10 All'omaggio dei nobili milanesi a Francesco Giuseppe nel 1853
Gramsci accenna già in una lettera dell'8 agosto 1927 (cfr
LC, 112). Sull'episodio, che è ricordato anche in altre note
dei Quaderni - cfr Quaderno 3 (XX), § 125, Quaderno 6 (VIII),
§ 1, Quaderno 19 (X), § 5 - si veda lo scritto di
Salvemini, Moderati e democratici milanesi dal 1848 al 1859,
pubblicato per la prima volta nel 1899 sulla «Critica
sociale» con la firma «Rerum Scriptor» (a questo
scritto Gramsci accenna più avanti, cfr nota 33 al §
44):
«... i nobili milanesi il 2 marzo 1853 - cioè due
giorni dopo pubblicata la sentenza che condannava a morte 23
italiani per i fatti del 6 febbraio, e un giorno prima che Tito
Speri, Carlo Montanari e Bartolomeo Grazioli fossero giustiziati a
Mantova, e fosse pubblicata un'altra sentenza di condanna da 8 a 16
anni di ferri contro parecchi altri liberali - il 2 marzo 1853, i
nobili moderati di Milano, approfittando di un attentato andato a
male contro l'imperatore Francesco Giuseppe, firmavano un indirizzo
di ossequio all'imperatore. Lo spazio non ci consente di riportarlo
intero; basterà ricordare che essi non solo ringraziano la
Provvidenza "che veglia sui monarchi e sui popoli" perché "ha
stornato il compimento dell'orrendo misfatto", ma anche protestano
contro "le esecrande scelleraggini commesse anche nella nostra
atterrita Milano dai perpetui nemici dell'ordine", e offrono
all'Imperatore, "serbato alle speranze, all'amore, ai voti dei suoi
sudditi, le proteste di fedele sudditanza e di un franco e leale
concorso di queste popolazioni nel corrispondere con la propria
cooperazione alle provvide misure di chi regge questo paese, tanto
bramoso di quell'ordine e di quella tranquillità, che solo
possono ritornarlo a prosperità e floridezza". I firmatari
sono circa duecento, quasi tutti nobili, conti, marchesi e altra
simile genia» («Critica sociale», 1° dicembre
1899, anno VIII, n. 20, pp. 318-19; ora in Gaetano Salvemini,
Scritti sul Risorgimento, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda,
Feltrinelli, Milano 1961, p. 104).
11 Vi è qui probabilmente una reminiscenza delle Lettere di
G. Mazzini alle Società Operaie Italiane (Roma 1873), citate
in un articolo non firmato, apparso su «l'Unità»
del 26 febbraio 1926, Due lettere di Marx su Mazzini e i contadini
in Italia. In quest'articolo si rileva che dalle lettere di Mazzini
alle Società operaie italiane traspare tra l'altro «la
quasi assoluta dimenticanza da parte di Mazzini delle masse
contadine, la nessuna trattazione dei problemi immensi che tali
masse avevano da risolvere per garantire un libero sviluppo della
nascente società capitalistica e - per conseguenza - la
nessuna considerazione da parte sua della funzione essenziale che il
movimento contadino aveva nella stessa lotta per l'indipendenza
italiana». «Questo rimprovero capitale - continua
l'articolo dell'"Unità" - che viene fatto a Mazzini da Carlo
Marx nelle lettere che in appresso riportiamo, appare pienamente
giu-•stificato allorché si leggono le lettere scritte da
Mazzini alle società operaie italiane. In due sole di queste
lettere, si accenna all'affratellamento cogli agricoltori e alla
unione in associazioni dei "lavoratori del contado". E si tratta di
frasi dette di sfuggita. Nella sua lettera Mazzini non accenna mai
all'espropriazione dei fondiari e alla lotta contro i residui
feudali nella economia agricola». Nello stesso articolo sono
riprodotte una lettera di Marx a Engels del 13 settembre 1851 (non
è esatta la data del 3 settembre indicata nell'articolo) e
un'altra lettera di Marx a Weydemeyer dell'i 1 settembre dello
stesso anno; la minaccia del governo austriaco di ricorrere al
«rimedio galiziano» - a cui Gramsci allude nel testo -
è segnalata in queste due lettere. Nella prima Marx scrive
tra l'altro (secondo la traduzione dell'articolo citato
dell'«Unità»): «La situazione dei contadini
italiani è orribile. Ho studiato profondamente questa infame
questione: se Mazzini o qualche altro che è alla testa
dell'agitazione italiana non trasformerà volontariamente e
immediatamente i contadini da mezzadri in liberi agricoltori, il
Governo austriaco, in caso di rivoluzione, correrà al rimedio
galiziano. Esso ha già minacciato nel Lloyd di fare un
"rivolgimento completo della proprietà" e di "annientare la
proprietà inquieta". Se Mazzini non ha aperto gli occhi
è un somaro». Nella lettera a Weydemeyer (diventato,
per errore di trascrizione o di stampa, Beidemaier nell'articolo
dell'«Unità») si legge: «Io considero la
politica di Mazzini falsa alle radici. Il modo com'egli cerca di
fare avvenire uno sconvolgimento in Italia, non si traduce che
nell'interesse dell'Austria. Egli dimentica che gli è
necessario indirizzarsi ai contadini che costituiscono la secolare
parte oppressa d'Italia. E dimenticando ciò egli prepara un
nuovo sostegno per la controrivoluzione. Il signor Mazzini non
conosce che le città con i loro gentiluomini liberali e leurs
citoyens éclairés. I bisogni materiali della
popolazione rurale italiana da cui si è spremuto tutto il
succo e che è sistematicamente tormentata e vessata fino alla
stupidità, cosi come la popolazione irlandese, tutto
ciò resta certamente al di fuori del suo manifesto
verboso-cosmopolita-neo-cattolico-spiritualista. Senza dubbio
bisogna avere molto coraggio per dichiarare alla borghesia e alla
nobiltà che il primo passo verso la indipendenza d'Italia
consiste nella liberazione completa dei contadini e nella
trasformazione del loro sistema semi-affittuario di uso della terra
in libera proprietà borghese». Per la lettera di Marx
ad Engels cfr Carteggio Marx-Engels, vol. I, Edizioni Rinascita,
Roma 1950, pp. 304-5; per la lettera di Marx a Weydemeyer cfr Karl
Marx - Friedrich Engels, Werke, vol. XXVII, Dietz, Berlin 1963, pp.
578-79.
12 Cfr Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Nrelle di uno
dei Mille, Universale economica, Milano 1949, pp. 6y66: «Mi
son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è
monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle,
che figura il calvario con le tre croci, sopra questo borgo, presso
il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua
lussuria di giardini; l'ora era morta, e parlavamo della
rivoluzione. L'anima di padre Carmelo strideva. Vorrebbe essere uno
di noi, per lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa
lo trattiene dal farlo.
-Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
-Non posso.
-Forse perché siete frate? Ce ne abbiamo già uno.
Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura
del sangue.
-Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho
parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che
volete unire l'Italia.
-Certo; per farne un grande e solo popolo.
-Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se
soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.
-Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.
-E nient'altro! - interruppe il frate: - perché la
libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose
bastano forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
-Dunque che ci vorrebbe per voi?
-Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli
oppressori, grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in
ogni città, in ogni villa.
-Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre
ovunque sono case e campagne!
-Anche contro di noi; anzi prima che contro d'ogni altro! Ma col
vangelo in mano e con la croce. Allora verrei. Cosi è troppo
poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi
ancora con voi soli.
-Ma le squadre?
-E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più?
Non seppi più che cosa rispondere e mi alzai. Egli mi
abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi
disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani
mattina dirà la messa per me. Mi sentivo una gran passione
nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli si mosse,
sali il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi
disparve».
Cfr la novella Libertà, nella raccolta Novelle rusticane
(Giovanni Verga, Tutte le novelle, vol. I, Mondadori, Milano 1942,
pp. 367-373).