Riforma sociale

 

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Riforma sociale, La Rivista di scienze sociali e politiche e di economia, fondata nel 1894 e diretta da F.S. Nitti e L. Roux (1a e 2a serie, Torino-Roma), ai quali si affiancò dal 1901 L. Einaudi.

Dapprima quindicinale, dal 1908 divenne bimestrale (3a serie, Torino) e passò sotto la direzione di Einaudi che, coadiuvato da G. Prato, A. Geisser e P. Jannaccone, la tenne fino all’aprile 1935 quando la rivista cessò le pubblicazioni.

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RICCARDO FAUCCI

La scuola di Torino e il pensiero economico italiano

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Il senso del passaggio della rivista da Nitti a Einaudi è lumeggiato nella prefazione di quest’ultimo all’edizione nazionale delle opere di Nitti (1958). Einaudi sottolinea che la nuova “Riforma” assegnò priorità alle leggi della “convenienza economica”, cioè all’efficienza, rispetto alle riforme  della  distribuzione,  cioè  all’equità.  E’  da  domandarsi  in  che termini Einaudi e i suoi collaboratori intendessero mantenere fede alla
stessa dizione di “Riforma sociale”. Ma che si possa essere riformisti anche  senza  essere  statalisti  è  appunto,  ci  sembra,  la  scommessa  di Einaudi. Una scommessa che si fonda su una valutazione tutto sommato positiva del grado di maturità politica e del livello di sviluppo economico raggiunto dal paese dopo il 1900.

Solo una società arretrata può ritenere che la scelta sia fra statalismo assoluto e liberismo assoluto. In presenza di un movimento operaio che sa organizzarsi, di una robusta imprenditorialità diffusa, di una crescente esperienza da parte delle amministrazioni locali di
forme di intervento nell’economia diverse dalla pura e semplice espropriazione, sembra a Einaudi che sia arrivato il momento di discutere pacatamente di problemi concreti, mirando a definire gli effetti che le misure di politica economica possono produrre, anziché dilungarsi oziosamente sulle cause del malessere sociale. Di qui il prevalere di un approccio  non  ideologico  ma  pragmatico  alla  politica  economica;  un approccio che ha però il suo risvolto negativo in un eccesso di semplificazione dei termini dei vari problemi.

La sbrigatività nell’affrontare le questioni del giorno da parte di Einaudi e della “Riforma
sociale” richiama alla mente il “concretismo” di Salvemini e dell’”Unità”. Non è un caso che i due intellettuali (e le due riviste) combatterono le medesime  battaglie  liberiste  negli  anni  immediatamente  precedenti  la Grande guerra.

Non c’è dubbio peraltro che il riformismo della “Riforma” assunse con il passare del tempo toni sempre più blandi. Anima di questo nuovo atteggiamento è Alberto Geisser, che dapprima getta dei dubbi sul funzionamento del sistema di assicurazioni sociali in Germania, già magnificato dalla “Riforma sociale” di Nitti (cfr. A. Geisser, Conseguenze dannose delle assicurazioni sociali in Germania, RS, 1913) e poi contrappone allo statalismo dell’istruzione (obbligatoria?) le virtù del volontarismo e del privatismo (Per l’istruzione e l’educazione del popolo italiano, RS, 1914).

Una coerente linea di polemica antisindacale è quella sviluppata da Giuseppe Prato, il cui acme è costituito dal volume del 1910 sul Protezionismo operaio (edito dal Laboratorio), che presenta i sindacati americani come ostili all’immigrazione e difensori di privilegi più o meno corporativi. Se le denunce in molti casi sono giuste, l’indiscriminata polemica contro i tentativi di regolamentare pubblicamente il mercato del lavoro portano Prato all’elogio del lavoro a domicilio e, implicitamente, a caldeggiare veri e propri ritorni indietro nella tutela dei lavoratori (cfr. Di alcune incognite del movimento operaio, RS, 1911).

Se il riformismo della “Riforma” si allontana dall’originale, anche l’aggettivo “sociale” va perdendo i propri connotati semantici. Un segno evidente è il bando imposto agli studi di sociologia; un bando che segna la rottura fra la prima  e la seconda fase della scuola  di Torino. Mentre Cognetti, seguace di Boccardo, aveva considerato la sociologia come un fondamentale input per la cultura dell’economista, il gruppo facente capo a Einaudi parteggia per una lettura non sociologica degli avvenimenti sociali. Ciò è particolarmente vero per le ricostruzioni storiche compiute dalla scuola di Torino, con risultati assai apprezzabili, e lodati sulla severa “Critica” del Croce da uno specialista come Gioacchino Volpe (1910).

Gli studi di Einaudi e soprattutto di Prato sull’antica finanza ed economia piemontese degli anni 1907-1909 sono caratterizzati, da un lato da un forte taglio tecnicistico, dall’altro da una sorta di giustificazionismo, per cui tutto ciò che è reale è razionale; un giustificazionismo dipendente dal trascurare i fattori di conflitto e le contraddizioni alla base di ogni scelta politico-economica. Non è estranea a questa scelta metodologica l’ostilità sempre più marcata verso il materialismo storico, da Einaudi visto come un’ideologia politica che costruisce “marionette economiche” (a cominciare dal concetto stesso di capitalismo) che non hanno fondamento reale.

E’ vero che fra i collaboratori della nuova “Riforma” einaudiana vi era Roberto Michels; ma al di là della simpatia personale per colui che doveva diventare suo consuocero, non sembra che Einaudi fosse troppo persuaso della consistenza scientifica dei suoi lavori, proprio per la mescolanza in essi di temi sociologici ed economici. Tanto è che Michels, sempre leale e diretto, alla vigilia di ottenere la libera docenza in economia politica nell’ateneo torinese, nel 1907, si discolpò vivacemente da tali critiche (lettera riprodotta in R. Faucci, Intorno alla “giusta” collocazione intellettuale di Roberto Michels, in R. Faucci, a c. di, Roberto Michels: economia sociologia politica, Giappichelli, Torino 1989).  Tuttavia Michels figura sulle colonne della rivista con un saggio dello stesso 1907 sull’oligarchia organica costituzionale, e anche in seguito.

Il bando alla sociologia non significava peraltro un’apertura a favore dell’economia pura. In questo si nota una sostanziale continuità fra la gestione nittiana e quella einaudiana. L’atteggiamento di Einaudi verso Pareto è di difficile lettura, perché complicato dalla vicenda della mancata cattedra   ginevrina   di   Einaudi   nella   primavera   1902,   allorché   i tentennamenti di Einaudi avevano fatto scrivere a Pareto di “essersi non poco vergognato pensando che erano opera di un italiano” (cit. da Faucci,  Einaudi,  p.  40).  Probabilmente  mortificato  da  quelle  parole, Einaudi  non  doveva  mai  più  esprimere  pieno  consenso  per  l’opera paretiana. Da una parte egli ne sottolineò la pericolosa commistione di sociologia  ed  economia.  Dall’altra,  prese  puntigliosamente  le  parti  di Gaetano Mosca allorché questi rivendicò la paternità del concetto di classe politica.

Qui prevale indubbiamente la solidarietà verso i colleghi; un atteggiamento che trova il suo acme nella perentoria posizione assunta da Einaudi nel rivendicare la priorità di Jannaccone nei confronti di Sraffa a proposito delle empty economic boxes (cfr. Einaudi, Scienza economica. Reminiscenze, 1950).

La linea della rivista verso Pareto non è univoca. L’attacco di Jannaccone al “paretaio” (1912), che per quanto rivolto soprattutto contro i ripetitori di Pareto, non poteva
non coinvolgere anche quest’ultimo, sarà in qualche modo bilanciato da studi pro-Pareto ospitati dalla rivista, quali quelli di Sensini, di Borgatta e di Sella. Tuttavia, non è certo in questa direzione che vale la pena di procedere alla ricerca delle peculiarità della scuola torinese. La rivista non è paretiana né anti-paretiana. Più semplicemente è a-paretiana.

Interessi politologici sono invece coltivati da un collaboratore come Alessandro Schiavi, che prosegue un filone  di ricerche presente nella prima “Riforma” (cfr. A. Torresin, Statistica delle elezioni generali politiche del 3 giugno 1900, in “RS”, 1900, pp. 788-831) sui risultati delle elezioni politiche, i programmi di partiti, ecc. Ma è da chiedersi se questi studi non possano rientrare nel filone dell’economia e della statistica applicate.

L’altro filone centrale negli interessi della scuola di Torino è quello dell’impresa,   che   peraltro   in    prevalenza   denuncia   le   patologie dell’impresa, anziché illustrare il suo comportamento fisiologico. Si può dire che, mentre continuo è il riferimento al valore positivo dell’imprenditorialità,  quando  si  parla  di  singole  imprese  o  gruppi  di imprese i toni cambiano. Qui si consuma la frattura fra la rivista di Einaudi e una rivista come la “Rivista delle società commerciali”, che giustifica su base imprenditoriale gli accordi e le richieste di aiuto rivolte ai pubblici poteri. 

Una  sola  volta  la  rivista  dedica  un’attenzione  non  meramente politica, ma scientifica, alle strategie di penetrazione nei mercati da parte di imprese organizzate. Questo accade nel fascicolo speciale dedicato al fenomeno  del  dumping,  che  coinvolge  Cabiati,  Jannaccone,  Loria  e l’industriale Ridolfi (1914). I problemi della discriminazione dei prezzi, dell’andamento dei rendimenti nelle imprese che praticano il dumping, delle conseguenze economiche di tale pratica per i consumatori e per l’intera collettività, sono trattati, insolitamente per la rivista, con l’ausilio di strumenti concettuali dell’economia pura. Nella maggior parte dei casi, però, ci si limita a illustrare singole situazioni (cfr. per es. A. Cabiati, L’istituto cotoniero italiano e la crisi, 1913). La guerra di Libia come portato anche della spinta imperialistica del padronato italiano: questo è il senso della polemica einaudiana contro i “trivellatori”.