 ed il 1927, nonostante
alcuni problemi di salute, inizia a scrivere la sua autobiografia.
Ritorna in scena nel 1928. L'anno precedente il governo britannico
aveva nominato la Commissione Simon per la riforma della
costituzione, nella quale sedeva un solo indiano. La commissione
viene boicottata da tutti i partiti indiani. Gandhi appoggia la
risoluzione del congresso di Calcutta del dicembre 1928 che richiede
al viceré Lord Irwing di scegliere tra concedere all'India lo
statuto di protettorato (Dominion) o far fronte a una campagna di
nonviolenza per ottenere l'indipendenza. Il governo britannico,
presieduto dal laburista Ramsay MacDonald, non concede lo statuto di
protettorato ed il Congresso Indiano, diretto da Jawaharlal Nehru,
approva il documento che dichiara il Purna Swaraj, l'indipendenza
completa. Il 31 dicembre 1929 viene issata a Lahore la bandiera
indiana. Il 26 gennaio 1930 viene celebrato, dal partito del
congresso e dalla maggioranza delle organizzazioni indiane, come
giorno dell'indipendenza dell'India.
La marcia del sale
Gandhi annuncia la ripresa della campagna satyagraha. Nel marzo del
1930 intraprende una campagna contro la tassa del sale. Inizia
così la celebre Marcia del sale che parte con settantotto
satyagrahi dall'ashram Sabarmati di Ahmedabad il 12 marzo e termina
a Dandi il 6 aprile 1930 dopo 380 km di marcia. Arrivati sulle coste
dell'Oceano indiano Gandhi ed i suoi sostenitori estraggono il sale
in aperta violazione del monopolio reale e vengono imitati dalle
migliaia di indiani unitisi durante la marcia.
Questa campagna, una delle più riuscite della storia
dell'indipendenza non-violenta dell'India, viene brutalmente
repressa dall'impero britannico, che reagisce imprigionando
più di 60 000 persone. Anche Gandhi e molti membri del
Congresso vengono arrestati. Diversi satyagrahi vengono inoltre
picchiati dalle autorità durante i loro tentativi di razzia
non-violenta di saline e di depositi di sale.
Il viaggio in Europa ed il ritiro dalla vita politica
Quando nel 1931 Gandhi esce di prigione, il governo britannico,
rappresentato dal viceré Lord Edward Irwin, decide di
negoziare con Gandhi. Dopo otto lunghi colloqui i due firmano il
Patto Gandhi-Irwing (Patto di Delhi) con il quale i britannici si
impegnano a liberare tutti i prigionieri politici, legittimare la
raccolta di sale per uso casalingo delle popolazioni costiere e
riconoscere il diritto degli indiani di boicottare i tessuti
inglesi. Gandhi si impegna da parte sua a sospendere il movimento di
disobbedienza civile.
Oltre a questo Gandhi viene invitato a una tavola rotonda a Londra,
come solo rappresentante del partito del Congresso, per discutere su
una nuova costituzione indiana. Soggiorna per tre mesi in Europa.
Gandhi visita l'Italia
Durante il suo periodo europeo, Gandhi visita anche l'Italia,
arrivando a Milano l'11 dicembre per poi recarsi immediatamente a
Roma. Nella capitale, dove sosta per due giorni, incontra,
tra gli altri, Benito Mussolini, che approfitta della visita per
cercare di impressionarlo con l'apparato militare del regime,
accogliendolo con tutti gli onori assieme a molti gerarchi fascisti.
Di Mussolini Gandhi scriverà:
« Alla sua presenza si viene storditi. Io
non sono uno che si lascia stordire in quel modo, ma osservai che
aveva sistemato le cose attorno a sé in modo che il
visitatore fosse facilmente preda del terrore. I muri del corridoio
attraverso il quale bisogna passare per raggiungerlo sono stracolmi
di vari tipi di spade e altre armi. Anche nella sua stanza, non
c'è neppure un quadro o qualcosa del genere sui muri, che
sono invece coperti di armi.»
Gandhi visita poi la Cappella Sistina, dove la sua attenzione viene
colpita, più che dagli affreschi di Michelangelo, dal
Crocifisso dell'altare della cappella. Intorno a quel Crocifisso –
che rappresenta un Gesù magrissimo, dimesso e sofferente, ben
diverso dal Gesù corpulento, forte e vendicativo del Giudizio
Universale – il Mahatma indugia per parecchi minuti, esclamando
infine: «Non si può fare a meno di commuoversi fino
alle lacrime».
Il desiderio di Gandhi sarebbe stato incontrare Papa Pio XI.
Ciò però non avvenne: secondo i rapporti fascisti,
egli si sarebbe rifiutato di ricevere Gandhi perché
«non adeguatamente vestito»; secondo altri in
realtà le vere motivazioni sarebbero state di carattere
diplomatico (perché il Pontefice non voleva attirarsi
critiche dall'Inghilterra) o religiose, visto le dichiarate simpatie
per il Mahatma da parte di alcuni prelati protestanti.
Del breve soggiorno in Italia, la visita di Tat'jana Tolstaja fu
l'episodio che fece a Gandhi più piacere.
Il ritorno in India
Gandhi torna in India nel 1932 dopo il fallimento della Conferenza.
Gli inglesi hanno incentrato la discussione maggiormente sui
principi indiani e sulle minoranze, senza affrontare realmente il
trasferimento dei poteri dall'impero britannico alle autorità
indiane. Nello stesso periodo il successore di Lord Irwing,
Freeman-Thomas, primo marchese di Willingdon, inizia una nuova
campagna di repressione contro i nazionalisti e Gandhi viene di
nuovo arrestato.
Freeman-Thomas si fa interprete di una linea politica assai rigida
nei confronti dei nazionalisti indiani e tenta di ridurre
l'influenza del Mahatma isolandolo completamente dai suoi
partigiani. La strategia si rivela fallimentare. Nel 1932, quando
è ancora rinchiuso nella prigione di Yeravda, Gandhi
intraprende un digiuno ad oltranza per protestare contro il
provvedimento del governo MacDonald che istituisce elettorati
separati per gli intoccabili. Per Gandhi infatti è di vitale
importanza che le classi depresse si riconoscano come facenti parte
dell'induismo, e non come comunità religiose al di fuori di
esso. A questo scopo è disposto a concedere a B. R. Ambedkar,
rappresentante degli intoccabili, più seggi di quanti gliene
avessero concessi gli inglesi. Dopo sei giorni di digiuno, quando
Gandhi rischia di morire, insieme ad Ambedkar giunge ad un nuovo
accordo (Patto di Yeravda) ed il governo britannico revoca il
provvedimento precedente.
Nel 1934 Gandhi si ritira dalla vita politica per lui ormai priva di
senso, dichiarando che d'ora in poi incentrerà i suoi sforzi
più per una riforma spirituale dell'India che per ottenerne
l'indipendenza.
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale
Nell'estate del 1934 ci saranno tre tentativi di assassinio di
Gandhi che, anche nella seconda metà degli anni trenta,
continua ad essere considerato dal governo di Londra l'interlocutore
principale col quale negoziare il passaggio dell'India ad un nuovo
regime politico.
I rapporti con le autorità britanniche tornano ad essere
molto tesi durante la Seconda guerra mondiale. Allo scoppio del
conflitto (1939) Gandhi, senza consultare i dirigenti del Congresso,
offre un appoggio morale non-violento allo sforzo di guerra
britannico.
I membri del Congresso non consultati si offendono e dimissionano in
massa. Gandhi, dopo lunghe discussioni, fa marcia indietro e
dichiara che l'India non può partecipare a una guerra il cui
scopo sia la libertà della democrazia, se questa viene
rifiutata all'India stessa. Sebbene fossero totalmente solidali con
le vittime dell'aggressione nazista, Gandhi ed il partito del
Congresso dichiarano infatti che l'India avrebbe contribuito alla
guerra solo se gli inglesi avessero proposto un piano per
riconoscere agli indiani la libertà che ancora era loro
negata. Nel 1940 Gandhi lancia un satyagraha individuale nel quale
fa conoscere alla nazione il suo discepolo prediletto, Vinoba Bhave,
che con Nehru si è impegnato per protestare pubblicamente
contro la guerra, venendo spesso incarcerato.
Un suo dapprima collaboratore e poi oppositore, Subhas Chandra Bose,
si schiera invece apertamente con le potenze dell'Asse in nome della
comune lotta anticolonialista globale, creando un governo dell'India
Libera con sede a Port Blair e guida l'esercito nazionale indiano e
la legione SS "India Libera".
La risoluzione Quit India
Il governo britannico non cede sul piano dell'indipendenza, ma al
contrario agisce per creare una spaccatura tra induisti e musulmani
all'interno del movimento politico indipendentista indiano. Come
reazione Gandhi intensifica le sue richieste di indipendenza
scrivendo il 13 aprile 1942 una risoluzione che richiede ai
britannici di lasciare l'India: Quit India. Con questa il Mahatma
invita alla ribellione nonviolenta totale. Vengono anche organizzate
grandi manifestazioni di protesta.
Per Gandhi e per il partito del Congresso si tratta della rivolta
più radicale mai intrapresa: a fronte del più
grande movimento per l'indipendenza indiana di tutti i tempi gli
inglesi reagiscono con arresti di massa, violenze e repressioni
senza precedenti.
Gandhi e Kasturba a l'Ashram di Sevagram, gennaio 1942.
Migliaia di indipendentisti vengono uccisi o feriti dalla polizia,
centinaia di migliaia d'altri vengono arrestati. Gandhi precisa che
il movimento non si arresterà anche se ci saranno violenze
individuali, affermando che l'anarchia ordinata attorno a lui
è peggio della vera anarchia. Chiama tutti gli indiani e i
membri del Congresso a mantenere la disciplina e l'ahimsa. Gandhi e
tutti i dirigenti del Congresso vengono arrestati a Bombay il 9
agosto 1942.
Gandhi viene detenuto per due anni nel palazzo dell'Aga Khan a Pune.
Qui Gandhi patisce le più grandi disgrazie affettive;
dapprima il suo consigliere di 42 anni Mahadev Desai, dopo sei
giorni dalla sua detenzione, muore per un arresto cardiaco. Poi sua
moglie Kasturba dopo 18 mesi di prigionia, muore per una crisi
cardiaca causata da una polmonite.
Nel 1943, mentre è ancora in prigione, Gandhi digiuna per 21
giorni al fine di fare penitenza per le violenze commesse durante
l'insurrezione popolare indiana. Il movimento Quit India si è
rivelato disastroso.
Gandhi viene rilasciato il 6 maggio 1944 per poter essere sottoposto
ad un'operazione: è gravemente ammalato di malaria e di
dissenteria ed i britannici non vogliono che muoia in prigione
rischiando di provocare un sollevamento popolare.
Malgrado la violenta repressione abbia portato in India una calma
relativa, alla fine del 1943 il movimento Quit India riesce ad
ottenere dei risultati: infatti una volta conclusasi la guerra, il
nuovo Primo Ministro britannico Clement Attlee (succeduto a
Churchill) annuncia che il potere verrà trasferito in mano
agli indiani. Gandhi annuncia allora la fine della lotta e circa 100
000 prigionieri politici vengono liberati. Poco tempo dopo il
viceré Wavell incarica Jawarhallal Nerhu di formare un
governo interinale dell'India indipendente.
La liberazione e la divisione dell'India (1945-1947)
Divisione dell'India (1947)
Il Regno Unito, cedendo alle pressioni del movimento anticoloniale,
decide di concedere la piena indipendenza alla sua colonia e, il 24
marzo 1947, nomina viceré e governatore generale delle Indie
Lord Mountbatten, che riceve il difficile compito di preparare
l'indipendenza.
La Lega Musulmana, il secondo maggior partito indiano, era in quel
periodo guidata da Mohammad Ali Jinnah: Jinnah era un nazionalista
islamico ed era stato il primo, nel 1940, a proporre l'idea di una
nazione islamica indiana, il Pakistan. La linea politica della Lega
musulmana mirava ad una divisione tra la due principali
comunità religiose.
A questo punto sia la Lega Musulmana sia il partito del Congresso
non vedono altra soluzione che il piano Mountbatten, per evitare una
guerra civile tra musulmani e indù.
La guerra indo-pakistana
Dopo l'indipendenza si creano forti tensioni politiche tra Pakistan
e India dovute, sia alle violenze avvenute in seguito alla
separazione, sia a questioni di controllo territoriale. Una delle
tensioni più importanti è provocata dalla situazione
del Kashmir. Il maharaja indù del Kashmir, al momento di
scegliere se unirsi con l'India o con il Pakistan esita e lo stato
viene rapidamente invaso dalle tribù islamiche locali e da
irregolari pakistani. Il maharaja opta successivamente per l'unione
con l'India, malgrado la popolazione sia a stragrande maggioranza
islamica. Questa scelta aumenta la tensione nella regione. Si arriva
così alla guerra indo-pakistana del 1947. Il governo indiano
decide di non versare 550 milioni di rupie indiane al Pakistan.
Questo versamento, previsto dagli accordi della spartizione
dell'India, viene negato poiché alcuni dirigenti come Sardar
Patel temono che il Pakistan lo utilizzi per finanziare la guerra
contro l'India stessa.
Il 13 gennaio 1948, all'età di 78 anni, Gandhi inizia il suo
ultimo digiuno a Delhi. Chiede che la violenza tra le
comunità cessi definitivamente, che il Pakistan e l'India
garantiscano l'uguaglianza per i praticanti di tutte le religioni, e che venga effettuato il pagamento dei 550 milioni di rupie
dovute al Pakistan. Gandhi teme che l'instabilità e
l'insicurezza del Pakistan aumenti creando collera verso l'India e
che la violenza passi le frontiere causando una guerra civile in
India.
« La morte sarebbe una gloriosa liberazione per me, piuttosto
che restare un testimone impotente della distruzione dell'India,
dell'Induismo, del sikhismo e dell'Islam.»
Malgrado lunghi ed appassionati dibattiti Gandhi rifiuta di
interrompere il digiuno ed il governo indiano si vede costretto a
pagare la somma dovuta al Pakistan. Anche i dirigenti di ogni
comunità, tra cui il Rashtriya Swayamsevak Sangh e il Hindu
Mahasabha, gli assicurano che rinunceranno alla violenza. A questo
punto Gandhi smette il digiuno bevendo un succo d'arancia.
L'assassinio
« Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi
vivere per sempre.»
Il 30 gennaio 1948, presso la Birla House, a New Delhi, mentre si
recava nel giardino per la consueta preghiera ecumenica delle ore
17, accompagnato dalle sue due pronipoti Abha e Manu, Gandhi viene
assassinato con tre colpi di pistola da Nathuram Godse, un
fanatico indù radicale che ha legami anche con il gruppo
estremista indù Mahasabha. Godse riteneva Gandhi responsabile
di cedimenti al nuovo governo del Pakistan e alle fazioni musulmane,
non da ultimo il pagamento del debito dovuto al Pakistan. Prima
di sparare, Godse si piega in segno di reverenza di fronte a Gandhi
e, dopo l'uccisione, cerca di confondersi tra la folla e di fuggire;
quando si accorge di essere braccato e di rischiare il linciaggio,
però, rallenta il passo permettendo alle forze dell'ordine di
catturarlo. Nel gennaio del 1949 comincia il processo nei suoi
confronti che si conclude l'8 novembre dello stesso anno con una
condanna a morte. La sentenza viene eseguita una settimana dopo,
malgrado l'opposizione dei sostenitori di Gandhi.
Dopo la morte
In seguito all'uccisione di Gandhi, Jawaharlal Nehru si indirizza
alla nazione via radio:
«Amici e compagni, la luce è partita dalle nostre vite
e c'è oscurità dappertutto, e non so bene cosa dirvi o
come dirvelo. Il nostro beneamato leader Bapu, come lo chiamavamo,
il padre della nazione, non c'è più. Forse mi sbaglio
a dirlo, nondimeno non lo vedremo più come l'abbiamo visto
durante questi anni, non correremo più da lui per un
consiglio o per cercare consolazione e questo è un terribile
colpo, non solo per me ma per milioni e milioni in questa
nazione.»
Sul memoriale di Gandhi (o Samādhi) a Rāj Ghāt a New Delhi è
inciso l'epitaffio (Devanagari):
«Hé Rām»
traducibile con «Oh Dio». Viene largamente accettato che
queste furono le ultime parole di Gandhi anche se alcuni lo
contestano.
Il giorno prima del suo assassinio, alla consueta preghiera serale,
lo stesso Gandhi aveva detto:
« Se qualcuno dovesse porre fine alla mia
vita trapassandomi con una pallottola - come qualcuno tentò
di fare con una bomba l'altro giorno - e io ricevessi la sua
pallottola senza un gemito ed esalassi l'ultimo respiro invocando il
nome di Dio, allora soltanto allora giustificherei la mia pretesa.
»
Seguendo le volontà di Gandhi, le sue ceneri furono ripartite
tra varie urne e disperse nei maggiori fiumi del mondo tra i quali
il Nilo, il Tamigi, il Volga e il Gange. Due milioni di indiani
assistettero ai funerali, durante i quali la bara del Mahtma fu
trasportata su e giù per il Gange per consentire a coloro che
stavano sulle sponde di rendergli omaggio.
Il 30 gennaio 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della
sua morte, sono state versate nel mare davanti a Mumbai le ceneri
contenute nell'unica urna non ancora svuotata.
La formazione culturale
In India, grazie ai membri teosofici, Gandhi scopre la Bhagavad
Gita, libro che lo marcherà profondamente, specialmente
attraverso l'idea che il desiderio è sorgente di sofferenza e
agitazione per lo spirito:
« L'induismo così come lo conosco soddisfa interamente
la mia anima, riempie completamente la mia persona... Quando i dubbi
mi ossessionano, quando le delusioni mi fissano negli occhi e quando
non vedo alcun raggio di sole sull'orizzonte, io torno sul Bhagavad
Gita e cerco un verso che mi dia conforto; ed immediatamente
incomincio a sorridere in mezzo all'opprimente dolore. La mia vita
è stata piena di tragedie e se esse non hanno lasciato alcun
tipo di visibile ed indelebile effetto su di me, io devo questo agli
insegnamenti del Bhagavad Gita.»
Svilupperà da quel momento un interesse per la religione che
non si limiterà all'induismo, ma si estenderà al
buddismo, all'islam e al Cristianesimo di cui riterrà
soprattutto la frase tratta dall'insegnamento di Gesù nel
discorso della montagna: «Se uno ti percuote la guancia
destra, tu porgigli anche la sinistra» (Matteo 5,39).
Essendosi potuto formare fino a quel momento esclusivamente sui
testi religiosi e storici della tradizione induista, a Londra Gandhi
venne a contatto con la cultura occidentale leggendo, tra gli altri,
i testi del socialismo libertario di William Morris, dell'anarchismo
cristiano e pacifista di Lev Tolstoj, della teoria non-violenta
dello scrittore americano Henry David Thoreau e la Difesa del
vegetarianismo di Henry Salt.
Durante la sua vita Gandhi continuò a leggere i testi sacri
indù, alternando la loro lettura con quella di scrittori
quali Tolstoj e John Ruskin (Fino all'ultimo, che successivamente
tradusse in gujarati col titolo Sarvodaya, che significa "benessere
per tutti").
Un incontro molto importante per Gandhi fu quello con il grande
poeta Rabindranath Tagore, che visitò nel 1916 nella sua
scuola di Shantiniketan durante il suo viaggio attraverso l'India.
Un altro incontro molto importante fu con lo yoghi Paramahansa
Yogananda: nell'agosto del 1935 Yogananda fece visita a Gandhi nel
Maganvadi Ashram di Wardha. In occasione di tale incontro Gandhi
chiese a Yogananda di ricevere l'iniziazione al Kriya Yoga. Gandhi,
Mahadev Desai, Pingali Venkayya e altri satyagrahi ricevettero in
quella occasione l'iniziazione spirituale da Yogananda. Yogananda
scrisse: "La larghezza di vedute e lo spirito di ricerca del Mahatma
mi avevano profondamente colpito. Nella ricerca spirituale egli
è come un bambino, e rivela quella pura ricettività
che Gesù apprezzava nei fanciulli, perché "di questi
è il regno dei cieli"".
Lo stile di vita
Gandhi condusse una vita estremamente semplice, dando sempre
esempio di massima umiltà e rispetto per tutti, partendo dai
paria. Questi erano (sono) una grande parte della popolazione
indiana che viveva ai margini della società, tra il disprezzo
generale ma che Gandhi indicava come figli di Hari, riprendendo il
concetto evangelico che vedeva negli ultimi sulla terra i primi nel
regno di Dio. Da molti Gandhi era visto alla stregua di un eremita,
dal momento che conduceva una vita simile a quella monastica,
dedicata al pensiero filosofico e soprattutto alla sua messa in
pratica. Effettivamente il pensiero gandhiano vedeva il corpo come
assolutamente secondario alla vera fonte della forza di un uomo,
l'anima, e predicava che solo un distacco dalle necessità
materiali potesse portare sulla via della verità, verso Dio:
«Chi non controlla i propri sensi è come chi naviga su
un vascello senza timone e che quindi è destinato a
infrangersi in mille pezzi non appena incontrerà il primo
scoglio.»
Il silenzio
Gandhi riservava un giorno della settimana al silenzio,
perché era convinto che il parlare rompesse la sua pace
interiore. Questa idea era tratta da una concezione induista
relativa al potere di mouna e shanti. Durante i giorni dedicati al
silenzio comunicava con gli altri scrivendo su biglietti di carta.
All'età di trentasette anni, per un periodo di tre anni e
mezzo, Gandhi rifiutò di leggere i quotidiani affermando che
il tumultuoso stato degli affari mondiali gli causasse ancora
più confusione. Il silenzio gli serviva a concentrarsi per
purificare l'anima e rendersi in pace.
La povertà
«La semplicità è l' essenza dell'
universalità.»
Al suo ritorno in India, dopo il soggiorno in Sudafrica dove era
stato un avvocato e quindi aveva sperimentato un certo agio, Gandhi
rinunciò ai suoi abiti occidentali, simbolo di ricchezza. La
sua idea era quella di adottare un tipo di vestito che fosse
accettabile anche dalle persone più povere dell'India. Questo
era un aspetto di una condotta di vita che doveva essere incentrata
sulla semplicità ed il disinteressamento per il superfluo. In
questo senso si parla di aparigraha (non-possesso), ovvero di un
orientamento spirituale che portasse alla povertà volontaria
ed alla semplificazione della vita.
Sempre nell'ottica dell'aparigraha Gandhi cercò di diffondere
l'uso dell'abito di stoffa filata e tessuta a mano fatto in casa (il
khadi). Con i suoi sostenitori praticava la tessitura dei propri
vestiti usando un filatoio manuale (il charka). La tessitura fu
messa in pratica anche come forma di lotta contro l'impero
britannico da cui venivano importati i vestiti di foggia
occidentale, prodotti in Inghilterra (che dunque subiva una perdita
economica per la loro mancata vendita). In questo modo inoltre
l'India poteva rendere la propria economia indipendente (allargando
la produzione interna di beni ad altri settori) da quella
dell'Impero inglese.
Gandhi andava sempre vestito con l'abito da contadino, dhoti,
bianco, tessutosi in khadi grazie agli insegnamenti ricevuti dalle
donne dello Ashram di Ahmedabad. La semplice veste bianca in
khadi, oltre ai motivi di indipendenza economica, divenne un simbolo
della lotta nonviolenta indiana, tanto da divenire l'uniforme
ufficiale del Partito del Congresso Indiano. Essa rappresentava
sia la libertà dall'imperialismo inglese sia la purezza della
lotta che i satyagrahi conducevano. L'adozione di un unico abito per
tutti gli indiani, indipendentemente dalle loro differenze
economiche o religiose, andava inoltre in aperto contrasto con il
sistema delle caste contro il quale si scagliò più
volte Gandhi e nel nome di una uguaglianza sociale vera e propria.
Vestendo quell'abito gli indiani avrebbero compiuto una specie di
atto di povertà e uguaglianza tra loro, rinunciando agli
sfarzi e indirizzandosi ad uno stile di vita semplice e sobrio. Il
charka assunse una tale importanza che quando nel 1947 l'India
ottenne l'indipendenza il disegno della ruota dell'arcolaio
entrò a far parte della bandiera dell'India (che era quella
del Partito del Congresso Indiano).
La castità
Gandhi rinunciò ai rapporti sessuali all'età di 36
anni diventando totalmente casto sebbene sposato, pronunciando,
secondo la tradizione induista, i voti di brahmacharya, secondo un
ideale di consapevolezza e armonia spirituale, che prevede (oltre
alla castità) purezza delle aspirazioni e dei pensieri,
autocontrollo del palato e autodisciplina.
Gandhi affermava che l'importanza da lui conferita alla
castità non era legata ad un disprezzo per la
sessualità, ma, al contrario, ad un rispetto profondo verso
il potere generativo dell'atto sessuale:
« Dio ha donato all'uomo la benedizione del seme che ha il
più alto potere e alla donna quella di un campo più
ricco della più ricca terra che si possa trovare in qualsiasi
parte del globo. È sicuramente una follia criminale che
l'uomo si permetta di mandare sprecato il suo bene più
prezioso. Deve custodirlo con cura maggiore di quella che presta
alle più ricche perle in suo possesso.»
Il vegetarianesimo
Gandhi fu un vegetariano rigoroso (diremmo oggi vegano) e
sperimentò, nel corso della sua vita, svariate diete alla
ricerca di un'alimentazione minima sufficiente per soddisfare i
fabbisogni corporei in maniera da esercitare la minore violenza
possibile sulla natura. Scrisse articoli sull'argomento
già mentre studiava legge a Londra, dove, in un incontro
della Società Vegetariana inglese, conobbe l'attivista Henry
Stephens Salt, di cui aveva letto il libro Difesa del
vegetarianismo:
« Vidi che gli autori vegetariani avevano esaminato il
problema molto attentamente, dettagliandone gli aspetti religiosi,
scientifici, pratici e medici, e dal punto di vista etico erano
arrivati alla conclusione che la supremazia degli uomini sugli
animali inferiori non implicava che i primi dovessero cacciare i
secondi, ma che i più progrediti dovessero proteggere gli
inferiori, e che ci dovesse essere assistenza reciproca fra loro
come c'era fra uomo e uomo. (Gandhi)»
Il grande rispetto di Gandhi per gli animali è essenzialmente
dovuto alla convinzione che uomini e animali siano allo stesso modo
creature di Dio ― sensibili alla gioia e al dolore ― e che il
progresso morale dell'uomo consista perciò nell'amare e nel
tutelare le altre creature:
« La grandezza di una nazione e il suo progresso morale
possono essere valutati dal modo in cui vengono trattati i suoi
animali. (Gandhi)»
Gandhi espresse anche, per questi motivi, una severa condanna della
vivisezione, paragonandola ― per la sua smania di onnipotenza senza
scrupoli ― alla magia nera:
« Il mio amore per la cura naturale e i sistemi indigeni non
mi rende cieco ai progressi compiuti dalla medicina occidentale,
malgrado l'abbia stigmatizzata come magia nera. Ho usato quella dura
espressione ― e non la ritiro ― perché essa ha contemplato la
vivisezione e tutto l'orrore connesso, perché non si ferma
davanti a nessuna pratica, per quanto maligna possa essere, pur di
prolungare la vita del corpo e perché ignora l'anima
immortale che risiede nel corpo.»
Il digiuno
Gandhi praticò spesso dei lunghi periodi di digiuno, che
poneva essenzialmente nell'ambito spirituale come un mezzo per
distaccarsi sempre più dalla realtà terrena del corpo,
analogamente alla castità e alla semplicità di vita.
Infatti egli credeva che il digiuno, ma più in generale il
controllo nell'assunzione di cibo, portasse all'aumento del
controllo dei sensi, indispensabile per un'ascesi spirituale. Il
digiuno era anche utilizzato come un'arma politica. Come tale era
anche inserito tra i mezzi che il rivoluzionario non-violento poteva
utilizzare per portare avanti la sua causa.
Il pensiero filosofico: satya e ahimsa
« Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La
verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne.»
Il pensiero di Gandhi relativo al satya e all'ahimsa fu influenzato
dalla religione, in parte anche dalla lettura del Vangelo. La
verità e la nonviolenza costituiscono le colonne portanti
dell'intero pensiero gandhiano: intrecciate indissolubilmente, esse
sono state le due vie lungo le quali Gandhi ha cercato di condurre
la propria vita e diffondere la sua visione della vita.
La ricerca della verità
«Non sono che un umile cercatore della verità,
risoluto a trovarla. Non considero nessun sacrificio troppo grande
per vedere Dio faccia a faccia.»
Per Gandhi l'uomo nella sua vita terrena deve cercare di avvicinarsi
il più possibile alla verità, che è Dio:
«La mia fervente ricerca mi portò alla massima
rivelatrice "La Verità è Dio", invece della solita
"Dio è la Verità".»
La fede nella Verità è il fondamento più solido
della ricerca di una vita sociale improntata alla nonviolenza,
all'amore e alla giustizia. Il compito del satyagrahi, cioè
del rivoluzionario non-violento, è proprio quello di
combattere la himsa – il male – nella vita sociale e politica, per
realizzare la Verità. Il sentiero che conduce a Dio è
dentro ogni uomo, e consiste nel cercare di improntare quanto
più la propria vita verso la giustizia e l'amore:
«Quanto più l'uomo si conosce, tanto più
progredisce.»
Il cammino verso la verità è irto di ostacoli, e colui
che lo intraprende deve essere dotato di una grande volontà,
oltre ad essere disposto a compiere grandi sacrifici: emblematico in
questo senso è il sottotitolo dell'autobiografia di Gandhi:
La storia dei miei esperimenti con la verità.
L'ahimsa
«La nonviolenza è il primo articolo della mia
fede. È anche l'ultimo articolo del mio credo.»
Ahimsa è una parola sanscrita tradotta nelle lingue europee
moderne con il termine nonviolenza (a = non, a privativa; "himsa" =
"violenza", "ingiuria", "male", danno). Ahimsa significa non usare
violenza, non far del male, amare e anche essere giusti nei
confronti degli altri. Per Gandhi la ahimsa è un
atteggiamento etico derivante dalla fede nella Verità
(Satya), il fondamento più solido della ricerca della ahimsa,
cioè di una vita sociale improntata alla nonviolenza,
all'amore, alla giustizia.
L'amore per il prossimo
« Se l'amore e la nonviolenza non sono la legge del nostro
essere, tutta la mia argomentazione cade a pezzi.»
L'ahimsa è amore verso il prossimo, sentimento disinteressato
di fare il bene degli altri, anche a costo di sacrifici personali:
secondo Gandhi tutti gli esseri viventi, in quanto creature di Dio,
sono legati tra loro e devono essere uniti da amore fraterno.
Seguendo l'insegnamento cristiano dell'"Ama il prossimo tuo come te
stesso" Gandhi predica l'amicizia fraterna tra tutti gli esseri
umani, musulmani e indù, uomini e donne, paria e brahmini, in
nome dell'amore e dell'uguaglianza:
« Io e te siamo una sola cosa: non posso farti male senza
ferirmi.»
Ognuno deve essere disposto anche a morire per l'altro, a lottare
per le ingiustizie fino in fondo, purché la verità e
la giustizia trionfino.
Il rifiuto di ogni violenza: il pacifismo
« Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne
è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere.»
Se da una parte l'ahimsa è amore disinteressato d'altra parte
essa è anche rifiuto totale di ogni tipo di odio verso gli
altri: Gandhi afferma come anche se sottoposti ai più
terribili soprusi, alle più gravi ingiustizie, ai più
strazianti dolori, mai e poi mai si deve ricorrere alla violenza
verso il prossimo. Si tratta di una negazione assoluta e senza
appello di ogni forma di violenza, prima fra tutte la guerra: non
è con la forza che si risolvono le controversie, ma con la
volontà e il coraggio di sopportare il male pur di vincere
l'ingiustizia. La nonviolenza si contrappone alle pratiche di
giustizia che avevano regolato per secoli la storia, a partire dalla
Legge del taglione ("occhio per occhio, dente per dente"):
« Occhio per occhio... e il mondo diventa cieco.»
In questo senso Gandhi riveste un ruolo fondamentale nell'evolversi
del pensiero pacifista, per il totale rifiuto della violenza e della
guerra come strumenti per la soluzione di conflitti:
« Non c'è strada che porti alla pace che non sia
la pace, l'intelligenza e la verità.»
Come pacifista Gandhi si oppose strenuamente a qualsiasi ipotesi di
risoluzione bellica dei conflitti tra stati o interni ad essi:
nonostante l'appoggio alla Gran Bretagna durante la seconda guerra
mondiale Gandhi cercò sempre di mediare e predicare la fine
delle ostilità tra le parti, pur sempre riconoscendo come il
nazismo costituisse un pericolo per il mondo intero. A questo
proposito Gandhi fu, fin dall'inizio della sua attività
politica, un forte sostenitore del disarmo, che considerava l'unico
modo per evitare la catastrofe della guerra; a tal proposito suonano
terribilmente profetiche le parole che pronunciò nel 1925 nel
corso di una discussione sulle reazioni politiche alla Prima guerra
mondiale:
« L'ultima guerra è stata una guerra espansionistica,
per entrambe le parti. È stata una guerra per spartirsi il
bottino dello sfruttamento delle razze più deboli – chiamato
eufemisticamente mercato mondiale... Prima che cominci in Europa un
disarmo generale - che prima o poi dovrà essere realizzato,
se l'Europa non vuole andare incontro al suicidio – qualche nazione
deve avere il coraggio di procedere autonomamente al proprio
disarmo, accettando i gravi rischi che ciò comporta.»
Non violenza e progresso
Gandhi ha posto la nonviolenza al centro della sua concezione del
progresso umano: l'essere umano è sia animale sia spirito.
Come animale l'essere umano basa il suo rapporto col mondo sulla
trasformazione materiale dei corpi e dunque sull'uso della forza,
sulla himsa; come spirito l'essere umano fonda le sue relazioni col
mondo sulla comunicazione verbale e sulla persuasione razionale,
dunque sulla ahimsa. Il progresso è l'umanizzazione
dell'uomo, la graduale affermazione della sua identità
specifica, del suo essere spirito. Il progresso è di
conseguenza la graduale riduzione del tasso di violenza (himsa)
presente nei rapporti umani e la graduale affermazione della
verità e della ahimsa, cioè della nonviolenza, del
bene, della giustizia, nella vita sociale e politica:
« Bisogna combattere la violenza. Il bene
che pare derivarne è solo apparente; il male che ne deriva
rimane per sempre.»
Da questi concetti deriva naturalmente come per seguire la via della
ahimsa sia preferibile per l'uomo distaccarsi dai bisogni materiali,
da cui derivano i concetti sopraesposti di castità,
povertà e digiuno.
Giustizia e violenza
Secondo Gandhi la giustizia risiede nella riduzione del tasso di
violenza presente nella società. Se si utilizza la violenza,
anche se per un breve periodo, per ottenere giustizia questa porta
inevitabilmente a un aumento del tasso di violenza. Il mezzo deve
essere coerente con il fine; non si può adottare un mezzo che
porta alla negazione del fine. Se il fine della lotta per la
giustizia è la ahimsa, cioè la negazione della
violenza nei rapporti umani, non lo si può realizzare facendo
ricorso alla violenza.
A questo proposito, rivolgendosi ai bolscevichi, Gandhi scrisse:
« Io non credo nelle vittorie ottenute in fretta, con la
violenza. Gli amici bolscevichi che guardano con interesse al mio
insegnamento, devono comprendere che per quanto possa condividere e
ammirare le aspirazioni e i sentimenti nobili, io sono
inflessibilmente contrario ai metodi violenti, anche quando vengono
posti al servizio della causa più nobile... L'esperienza
infatti mi insegna che dalla falsità e dalla violenza non
possono scaturire risultati positivi duraturi.»
L'affermazione della Verità e della non violenza
Secondo Gandhi l'unico mezzo con il quale l'uomo giusto può
proporsi di affermare la Verità e dunque la ahimsa nei
rapporti umani è la persuasione razionale di coloro che con i
loro comportamenti violenti causano ingiustizia:
« Bisogna convertire l'avversario ad aprire le sue orecchie
alla voce della ragione.»
I mezzi della persuasione (conversione, non costrizione), per
Gandhi, sono essenzialmente due: la discussione e la lotta non
violenta. La discussione consiste nel battersi contro un'ingiustizia
sociale e politica appellandosi alle autorità ingiuste e
all'opinione pubblica. La lotta non-violenta (satyagraha) è
la dimostrazione pratica della Verità; essa dimostra la
superiorità morale del ribelle, il suo essere dalla parte
della verità. Ed è a questo punto che il pensiero
filosofico e morale di Gandhi si unisce con quello politico: la
nonviolenza per Gandhi è un mezzo per trovare la
verità, che è il suo fine, e il satyagraha è
l'arma con la quale l'uomo non-violento lotta.
La differenza tra questi due metodi di affermazione della
verità sta nel fatto che, mentre la discussione fa appello
esclusivamente alla ragione dell'avversario attraverso la
dimostrazione teorica della sua ingiustizia, la lotta non-violenta
fa appello anche al cuore dell'ingiusto, perché contiene una
portentosa dimostrazione pratica della sua ingiustizia.
Visione mistica
Gandhi identificò sempre Dio con la Verità, ma la sua
idea di Dio non si limitava ad un concetto filosofico, trascendendo
essa ogni definizione:
« Per me Dio è Verità e Amore; Dio è
etica e moralità; Dio è assenza di paura. Dio è
la fonte della Luce e della Vita e tuttavia Egli è al di
sopra e al di là di queste. Dio è coscienza. È
lo stesso ateismo degli atei. Perché, nel Suo infinito amore,
Dio permette all'ateo di esistere. Egli è il cercatore di
cuori. [...] È un Dio personale per quelli che hanno bisogno
della Sua personale presenza. È un Dio in carne ed ossa per
quelli che hanno bisogno della Sua carezza. È la più
pura essenza. [...] È tutte le cose per tutti gli uomini.
È in noi e tuttavia al di sopra e al di là di noi.»
Per descrivere il legame tra Dio e le creature, Gandhi utilizzava
l'immagine del sole e dei raggi:
« Credo nell'assoluta unicità di Dio e, perciò,
anche dell'umanità. Perché, allora, abbiamo tanti
corpi? Abbiamo una sola anima. La rifrazione moltiplica i raggi del
sole. Ma la loro provenienza è la stessa.»
La fede in Dio aveva per lui un'importanza fondamentale:
« Sono più sicuro della Sua esistenza che del fatto che
voi e io stiamo seduti in questa stanza. E posso anche affermare che
potrei vivere senz'aria e senz'acqua, ma non senza di Lui. Potete
strapparmi gli occhi, eppure non mi ucciderete. Ma distruggete la
mia fede in Dio, e io sono morto.»
Gandhi considerava la preghiera un'azione più
«reale» di ogni altra:
« Quando non c'è più speranza, "quando
cessano gli aiuti e manca la consolazione", scopro che l'aiuto mi
arriva, non so da dove. Le suppliche, l'adorazione, la preghiera non
sono superstizioni; sono azioni più reali che il mangiare, il
bere, il sedersi o il camminare. Non è esagerazione affermare
che solo esse sono vere e tutto il resto è illusione.»
Il pensiero politico
Raffronti con la tradizione del pensiero politico rivoluzionario
Il programma politico di Gandhi fu rivolto essenzialmente
all'indipendenza nazionale dell'India con un'ispirazione democratica
e socialista. Questi elementi non erano innovativi dato che
derivavano dalla tradizione politica europea (nazionalismo
democratico di Mazzini, socialismo libertario di Morris ecc.). La
sua innovazione riguardò invece la teoria della rivoluzione,
che nell'Europa moderna si era formata con il contributo di quasi
tutte le correnti del pensiero politico: quella liberale (Locke,
Jefferson e i padri della Rivoluzione americana, Sieyes e i teorici
liberali della Rivoluzione francese), quella democratica (Rousseau,
Robespierre, Saint-Just e altri teorici giacobini; Mazzini) e quella
socialista, anarchica e comunista (Babeuf, Bakunin, Marx, Lenin,
ecc.). Nel 1916 Gandhi disse in un discorso:
« Io stesso sono un anarchico, ma di un tipo
diverso.»
Per quanto divergenti nei loro obiettivi politici, le teorie
classiche della rivoluzione hanno in comune due componenti
fondamentali:
la teoria del "diritto alla resistenza" (Locke),
secondo cui è legittimo – se non doveroso – che le masse
popolari si ribellino alle autorità sociali e politiche,
quando subiscono un'evidente e intollerabile situazione di
ingiustizia
la teoria della "guerra giusta", secondo cui il
popolo ha diritto di ricorrere alla violenza rivoluzionaria, quando
questa serve a correggere torti e ingiustizie molto gravi (questa
teoria, con origini medievali, giustificava la violenza e le
guerre).
Gandhi condivise il primo di questi due principi ma rifiutò
il secondo. Anche per lui ribellarsi all'ingiustizia era un diritto
ed un dovere dei popoli, ma era sua convinzione che l'unica forma di
lotta rivoluzionaria giusta e legittima fosse la rivoluzione
non-violenta, da lui battezzata, con un termine derivante dal
sanscrito, "satyagraha".
Il satyagraha
La parola satyagraha significa "forza della verità" e deriva
dai termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat
significa "Essere", e Agraha (fermezza, forza).
Il compito del satyagrahi, cioè del rivoluzionario
non-violento, è proprio quello di combattere la himsa – la
violenza, il male, l'ingiustizia – nella vita sociale e politica,
per realizzare la Verità. Egli dà prova di essere
dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità
morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome
della Verità:
« La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata
da una persona ai danni di un'altra. Soffrire l'offesa nella propria
persona, al contrario, fa parte dell'essenza della nonviolenza e
costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo.»
L'ingiusto infatti afferma i suoi interessi egoistici con la
violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e,
nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi
dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua
debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per
affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata
sulla nonviolenza (ahimsa) che la verità è qualcosa
che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di
talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte
l'istintiva paura della sofferenza e della morte. Rifacendosi alle
parole dei Vangeli si potrebbe dire che, di fronte all'ingiustiza
perpetrata, il combattente non-violento "porge l'altra guancia",
affermando in questo modo la bontà della sua causa, cosa che
l'ingiusto non potrebbe mai fare.
Come la guerra è l'azione suprema dell'uomo che segue la via
della himsa, della violenza, così il satyagraha è
"l'equivalente morale della guerra".
La forza della Verità
Il combattente non-violento sfida l'ingiusto a mani nude, senza
armi, e si espone alle sue rappresaglie opponendo solo la forza
della Verità (da cui l'espressione "forza della
verità"). È la capacità di soffrire senza
offendere, senza imporre con la forza la propria volontà,
senza infliggere sofferenza, senza distruggere o uccidere e senza
nemmeno difendersi che rappresenta, secondo Gandhi, la più
potente dimostrazione pratica della validità della causa del
ribelle non-violento, il suo essere dalla parte della Verità:
« La sofferenza è la legge dell'umanità,
così come la guerra è la legge della giungla. Ma la
sofferenza è enormemente più potente della legge della
giungla, ed è in grado di convertire l'avversario e aprire le
sue orecchie alla voce della ragione... Quando volete ottenere
qualcosa di veramente importante non dovete solo soddisfare la
ragione ma anche toccare i cuori. L'appello della ragione è
rivolto al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la
sofferenza. Essa dischiude la comprensione interiore dell'uomo. La
sofferenza, e non la spada, è il simbolo della specie umana.
»
Coraggio, non codardia
« È meglio essere violenti, se c'è violenza nei
nostri cuori, piuttosto che indossare l'aureola della nonviolenza
per coprire la debolezza. La violenza è sicuramente
preferibile alla debolezza. C'è speranza per un uomo violento
di diventare non violento. Non c'è questa speranza per i
deboli.»
Gandhi insisteva spesso sulla distinzione tra la nonviolenza del
debole, che consiste nel subire passivamente e vigliaccamente
l'oppressione o nell'opporsi a essa con la semplice "resistenza
passiva", e la nonviolenza del forte: quest'ultima è il
satyagraha, l'attiva e coraggiosa ribellione all'ingiustizia. Per
lui i satyagrahi dovevano essere dediti anima e corpo alla causa
rivoluzionaria. Gandhi non predicava la nonviolenza come forma di
passività e rassegnazione all'ingiustizia, perché
assoggettarsi vigliaccamente all'oppressione significa annientare la
propria umanità. Di fronte all'ingiustizia la via indicata
dall'ahimsa è invece quella di lottare per la verità,
facendo di tutto per cambiare ciò che è sbagliato
(senza ricorrere alla violenza).
Nei suoi scritti Gandhi dovette spesso difendersi da coloro che
irridevano e ridicolizzavano le sue teorie, considerandole una
manifestazione di imbelle "buonismo", affermando come il
non-violento fosse soltanto un individuo che non combatte per paura
di subire, che nasconde dietro l'ahimsa il poco coraggio e l'istinto
di sopravvivenza. In realtà l'atteggiamento del satyagrahi
è completamente opposto: egli affronta l'ingiustizia senza
tirarsi indietro, senza desistere nella sua azione e affrontando
ogni sopruso che si presenta:
«Nessun uomo può essere attivamente non-violento e non
ribellarsi contro l'ingiustizia dovunque essa si verifichi
.»
Anche di fronte ai rischi maggiori, senza curarsi del male che gli
verrà fatto, il rivoluzionario non-violento prosegue nella
sua azione poiché ciò che gli dà il coraggio di
lottare è la convinzione nel trionfo della giustizia e della
verità.
Gandhi affermò anche che:
« la nonviolenza è infinitamente superiore alla
violenza, tuttavia nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse
quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la
violenza.»
Questa dichiarazione è stata letta da molti come
contraddittoria e svilente l'intera teoria dell'ahimsa, dal momento
che sembrerebbe che queste parole giustifichino il ricorso, in casi
limite, alla violenza. In realtà in questo caso Gandhi voleva
solamente ribadire un concetto molto semplice: il combattente
non-violento non deve agire per paura, poiché la codardia non
è ammissibile, in quanto considerata moralmente peggiore
della violenza stessa. Il vero satyagrahi ha tra le sue
caratteristiche un grande coraggio, che lo spinge anche incontro
alla morte, e quindi rifugge in ogni caso la violenza. A riprova di
questo può essere utile citare una delle affermazioni che
hanno fruttato a Gandhi più critiche, per l'asprezza delle
parole, ma che rende assai bene la grandezza ed il coraggio che,
secondo il Mahatma, occorrono per portare avanti la causa
non-violenta:
« Hitler uccise cinque milioni di ebrei. È il
più grande crimine dei nostri tempi. Ma gli ebrei avrebbero
dovuto offrirsi al coltello dei macellai, avrebbero dovuto gettarsi
in mare dalle scogliere... Avrebbe risvegliato il mondo e il popolo
tedesco.»
Queste parole vengono così commentate da George Woodcock,
autore di una monografia su Gandhi:
« Occorre ricordare che Gandhi non si preoccupava tanto della
morte, quanto del modo di morire. "La morte non è mai dolce,"
disse in un'altra occasione "nemmeno se affrontata per un alto
ideale. Rimane indicibilmente amara, eppure può rappresentare
la più alta affermazione della nostra individualità."
Era in quest'ottica che pensava agli ebrei; se dovevano morire,
pensava, era meglio che se ne andassero affermando la propria
individualità nella resistenza non violenta, piuttosto che si
lasciassero condurre al macello come bestiame.»
Le virtù del satyagrahi
Il satyagrahi aderisce a undici principi che osserva in spirito di
umiltà: non violenza, verità, non rubare,
castità, rinuncia ai beni materiali, lavoro manuale,
moderazione nel mangiare e nel bere, impavidità, rispetto per
tutte le religioni, swadeshi (uso dei prodotti fatti a mano),
sradicamento dell'intoccabilità.
Dalla concezione dell'ahimsa derivano in modo diretto anche le
virtù che Gandhi ascrive all'autentico satyagrahi, il
combattente per la causa della Verità. Innanzitutto egli non
deve essere mosso dall'ira e dall'odio per l'avversario, anzi deve,
in quanto essere umano, amarlo, pur sempre continuando con forza la
lotta contro l'errore che egli commette:
« Il mio obiettivo è l'amicizia con il mondo
intero, e io posso conciliare il massimo amore con la più
severa opposizione all'ingiustizia.»
Il combattente non-violento deve annientare l'ingiustizia, ma non
colui che la commette, e deve avere sempre fede nella
possibilità che anche l'uomo più improbo si possa
convertire alla causa della Verità. Mitezza e amore sono
dunque le due prime caratteristiche fondamentali dell'atteggiamento
del satyagrahi.
L'essenza del satyagraha, inoltre, è la disposizione a
combattere a mani nude, ad affrontare volontariamente le sofferenze
che possono derivare dalla lotta per la Verità. Il satyagrahi
deve dunque essere coraggioso, molto più coraggioso dei
guerrieri che affrontano il pericolo della battaglia senza
rinunciare alla protezione delle loro armi:
« Per praticare la nonviolenza, bisogna essere intrepidi
e avere un coraggio a tutta prova.»
Poiché la ricerca della Verità è tanto
più facile quanto ci si distacca dai bisogni materiali, il
combattente non-violento non deve essere dominato
dall'avidità di ricchezza o dalla passione per i piaceri
corporei; l'eccessivo attaccamento ai beni materiali può
infatti distoglierlo dalla sua battaglia per la giustizia. Coraggio,
povertà e castità devono dunque essere tra le
virtù del satyagrahi.
Le tecniche del satyagraha
Oltre alla teorizzazione filosofica e morale dell'ahimsa e del
satyagraha, oltre alle qualità che deve avere il combattente
non-violento, Gandhi nella sua lunga storia di leader rivoluzionario
(prima in Sud Africa, poi in India) ha teorizzato e sperimentato
un'ampia varietà di tecniche di lotta rivoluzionaria
non-violenta, cioè i modi con cui si mette in pratica la
lotta per la verità:
Il "boicottaggio non-violento", che, nel caso
della lotta per l'indipendenza indiana, consisteva soprattutto nel:
non acquistare liquori e
tessuti provenienti dall'impero britannico
non iscrivere i figli
alle scuole inglesi
non investire i propri
risparmi in titoli di stato britannici
non accettare incarichi
militari e civili o titoli onorifici dall'amministrazione coloniale
britannica.
Il "picchettaggio non violento", che consiste nel
formare gruppi di militanti non-violenti davanti all'ingresso dei
luoghi di lavoro o di quelli in cui si svolgono attività
boicottate, per invitare le persone che si apprestano a entrarvi.
Lo sciopero non-violento, ed in particolar modo
l'Hartal, uno sciopero generale accompagnato da preghiera e digiuno.
Le marce.
Gli scioperi della fame o della sete (anche "fino
alla morte").
Infine occorre ricordare una forma di protesta che, sebbene non sia
stata inventata da Gandhi, è stata portata da lui alla
ribalta internazionale, cosa che ne ha permesso in seguito
l'adozione su larga scala da parte dei movimenti pacifisti: la
disobbedienza civile.
La disobbedienza civile
Un'altra forma di lotta politica che Gandhi introdusse come centrale
nell'ambito dell'azione non-violenta è la disobbedienza
civile; Gandhi per applicarla trasse ispirazione dal saggio di
Thoreau Disobbedienza civile (1849), che aveva letto da giovane e le
cui idee erano già state utilizzate da Tolstoj.
La disobbedienza civile consiste nel violare pubblicamente e
consapevolmente le leggi o i comandi amministrativi ritenuti
ingiusti accettando però le punizioni previste dalla
legislazione vigente per le violazioni commesse (il rifiuto della
sanzione prevista non veniva considerato un atteggiamento
non-violento). Alcuni esempi sono:
non pagare le tasse;
praticare l'obiezione di coscienza al servizio
militare;
violare le norme legislative o gli atti
amministrativi che limitano illegittimamente la libertà
fondamentali (stampa, manifestazione, sciopero, riunione, ecc. ).
A volte gli atti di disobbedienza civile possono essere puramente
simbolici (come fu per l'estrazione del sale alla fine della Marcia
del 1930). Per Gandhi la disobbedienza civile rappresentava, insieme
al digiuno, la forma culminante di resistenza non-violenta; egli la
definì "un diritto inalienabile di ogni cittadino", e
affermò che "rinunciare a questo diritto significa cessare di
essere uomini".
A questo proposito bisogna ricordare come Gandhi trascorse un totale
di 2338 giorni di detenzione in Sudafrica e India a causa degli
arresti dovuti alle sue lotte politiche utilizzando i principi della
disobbedienza civile.
La concezione della società
Gandhi non si dilungò molto sulla struttura che avrebbe
dovuto avere la società indiana secondo il suo pensiero
filosofico, ma era ispirato dalla visione di una futura
società indiana di stampo che potremmo definire socialista,
basata sull'agricoltura e sull'artigianato tradizionali. Gandhi non
era anti-capitalista:
«Il capitale non è malvagio in sé; è il
suo uso sbagliato che è malvagio. Il capitale, in una forma o
un'altra, sarà sempre necessario.»
Una società armonica e che tiene alla sua sopravvivenza deve
rifuggire dalle sette cose che possono distruggerla: "- Ricchezza
senza lavoro - Piacere senza coscienza - Conoscenza senza carattere
- Commercio senza moralità - Scienza senza umanità -
Religione senza sacrificio - Politica senza principi''"
Ma pensava che il popolo indiano dovesse vivere condividendo le
risorse della terra, senza utilizzare il moderno apparato
industriale, organizzato in una serie di villaggi autogovernati in
cui l'ordine era retto da brigate non violente e che commerciavano
tra loro per ottenere i beni necessari per la sussistenza.
Gandhi era contro l'educazione convenzionale: credeva che i bambini
apprendessero meglio dai genitori e dalla società piuttosto
che dalle scuole. In Sudafrica, insieme a degli anziani,
formò un gruppo di insegnanti.