FOVEL, Nino

 

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FOVEL, Nino (Natale) Massimo. - Nacque a Cittaducale, in provincia di Rieti, il 15 ott. 1880 da Giuseppe e da Giannina Costantini. Laureatosi in giurisprudenza, approfondì gli studi economici e divenne professore incaricato di scienza delle finanze all'università di Bologna, dove risiedeva. Fu anche redattore del quotidiano locale Il Resto del carlino.

Alla fine del primo decennio del secolo il F. si segnalò come uno degli esponenti di spicco del partito radicale e presto divenne il più autorevole rappresentante della tendenza radicalsocialista che si collocava all'estrema sinistra del partito. Come, anni dopo, ebbe a scrivere lo stesso F., i radicalsocialisti si proponevano di dare "un indirizzo e un colorito sociale alla democrazia e al radicalismo" ispirandoli "ai concetti stessi di lavoro, cui si ispirava il movimento socialista" (Il cartello delle sinistre, Milano 1924, p. 54).

L'obiettivo che i radicali avrebbero dovuto perseguire consisteva, secondo il F., nel "condurre qualche frazione democratica con le sue masse medie sul terreno stesso, ove i socialisti operavano con le masse operaie" (ibid.). Al blocco sociale tra il proletariato e la piccola e media borghesia avrebbe dovuto corrispondere sul piano politico l'alleanza tra socialisti e radicali fino a configurare una fusione tra i due partiti. Prima sarebbe stato però necessario rimuovere una serie di ostacoli di ordine teorico-ideologico, strategico e tattico sia in campo radicale sia in campo socialista. Occorreva dunque un profondo rinnovamento dei due partiti, al quale il F. intendeva dare il proprio originale contributo. Occorre "rilevare che il suo pensiero riguardo al radicalismo sociale non solo venne foggiandosi in modo alquanto lento e contorto,… ma, per giunta, non raggiunse mai una sistemazione veramente organica e articolata" (D'Angelo, p. 104).

Il radicalismo del F. si caratterizzava, oltre che per la polemica verso il marxismo e la sensibilità nei confronti delle nuove correnti culturali irrazionalistiche, bergsoniane, per la drastica posizione antigiolittiana: per il F. "la politica di Giolitti non era nemmeno quel "liberalismo" che costituiva ormai "la forma tipica e la sola maschera decente dello scetticismo politico", ma solo cinismo e vuoto" (Ullrich, I, p. 552).

Per contrastare Giolitti - accusato di inquinare la vita pubblica italiana con una politica clientelare (Giolittismo, in Rassegna contemporanea, I [1908], pp. 1 ss.) - al F. non appariva al momento idonea la politica dei blocchi popolari, dubitando egli che questioni quali l'antimilitarismo, l'anticlericalismo, la lotta al carovita, la difesa della libertà, il suffragio universale avessero consistenza effettiva e potessero costituire una valida base programmatica per mettere insieme forze politiche diverse in vista delle elezioni politiche del 1909. Sembrava piuttosto privilegiare un'altra strategia, incentrata sul tentativo di affermare l'egemonia di un radicalismo rinnovato. Incapace di interpretare i bisogni reali della gente, di misurarsi con i problemi concreti, all'inseguimento di mete politiche indeterminate, il radicalismo italiano appariva al F. un fatto prevalentemente intellettuale. E ciò mentre, a suo giudizio, la crisi del partito socialista, lacerato al suo interno tra riformisti e rivoluzionari, e il momento politico offrivano straordinarie opportunità ai radicali. Questi avrebbero potuto prendere il posto dei socialisti e proporsi alle masse lavoratrici come i soli in grado di soddisfare i loro bisogni agendo con maggiore efficacia e coerenza all'interno delle istituzioni. Il F. auspicava il coinvolgimento in questa operazione di settori riformisti del partito socialista, che, rotti gli indugi e i legami con l'ideologia marxista, avrebbero dovuto riconoscersi in un nuovo partito radicosocialista (L'ora radicale, in Pagine libere [Lugano], 15 genn. 1909, pp. 74-86).

Nel marzo 1909 il F. espresse sulle pagine della Rassegna contemporanea la sua netta contrarietà al rinnovamento della Triplice Alleanza, considerandola un asservimento dell'Italia all'Austria e alla Germania. In quello stesso mese le elezioni politiche avevano intanto portato all'accordo tra clericomoderati e liberali e ciò indusse il F. ad accentuare i toni della polemica contro Giolitti.

Il giolittismo gli appariva più che mai responsabile della stagnazione politica, del freno allo sviluppo che stava producendo un divorzio sempre più acuto tra la classe politica e le forze produttive, tra lo Stato e la società civile. Il compito dei radicali diveniva a questo punto più nobile, dovendo essi far prevalere le ragioni delle "forze vive della produzione" sugli interessi dei professionisti della politica. Il F. faceva appello da una parte a una classe imprenditrice nuova e attiva e dall'altra a una classe lavoratrice che avrebbe superato lo stato di alienazione sentendo come proprie le "ragioni anche ideali" della produzione. Lo Stato non aveva solo una funzione regolatrice nell'economia, ma doveva essere "al servizio di tutti e pur superiore a tutti come la creatura di un misticismo laico" (D'Angelo, p. 117).

Con queste teorie, che gli valsero l'accusa di "statolatria", il F. intendeva richiamarsi all'aspirazione mazziniana per l'unità spirituale e sociale degli Italiani. Ma se sul piano teorico il F. rifuggiva in modo sempre più netto da ogni commistione con il socialismo e condannava la lotta di classe, sul terreno concreto dell'iniziativa politica era costretto a riconsiderare la sua opposizione ai blocchi elettorali.

Di fronte all'intesa clericomoderata anche al F. appariva ora obbligata la strada dell'intesa con i socialisti. La palese contraddizione tra teoria e pratica veniva poi risolta dal F. con l'individuazione nei blocchi dello strumento attraverso cui i radicali avrebbero meglio adempiuto alla missione di convertire i socialisti.

La guerra di Libia gli offrì l'occasione per riaffermare la convinzione sul fondamento democratico del nazionalismo, secondo la quale l'interesse economico della nazione legittimava le imprese coloniali. Il F. appoggiò l'impresa coloniale anche in base a considerazioni di politica internazionale e come soluzione parziale del problema meridionale; quando essa assunse, ai suoi occhi, connotazioni ambigue e conservatrici non mancò di esternare la propria delusione.

Attenuatosi l'interesse per l'impresa libica, il F. tornò alle sue teorie sul radicalismo sociale che, nel giugno 1912, precisava meglio nell'articolo Intorno a una democrazia radico-sociale, apparso nella Rivista d'Italia. Secondo il F., la democrazia radicosociale, ispirata ai criteri della competenza, della funzionalità e della solidarietà sociale, doveva riuscire a comporre nell'interesse generale le varie spinte particolaristiche e per questo prevedeva la liquidazione dei partiti politici e l'instaurazione di un ordinamento fondato sulla rappresentanza dei gruppi sociali e professionali. Ai ceti medi attribuiva una funzione di guida equilibratrice e una matura consapevolezza degli interessi generali e nazionali.

Le conseguenze che sul piano della tattica politica il F. faceva discendere da un siffatto impianto teorico vennero da lui messe a punto in occasione del V congresso nazionale radicale, tenutosi a Roma dal 9 all'11 nov. 1912. Secondo il F. i rapporti stabilitisi tra il movimento socialista e il radicalismo avevano prodotto benefici effetti da entrambe le parti, rendendo i radicali più sensibili ai problemi sociali e i socialisti alle libertà democratiche. La scoperta di affinità sempre più marcate tra radicali e socialisti imponeva ora ai primi di abbandonare ogni ipotesi di collaborazione con i liberali (un emendamento in tal senso, presentato dal F., venne approvato a stretta maggioranza dal congresso). Nella stessa sede il F. si dichiarò favorevole a una posizione agnostica del partito radicale sulla questione istituzionale.

La tendenza radicosociale uscì rafforzata dal congresso e, poggiando sui crescenti consensi, il F. chiese che in vista delle elezioni politiche del 1913 venissero stabilite intese tra i partiti di sinistra. Sollecitava altresì l'uscita dei radicali dal governo e dalla maggioranza e l'affrancamento del partito dalla politica giolittiana, alla quale, a suo parere, restava asservito. Queste prese di posizione determinarono un forte contrasto tra la direzione nazionale e il gruppo parlamentare radicale da un lato e il resto del partito dall'altro.

Il 12 ott. 1913 venne convocato a Bologna un convegno nazionale dei radicosociali e in quella sede vennero denunciati "l'insostenibile situazione" del partito e il suo "vassallaggio politico". Intenzionati comunque a restare nel partito, essi giunsero a presentare alle elezioni del 16 ott. 1913, in alcuni collegi, propri candidati in contrapposizione ai candidati radicali ufficiali. L'operazione non ebbe l'esito sperato e lo stesso F., candidato a Venezia, non riuscì eletto, mentre il partito radicale vedeva i propri rappresentanti in Parlamento salire da 45 a 62.

Nonostante la sconfitta il F. e i suoi intensificarono la lotta all'interno del partito contro le posizioni moderate e filogiolittiane, trovando un prezioso alleato in R. Murri, appena approdato al radicalismo dopo la milizia nella Democrazia cristiana. A dar manforte ai dissidenti intervenne poi il malumore suscitato dal patto Gentiloni e dai metodi spregiudicati grazie ai quali in varie parti d'Italia erano stati eletti i candidati giolittiani. Guadagnati nuovi consensi, i radicosociali riuscirono a imporre la convocazione del VI congresso nazionale del partito, che si tenne a Roma dal 31 gennaio al 3 febbr. 1914.

Al centro delle assise fu ovviamente l'annoso problema della partecipazione al governo e questa volta, sfruttando l'ondata di risentimento antigiolittiano, i radicosociali riuscirono a far approvare un ordine del giorno presentato dal Murri, che sanciva la fine della collaborazione governativa.

La nuova direzione centrale del partito, che rispecchiava i mutati rapporti di forza, accoglieva per la prima volta tra i suoi membri anche il Fovel. Il gruppo parlamentare tentò fino all'ultimo di eludere la decisione del congresso, ma il 7 marzo fu infine costretto a decretare l'uscita dei radicali dal governo e dalla maggioranza. Con questo atto, che determinò la crisi del governo Giolitti, il F. vedeva coronata da successo la sua ostinata battaglia politica.

La vittoria dello schieramento antiministeriale apriva prospettive nuove a quel processo di rigenerazione del radicalismo auspicato dal Fovel. Questi metteva ora in guardia i radicali dal rischio di isolamento e li invitava ad accelerare le tappe per dar vita, insieme con i socialisti non rivoluzionari, a una alternativa di governo.

Ma la fase nuova dei radicali si apriva proprio mentre il divampare della guerra mondiale poneva al centro del dibattito politico questioni più impellenti, a cominciare da quella dell'intervento italiano nel conflitto. A questo proposito il F. espresse l'intero ventaglio delle posizioni, essendo prima favorevole all'intervento a fianco degli Imperi centrali contro la Russia reazionaria e la Francia, rivale dell'Italia nella politica coloniale, quindi assertore della neutralità e infine, in nome della continuità risorgimentale, fautore della guerra contro l'Austria.

Durante il periodo bellico si batté contro la censura e dalle colonne della stampa socialista criticò l'enfasi eccessiva con cui il partito radicale propugnava la causa della guerra: un segnale questo che rivelava come i radicali estraniandosi dalle grandi masse stavano diventando secondo il F. - espulso per queste sue critiche dal partito radicale - nuovamente prigionieri dei ceti conservatori.

Nel 1919 il F. aderì al partito socialista militando nella frazione massimalista rivoluzionaria e chiese di collaborare all'Ordine nuovo, ma A. Gramsci, molto diffidente nei suoi confronti, lasciò cadere la proposta. Il F. si trasferì quindi a Trieste, dove per qualche mese fu condirettore del giornale socialista Il Lavoratore; tornato a Bologna, nel novembre 1920 venne eletto consigliere comunale. Pochi giorni dopo la sua elezione fu aggredito dai fascisti e il 29 novembre restò coinvolto nei sanguinosi incidenti di palazzo d'Accursio. In attesa delle decisioni della magistratura fu sospeso dall'insegnamento e ricevette una "solenne deplorazione" da parte dell'Ordine degli avvocati, cui era iscritto.

Alla fine del gennaio 1921, dopo la scissione del PSI, il F. si recò di nuovo a Trieste per trattare il passaggio de Il Lavoratore al neocostituito Partito comunista d'Italia. Nei mesi successivi cominciò a riavvicinarsi alle idee democratiche. Nel 1922 collaborò a La Critica politica di O. Zuccarini, dalle cui pagine sostenne l'assoluto contrasto di interessi tra la borghesia agraria retriva e la borghesia industriale progressiva e definì il fascismo come "l'accaparramento di una larga parte della borghesia minuta da parte delle classi veramente e propriamente privilegiate" (Alatri, p. 29).

Nel 1925 il F. pubblicò a Roma il libro Democrazia sociale, "una diagnosi appassionata delle responsabilità del partito radicale, una severa autocritica, e insieme un richiamo energico alle tradizioni più combattive dell'azione cavallottiana" (Galante Garrone, p. 401). Convinto che le forze popolari erano state sconfitte perché si erano battute in ordine sparso, il F. auspicava l'incontro tra democrazia e socialismo e guardava con fiducia all'iniziativa politica di Giovanni Amendola. Il 30 maggio 1925 partecipò al convegno dei gruppi vicini all'Unione nazionale e fu chiamato a far parte del comitato che avrebbe dovuto preparare la costituzione di un unico partito rappresentativo delle forze democratiche liberali e radicali. Il 5 agosto di quell'anno scrisse, firmando con lo pseudonimo di "Tree Trader", un articolo di fondo sull'Avanti!, in cui si dichiarava favorevole agli investimenti americani in Italia.

L'insolita opinione ospitata dall'organo socialista fu all'origine di una dura polemica con il quotidiano comunista L'Unità. Intervenne anche Gramsci, che ebbe espressioni assai severe nei confronti del F., anticipatrici di quei giudizi contenuti nei Quaderni del carcere, dove il F. venne definito "avventuriero della politica e dell'economia" (p. 754) e ritenuto un personaggio "legato a piccoli interessi loschi" (p. 2153). Giudizi tanto pesanti non potevano non essere influenzati dalle più recenti scelte politiche del F. che, quando Gramsci scriveva i suoi appunti, aveva già aderito al fascismo, collaborava con diverse riviste teoriche e insegnava economia commerciale all'università di Ferrara, dove si era trasferito sotto l'ala protettrice di Italo Balbo.

Nel maggio 1932 a Ferrara il F. partecipò al convegno di studi corporativi essendone considerato uno dei massimi teorici. In particolare egli si riconosceva nel corporativismo integrale, di cui era assertore Ugo Spirito.

Le teorie del F., espresse in vari saggi e articoli, furono analizzate da Gramsci, che vi colse analogie con l'americanismo, nel senso di un tentativo comune di razionalizzazione e di modernizzazione del capitalismo.

L'affermazione di teorie eterodosse, l'ambiguità di un personaggio che era approdato al fascismo dopo aver attraversato quasi tutto l'arco delle posizioni politiche contribuirono a mantenergli intorno un clima di sospetto. Fino al 1930 il F. fu obbligato a recarsi periodicamente in questura per i controlli di polizia e rimase sempre nel novero dei "sovversivi" schedati dal ministero dell'Interno.

Morì a Ferrara il 22 genn. 1941.