Storiografia
Q5 §31 Sulla tradizione nazionale italiana. Cfr articolo di B. Barbadoro nel «Marzocco» del 26 settembre 1926: a proposito della Seconda lega lombarda e della sua esaltazione come «primo conato per la indipendenza della stirpe dalla straniera oppressione che prepara i fasti del Risorgimento», il Barbadoro metteva in guardia contro questa interpretazione e osservava che «la stessa fisionomia storica di Federico II è ben diversa da quella del Barbarossa, ed altra è la politica italiana del secondo Svevo: padrone di quel Mezzogiorno d’Italia, la cui storia era disgiunta da secoli da quella della restante penisola, parve in un certo momento che la restaurazione dell’autorità imperiale nel centro e nel settentrione portasse finalmente alla costituzione di una forte monarchia nazionale».
Nel «Marzocco» del 16 dicembre 1928 il Barbadoro, in una breve nota, ricorda questa sua affermazione a proposito di un ampio studio di Michelangelo Schipa pubblicato nell’Archivio storico per le province napoletane in cui lo spunto è ampiamente dimostrato.
Questa corrente di studi è molto interessante per comprendere la funzione storica dei Comuni e della prima borghesia italiana che fu disgregatrice dell’unità esistente, senza sapere o poter sostituire una nuova propria unità: il problema dell’unità territoriale, non fu neanche posto o sospettato e questa fioritura borghese non ebbe seguito: fu interrotta dalle invasioni straniere.
Q5 §42 La tradizione di Roma. Registrare le diverse reazioni (e il diverso carattere di queste) all’ideologia legata alla tradizione di Roma. Il futurismo fu in Italia una forma di questa reazione, in quanto contro la retorica tradizionale e accademica, e questa in Italia era strettamente legata alla tradizione di Roma (La terra dei morti del Giusti: «noi eravamo grandi e là non eran nati»; «tutto che al mondo è civile, ‑ grande, augusto, egli è romano ancora» del Carducci, dipendenti dai Sepolcri di Foscolo, come momento «moderno» di questa retorica). Questa reazione ha vari aspetti, oltre che diversi caratteri. Tende, per esempio, a contestare che l’Italia moderna sia erede della tradizione romana (l’espressione del Lessing sui «vermi usciti dalla decomposizione della carogna romana») o a contestare l’importanza stessa di tale tradizione.
L’argomento sarebbe da studiare con spregiudicatezza: cosa rimane ancora oggi, di proprio e inconfondibile, della tradizione romana? Concretamente molto poco: l’attività più spiccata, moderna, è quella economica, sia teorica che pratica, e quella scientifica, e di esse nulla continua il mondo romano. Ma anche nel campo del diritto, in che rapporto esatto si trova il romanesimo con gli apporti del germanesimo e quelli più recenti anglosassoni e qual è l’area geografica in cui il diritto romano ha più diffusione? Sarebbe ancora da notare che nella forma in cui è diventato tradizionale, il diritto romano è stato elaborato a Costantinopoli, dopo la caduta di Roma. Quanto alla tradizione statale romana è vero che l’Italia, come tale (cioè nella figura che oggi ha assunto) non l’ha continuata (osservazione del Sorel), ecc.
Seguire le pubblicazioni di Ezio Levi sull’arabismo spagnolo e sulla sua importanza per la civiltà moderna.
Q5 §85 Sviluppo dello spirito borghese in Italia. Cfr l’articolo Nel centenario della morte di Albertino Mussato di Manlio Torquato Dazzi nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929. Secondo il Dazzi, il Mussato si stacca dalla tradizione della storia teologica per iniziare la storia moderna o umanistica più di qualsiasi altro del suo tempo (vedere i trattati di storia della storiografia, di B. Croce, del Lisio, del Fueter, del Balzani ecc.); appaiono le passioni e i motivi utilitari degli uomini come motivi della storia. A questa trasformazione della concezione del mondo hanno contribuito le lotte feroci delle fazioni comunali e dei primi signorotti. Le sviluppo può essere seguito fino al Machiavelli, al Guicciardini, a L. B. Alberti. La Controriforma soffoca lo sviluppo intellettuale.
Mi pare che in questo sviluppo si potrebbero distinguere due correnti principali. Una ha il suo coronamento letterario nell’Alberti: essa rivolge l’attenzione a ciò che è «particulare», al borghese come individuo che si sviluppa nella società civile e che non concepisce società politica oltre l’ambito del suo «particulare»; è legato al guelfismo, che si potrebbe chiamare un sindacalismo teorico medioevale. È federalista senza centro federale. Per le quistioni intellettuali si affida alla Chiesa, che è il centro federale di fatto per la sua egemonia intellettuale e anche politica.
L’altra corrente ha il coronamento in Machiavelli e nell’impostazione del problema della Chiesa come problema nazionale negativo. A questa corrente appartiene Dante, che è avversario dell’anarchia comunale e feudale ma ne cerca una soluzione semimedioevale; in ogni caso pone il problema della Chiesa come problema internazionale e rileva la necessità di limitarne il potere e l’attività. Questa corrente è ghibellina in senso largo. Dante è veramente una transizione: c’è affermazione di laicismo ma ancora col linguaggio medioevale.
Eventi e Personaggi storici
Q5 §44 T. Tittoni, Ricordi personali di politica interna, Nuova Antologia, 1° aprile ‑ 16 aprile 1929. Il Tittoni ha scritto queste sue memorie subito dopo la Conciliazione, per dimostrare come questo evento abbia corrisposto a tutta l’attività politica della sua carriera di liberale moderato ossia di conservatore clericale. L’interesse dei Ricordi è tutto qui, si può dire: nel cercare di ricostruire la storia italiana dal 70 ad oggi come una lotta tra conservatori clericali e democrazia o demagogia, per il ripristino dell’influsso clericale nella vita del paese, ponendo pertanto in luce l’attività della corrente conservatrice in quanto rappresentata da Tittoni.
Storia antica
Q5 §138 Il culto degli Imperatori. Nella «Civiltà Cattolica» del 17 agosto e del 21 settembre 1929 è pubblicato un articolo del padre gesuita G. Messina L’apoteosi dell’uomo vivente e il Cristianesimo. Nella prima puntata il Messina esamina l’origine del culto dell’Imperatore fino ad Alessandro il Macedone; nella seconda puntata l’introduzione a Roma del culto imperiale e la resistenza dei primi cristiani fino all’editto di Costantino.
Sarebbe interessante vedere se è stato tentato di trovare un nesso tra il culto dell’Imperatore e la posizione del Papa come vicario di Dio in terra; certo è che al Papa si tributano onoranze divine e lo si chiama «padre comune» come Dio.
Il Papato avrebbe fatto una mistione tra gli attributi del Pontefice Massimo e quelli dell’Imperatore divinizzato (attributi che per le popolazioni del primo periodo non dovevano essere sentiti come distinti per gli stessi imperatori). Così attraverso il Papato dovrebbe essere nato anche il diritto divino delle monarchie, riflesso del culto imperiale. La stessa necessità ha portato nel Giappone al culto del Mikado, diventato poi solennità civile e non più religiosa.
Si sarebbe verificato nel Cristianesimo ciò che si verifica nei periodi di Restaurazione in confronto ai periodi rivoluzionari: l’accettazione mitigata e camuffata dei principi contro cui si era lottato.
Medio Evo
Q5 §68 Mons. Francesco Lanzoni, Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (anno 604), Studio critico, Faenza, Stab. Graf. F. Lega, 1927, «Studi e Testi», n. 35, pp. XVI‑1122, L. 125 (in appendice un Excursus sui Santi africani venerati in Italia). Opera fondamentale per lo studio sulla vita storica locale in Italia in questi secoli: risponde alla domanda: come vennero formandosi i raggruppamenti culturali religiosi durante il tramonto dell’Impero romano e l’inizio del Medio Evo. Evidentemente questo raggrupparsi non può essere separato dalla vita economica e sociale e dà indicazioni per la storia del nascere dei Comuni.
Per l’origine delle città mercantili. Un’importante sede vescovile non poteva mancare di certi servizi ecc. (vettovagliamento, difesa militare ecc.) che determinavano un raggruppamento di elementi laici intorno a quelli religiosi (questa origine «religiosa» d’una serie di città medioevali, non è studiata dal Pirenne, almeno nel libretto da me posseduto; vedere nella bibliografia delle sue opere complete): la stessa scelta della sede vescovile è un’indicazione di valore storico, perché sottintende una funzione organizzativa e centralizzatrice del luogo scelto. Dal libro del Lanzoni sarà possibile ricostruire le quistioni più importanti di metodo nella critica di questa ricerca in parte di carattere deduttivo e la bibliografia.
Q5 §78 Monachesimo e regime feudale. Sviluppo pratico della regola benedettina e del principio «ora et labora». Il «labora» era già sottomesso all’«ora», cioè evidentemente lo scopo principale era il servizio divino. Ecco che ai monaci‑contadini si sostituiscono i coloni, perché i monaci possano in ogni ora trovarsi nel convento per adempiere ai riti. I monaci nel convento cambiano di «lavoro»; lavoro industriale (artigiano) e lavoro intellettuale (che contiene una parte manuale, la copisteria). Il rapporto tra coloni e convento è quello feudale, a concessioni livellarie, ed è legato oltre all’elaborazione interna che avviene nel lavoro dei monaci, anche all’ingrandirsi della proprietà fondiaria del monastero.
Altro sviluppo è dato dal sacerdozio: i monaci servono come sacerdoti il territorio circonvicino e la loro specializzazione aumenta: sacerdoti, intellettuali di concetto, copisti, operai industriali‑artigiani. Il convento è la «corte» di un territorio feudale, difeso più che dalle armi, dal rispetto religioso ecc. Esso riproduce e sviluppa il regime della «villa» romana patrizia.
Per il regime interno del Monastero fu sviluppato e interpretato un principio della Regola, ove è detto che nella elezione dell’abate debba prevalere il voto di coloro che si stimano più savi e prudenti e che del consiglio di costoro debba l’abate munirsi quando debba decidere affari gravi, non tali tuttavia che convenga consultare l’intera congregazione; vennero così distinguendosi i monaci sacerdoti, che si dedicavano agli uffici corrispondenti al fine dell’istituzione, dagli altri che continuavano ad attendere ai servizi della casa.
Umanesimo e Rinascimento
Q5 §55 La Romagna e la sua funzione nella storia italiana. Cfr l’articolo di Luigi Cavina, Fiorentini e Veneziani in Romagna, nella Nuova Antologia del 16 giugno 1929. Tratta la quistione specialmente nel periodo immediatamente precedente alla lega di Cambrai contro i Veneziani, dopo la morte di Alessandro VI Borgia e la malattia del Valentino.
La Romagna era elemento essenziale dell’equilibrio interno italiano, specialmente dell’equilibrio tra Venezia e Firenze e tra Venezia e il Papa: tanto Firenze che il Papa non potevano sopportare un’egemonia veneziana sulla Romagna. (Machiavelli e il Valentino, durante la campagna di questi per la conquista della Romagna: Machiavelli e il Valentino dopo la morte di Alessandro VI, durante il Conclave e nei primi tempi di Giulio II: al Valentino era venuta a mancare la base statale: tutta la sua figura politica e anche la «capacità» politico‑militare crolla; egli è diventato un comune «capitano di ventura» e, ancora, in cattive acque).
È certo che se la Chiesa avesse avuto come principato terreno tutta la penisola, l’indipendenza degli Stati europei avrebbe corso serio pericolo: il potere spirituale può essere rispettato finché non rappresenta una egemonia politica e tutto il Medio Evo è pieno delle lotte contro il potere politico del Papa.
È vero dunque che negli italiani la tradizione dell’universalità romana e medioevale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le «forze» nazionali non divennero «forza» nazionale che dopo la Rivoluzione francese e la nuova posizione che il papato ebbe ad occupare in Europa, posizione irrimediabilmente subordinata, perché limitata e contesa nel campo spirituale dal laicismo trionfante. Tuttavia questi elementi internazionali «passivamente» prementi sulla vita italiana continuarono a operare fino al 1914 e anche (sempre meno forti) fino alla Conciliazione del febbraio 1929 e continuano anche oggi in una certa misura, determinando i rapporti esterni tra Stato italiano e Pontefice, costringendo a un certo linguaggio ecc.
Q5 §123 Rinascimento. Articolo di Vittorio Rossi, Il Rinascimento, nella Nuova Antologia del 16 novembre 1929. Molto interessante e comprensivo nella sua brevità. Per il Rossi, giustamente, il rifiorire degli studi intorno alle letterature classiche fu un fatto di formazione secondaria, un indizio, un sintomo e non il più appariscente della profonda essenza dell’età cui spetta il nome di Rinascimento. «Il fatto centrale e fondamentale, quello onde ogni altro germoglia, fu la nascita e la maturazione d’un nuovo mondo spirituale che dall’energica e coerente virtù creativa sprigionatasi dopo il Mille in ogni campo dell’umana attività, fu portato allora sulla scena della storia non pure italiana, ma europea».
Dopo il Mille s’inizia la reazione contro il regime feudale «che improntava di sé tutta la vita» (con l’aristocrazia fondiaria e il chiericato): nei due o tre secoli seguenti si trasforma profondamente l’assetto economico, politico e culturale della società: si rinvigorisce l’agricoltura, si ravvivano, estendono ed organizzano le industrie e i commerci; sorge la borghesia, nuova classe dirigente (questo punto è da precisare e il Rossi non lo precisa) fervida di passione politica (dove, in tutta Europa, o solamente in Italia e nelle Fiandre?) e stretta in corporazioni finanziarie potenti; si costituisce con crescente spirito di autonomia lo Stato comunale.
Il Rossi non sa liberarsi dalla concezione retorica del Rinascimento e perciò non sa valutare il fatto che esistevano due correnti: una progressiva e una regressiva e che quest’ultima trionfò in ultima analisi, dopo che il fenomeno generale raggiunse il suo massimo splendore nel Cinquecento (non come fatto nazionale e politico, però, come fatto culturale prevalentemente se non esclusivamente), come fenomeno di una aristocrazia staccata dal popolo‑nazione, mentre nel popolo si preparava la reazione a questo splendido parassitismo nella riforma protestante, nel Savonarolismo coi suoi «bruciamenti delle vanità», nel banditismo popolare come quello di re Marcone in Calabria e in altri movimenti che sarebbe interessante registrare e analizzare almeno come sintomi indiretti: lo stesso pensiero politico del Machiavelli è una reazione al Rinascimento, è il richiamo alla necessità politica e nazionale di riavvicinarsi al popolo come hanno fatto le monarchie assolute di Francia e di Spagna, come è un sintomo la popolarità del Valentino in Romagna, in quanto deprime i signorotti e i condottieri ecc.
Secondo il Rossi «la coscienza della separazione ideale prodottasi nei secoli fra l’antichità e l’epoca nuova» è già virtualmente nello spirito di Dante, ma appare attuale e s’impersona, nell’ordine politico, in Cola di Rienzo, che «erede del pensiero di Dante, vuole rivendicare la romanità e quindi l’italianità (perché “quindi”?, Cola di Rienzo pensava proprio solo al popolo di Roma, materialmente inteso) dell’Impero e col vincolo sacro della romanità stringere in unità di nazione tutte le genti italiane; quanto alla cultura popolare, nel Petrarca, che saluta Cola “nostro Camillo, nostro Bruto, nostro Romolo” e con istudio paziente rievoca l’antico, mentre con anima di poeta lo risente e rivive». (Continua il romanzo storico: quale fu il risultato degli sforzi di Cola di Rienzo? nulla assoluto; e come si può far la storia con le velleità sterili e i pii desideri? E i Camilli, i Bruti, i Romoli messi insieme dal Petrarca non sentono la pura retorica?)
«Umanesimo non è latinismo; è affermazione di umanità piena, e l’umanità degli umanisti italiani era, nella sua storicità, italiana; talché esprimersi non poteva se non nel volgare che anche gli umanisti parlavano nella pratica della vita e che, malgrado ogni proposito classicheggiante, forzava baldanzosamente i cancelli del loro latino. Potevano essi, astraendosi dalla vita, sognare il loro sogno, e fermi nell’idea che letteratura degna di questo nome non potesse darsi se non in latino, ripudiare la nuova lingua; altra era la realtà storica, della quale essi stessi e quel loro spirito sognante erano figli e nella quale vivevano la loro vita di uomini nati quasi un millennio e mezzo dopo il grande oratore romano». Che significa tutto ciò? Perché questa distinzione tra latino‑sogno e volgare ‑ realtà storica? E perché il latino non era una realtà storica? Il Rossi non sa spiegare questo bilinguismo degli intellettuali, cioè non vuol ammettere che il volgare, per gli umanisti, era come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale e che pertanto gli umanisti erano i continuatori dell’universalismo medioevale – in altre forme, si capisce – e non un elemento nazionale – erano una «Casta cosmopolita», per i quali l’Italia rappresentava forse ciò che è la regione nella cornice nazionale moderna, ma nulla di più e di meglio: essi erano apolitici e anazionali.
«C’era nel classicismo umanistico, non più un fine di moralità religiosa, bensì un fine di educazione integrale dell’anima umana; c’era soprattutto la riabilitazione dello spirito umano, come creatore della vita e della storia», ecc., ecc. Giustissimo: questo è l’aspetto più interessante dell’umanesimo. Ma è esso in contraddizione con ciò che ho detto prima sullo spirito anazionale e quindi regressivo – per l’Italia – dell’umanesimo stesso? Non mi pare. L’umanesimo infatti non sviluppò in Italia questo suo contenuto più originale e pieno d’avvenire. Esso ebbe il carattere di una restaurazione, ma come ogni restaurazione assimilò e svolse, meglio della classe rivoluzionaria che aveva soffocato politicamente, i principi ideologici della classe vinta che non aveva saputo uscire dai limiti corporativi e crearsi tutte le superstrutture di una società integrale. Solo che questa elaborazione fu «campata in aria», rimase patrimonio di una casta intellettuale, non ebbe contatti col popolo‑nazione. E quando in Italia il movimento reazionario, di cui l’umanesimo era stato una premessa necessaria, si sviluppò nella Controriforma, la nuova ideologia fu soffocata anch’essa e gli umanisti (salvo poche eccezioni) dinanzi ai roghi abiurarono (cfr il capitolo su Erasmo pubblicato dalla «Nuova Italia» dal libro del De Ruggiero, Rinascimento, riforma e controriforma).
Il contenuto ideologico del Rinascimento si svolse fuori d’Italia, in Germania e in Francia, in forme politiche e filosofiche: ma lo Stato moderno e la filosofia moderna furono in Italia importati perché i nostri intellettuali erano anazionali e cosmopoliti come nel Medio Evo, in forme diverse, ma negli stessi rapporti generali.
Nell’articolo del Rossi vi sono altri elementi, interessanti, ma essi sono di carattere particolare. Bisognerà studiare il libro del Rossi sul Quattrocento (coll. Vallardi), il libro del Toffanin, Cosa fu l’umanesimo (ediz. Sansoni), il libro del De Ruggiero su citato, oltre le opere classiche sul Rinascimento pubblicate da scrittori stranieri (Burkhardt, Voigt, Symonds, ecc.)
Q5 §160 Rinascimento. È molto importante il libro di Giuseppe Toffanin, Che cosa fu l’umanesimo. Il Risorgimento dell’antichità classica nella coscienza degli italiani fra i tempi di Dante e la Riforma, Firenze, Sansoni (Biblioteca storica del Rinascimento). Il Toffanin coglie fino ad un certo punto il carattere reazionario e medioevale dell’umanismo: «Quel particolare stato d’animo e di cultura a cui in Italia, fra il tre e il cinquecento, si dà nome di umanesimo, fu una riscossa e rappresentò, per almeno due secoli, una barriera contro certa inquietudine eterodossa e romantica che era in germe prima nell’età comunale e prese poi il sopravvento nelle riforme. Esso fu spontanea conciliazione di discordanti elementi ideali, e accettazione di limiti antifilosofica per eccellenza: ma cotesta antifilosoficità, una volta pensata e accettata, è anch’essa una filosofia». Cfr l’articolo di Vittorio Rossi già analizzato, che in parte accetta la tesi del Toffanin, ma per combatterla meglio. Mi pare appunto che la quistione di ciò che fu l’umanesimo non può essere risolta che in un quadro più comprensivo della storia degli intellettuali italiani e della loro funzione in Europa. Il Toffanin ha scritto anche un libro sulla Fine dell’Umanesimo e il volume sul Cinquecento nella Collezione Vallardi.
Rivoluzione francese, Restaurazione
Q5 §79 A. G. Bianchi, I clubs rossi durante l’assedio di Parigi, «Nuova Antologia», 1° luglio 1929. Riassume un opuscolo, pubblicato nel 1871, di M. G. Molinari, Les clubs rouges pendant le siège de Paris. È una raccolta di cronache pubblicate prima nel «Journal des Débats» sulle riunioni dei clubs durante l’assedio (forse si tratta dello stesso De Molinari, il noto scrittore liberista e direttore dei «Débats»; ma il Bianchi scrive che è «un modesto ma diligente giornalista»). L’opuscolo è interessante perché registra tutte le proposte strampalate che venivano fatte dai frequentatori di questi circoli popolari. Perciò sarebbe interessante leggerlo e trarne materiale per sostenere la necessità dell’ordine intellettuale e della «sobrietà» morale nel popolo. Può servire anche per studiare come fino al 70 Parigi sia rimasta sotto l’incanto delle forme politiche create dalla Rivoluzione del 1789, di cui i clubs furono la manifestazione più appariscente ecc. (Non potendo leggere l’opuscolo originale del Molinari, si può ricorrere a questo articolo del Bianchi).
Q5 §80 Sorel e i giacobini. Nell’articolo riferito nella nota precedente è riportato questo giudizio di Proudhon sui giacobini: Il giacobinismo è «l’applicazione dell’assolutismo di diritto divino alla sovranità popolare». «Il giacobinismo si preoccupa poco del diritto: procede volentieri per mezzi violenti, esecuzioni sommarie. La rivoluzione per esso sono i colpi di folgore, le razzie, le requisizioni, il prestito forzato, l’epurazione, il terrore. Diffidente, ostile alle idee, si rifugia nell’ipocrisia e nel machiavellismo: i giacobini sono i gesuiti della rivoluzione». Queste definizioni sono estratte dal libro: La justice dans la révolution. L’atteggiamento di Sorel contro i giacobini è preso da Proudhon.
Risorgimento, fine Ottocento
Q5 §65 Risorgimento. Il nodo storico 1848‑49. L’ultimo paragrafo di un lungo articolo della «Civiltà Cattolica» (2 marzo ‑ 16 marzo 1929), Il P. Saverio Bettinelli e l’abbate Vincenzo Gioberti, può essere interessante come spunto. Sempre in polemica col Gioberti, la «Civiltà Cattolica», ancora una volta, dice di voler smentire l’affermazione che i gesuiti del secolo XIX siano stati avversari dell’Italia e anzi cospiranti coll’Austria. Secondo la «Civiltà Cattolica»: «Cominciando da Pio IX fino al più semplice prete di contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare ... che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori di ogni dubbio, chi non voglia negare la luce meridiana, non si oppose all’unità ma la voleva in modo diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia de’cardinali, e dello stesso antico partito conservatore piemontese, capitanato dal conte Solaro della Margarita».
Q5 §109 Sicilia. Cfr Romeo Vuoli, Il generale Giacinto Carini, Nuova Antologia, 1° novembre ‑ 16 novembre 1929:
Q5 §12 Il Risorgimento. Solaro della Margarita. Il Memorandum del Solaro della Margarita va integrato con l’articolo Visita del Solaro della Margarita a Pio IX nel 1846 con documenti inediti (tratti dagli Archivi Vaticani e dall’Archivio Solaro) nella «Civiltà Cattolica» del 15 settembre 1928. La conoscenza della personalità politica di Solaro della Margarita è indispensabile per ricostruire il «nodo storico 48‑49». Bisogna porre bene la quistione: Solaro della Margarita era un reazionario piemontese, fortemente legato alla dinastia: l’accusa di «austriacante» è puramente arbitraria, nel senso volgare della parola. Solaro avrebbe voluto l’egemonia piemontese in Italia e la cacciata degli Austriaci dall’Italia, ma solo con mezzi diplomatici normali, senza guerra e specialmente senza rivoluzione popolare. Contro i liberali voleva l’alleanza con l’Austria, si capisce. L’articolo della «Civiltà Cattolica» serve anche per giudicare la politica di Pio IX fino al 48. In questo articolo c’è qualche indicazione bibliografica sul Solaro.
(Bisogna ricordare il fatto che il governo piemontese dette armi ai cattolici del Sonderbund insorto, svuotando i magazzini militari, nonostante che si preparasse il 48. Solaro voleva che il Piemonte estendesse la sua influenza in Isvizzera, cioè voleva spostare l’asse della politica italiana).
Q5 §77 Il passaggio di Garibaldi in Calabria nel 1860. Ricordare la quistione sull’atteggiamento di Vittorio Emanuele in questo momento e il biglietto riservato che avrebbe mandato a Garibaldi. Il Ferraris, nella Nuova Antologia del 1° gennaio 1912 ha scritto un articolo Vittorio Emanuele e Garibaldi ed il passaggio del Faro nel 1860. Da documenti storici.
Q5 §35 Risorgimento. Il trasporto della capitale da Torino a Firenze e le stragi di settembre. Cfr il volume Confidenze di Massimo d’Azeglio a cura di Marcus de Rubris (Mondadori, Milano, 1930): si tratta del carteggio di Massimo d’Azeglio con Teresa Targioni Tozzetti. Il carattere del d’Azeglio vi appare in rilievo, coi suoi livori, il suo scetticismo, il suo piemontesismo. Alcune osservazioni che fa sui fatti del settembre sono però utili e interessanti.
Q5 §88 Sul Risorgimento italiano. Michele Amari e il sicilianismo. Confrontare l’articolo su Michele Amari di Francesco Brandileone nella Nuova Antologia del 1° agosto 1929 che è poi una lunga recensione polemica de Le più belle pagine di Michele Amari scelte da V. E. Orlando, con una prefazione molto interessante per capire l’origine anche dell’attuale «sicilianismo» di cui l’Orlando è un rappresentante (a due facce: una verso il continente velata dei sette veli dell’unitarismo e una verso la Sicilia, più franca: ricordare il discorso di Orlando a Palermo durante le elezioni amministrative del 1925 e il suo elogio indiretto della mafia, presentata nel suo aspetto sicilianista di ogni virtù e generosità popolana).
L’Amari nato nel 1806 a Palermo e cresciuto tra la costituzione del 1812 e la rivoluzione del 1820 quando la costituzione fu abolita, come tanti altri siciliani del suo tempo era persuaso che il bene dell’isola fosse da ricercare nel ristabilimento della Costituzione, ma soprattutto nell’autonomia e nel distacco da Napoli.
«L’aspirazione a costituire uno Stato a sé fu il sentimento dominante fra gli isolani almeno fino al 1848», scrive il Brandileone. L’Amari, come scrisse egli stesso (cfr Alessandro D’Ancona, Carteggio di M. Amari raccolto e pubblicato coll’elogio di lui letto nell’Accademia della Crusca, Torino, 1896‑97, in 3 volumi; cfr vol. II, p. 371) si sentiva italiano (di cultura) ma la vita nazionale italiana gli pareva un bel sogno e nulla più. Volle raccontare gli avvenimenti del 1812‑20 per preparare gli animi a una nuova rivoluzione, ma la ricerca dei nessi storici lo spinse a risalire nel passato della storia costituzionale siciliana e così si fissò sulla costituzione avuta dopo i Vespri, che gli parve «la forma più netta» la più tipica. Ma la ricerca del passato lo portò ancor più in là, fino alla fase musulmana della storia di Sicilia.
L’Orlando, nella sua scelta, ha disposto i brani in ordine cronologico, in modo da dare un racconto abbreviato ma ininterrotto degli avvenimenti siciliani dei cinque secoli, dall’827, inizio della conquista araba, al 1302, pace di Caltabellotta. Nella prefazione (a p. 23) l’Orlando afferma che quei cinque secoli «sembrano costituire un monolitico periodo, durante il quale la storia ha bagliori di epopea» e che essi non sono da riguardare come storia particolare, o locale che dir si voglia, ma come storia universale, perché «se universale è la storia che all’umanità si riferisce come un tutto ideale, sebbene abbia il suo centro vitale solo in un determinato punto dello spazio, come Atene, Roma, Gerusalemme, ecc., non si può negare che in quei cinque secoli la Sicilia fu un nodo centrale, in cui si incontrarono, si urtarono, si elisero e si ricomposero le forze dominatrici del tempo».
Per il Brandileone l’Orlando si lascia «guidare un po’ troppo dalla carità del natio loco» (è il modo solito di attutire e interpretare canonicamente i sentimenti politici centrifughi).
Q5 §135 Risorgimento italiano. Lamennais. Il Lamennais dovrà essere studiato per l’influsso che le sue idee ebbero su alcune correnti culturali del Risorgimento, specialmente per orientare una parte del clero verso le idee liberali e anche come elemento ideologico dei movimenti democratico‑sociali prima del 48. Per la lotta del Lamennais contro i gesuiti, cfr l’articolo Il padre Roothaan e il La Mennais nella «Civiltà Cattolica» del 3 agosto 1929. Il padre Roothaan divenne generale della Compagnia di Gesù verso la fine degli anni 20 e morì, mi pare, nel 1853; è quindi il generale che presiedette all’azione dei gesuiti prima e dopo il 48. Si potranno vedere nella «Civiltà Cattolica» altri articoli sul Lamennais e sul padre Roothaan.
Q5 §43 L’episodio dell’arresto dei fratelli La Gala nel 1863. Nell’articolo Ricordi personali di politica interna («Nuova Antologia», 1° aprile 1929) Tommaso Tittoni dà alcuni particolari inediti sull’arresto dei La Gala a Genova.
Primo Novecento
Q5 §146 Direzione politico‑militare della guerra del 1914. In alcuni paesi la formazione delle truppe scelte d’assalto è stata catastrofica, a quanto pare: si è mandato alla distruzione la parte combattiva dell’esercito, invece di tenerla come elemento «strutturale» del morale della massa dei soldati. Secondo il generale Krasnov (nel suo famigerato romanzo) questo appunto era successo in Russia già nel 1915. Questa osservazione può valere come correttivo critico delle recenti opinioni espresse dal generale tedesco von Seeckt sulle armate specializzate di mestiere, che sarebbero buone specialmente per l’offensiva.
Q5 §87 Direzione politico‑militare della guerra 1914-1918. Confronta l’articolo di Mario Caracciolo (colonnello) Il comando unico e il comando italiano nel 1918 nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Molto interessante e indispensabile per compilare definitivamente questa rubrica. Il Caracciolo è scrittore militare molto serio e che difficilmente si lascia trasportare dalla retorica. Ha scritto un volume nella Collezione Gatti presso Mondadori, Le truppe italiane in Francia.
Per ora mi interessa un particolare (che potrebbe apparire nella rubrica «Passato e presente»), legato alla ripetuta affermazione del Caracciolo della insufficienza dell’apparato industriale italiano: verso il gennaio‑febbraio 1918 (cfr il volume del Caracciolo citato per stabilire esattamente il fatto) l’Italia mandò in Francia 60 000 uomini, lavoratori ausiliari, «che avevamo disponibili perché la nostra industria ancora non aveva potuto darci tutte le armi necessarie per armarli». Questo elemento può dar luogo ad alcune conseguenze: 1) Come sia politicamente erroneo chiamare «imboscati» gli addetti all’industria in tempo di guerra. Erano essi necessari e indispensabili all’attività bellica? Erano tanto necessari che risulta esserci stati troppo pochi «imboscati», tanto da rendere inutilizzabili in Italia 60 000 uomini. Questa propaganda contro i pseudo‑imboscati ebbe conseguenze deplorevoli: già prima dell’armistizio furono mandati a Torino dei reparti d’assalto che incominciarono subito la caccia all’«imboscato»; all’uscita dalle officine gli uomini dal bracciale di esonero, e poi nelle vie centrali, erano aggrediti, bastonati e spesso sfregiati in faccia; gli avvenimenti alla spicciolata culminarono nella notte di capodanno 1919 coi fatti di palazzo Siccardi. La censura non permise di fare neanche un cenno a questi avvenimenti.
2) La contrapposizione di combattenti e di esonerati e imboscati da fatto privato diventò fatto di diritto pubblico e ciò è l’aspetto più grave della quistione, perché lasciò formarsi l’opinione che gli esonerati fossero dei veri «imboscati», non elementi indispensabili per l’attività bellica anche se non combattenti, con sanzione ufficiale.
Q5 §98 Storia del dopoguerra. Vedi l’articolo di Giovanni Marietti, Il trattato di Versailles e la sua esecuzione, nei fascicoli del 16 settembre e 16 ottobre 1929 della Nuova Antologia. È un riassunto diligente dei principali avvenimenti legati all’esecuzione del trattato di Versailles, una trama schematica che può essere utile come inizio di una ricostruzione analitica o per fissare le concordanze internazionali agli avvenimenti interni dei vari paesi.
Q5 §99 Armamento della Germania al momento dell’armistizio.
Politica internazionale
Q5 §73 Direzione politico‑militare della guerra. Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una piccola nota a firma G. S. (o non era forse C. S., cioè Cesare Spellanzon? Sarebbe grossa!) Beneš l’immemore, abbastanza curiosa perché si afferma che la «politica delle nazionalità» fu voluta dai nostri più avveduti uomini politici, caldeggiata con pronto intuito dai maggiori giornali dell’interventismo, adottata spontaneamente dal governo italiano. È vero che G. S. scrive che questa politica si precisava sin d’allora «nei suoi veri termini», cioè favorevole specialmente all’Italia, ma non è neppure vero in questo senso ristretto, perché la politica delle nazionalità si «impose» solo dopo l’ottobre 1917. Ora G. S. si lamenta che Beneš nei suoi Souvenirs de guerre et de révolution (Ernest Leroux, Parigi) attenui i ricordi dell’amicizia «bellica» e giunga alla conclusione che tutti i guai dell’Italia durante e dopo la guerra siano da attribuirsi alla mancanza di chiarezza e di decisione della politica di guerra del paese.
Q5 §89 Gabriele Gabbrielli, India ribelle, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929.
Quattro milioni e seicento settantacinque mila Km2, 319 milioni di abitanti, 247 milioni di abitanti nelle quindici enormi province amministrate direttamente dal governo inglese, che occupano la metà del territorio; l’altra metà è ripartita fra circa 700 Stati tributari. Cinque religioni principali, un’infinità di sette, 150 fra lingue e dialetti; caste; analfabetismo dominante; 80% della popolazione contadini; schiavitù della donna, pauperismo, carestie endemiche. Durante la guerra 985 000 indiani mobilitati.
Rapporti tra Gandhi e Tolstoi nel periodo 1908-1910 (cfr Romain Rolland, Tolstoi e Gandhi, nella rivista «Europe», 1928, nel numero unico tolstoiano). Tutto l’articolo è interessante in mancanza di altre informazioni.
Q5 §107 Italia e Palestina. Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1929 l’articolo La riforma del mandato sulla Palestina, di Romolo Tritonj. Vi si espone il programma minimo italiano, cioè l’internazionalizzazione della Palestina, secondo il progetto concordato durante la guerra fra le potenze dell’Intesa e abbandonato da Francia e Inghilterra dopo la caduta dello zarismo in Russia, lasciando l’Italia in asso, poiché la Francia ebbe la Siria e l’Inghilterra la Palestina stessa.
L’articolo è moderato in generale, ma accanito contro il sionismo. Si dovrà rivedere per ricostruire la politica italiana in Oriente (nel prossimo Oriente).
Diplomazia
Q5 §92 Diplomazia italiana. A proposito dell’incidente del Carthage e del Manouba tra Italia e Francia occorre confrontare la versione che sull’origine dei fatti dà Alberto Lumbroso nel secondo volume della sua opera‑zibaldone sulle Origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale (Collezione Gatti, ed. Mondadori) col paragrafo di Tittoni (Veracissimus!) dedicato all’incidente stesso nell’articolo I documenti diplomatici francesi (1911‑1912), pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 e forse ristampato in volume (nelle edizioni Treves dei libri di Tittoni).
L’esposizione del Tittoni è evidentemente non chiara e reticente: ora egli era appunto l’ambasciatore italiano a Parigi al quale, secondo il Lumbroso, Poincaré si era rivolto assicurandolo che il Carthage e il Manouba non contenevano contrabbando di guerra e pregandolo di telegrafare a Roma perché i due battelli non fossero fermati. È strano come il Tittoni, che è così sensibile per tutto ciò che riguarda la sua carriera, non accenni al Lumbroso o per smentirlo o per sminuire l’effetto della sua versione. Bisogna però ricordare che il Tittoni pare abbia in disdegno le abborracciature del Lumbroso, e questi gli rimprovera di non tener conto dei documenti tedeschi sulla guerra e quindi di essere perciò tedescofobo (per ciò che riguarda le responsabilità dello scatenamento del conflitto).
Q5 §8 L’America e il Mediterraneo. Libro del professor G. Frisella Vella, Il tragico fra l’America e l’Oriente attraverso il Mediterraneo, Sandron, Palermo, 1928, pp. XV‑215, L. 15. Il punto di partenza del Frisella Vella è quello «siciliano». Poiché l’Asia è il terreno più acconcio per l’espansione economica americana e l’America comunica con l’Asia attraverso il Pacifico e attraverso il Mediterraneo, l’Europa non deve opporre resistenze a che il Mediterraneo diventi una grande arteria del commercio America‑Asia. La Sicilia ritrarrebbe grandi benefici da questo traffico, diventando intermediaria del commercio americano‑ asiatico ecc.
Il Frisella Vella è persuaso della fatale egemonia mondiale dell’America ecc.
Q5 §60 La schiavitù del lavoro indigeno (di A. Brucculeri) nella «Civiltà Cattolica» del 2 febbraio 1929. Riassume le quistioni che si riferiscono allo stato di schiavitù ancora esistente in parecchi paesi (Abissinia, Nepal, Tibet, Heggiaz, ecc.): alla condizione schiavile delle donne nei paesi a poligamia; al lavoro forzato cui sono sottoposti gli indigeni in molte colonie (per es. nell’Africa centrale francese); alle forme di schiavitù o servitù della gleba determinate in molti paesi dai debiti e dall’usura (in America il peonaggio; America centrale e meridionale; in India). (Questo fatto avveniva, e forse avverrà ancora, anche per gli emigranti italiani nell’America Meridionale: per avere il viaggio pagato, di poche centinaia di lire, l’emigrato lavora gratis per un certo tempo). Nei casi di usura premeditata, il debito non si estingue mai e la servitù si tramanda anche di generazione in generazione. Lavoro dei bambini e delle donne nelle fabbriche cinesi. Nell’articolo c’è una certa bibliografia specialmente per la schiavitù.
Q5 §86 Inghilterra. La bilancia commerciale inglese già da circa 50 anni prima della guerra andava modificando la sua struttura interna. La parte costituita dalle esportazioni di merci perdeva relativamente e l’equilibrio si fondava sempre più sulle così dette esportazioni invisibili, cioè gli interessi dei capitali collocati all’estero, i noli della marina mercantile e gli utili realizzati da Londra come centro finanziario internazionale. Dopo la guerra, per la concorrenza degli altri paesi, l’importanza delle esportazioni invisibili è ancora aumentata. Da ciò la cura dei cancellieri dello Scacchiere e della Banca d’Inghilterra di riportare la sterlina alla parità dell’oro e quindi reintegrarla nella sua posizione di moneta internazionale. Questo fine fu raggiunto, ma ha determinato il rincaro del prezzo di costo della produzione industriale, che ha perduto terreno nei mercati stranieri.
Ma è stata questa la causa (almeno l’elemento più importante) della crisi industriale inglese? In che misura il governo sacrificò gli interessi degli industriali a quelli dei finanziari, portatori di prestiti all’estero e organizzatori del mercato finanziario mondiale londinese?
Intanto: il ristabilimento del valore della sterlina può aver anticipato la crisi, non averla determinata, poiché tutti i paesi, anche quelli rimasti per qualche tempo a moneta fluttuante e che l’hanno consolidata a un valore più basso dell’originario, hanno subito e subiscono la crisi: si potrebbe dire che avere anticipato la crisi in Inghilterra avrebbe dovuto indurre gli industriali a correre prima ai ripari e a rimettersi quindi prima degli altri paesi, ritrovando così l’egemonia mondiale.
D’altronde il ritorno immediato alla parità aurea ha evitato in Inghilterra le crisi sociali determinate dai passaggi di proprietà e dalla decadenza fulminea delle classi medie piccolo-borghesi: in un paese tradizionalista, conservatore, ossificato nella sua struttura sociale, come l’Inghilterra, quali risultati avrebbero avuto i fenomeni di inflazione, di oscillazione, di stabilizzazione in perdita della moneta? Certo molto più gravi che negli altri paesi.
In ogni modo bisognerebbe fissare con esattezza il rapporto tra l’esportazione di merci e le esportazioni invisibili, tra il fatto industriale e quello finanziario: ciò servirebbe a spiegare la relativa scarsa importanza politica degli operai e il carattere ambiguo del partito laburista e la scarsezza di stimoli alla sua differenziazione e al suo sviluppo.
Questioni di metodo
Q5 §28 Ideologia, psicologismo, positivismo. Studiare questo passaggio nelle correnti culturali dell’800: il sensismo + l’ambiente danno lo psicologismo: la dottrina dell’ambiente è offerta dal positivismo. Brandes, Taine nella letteratura ecc.
Filosofia antica e moderna
Q5 §53 Riforma e Rinascimento. Nicola Cusano. Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una nota di L. von Bertalanffy su Un Cardinale germanico (Nicolaus Cusanus) curiosa in se stessa e per la noterella che la redazione della «Nuova Antologia» le fa seguire. Il Bertalanffy espone sul Cusano l’opinione tedesco‑protestante, sinteticamente, senza apparato critico‑bibliografico; la Nuova Antologia fa osservare meschinamente che il Bertalanffy non ha parlato degli «studi numerosi e importanti che anche in Italia furono dedicati al Cusano in questi ultimi decenni» e ne dà una sfilza fino al Rotta. L’unico cenno di merito è nelle ultime linee: «Il Bertalanffy vede nel Cusano un precursore del pensiero liberale e scientifico moderno, il Rotta invece opina che il Vescovo di Bressanone “per quello che è lo spirito, se non la forma della sua speculazione, è tutto nell’orbita del pensiero medioevale”. La verità non è mai tutta da una parte». Cosa vuol dire?
È certo che il Cusano è un riformatore del pensiero medioevale e uno degli iniziatori del pensiero moderno; lo prova il fatto stesso che la Chiesa lo dimenticò e il suo pensiero fu studiato dai filosofi laici che vi avevano ritrovato uno dei precursori della filosofia classica moderna.
Importanza dell’azione pratica del Cusano per la storia della Riforma protestante. Al Concilio (di Costanza?) fu contro il papa per i diritti del Concilio. Si riconciliò col papa. Al Concilio di Basilea sostenne la riforma della Chiesa. Tentò di conciliare Roma con gli hussiti: di riunire Oriente e Occidente e persino pensò di preparare la conversione dei Turchi, rilevando il nucleo comune nel Corano e nell’Evangelo. Docta ignorantia e coincidentia oppositorum. Per primo concepì l’idea dell’infinito, precorrendo Giordano Bruno e gli astronomi moderni.
Si può dire che la Riforma luterana scoppiò perché fallì l’attività riformatrice del Cusano, cioè perché la Chiesa non seppe riformarsi dall’interno. Per la tolleranza religiosa, ecc. (Nato nel 1401 ‑ morto nel 1464).
Bergsonismo
Q5 §29 Oriente‑Occidente. In una conferenza, pubblicata nel volume L’énergie spirituelle (Parigi, 1920), Bergson cerca di risolvere il problema: che cosa sarebbe avvenuto se l’umanità avesse rivolto il proprio interesse e la propria indagine ai problemi della vita interiore anziché a quelli del mondo materiale. Il regno del mistero sarebbe stato la materia e non più lo spirito, egli dice.
Questa conferenza bisognerà leggerla. In realtà «umanità» significa Occidente, perché l’Oriente si è proprio fermato alla fase dell’indagine rivolta solo al mondo interiore. La quistione sarebbe questa, da porre in base allo studio della conferenza di Bergson: se non è proprio lo studio della materia – e cioè il grande sviluppo delle scienze intese come teoria e come applicazione industriale – che ha fatto nascere il punto di vista che lo spirito sia un «mistero», in quanto ha impresso al pensiero un ritmo accelerato di movimento, facendo pensare a ciò che potrà essere «l’avvenire dello spirito» (problema che non si pone quando la storia è stagnante) e facendo quindi vedere lo spirito come una entità misteriosa che si rivela un po’ capricciosamente ecc.
Scetticismo
Q5 §39 Scetticismo. L’obbiezione di senso comune che si può fare allo scetticismo è questa: che per essere coerente a se stesso, lo scettico non dovrebbe fare altro che vivere come un vegetale, senza intrigarsi negli affari della vita comune. Se lo scettico interviene nella discussione, significa che egli crede di poter convincere, cioè non è più scettico, ma rappresenta una determinata opinione positiva, che di solito è cattiva e può trionfare solo convincendo la comunità che le altre sono anche peggiori, in quanto sono inutili.
Lo scetticismo è collegato col materialismo volgare e col positivismo: è interessante un brano di Roberto Ardigò, in cui si dice che occorre lodare il Bergson per il suo volontarismo. Ma che significa ciò? Non è una confessione della impotenza della propria filosofia a spiegare il mondo, se occorre rivolgersi a un sistema opposto per trovare l’elemento necessario per la vita pratica? Questo punto di Ardigò (contenuto negli Scritti vari raccolti e ordinati da G. Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922) deve essere messo in rapporto con le tesi su Feuerbach di Marx e dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione filosofica del materialismo volgare
Storia
Q5 §145 Passato e presente. Cristianesimo primitivo e non primitivo. Nella «Civiltà Cattolica» del 21 dicembre 1929, articolo I novelli B.B. Martiri Inglesi difensori del primato romano. Durante le persecuzioni di Enrico VIII «il B. Fisher fu a capo della resistenza, sebbene poi il clero, nella sua maggioranza, mostrasse una colpevole e illegittima sottomissione, promettendo con un atto, che fu detto “resa del clero”, di far dipendere dal re l’approvazione di qualsiasi legge ecclesiastica» (15 maggio 1532).
Quando Enrico impose il «giuramento di fedeltà» e volle essere riconosciuto capo della Chiesa «purtroppo molti del clero, dinanzi alla minaccia della perdita dei beni e della vita, cedettero, almeno in apparenza, ma con grave scandalo dei fedeli».
Chiesa e Stato
Q5 §64 Chiesa e Stato in Italia prima della Conciliazione. È da rivedere a questo proposito l’articolo La Conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa (Cenni cronistorici) nella «Civiltà Cattolica» del 2 marzo 1929 (la rubrica continua nei fascicoli successivi ed è da rivedere), per alcuni accenni interessanti (– interessanti anche perché avere accennato a certi fatti indica che ad essi, quando avvennero, si dava una certa importanza –). Così si fa un cenno speciale alla «Settimana Sociale» di Venezia del 1912, presieduta dal Marchese Sassoli de Bianchi e alla «Settimana sociale» di Milano del 1913 che trattò delle «libertà civili dei cattolici»; perché proprio nel 1912 e 1913 i cattolici come organizzazione di massa trattarono della Quistione romana e ne determinarono i punti fondamentali da superare per la sua soluzione? Basta pensare alla guerra libica, e al fatto che in ogni periodo di guerra lo Stato ha bisogno della massima pace e unità morale e civile.
Q5 §70 Stato è Chiesa. La circolare ministeriale su cui insiste «Ignotus» nel suo libretto Stato fascista, Chiesa e Scuola (Libreria del Littorio, Roma, 1929), dicendo che «non viene da molti giudicata un monumento di prudenza politica, in quanto si esprimerebbe con eccessivo zelo, con quello zelo che Napoleone (vorrà dire Talleyrand) non voleva assolutamente, con uno zelo che potrebbe sembrare eccessivo se il documento anziché da un Ministero civile, fosse stato diramato dalla stessa amministrazione ecclesiastica» è firmata dal ministro Belluzzo e inviata il 28 marzo 1929 ai Provveditori (Circolare n. 54 pubblicata nel «Bollettino Ufficiale» del Ministero dell’Educazione Nazionale il 16 aprile 1929, riportata integralmente nella «Civiltà Cattolica» del 18 maggio successivo). Secondo «Ignotus» questa circolare avrebbe facilitato ai cattolici un’interpretazione estensiva dell’articolo 36 del Concordato. Ma è poi vero?
«Ignotus» scrive che l’Italia con l’art. 36 del Concordato non riconoscerebbe ma appena (!?) considererebbe «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della Dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Ma è logica questa restrizione di «Ignotus» e questa interpretazione cavillosa del verbo «considerare»? La quistione certo è grave e probabilmente i compilatori dei documenti non pensarono a tempo alla portata delle loro concessioni, quindi questo brusco arretramento. (È da pensare che il cambiamento di nome del Ministero, da «Istruzione pubblica» in «Educazione nazionale», sia legato a questa necessità di interpretazione restrittiva dell’articolo 36 del Concordato, volendo poter affermare che altro è «istruzione», momento «informativo», ancora elementare e preparatorio, e altro è «educazione», momento «formativo», coronamento del processo educativo, secondo la pedagogia del Gentile).
Le parole «fondamento e coronamento» del Concordato ripetono l’espressione del R. Decreto 1° ottobre 1923 n. 2185 sull’Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell’istruzione elementare: «A fondamento e coronamento della istruzione elementare in ogni suo grado è posto l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica». Il 21 marzo 1929 la «Tribuna» in un articolo, L’insegnamento religioso nelle scuole medie, ritenuto di carattere ufficioso, scrisse: «Lo Stato fascista ha disposto che la religione cattolica, base dell’unità intellettuale e morale del nostro popolo, fosse insegnata non soltanto nella scuola dei fanciulli, ma anche in quella dei giovani».
I cattolici, naturalmente, mettono in relazione tutto ciò col 1° articolo dello Statuto, riconfermato nel 1° articolo del Trattato con la Santa Sede interpretando che lo Stato, in quanto tale, professa la religione cattolica e non già solo che lo Stato, in quanto, nella sua attività, ha bisogno di cerimonie religiose, determina che esse devono essere «cattoliche». Confrontare sul punto di vista cattolico per la scuola pubblica l’articolo (del padre M. Barbera) Religione e filosofia nelle scuole medie, nella «Civiltà Cattolica» del 1° giugno 1929.
Q5 §71 Natura dei Concordati. Nella sua lettera al cardinal Gasparri del 30 maggio 1929, Pio XI scrive: «Anche nel Concordato sono in presenza, se non due Stati, certissimamente due sovranità pienamente tali, cioè pienamente perfette, ciascuna nel suo ordine, ordine necessariamente determinato dal rispettivo fine, dove è appena d’uopo soggiungere che la oggettiva dignità dei fini, determina non meno oggettivamente e necessariamente l’assoluta superiorità della Chiesa».
Questo è il terreno della Chiesa: avendo accettato due strumenti distinti nello stabilire i rapporti tra Stato e Chiesa, il Trattato e il Concordato, si è accettato questo terreno necessariamente: il Trattato determina questo rapporto tra due Stati, il Concordato determina i rapporti tra due sovranità nello «stesso Stato», cioè si ammette che nello stesso Stato ci sono due sovranità uguali, poiché trattano a parità di condizioni (ognuna nel suo ordine). Naturalmente anche la Chiesa sostiene che non c’è confusione di sovranità, ma perché sostiene che nello «spirituale» allo Stato non compete sovranità e se lo Stato se l’arroga, commette usurpazione. Anche la Chiesa sostiene inoltre che non ci può essere duplice sovranità nello stesso ordine di fini, ma appunto perché sostiene la distinzione dei fini e si dichiara unica sovrana nel terreno dello spirituale.
Q5 §129 Passato e presente. I cattolici e lo Stato. Confrontare l’articolo molto significativo Tra «ratifiche» e «rettifiche» (del padre Rosa) nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929, riguardante anche il plebiscito del 1929. Su questo articolo confrontare anche il fascicolo successivo della stessa «Civiltà Cattolica» (del 3 agosto). A proposito del Concordato è da rilevare che l’art. 1° dice testualmente: «L’Italia, ai sensi dell’art. 1 del Trattato, assicura alla Chiesa Cattolica il libero esercizio del potere spirituale, ecc.». Perché si parla di potere, che ha un preciso significato giuridico, e non, per esempio, di «attività» o altro termine meno facilmente interpretabile in senso politico? Sarebbe utile fare una ricerca, anche di nomenclatura, negli altri concordati stipulati dalla Chiesa e nella letteratura di ermeneutica dei concordati dovuta ad agenti del Vaticano.
Q5 §132 Passato e presente. Nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929 è contenuta la cronaca della prima udienza, per la presentazione delle credenziali, concessa da Pio XI all’ambasciatore De Vecchi presso la Città del Vaticano.
Azione Cattolica
Q5 §9 Lucien Romier e l’Azione Cattolica francese. Il Romier è stato relatore alla Settimana sociale di Nancy del 1927: vi ha parlato della «deproletarizzazione delle moltitudini», argomento che solo indirettamente toccava l’argomento trattato dalla Settimana sociale, che era dedicata alla «Donna nella Società».
Q5 §10 L’Azione Cattolica nel Belgio. Cfr l’opuscolo del gesuita E. de Moreau, Le Catholicisme en Belgique, Ed. La pensée catholique, Liegi, (1928).
Q5 §15 Lucien Romier e l’Azione Cattolica francese. Ricordare che nel 1925 il Romier aveva accettato di entrare a far parte del gabinetto di concentrazione nazionale di Herriot: aveva anche accettato di collaborare con Herriot il capo del gruppo cattolico parlamentare francese formatosi poco prima. Il Romier non era né deputato né senatore; era redattore politico del «Figaro». Dopo questa sua accettazione di entrare in un gabinetto Herriot, dovette lasciare il «Figaro». Il Romier si era fatto un nome con le sue pubblicazioni di carattere industriale‑sociale. Credo che il Romier sia stato redattore dell’organo tecnico degli industriali francesi «La journée industrielle».
Q5 §19 Azione cattolica italiana. Per la storia dell’Azione Cattolica italiana è indispensabile l’articolo Precisazioni, pubblicato dall’«Osservatore Romano» del 17 novembre 1928 e riassunto dalla «Civiltà Cattolica» del 1° dicembre successivo a p. 468.
Q5 §22 Azione Cattolica in Germania. Die Katholische Aktion. Materialien und Akten, von Dr. Erhard Schlund, O.P.M. ‑ Verlag Josef Kosel & Friedrich Pustet, München, 1928.
È una rassegna dell’Azione Cattolica nei principali paesi e un’esposizione delle dottrine papali in proposito.
Q5 §47 Azione Cattolica. Gianforte Suardi nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1929 (Costantino Nigra e il XX settembre 1870) aggiunge un particolare alla sua narrazione del 1° novembre 1927 sulla partecipazione dei cattolici alle elezioni del 1904 col consenso di Pio X, particolare che aveva omesso per riserbo prima della Conciliazione. Pio X, salutando i bergamaschi (Paolo Bonomi ecc.), avrebbe aggiunto: «Ripetete a Rezzara – (che non aveva preso parte all’udienza e che, come è noto, era uno dei più autorevoli capi dell’organizzazione cattolica) – qual è la risposta che vi ho dato e ditegli che il Papa tacerà». Il sottolineato è appunto il particolare prima omesso. Una bellissima cosa, come si vede, e di altissima portata morale.
Q5 §56 Azione Cattolica. La pace industriale (di A. Brucculeri) nella «Civiltà Cattolica» del 5 gennaio 1929. (Annota i tentativi fatti in Inghilterra per la pace industriale, le tendenze collaborazioniste del bit, i comitati paritetici di fabbrica, la legislazione del lavoro, gli alti salari in America, ecc.). Questa serie di articoli del Brucculeri sulle quistioni industriali è stata poi raccolta in volume. Il Brucculeri fa parte (o ha fatto parte) dell’Ufficio di Malines che ha compilato il Codice Sociale.
Q5 §57 L’Azione Cattolica negli Stati Uniti. Articolo della «Civiltà Cattolica» del 5 gennaio 1929 su La Campagna elettorale degli Stati Uniti e le sue lezioni. A proposito della candidatura Smith alla presidenza della Repubblica.
Q5 §58 L’Azione Cattolica. Una delle misure più importanti escogitate dalla Chiesa per rafforzare la sua compagine nei tempi moderni è l’obbligo fatto alle famiglie di far fare la prima comunione ai sette anni. Si capisce l’effetto psicologico che deve fare sui bambini di sette anni l’apparato cerimoniale della prima comunione, sia come avvenimento familiare individuale, sia come avvenimento collettivo: e quale fonte di terrori divenga e quindi di attaccamento alla Chiesa. Si tratta di «compromettere» lo spirito infantile appena incomincia a riflettere. Si capisce perciò la resistenza che la misura ha trovato nelle famiglie, preoccupate dagli effetti deleteri sullo spirito infantile di questo misticismo precoce e la lotta della Chiesa per vincere questa opposizione. (Ricordare nel Piccolo Mondo Antico di Fogazzaro la lotta tra Franco Maironi e la moglie quando si tratta di condurre la bimbetta in barca, in una notte tempestosa, ad assistere alla messa di Natale. Francoa Maironi vuol creare nella bimba dei «ricordi» incancellabili, delle «impressioni» decisive; la moglie non vuole turbare lo sviluppo normale dello spirito della figlia, ecc.).
La misura è stata decretata da Pio X nel 1910. Nel 1928 l’editore Pustet di Roma ne ha ripubblicato il decreto con prefazione del cardinal Gasparri e commento di monsignor Jorio, dando luogo a una nuova campagna di stampa.
Q5 §59 L’Azione Cattolica in Germania. I Cattolici tedeschi per iniziativa dell’Episcopato hanno, già dal 1919, fondato una «Lega di Pace dei Cattolici tedeschi». Su questa Lega, sulle iniziative successive per svilupparla e sul suo programma confrontare la «Civiltà Cattolica» del 19 gennaio 1929.
Q5 §133 Azione Cattolica. I «Ritiri operai». Confrontare la «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929: «Come il popolo torna a Dio». L’opera dei «Ritiri operai».
I «Ritiri» o «Esercizi Spirituali chiusi» sono stati fondati da S. Ignazio di Loyola (la cui opera più diffusa sono gli Esercizi spirituali, editi nel 29 da G. Papini); ne sono una derivazione i «Ritiri Operai» iniziati nel 1882 nel Nord della Francia. L’Opera dei Ritiri Operai iniziò la sua attività in Italia nel 1907, col primo ritiro per operai tenuto a Chieri (cfr «Civiltà Cattolica», 1908,vol. IV, p. 61: I «Ritiri Operai» in Italia).
Intellettuali cattolici
Q5 §62 Redazione della «Civiltà Cattolica».
Cattolici integralisti, gesuiti e modernisti
[Ant.: Cattolici integrali, gesuiti, modernisti]
Q5 §1 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. «I cattolici integrali» ebbero una certa fortuna durante il papato di Pio X. Rappresentavano una tendenza europea del cattolicismo, ma naturalmente furono più diffusi in certi paesi (Italia, Francia, Belgio; nel Belgio, durante l’invasione, i tedeschi trovarono e pubblicarono una certa quantità di documenti degli «integrali» i quali avevano costituito una specie di società segreta, con cifre, fiduciari, pubblicazioni clandestine ecc.; a capo del movimento era monsignor Umberto Benigni e una parte dell’organizzazione era costituita dal «Sodalitium Pianum» – «Pianum» da Pio, che poi non era neanche Pio X, mi pare, ma un altro papa ancor più intransigente).
Monsignor Benigni, i cui rapporti attuali con la Chiesa mi sono ignoti, ha scritto un’opera di ampiezza colossale, La Storia sociale della Chiesa, di cui sono usciti 4 volumi di oltre 600 pp. l’uno, in gran formato presso l’editore Hoepli. Gli integrali appoggiavano in Francia il movimento dell’Action Française, erano contro il Sillon e contro ogni modernismo politico dei cattolici, oltre che contro ogni modernismo religioso. Di fronte ai gesuiti prendevano un atteggiamento di carattere «giansenistico», cioè di grande rigore morale e religioso, contro ogni lassismo, opportunismo o centrismo. I gesuiti naturalmente li accusarono di giansenismo e, ancor di più, li accusarono di fare il gioco dei modernisti: 1°) per la loro lotta contro i gesuiti; 2°) perché allargavano talmente il concetto di modernismo e quindi ampliavano talmente il bersaglio, da permettere ai modernisti un campo di manovra comodissimo. Di fatto poi avveniva che nella loro comune lotta contro i gesuiti, integrali e modernisti si trovassero obbiettivamente nello stesso terreno e magari collaborassero effettivamente tra loro.
Cosa rimane oggi dei modernisti e degli integrali? È difficile identificare la loro forza oggettiva nella Chiesa ma certamente essi sono «fermenti» che continuano ad operare, in quanto rappresentano la lotta contro i gesuiti e il loro strapotere, lotta condotta da elementi di destra e da elementi di sinistra.
Q5 §14 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. L’articolo L’equilibrio della verità fra gli estremi dell’errore nella «Civiltà Cattolica» del 3 novembre 1928 prende lo spunto dalla pubblicazione di Nicolas Fontaine: Saint‑Siège, «Action Française», et «Catholiques intégraux», Parigi, Gamber, 1928, di cui in nota dà questo giudizio: «L’autore è dominato da pregiudizi politici e liberali, massime quando vede la politica nella condanna dell’Action Française; ma i fatti e i documenti, da lui allegati, sul famoso “Sodalizio”, non furono smentiti». Ora il Fontaine (a quanto mi pare di ricordare) non ha pubblicato nulla di completamente inedito: perché dunque i gesuiti non si sono serviti prima di questi documenti? La quistione è importante e mi pare possa essere risolta così: l’azione pontificia contro l’Action Française è l’aspetto appariscente di un’azione più vasta per liquidare una serie di conseguenze della politica di Pio X, cioè Pio XI vuole togliere ogni importanza ai «cattolici integrali», senza però attaccarli di fronte: la lotta contro il modernismo aveva squilibrato troppo a destra il cattolicismo, occorre nuovamente «incentrarlo» nei gesuiti, cioè dargli una forma politica duttile, senza irrigidimenti dottrinali, una grande libertà di manovra ecc. Pio XI è veramente il papa dei gesuiti.
Ma lottare contro i «cattolici integrali» è molto più difficile che lottare contro i modernisti.
Gli integrali chiamano i gesuiti «modernizzanti» e «modernizzantismo» la loro tendenza. Divisero i cattolici in «integrali» e «non integrali», cioè «papali» ed «episcopali». (Pare che l’enciclica di Benedetto XV Ad beatissimi notasse, biasimandola, questa tendenza a introdurre tali distinzioni tra i cattolici, che ledevano la carità e l’unità dei fedeli. Vedere la «Civiltà Cattolica» che stampò questa enciclica). La «Sapinière», associazione segreta, presentata al pubblico col nome di «Sodalizio Piano», organizzò la lotta contro i gesuiti «modernizzanti», «in tutto contrariamente alla prima idea ed al programma officiale proposto al Santo Pontefice Pio X, indi approvato dal Segretario della Concistoriale, non certamente perché servisse allo sfogo di passioni private, alla denunzia e diffamazione di integerrimi ed anche eminenti personaggi, di Vescovi o d’interi Ordini religiosi, nominatamente del nostro, che mai finora erasi veduto in balia a siffatte calunnie, neppure ai tempi della sua soppressione.
Da ultimo poi, finita la guerra e molto più dopo lo scioglimento del «Sodalizio Piano» – decretato dalla Sacra Congregazione del Concilio, non certo a titolo di lode, ma di proibizione e di biasimo – fu promossa tutta a spese di un noto e ricchissimo finanziere Simon di Parigi e della sua larga consorteria, la pubblicazione e la prodiga diffusione gratuita di libelli i più ignominiosi e criticamente insipienti contro la Compagnia di Gesù, i suoi Santi, i suoi dottori e maestri, le sue opere e le sue costituzioni, pure solennemente approvate dalla Chiesa. È la nota collezione dei così detti «Récalde», cresciuta già ad oltre una dozzina di libelli, alcuni di più volumi, in cui è troppo riconosciuta e non meno retribuita la parte dei complici romani. Essa viene ora rinforzata dalla pubblicazione sorella di foglietti diffamatori, i più farneticanti, sotto il titolo complessivo ed antifrastico di «Vérités», emuli dei fogli gemelli dell’Agenzia Urbs, ovvero Romana, i cui articoli ritornano poi talora, quasi a verbo, in altri fogli “periodici”».
Gli «integrali» sparsero «le peggiori calunnie» contro Benedetto XV, come si può vedere dall’articolo comparso alla morte di questo papa nella «Vieille France» (di Urbain Gohier, credo) e nella «Ronda» (febbraio 1922), «anche questo (periodico) tutt’altro che cattolico e morale, ma onorato tuttavia dalla collaborazione di Umberto Benigni, il cui nome si trovava registrato nella bella compagnia di quei giovani più o meno scapestrati». «Lo stesso spirito di diffamazione, continuato sotto il presente Pontificato, in mezzo alle file medesime dei cattolici, dei religiosi e del clero, non si può dire quanto abbia fatto di male nelle coscienze, quanto scandalo portatovi e quanta alienazione di animi, in Francia sopra tutto. Quivi infatti la passione politica induceva a credere più facilmente le calunnie, mandate spesso da Roma, dopo che i ricchi Simon e altri compari, di spirito gallicano e giornalistico (sic), ne spesarono gli autori e procurarono la diffusione gratuita dei loro libelli, massime degli antigesuitici sopra menzionati, nei seminari, nelle canoniche, nelle curie ecclesiastiche, ovunque fosse qualche probabilità o verosimiglianza che la calunnia potesse attecchire; ed anche fra laici, massime giovani, e degli stessi licei governativi, con una prodigalità senza esempio».
Gli autori già sospetti si servono dell’anonimo o di pseudonimi. «È notorio, tra i giornalisti specialmente, quanto poco meriti qualsiasi titolo di onore un siffatto gruppo col suo principale ispiratore, il più astuto a nascondersi ma il più colpevole e il più interessato nell’intrigo» (a chi si allude? Al Benigni o a qualche altro pezzo grosso del Vaticano?)
Q5 §16 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. L’«Action Française» aveva a Roma un suo redattore,
Q5 §137 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Il caso dell’abate Turmel di Rennes. Nel libro L’Enciclica Pascendi e il modernismo, il padre Rosa dedica alcune pagine gustosissime al caso straordinario dell’abate Turmel, un modernista, che scriveva libri modernisti sotto varii pseudonimi e poi li confutava col suo vero nome. Dal 1908 al 1929 pare che il Turmel abbia continuato nel suo gioco dei pseudonimi, come avrebbe dimostrato il prof. L. Saltet, dell’Istituto cattolico di Tolosa in un lungo studio pubblicato nel «Bulletin de Littérature Ecclésiastique» di Tolosa, annata 1929. Il caso del Turmel è così caratteristico che varrà la pena di fare altre ricerche.
Mat. Bibl.: Enciclica Pascendi
Q5 §120 Nazionalismo culturale cattolico. È la tendenza che più meraviglia nel leggere, per esempio, la «Civiltà Cattolica»: poiché, se essa divenisse realmente una regola di condotta, il cattolicismo stesso diverrebbe impossibile. L’incitamento ai filosofi italiani ad abbracciare il tomismo, perché S. Tommaso è nato in Italia e non perché in esso può trovarsi una migliore via per trovare la verità, come potrebbe servire ai francesi o ai tedeschi? E non può diventare invece, per logica conseguenza, un incitamento a ogni nazione di cercare nella sua propria tradizione un archetipo intellettuale, un «maestro» di filosofia religiosa nazionale, cioè un incitamento a disgregare il Cattolicismo in tante chiese nazionali? Posto il principio, perché poi fissare S. Tommaso come espressione nazionale e non il Gioberti e il Socini ecc.?
Che i Cattolici e anzi i gesuiti della «Civiltà Cattolica» siano dovuti e devano ricorrere a una tale propaganda è un segno dei tempi. C’è stato un tempo in cui Carlo Pisacane era predicato come l’elemento nazionale da contrapporre sugli altari ai brumosi filosofi tedeschi; ancor di più Giuseppe Mazzini. Nella filosofia attualistica si rivendica Gioberti come lo Hegel italiano, o quasi. Il cattolicismo religioso incita (o ha dato l’esempio?) al cattolicismo filosofico e a quello politico sociale.
Q5 §141 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Cfr l’articolo La lunga crisi dell’«Action Française» nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929. Si loda il libro La trop longue crise de l’Action Française di Mons. Sagot du Vauroux, évêque d’Agon, Parigi, ed. Bloud, 1929, opera che «riuscirà utilissima anche agli stranieri, i quali non riescono a comprendere le origini e meno ancora la persistenza, congiunta a tanta ostinazione, degli aderenti cattolici che li acceca sino a farli vivere e morire senza sacramenti, piuttosto che rinunziare alle odiose esorbitanze di un loro partito o dei suoi dirigenti increduli».
Un elemento molto significativo del lavorio che la corrente gesuitica esplica in Francia per formare un partito centrista cattolico‑democratico è questo motivo ideologico‑storico: Chi è responsabile dell’apostasia del popolo francese? Solo gli intellettuali democratici che si richiamano al Rousseau? No. I più responsabili sono gli aristocratici e l’alta borghesia che hanno civettato con Voltaire: «... le rivendicazioni tradizionali (dei vecchi monarchici) del ritorno all’antico sono pure rispettabili, quantunque inattuabili, nelle condizioni presenti. E sono inattuabili anzitutto per colpa di tanta parte dell’aristocrazia e borghesia di Francia, poiché dalla corruzione e dall’apostasia di questa classe dirigente fino dal secolo XVII originò la corruzione e l’apostasia della massa popolare in Francia, avverandosi anche allora che regis ad exemplum totus componitur orbis. Il Voltaire era l’idolo di quella parte dell’aristocrazia corrotta e corrompitrice del suo popolo, alla cui fede e costumatezza procurando scandalose soluzioni, essa scavava a se medesima la fossa. E sebbene poi al sorgere del Rousseau con la sua democrazia sovversiva in opposizione all’aristocrazia volterriana, si fecero opposizione teorica le due correnti di apostasia, – come tra i due tristi corifei – che parevano muovere da contrari errori, confluirono in una stessa pratica ed esiziale conclusione: nell’ingrossare cioè il torrente rivoluzionario», ecc. ecc.
Così oggi: Maurras e C. sono contro la democrazia del Rousseau e le «esagerazioni democratiche» («esagerazioni», si badi bene, solo «esagerazioni») del Sillon, ma sono «discepoli e ammiratori degli scritti del Voltaire». (Jacques Bainville ha curato una edizione di lusso di Voltaire e i gesuiti non lo dimenticheranno mai).
Dottrina sociale
Q5 §5 Azione sociale cattolica. Nella Relazione presentata da Albert Thomas alla Conferenza Internazionale del lavoro (l’undecima) del 1928, è contenuta una esposizione delle manifestazioni fatte dall’episcopato e da altre autorità cattoliche sulla quistione operaia. Deve essere interessante come breve sommario di storia di questa particolare attività cattolica. La «Civiltà Cattolica» (4 agosto 1928) nell’articolo La conferenza internazionale del lavoro (del Brucculeri) è entusiasta del Thomas.
Q5 §7 Sul «pensiero sociale» dei cattolici mi pare si possa fare questa osservazione critica preliminare: che non si tratta di un programma politico obbligatorio per tutti i cattolici, al cui raggiungimento sono rivolte le forze organizzate che i cattolici posseggono, ma si tratta puramente e semplicemente di un «complesso di argomentazioni polemiche» positive e negative senza concretezza politica. Ciò sia detto senza entrare nelle quistioni di merito, cioè nell’esame del valore intrinseco delle misure di carattere economico‑sociale che i cattolici pongono alla base di tali argomentazioni.
In realtà la Chiesa non vuole compromettersi nella vita pratica economica e non si impegna a fondo, né per attuare i principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per difendere, mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei principi era già attuata e che sono state distrutte. Per comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna, occorre comprendere che essa è disposta a lottare solo per difendere le sue particolari libertà corporative (di Chiesa come Chiesa, organizzazione ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina: per questa difesa la Chiesa non esclude nessun mezzo, né l’insurrezione armata, né l’attentato individuale, né l’appello all’invasione straniera. Tutto il resto è trascurabile relativamente, a meno che non sia legato alle condizioni esistenziali proprie. Per «dispotismo» la Chiesa intende l’intervento dell’autorità statale laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non molto di più: essa riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purché non tocchi i suoi privilegi, la legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la proclama provvidenziale.
Date queste premesse, il «pensiero sociale» cattolico ha un puro valore accademico: occorre studiarlo e analizzarlo in quanto elemento ideologico oppiaceo, tendente a mantenere determinati stati d’animo di aspettazione passiva di tipo religioso, ma non come elemento di vita politica e storica direttamente attivo. Esso è certamente un elemento politico e storico, ma di un carattere assolutamente particolare: è un elemento di riserva, non di prima linea, e perciò può essere in ogni momento «dimenticato» praticamente e «taciuto», pur senza rinunziarvi completamente, perché potrebbe ripresentarsi l’occasione in cui sarà ripresentato. I cattolici sono molto furbi, ma mi pare che in questo caso siano troppo furbi.
Q5 §18 Il pensiero sociale dei cattolici. Un articolo da ricordare, per comprendere l’atteggiamento della Chiesa dinanzi ai diversi regimi politico‑statali, è Autorità e «opportunismo politico» nella «Civiltà Cattolica» del 1° dicembre1928. Potrebbe dare qualche spunto per la rubrica passato e presente. Sarà da confrontare con i punti corrispondenti del Codice Sociale.
La quistione si pose al tempo di Leone XIII e del ralliement di una parte dei cattolici alla repubblica francese e fu risolta dal papa con questi punti essenziali: 1) accettazione, ossia riconoscimento del potere costituito; 2) rispetto ad esso prestato come a rappresentanza di un’autorità venuta da Dio; 3) obbedienza a tutte le leggi giuste da tale autorità promulgate, ma resistenza alle leggi ingiuste con lo sforzo concorde di emendare la legislazione e cristianeggiare la società.
Per la «Civiltà Cattolica» questo non sarebbe «opportunismo», ma tale sarebbe solo l’atteggiamento servile ed esaltatorio in blocco di autorità che sono tali di fatto e non di diritto (l’espressione «diritto» ha un valore particolare per i cattolici).
I cattolici devono distinguere tra «funzione dell’autorità» che è diritto inalienabile della società, che non può vivere senza un ordine, e «persona» che esercita tale funzione e che può essere un tiranno, un despota, un usurpatore, ecc. I cattolici si sottomettono alla «funzione» non alla persona. Ma Napoleone III fu chiamato uomo provvidenziale dopo il colpo di stato del 2 dicembre, ciò che significa che il vocabolario politico dei cattolici è diverso da quello comune.
Chiesa, Rotary Club e Massoneria
Q5 §61 Rotary Club. Confrontare nella «Civiltà Cattolica» del 16 febbraio 1929 l’articolo Ancora Rotary Club e Massoneria. Gli argomenti dei gesuiti per mettere in guardia contro il carattere massonico del Rotary vi sono esauriti. Il «sospetto» è di due gradi: 1) che il Rotary sia una vera e propria emanazione della massoneria tradizionale; 2) che il Rotary sia un nuovo tipo di massoneria. A questi due motivi si intrecciano altri di carattere subordinato: 1) che in ogni caso la massoneria tradizionale se ne serva astutamente approfittando dell’«ingenuità» e dell’agnosticismo dei rotariani; 2) il carattere «agnostico», di indifferenza o di tolleranza religiosa, del Rotary è per i gesuiti un tal difetto capitale da indurli a una levata di scudi e a prendere atteggiamenti di sospetto e di polemica (stadio preparatorio che potrebbe concludersi con la condanna del Rotary da parte della Chiesa). Questo secondo motivo non dà luogo ancora a una campagna a fondo, preludio di una «scomunica», perché i gesuiti devono distinguere tra paesi a maggioranza cattolica e paesi a maggioranza acattolica. In questi ultimi essi domandano la tolleranza religiosa, senza cui non potrebbero diffondersi: la loro posizione «offensiva» richiede anzi l’esistenza di istituzioni amorfe in cui inserirsi per procederne alla conquista. Nei paesi cattolici, la posizione «difensiva» domanda invece la lotta a fondo contro le istituzioni amorfe che offrono terreno favorevole agli acattolici in generale.
La fase attuale dell’atteggiamento verso il Rotary è: di offensiva ideologica senza sanzioni pratiche di carattere universale (scomunica o altra forma attenuata di proibizione) e neanche nazionale, ma solo di carattere vescovile (in qualche diocesi, spagnola per esempio, il vescovo ha preso atteggiamento contro il Rotary). L’offensiva ideologica si basa su questi punti: 1) il Rotary ha origini massoniche; 2) in molti paesi si trova nelle migliori relazioni con la massoneria; 3) in qualche luogo ha assunto un atteggiamento apertamente ostile al cattolicismo; 4) la morale rotariana non è se non un travestimento della morale laica massonica.
Q5 §2 Rotary Club. Atteggiamento contrario, pur con alcune cautele, dei gesuiti della «Civiltà Cattolica». La Chiesa come tale non ha ancora preso un atteggiamento a proposito del Rotary Club. I gesuiti rimproverano al Rotary i suoi legami col protestantesimo e con la massoneria: vedono in esso uno strumento dell’americanismo, quindi di una mentalità anticattolica, per lo meno. Il Rotary però non vuole essere confessionale né massonico: nelle sue file possono entrare tutti, massoni, protestanti, cattolici – in qualche posto vi hanno aderito anche degli arcivescovi cattolici; il suo programma essenziale pare sia la diffusione di un nuovo spirito capitalistico, cioè l’idea che l’industria e il commercio, prima di essere un affare, sono un servizio sociale, anzi sono e possono essere un affare in quanto sono un «servizio».
Il Rotary cioè vorrebbe che fosse superato il «capitalismo di rapina» e che si instaurasse un nuovo costume, più propizio allo sviluppo delle forze economiche. L’esigenza che il Rotary esprime si è manifestata in America in forma gravissima recentemente, mentre in Inghilterra era già stata superata, creando una certa media di «onestà» e «lealtà» negli affari. Perché proprio il Rotary Club si è diffuso fuori dell’America e non un’altra delle tante forme di associazione che vi pullulano e vi costituiscono un superamento delle vecchie forme religiose positive? La causa deve essere cercata in America stessa: forse perché il Rotary ha organizzato la campagna per l’Open Shop1 e quindi per la razionalizzazione.
Dall’articolo Rotary Club e Massoneria (nella «Civiltà Cattolica» del 21 luglio 1928) tolgo alcune informazioni:
Il «Codice morale rotariano». Nel Congresso generale tenuto nel 1928 a St. Louis fu deliberato questo principio: «Il Rotary è fondamentalmente una filosofia della vita che si studia di conciliare l’eterno conflitto esistente fra il desiderio del proprio guadagno e il dovere e il conseguente impulso di servire al prossimo. Questa filosofia è la filosofia del servizio: Dare di sé prima di pensare a sé, fondata sopra quel principio morale: Chi meglio serve guadagna di più». Lo stesso congresso deliberò che tutti i soci del Rotary devono accettare «senza giuramento segreto, senza dogma né fede, ma ognuno a modo suo, tale filosofia rotariana del servizio». La «Civiltà Cattolica» riporta questo brano del rotariano comm. Mercurio da «Il Rotary», pp. 97‑98, che dice citato, ma non lo è in questo numero (non so se il Mercurio sia italiano e «Il Rotary» una pubblicazione italiana, oltre alla «Realtà» diretta dal Bevione): «A questo modo si è fatto, per così dire, dell’onestà un interesse e si è creata quella nuova figura dell’uomo di affari il quale sappia associare in tutte le attività professionali, industriali, commerciali, all’interesse proprio l’interesse generale, che è in fondo il vero e grande fine di ogni operosità, perché ogni uomo nobilmente operoso anche inconsciamente serve sopra tutto l’utile generale».
Il carattere prevalente dato dal Rotary all’attività pratica appare da altre citazioni monche e allusive della «Civiltà Cattolica». Nel Programma del Rotary: «un Rotary club è un gruppo di rappresentanti di affari e di professionisti, i quali senza giuramenti segreti, né domma, né Credo... accettano la filosofia del servizio». Esce un «Annuario» italiano del Rotary, a Milano presso la Soc. An. Coop. «Il Rotary». È uscito almeno l’«Annuario» 1927‑28.
Il Rotary è organizzazione di classi alte, e non si rivolge al popolo, altro che indirettamente. È un tipo di organizzazione essenzialmente moderna. Che ci siano interferenze tra la Massoneria e il Rotary è possibile e probabile, ma non è essenziale: il Rotary, sviluppandosi, cercherà di dominare tutte le altre organizzazioni e anche la Chiesa cattolica così come in America domina certamente tutte le Chiese protestanti.
Certo la Chiesa cattolica non potrà vedere di buon grado «ufficialmente» il Rotary, ma pare difficile che assuma nei suoi riguardi un atteggiamento come quello contro la Massoneria: dovrebbe allora atteggiarsi contro il capitalismo ecc. Lo sviluppo del Rotary è interessante sotto molti aspetti: ideologici, pratici, organizzativi ecc. Bisognerà vedere però se la depressione economica americana e mondiale non darà un colpo al prestigio dell’americanismo e quindi al Rotary).
Q5 §4 Sansimonismo, Massoneria, Rotary Club. Sarebbe interessante una ricerca su questi nessi ideologici: le dottrine dell’americanismo e il sansimonismo hanno molti punti di contatto, indubbiamente, mentre invece il sansimonismo mi pare abbia influito poco sulla massoneria, almeno per ciò che riguarda il nucleo più importante delle sue concezioni: poiché il positivismo è derivato dal sansimonismo e il positivismo è stato un momento dello spirito massonico, si troverebbe un contatto indiretto. Il Rotarismo sarebbe un sansimonismo di destra moderno.
Protestantesimo
Q5 §17 Movimento pancristiano. La XV settimana sociale di Milano settembre 1928 trattò la quistione: «La vera unità religiosa», e il volume degli atti è uscito con questo titolo presso la Società editrice «Vita e pensiero» (Milano, 1928, L. 15).
Q5 §134 Movimenti religiosi. È da vedere il movimento pancristiano e la sua organizzazione dipendente: «Alleanza mondiale per promuovere l’amicizia internazionale per mezzo delle Chiese».
Machiavelli
Q5 §20 Machiavelli ed Emanuele Filiberto. Un articolo della «Civiltà Cattolica» del 15 dicembre 1928 (Emanuele Filiberto di Savoia nel IV Centenario della nascita) si inizia così: «La coincidenza della morte del Machiavelli con la nascita di Emanuele Filiberto, non è senza ammaestramento. È piena di alto significato l’antitesi rappresentata dai due personaggi, l’uno dei quali scompare dalla scena del mondo, amareggiato e deluso, mentre l’altro sta per affacciarsi alla vita, ancora circondata di mistero, in quegli anni appunto che possiamo considerare come la linea di distacco tra l’età del Rinascimento e la Riforma cattolica. Machiavelli ed Emanuele Filiberto: chi può meglio personificare i due volti diversi, le due correnti opposte che si contendono il dominio del secolo XVI? Avrebbe mai immaginato il Segretario Fiorentino che proprio quel secolo, al quale aveva auspicato un Principe, in sostanza, pagano nel pensiero e nell’opera, avrebbe invece veduto il monarca che più si avvicinò all’ideale del perfetto principe cristiano?».
Le cose sono molto diverse da quelle che paiono allo scrittore della «Civiltà Cattolica», ed Emanuele Filiberto continua e realizza Machiavelli più di quanto non possa sembrare: per esempio nell’ordinamento delle milizie nazionali. D’altronde Emanuele Filiberto per altre cose poteva richiamarsi al Machiavelli; egli non rifuggiva anche dal far sopprimere con la violenza e con la frode i suoi nemici.
Questo articolo della «Civiltà Cattolica» interessa per i rapporti tra Emanuele Filiberto e i gesuiti e per la parte presa da questi nella lotta contro i Valdesi.
Q5 §25 Machiavelli e Manzoni. Qualche accenno al Machiavelli del Manzoni si può trovare nei Colloqui col Manzoni di N. Tommaseo, pubblicati per la prima volta e annotati da Teresa Lodi, Firenze, G. C. Sansoni, 1929. Da un articolo di G. S. Gargano nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 (Manzoni in Tommaseo) riporto questo brano: «E pur attribuito al Manzoni è il giudizio sul Machiavelli, la cui autorità empì di pregiudizi le teste italiane e le cui massime alcuni ripetevano senza osare adoperarle e alcuni operavano senza osare dirle; “e sono i liberali che le cantano e i re che le fanno”; commento quest’ultimo che è forse del trascrittore, il quale aggiunge che il Manzoni aveva pochissima fede nelle guarantigie degli Statuti e nella potenza dei Parlamenti e che l’unico suo desiderio era per allora di fare la nazione una e potente anche a costo della libertà, “quando pure l’idea della libertà fosse in tutti i cervelli vera e uno il sentimento di lei in tutti i cuori”».
Q5 §127 Machiavelli. Nella Nuova Antologia del 16 dicembre 1929 è pubblicata una noticina di certo M. Azzalini, La politica, scienza ed arte di Stato, che può essere interessante come presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo schematismo scientifico.
Il Machiavelli ha scritto dei libri di «azione politica immediata», non ha scritto un’utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte le sue funzioni e i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch’essa chiamare «filosofia della praxis» o «neo‑umanesimo» in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà.
Non è vero, come pare credere l’Azzalini, che nel Machiavelli non sia tenuto conto del «diritto costituzionale», perché in tutto il Machiavelli si trovano sparsi principi generali di diritto costituzionale ed anzi egli afferma, abbastanza chiaramente, la necessità che nello Stato domini la legge, dei principi fissi, secondo i quali i cittadini virtuosi possano operare sicuri di non cadere sotto i colpi dell’arbitrario. Ma giustamente il Machiavelli riconduce tutto alla politica, cioè all’arte di governare gli uomini, di procurarsene il consenso permanente, di fondare quindi i «grandi Stati».
Bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non‑Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori.
Si potrebbe trovare nel Machiavelli la conferma di ciò che ho altrove notato, che la borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale‑cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e cosmopolita.
Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di «Principe», così come essa serve nel libro del Machiavelli, si dovrebbe fare una serie di distinzioni: «principe» potrebbe essere un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso «principe» potrebbe tradursi in lingua moderna «partito politico». Nella realtà di qualche Stato il «capo dello Stato», cioè l’elemento equilibratore dei diversi interessi in lotta contro l’interesse prevalente, ma non esclusivista in senso assoluto, è appunto il «partito politico»; esso però a differenza che nel diritto costituzionale tradizionale né regna, né governa giuridicamente: ha «il potere di fatto», esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi, nella «società civile», che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa. Su questa realtà che è in continuo movimento, non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un sistema di principii che affermano come fine dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della società politica nella società civile.
Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani
Q5 §30 Funzione internazionale degli intellettuali italiani. Nel «Bollettino storico lucchese» del 1929 o degli inizi del 1930 è apparso uno studio di Eugenio Lazzareschi sui rapporti colla Francia dei mercanti lucchesi nel Medio Evo.
Q5 §37 La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. «Pour Nietzsche, l’intellectuel est “chez lui”, non pas là où il est né (la naissance, c’est de l’“histoire”), mais là où lui‑même engendre et met au monde: Ubi pater sum, ibi patria, “Là où je suis père, où j’engendre, là est ma patrie”; et non pas, où il fut engendré». Stefan Zweig, Influence du Sud sur Nietzsche, «Nouvelles Littéraires», 19 luglio 1930 (è forse il capitolo di un libro tradotto da Alzir Hella et Olivier Bournac).
Q5 §74 Funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani.
Un altro punto da studiare è l’importanza avuta dal monachesimo nella creazione del feudalesimo. Nel suo volume S. Benedetto e l’Italia del suo tempo (Laterza, Bari, a pp. 170‑71) Luigi Salvatorelli scrive: «Una comunità, e per giunta una comunità religiosa, guidata dallo spirito benedettino, era un padrone assai più umano del proprietario singolo, col suo egoismo personale, il suo orgoglio di casta, le tradizioni di abusi secolari. E il prestigio del monastero, anche prima di concentrarsi in privilegi legali, proteggeva in una certa misura i coloni contro la rapacità del fisco e le incursioni delle bande armate legali ed illegali. Lontano dalle città in piena decadenza, in mezzo alle campagne corse e spremute che minacciavano di tramutarsi in deserto, il monastero sorgeva, nuovo nucleo sociale traente il suo essere dal nuovo principio cristiano, fuori di ogni mescolanza col decrepito mondo che si ostinava a chiamarsi dal gran nome di Roma. Così san Benedetto, senza proporselo direttamente, fece opera di riforma sociale e di vera creazione. Ancor meno premeditata fu la sua opera di cultura». Mi pare che in questo brano del Salvatorelli ci siano tutti o quasi gli elementi fondamentali, negativi e positivi, per spiegare storicamente il feudalismo.
Q5 §82 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. In che misura lo sciamare in tutta Europa di eminenti e mediocri personalità italiane (ma di un certo vigore di carattere) fu dovuto ai risultati delle lotte interne delle fazioni comunali, al fuoruscitismo politico cioè? Questo fenomeno fu persistente dopo la seconda metà del secolo XIII: lotte comunali con dispersione delle fazioni vinte, lotte contro i principati, elementi di protestantesimo ecc. fino al 1848; nel secolo XIX il fuoruscitismo muta di carattere, perché gli esiliati sono nazionalisti e non si lasciano assorbire dai paesi di immigrazione (non tutti però: vedi Antonio Panizzi divenuto direttore del British Museum e baronetto inglese). Di questo elemento occorre tener conto, ma non è certo quello prevalente nel fenomeno generale. Così in un certo periodo occorre tener conto del fatto che i principi italiani sposavano le loro figlie con principi stranieri e ogni nuova regina di origine italiana portava con sé un certo numero di letterati, artisti, scienziati italiani (in Francia con le Medici, in Spagna con le Farnesi, in Ungheria ecc.) oltre a diventare un centro di attrazione dopo la salita al trono.
Q5 §83 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Articolo di Ferdinando Nunziante Gli italiani in Russia durante il secolo XVIII nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929. Articolo mediocre e superficiale, senza indicazioni di fonti per le notizie riportate.
Q5 §100 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Per il mondo slavo confrontare Ettore Lo Gatto, L’Italia nelle letterature slave, fascicoli 16 settembre, 1° ottobre, 16 ottobre della Nuova Antologia. Oltre ai rapporti puramente letterari, determinati dai libri, ci sono molti accenni all’immigrazione di intellettuali italiani nei diversi paesi slavi, specialmente in Russia e in Polonia, e alla loro importanza come fattori della cultura locale.
Un altro aspetto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani da studiare, o almeno da accennare, è quella svolta in Italia stessa, attirando studenti alle Università e studiosi che volevano perfezionarsi. In questo fenomeno di immigrazione di intellettuali stranieri in Italia occorre distinguere due aspetti: immigrazione per vedere l’Italia come territorio‑museo della storia passata, che è stata permanente e dura ancora con ampiezza maggiore o minore secondo le epoche, e immigrazione per assimilare la cultura vivente sotto la guida degli intellettuali italiani viventi; è questa seconda che interessa per la ricerca in quistione. Come e perché avviene che a un certo punto sono gli italiani ad emigrare all’estero e non gli stranieri a venire in Italia? (con eccezione relativa per gli intellettuali ecclesiastici, il cui insegnamento in Italia continua ad attirare discepoli in Italia fino ad oggi; in questo caso occorre però tener presente che il centro romano è andatosi relativamente internazionalizzando). Questo punto storico è di massima importanza: gli altri paesi acquistano coscienza nazionale e vogliono organizzare una cultura nazionale, la cosmopoli medioevale si sfalda, l’Italia come territorio perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal territorio e sciamando all’estero.
Q5 §143 Funzione internazionale degli intellettuali italiani.
Q5 §147 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Sul fatto che la borghesia comunale non è riuscita a superare la fase corporativa e quindi non si può dire abbia creato uno Stato, poiché era Stato piuttosto la Chiesa e l’Impero, cioè che i Comuni non hanno superato il feudalismo, bisogna, prima di scrivere qualche cosa, leggere il libro di Gioacchino Volpe Il Medio Evo.
Q5 §150 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Risorgimento. Nel Risorgimento si ebbe l’ultimo riflesso della «tendenza storica» della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del «corporativismo»: il non aver risolto la quistione agraria è la prova di questo fatto. Rappresentanti di questa tendenza sono i moderati, sia neoguelfi (in essi – Gioberti – appare il carattere universalistico‑papale degli intellettuali italiani che è posto come premessa del fatto nazionale) sia i cavouriani (o economisti‑pratici, ma al modo dell’uomo del Guicciardini, cioè rivolti solo al loro «particulare»: da ciò il carattere della monarchia italiana). Ma le tracce dell’universalismo medioevale sono anche nel Mazzini, e determinano il suo fallimento politico; perché se al neoguelfismo successe nella corrente moderata il cavourismo, l’universalismo mazziniano nel Partito d'Azione non fu praticamente superato da nessuna formazione politica organica e invece rimase un fermento di settarismo ideologico e quindi di dissoluzione.
Altro
Q5 §75 Maggiorino Ferraris e la vita italiana dal 1882 al 1926. Nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1929 è pubblicata la lista degli articoli pubblicati da Maggiorino Ferraris nella rivista stessa dal gennaio 1882 al 21 aprile 1926 (il Ferraris è morto nel giugno 1929 ed è stato direttore della Nuova Antologia dal 90 circa fino al 1926).
Q5 §157 Sicilia. Negli «Studi Verghiani» diretti da Lina Perrone è stato pubblicato (nei primi numeri) un saggio di Giuseppe Bottai su Giovanni Verga politico, le cui conclusioni generali mi sembrano esatte: cioè, nonostante qualche apparenza superficiale, il Verga non fu mai né socialista, né democratico, ma «crispino» in senso largo (il «crispino» lo metto io, perché nel brano del Bottai da me letto perché pubblicato nell’«Italia Letteraria» del 13 ottobre 1929, non c’è questo accenno): in Sicilia gli intellettuali si dividono in due classi generali: crispini‑unitaristi e separatisti‑democratici, separatisti tendenziali, si capisce. Durante il processo Nasi articolo del Verga nel giornale «Sicilia» del 1° novembre 1907 «in cui si dimostrava la falsità della tesi tendente a sostenere che la rivoluzione siciliana del 48 fu d’indipendenza e non di unitarietà» (è da notare che nel 1907 era necessario combattere questa tesi). Nel 1920 un certo Enrico Messinco fondò (o voleva fondare?) un giornale «La Sicilia Nuova», «che intendeva propugnare l’autonomia siciliana»; invitò il Verga a collaborare e il Verga gli scrisse: «sono italiano innanzi tutto e perciò non autonomista». (Questo episodio del giornale del Messinco deve essere accertato).
Critica
Q5 §38 Carattere della letteratura italiana non nazionale‑popolare. Articolo di Orazio Pedrazzi nell’«Italia letteraria» del 4 agosto 1929: Le tradizioni antiletterarie della burocrazia italiana. Il Pedrazzi non fa alcune distinzioni necessarie. Non è vero che la burocrazia italiana sia così «antiletteraria» come sostiene il Pedrazzi, mentre è vero che la burocrazia (e si vuol dire l’alta burocrazia) non scrive della sua propria attività. Le due cose sono diverse: credo anzi che ci sia una mania letteraria propria della burocrazia, ma riguarda il «bello scrivere», «l’arte», ecc.: forse si potrebbe trovare che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta a burocrati. Invece è vero che non esiste in Italia (come in Francia e altrove) una letteratura dovuta ai funzionari statali (militari e civili) di valore e che riguardi l’attività svolta, all’estero, dal personale diplomatico, al fronte, dagli ufficiali, ecc.; quella che c’è, per lo più è «apologetica». «In Francia, in Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da noi scrivono solo per i loro superiori». La burocrazia cioè non ha un carattere nazionale, ma di casta.
Q5 §91 Rinascimento e Riforma. Bisognerà leggere il volume di Fortunato Rizzi, L’anima del Cinquecento e la lirica volgare che, dalle recensioni lette, mi pare più importante come documento della cultura del tempo che per il suo valore intrinseco.
Nella critica della poesia cinquecentesca italiana prevale questa opinione: che essa sia per quattro quinti artificiosa, convenzionale, priva di intima sincerità. «Ora – osserva il Rizzi con molto buon senso – è sentenza comune che nella poesia lirica si trovi l’espressione più schietta e viva del sentimento di un uomo, di un popolo, di un periodo storico. È egli possibile che ci sia stato un secolo – il Cinquecento appunto – il quale abbia avuto la disgrazia di nascere senza una propria fisonomia spirituale o che di tale fisonomia si sia compiaciuto (?!) a riverberare un’immagine falsa proprio nella poesia lirica? Il più intellettualmente vivace, il più spiritualmente intrepido, il più cinico dei secoli, dicono i suoi tanti avversarî (!!), avrebbe ipocritamente dissimulato il suo vero animo nella studiata armonia dei sonetti e delle canzoni petrarcheggianti; oppure si sarebbe divertito a mistificare i posteri ..., fingendo nei versi un platonico sospiroso idealismo, che poi le novelle, le commedie, le satire, tante altre testimonianze letterarie di quell’età, smentiscono apertamente?». Tutto il problema è falsato a pieno, nella sua impostazione di conflitti e contraddizioni intime.
E perché il Cinquecento non potrebbe essere pieno di contraddizioni? Non è anzi esso proprio il secolo in cui si aggroppano le maggiori contraddizioni della vita italiana, la cui non soluzione ha determinato tutta la storia nazionale fino alla fine del Settecento? Non c’è contraddizione tra l’uomo dell’Alberti e quello di Baldassar Castiglione, tra l’uomo dabbene e il «cortegiano»? Tra il cinismo e il paganesimo dei grandi intellettuali e la loro strenua lotta contro la Riforma e in difesa del Cattolicesimo? Tra il modo di concepire la donna in generale (che poi era la dama alla Castiglione) e il modo di trattar la donna in particolare, cioè la donna del popolo? Le regole della cortesia cavalleresca erano forse applicate alle donne del popolo? La donna in generale era ormai un feticcio, una creazione artificiosa, e artificiosa fu la poesia lirica, amorosa, petrarcheggiante almeno per i quattro quinti. Ciò non vuol dire che il Cinquecento non abbia avuto un’espressione lirica, cioè artistica; l’ha avuta, ma non nella «poesia lirica» propriamente detta.
Q5 §94 Carattere negativo popolare‑nazionale della letteratura italiana. Nel trattare questa quistione ma specialmente nel fare la storia dell’atteggiamento di tutta una serie di letterati e di critici, che sentivano la falsità della tradizione e il suono falso della sua intima retorica, della sua non aderenza con la realtà storica, non bisogna dimenticare Enrico Thovez, il suo libro Il pastore, il gregge, la zampogna. La reazione del Thovez non è stata giusta, ma importa in questo caso che egli abbia reagito, cioè che abbia sentito almeno che qualcosa non andava.
La sua distinzione tra poesia di forma e poesia di contenuto era falsa teoricamente: la poesia così detta di forma è caratterizzata dall’indifferenza del contenuto, cioè dall’indifferenza morale, ma è anche questo un «contenuto», il «vuoto storico e morale dello scrittore». Il Thovez in gran parte si riattaccava al De Sanctis, per il suo aspetto di «innovatore della cultura» italiana ed è da ritenere insieme alla «Voce» una delle forze che lavoravano, caoticamente a dire il vero, per una riforma intellettuale e morale nel periodo prima della guerra.
Q5 §95 L’uomo del Quattrocento e del Cinquecento. Leon Battista Alberti, Baldassarre Castiglione, Machiavelli mi sembrano i tre scrittori più importanti per studiare la vita del Rinascimento nel suo aspetto «uomo» e nelle sue contraddizioni morali e civili. L’Alberti rappresenta il borghese (vedere anche il Pandolfini), Castiglione il nobile cortigiano (vedere anche il Della Casa), Machiavelli rappresenta e cerca di rendere organiche le tendenze politiche dei borghesi (repubbliche) e dei principi, in quanto vogliono, gli uni e gli altri, fondare Stati o ampliarne la potenza territoriale e militare.
Secondo Vittorio Cian (Il conte Baldassar Castiglione (1529‑1929), Nuova Antologia del 16 agosto ‑ 1° settembre 1929) Francesco Sansovino, contemporaneo, là dove informa che Carlo V era assai parco lettore, soggiunge: «Si dilettava di leggere tre libri solamente, li quali esso avea fatti tradurre in lingua sua propria: l’uno per l’instituzione della vita civile, e questo fu il Cortegiano del conte Baldesar da Castiglione, l’altro per le cose di Stato, e questo fu il Principe co’ Discorsi del Machiavelli, et il terzo per l’ordine della milizia, e questo fu la Historia con tutte le altre cose di Polibio».
Scrive il Cian: «Non abbastanza è stato avvertito che il Cortegiano, documento storico di primissimo ordine, attesta e illustra luminosamente l’evoluzione della cavalleria medioevale, la quale, attecchita in iscarsa misura, dicono, in Italia, in realtà, differenziatasi, sin dalle origini, da quella d’oltr’Alpi, nel clima italiano della Rinascita diventa una nuova cavalleria, assume il carattere d’una milizia civile, combattente all’insegna di Marte, ma anche di Apollo, di Venere e di tutte le Muse. Evoluzione, dico, e non affatto degenerazione o decadenza, come parve al De Sanctis».
Ma il Cian si basa solo sul Cortegiano, che è un tentativo di organizzare una aristocrazia intorno al «principe» e di differenziarla dalla morale borghese trionfante: che questa cavalleria fosse superficiale è dimostrato dall’Orlando Furioso, che precede il Don Chisciotte e lo prepara. In ogni caso l’articolo del Cian è da rivedere: egli è conoscitore filologicamente perfetto del Cortegiano e bisognerà procurarsi la sua edizione del libro (III ed., editore Sansoni).
Q5 §104 Il Cinquecento. Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento secondo determinati canoni stereotipati ha dato luogo in Italia a curiosi giudizi e a limitazioni di attività critica che sono significativi per giudicare il carattere astratto dalla realtà nazionale‑popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce. Nel 1928 Emilio Lovarini ha stampato una commedia in 5 atti La Venexiana, commedia di ignoto cinquecentesco (Zanichelli, 1928, n. 1 della «Nuova scelta di curiosità letterarie inedite o rare») che è stata riconosciuta come una bellissima opera d’arte (cfr Benedetto Croce, nella «Critica» del 1930).
Ireneo Sanesi (autore del volume La Commedia nella collezione dei Generi letterari del Vallardi) in un articolo La Venexiana nella Nuova Antologia del 1° ottobre 1929, così imposta quello che per lui è il problema critico posto dalla commedia: l’autore ignoto della Venexiana è un ritardatario, un codino, un conservatore, perché rappresenta la commedia nata dalla novellistica medioevale, la commedia realistica, vivace (anche se scritta in latino) che prende gli argomenti dalla realtà della comune vita borghese o cittadinesca, i cui personaggi sono riprodotti da questa medesima realtà, le cui azioni sono semplici, chiare, lineari e il cui maggiore interesse riposa appunto nella loro sobrietà e nella loro lucidezza. Mentre, secondo il Sanesi, sono rivoluzionari gli scrittori del teatro erudito e classicheggiante, che riportavano sulla scena gli antichissimi tipi e motivi cari a Plauto e Terenzio. Per il Sanesi, gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente.
È interessante ciò che è avvenuto per la Venexiana a poca distanza da ciò che era avvenuto per le commedie del Ruzzante, tradotte in francese arcaicizzante dal dialetto padovano del Cinquecento da Alfredo Mortier. Il Ruzzante era stato rivelato da Maurizio Sand (figlio di Georges Sand) che lo proclamò maggiore non solo dell’Ariosto (nella commedia) e del Bibbiena, ma dello stesso Machiavelli, precursore del Molière e del naturalismo francese moderno. Anche per la Venexiana, Adolfo Orvieto («Marzocco», 30 settembre 1928) scrisse sembrare essa «il prodotto di una fantasia drammatica dei nostri tempi» e accennò al Becque.
È interessante notare questo doppio filone nel Cinquecento: uno veramente nazionale‑popolare (nei dialetti, ma anche in latino) legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia, e l’altro aulico, cortigiano, anazionale, che però è portato sugli scudi dai retori.
Q5 §113 Su Enrico Ibsen. Cfr Guido Manacorda, Il pensiero religioso di Enrico Ibsen, Nuova Antologia del 1° novembre 1929. Questo articolo del Manacorda, che appartiene al gruppo degli intellettuali «cattolici integrali» e polemisti per la Chiesa di Roma, è interessante per capire Ibsen indirettamente, per intendere a pieno il valore delle sue vedute ideologiche, ecc.
Letteratura non nazionale-popolare
Q5 §96 Carattere negativo nazionale‑popolare della letteratura italiana. Nel 1892 l’editore Hoepli indisse un referendum sulla letteratura italiana raccolto in volume, I migliori libri italiani consigliati da cento illustri contemporanei che dev’essere interessante da vedere per questa rubrica, per stabilire quali siano state le opere più apprezzate e da chi e per quali ragioni.
Q5 §32 Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana. I Sepolcri devono essere considerati come la maggiore «fonte» della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La «nazione» non è il popolo, o il passato che continua nel «popolo», ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell’800 quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventù, ma che è appunto «deformazione» perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l’ispirazione dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della così detta poesia sepolcrale: è un’ispirazione «politica», come egli stesso scrive nella lettera al Guillon).
Letteratura popolare
Q5 §54 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura popolare‑nazionale. Bisognerà fissare bene ciò che deve intendersi per «interessante» nell’arte in generale e specialmente nella letteratura narrativa e nel teatro. L’elemento «interessante» muta secondo gli individui o i gruppi sociali o la folla in generale: è quindi un elemento della cultura, non dell’arte, ecc. Ma è perciò un fatto completamente estraneo e separato dall’arte? Intanto l’arte stessa interessa, è interessante cioè per se stessa, in quanto soddisfa una esigenza della vita. Ancora: oltre questo carattere più intimo all’arte di essere interessante per se stessa, quali altri elementi di «interesse» può presentare un’opera d’arte, per esempio un romanzo o un poema o un dramma? Teoricamente infinito. Ma quelli che «interessano» non sono infiniti: sono precisamente solo gli elementi che si ritiene contribuiscano più direttamente alla «fortuna» immediata o mediata (in primo grado) del romanzo, del poema, del dramma.
Un grammatico si può interessare ad un dramma di Pirandello perché vuol sapere quanti elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca siciliana il Pirandello introduce o può introdurre nella lingua italiana letteraria: ecco un elemento «interessante» che non contribuirà molto alla diffusione del dramma in parola. I «metri barbari» del Carducci erano un elemento «interessante» per una cerchia più vasta, per la corporazione dei letterati di professione, e per quelli che intendevano diventarlo: furono dunque un elemento di «fortuna» immediata già notevole, contribuirono a diffondere qualche migliaia di copie dei versi scritti in metri barbari. Questi elementi «interessanti» variano secondo i tempi, i climi culturali e secondo le idiosincrasie personali.
L’elemento più stabile di «interesse» è certamente l’interesse «morale» positivo o negativo, cioè per adesione o per contraddizione: «stabile» in un certo senso, cioè nel senso della «categoria morale», non del contenuto concreto morale. Strettamente legato a questo è l’elemento «tecnico» in un certo senso particolare, cioè «tecnico» come modo di far capire nel modo più immediato e più drammatico il contenuto morale, il contrasto morale del romanzo, del poema, del dramma: così abbiamo nel dramma i «colpi» di scena, nel romanzo l’«intrigo» prevalente, ecc. Tutti questi elementi non sono necessariamente «artistici», ma non sono neanche necessariamente non artistici. Dal punto di vista dell’arte essi sono in un certo senso «indifferenti», cioè extra‑artistici: sono dati di storia della cultura e da questo punto di vista devono essere valutati.
Che ciò avvenga, che così sia, è appunto provato dalla così detta letteratura mercantile, che è una sezione della letteratura popolare‑nazionale: il carattere «mercantile» è dato dal fatto che l’elemento «interessante» non è «ingenuo», «spontaneo», intimamente fuso nella concezione artistica, ma ricercato dall’esterno, meccanicamente, dosato industrialmente come elemento certo di «fortuna» immediata. Ciò significa, in ogni caso, però, che anche la letteratura commerciale non dev’essere trascurata nella storia della cultura: essa anzi ha un valore grandissimo proprio da questo punto di vista, perché il successo di un libro di letteratura commerciale indica (e spesso è il solo indicatore esistente) quale sia la «filosofia dell’epoca», cioè quale massa di sentimenti e di concezioni del mondo predomini nella moltitudine «silenziosa». Questa letteratura è uno «stupefacente» popolare, è un «oppio». (Da questo punto di vista si potrebbe fare un’analisi del Conte di Montecristo di A. Dumas, che è forse il più «oppiaceo» dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla «punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione, sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede più «sistematicamente»).
Q5 §84 Letteratura popolare. Wells. Cfr l’articolo di Laura Torretta, L’ultima fase di Wells, nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929. Interessante e pieno di spunti utili per questa rubrica. Wells dovrà essere considerato come scrittore che ha inventato un nuovo tipo di romanzo di avventure, diverso da quello di Verne. Nel Verne ci troviamo, generalmente, nell’ambito del verosimile, con una antecipazione sul tempo. Nello Wells lo spunto generale è inverosimile, mentre i particolari sono scientificamente esatti o almeno verosimili; Wells è più immaginoso e ingegnoso, Verne più popolare. Ma Wells è scrittore popolare anche in tutto il resto della sua produzione: è scrittore «moralista» e non solo nel senso normale ma anche in quello deteriore. Però non può essere popolare in Italia e in genere nei paesi latini e in Germania: è troppo legato alla mentalità anglosassone.
Q5 §103 Letteratura popolare. Teatro. «Il dramma lacrimoso e la commedia sentimentale avevano popolato il palcoscenico di pazzi e di delinquenti di ogni genere e la Rivoluzione francese – tranne pochi lavori d’occasione – niente aveva ispirato agli autori drammatici che segnasse un nuovo indirizzo d’arte e che sviasse il pubblico dai sotterranei misteriosi, dalle foreste perigliose, dai manicomi...» (Alberto Manzi, Il conte Giraud, il Governo italico e la censura nella Nuova Antologia del 1° ottobre 1929).
Il Manzi riporta un brano di un opuscolo dell’avv. Maria Giacomo Boïeldieu, del 1804: «Ai nostri giorni la scena si è trasformata: e non è raro il caso di veder gli assassini nelle loro caverne e i pazzi nel manicomio. Non si può lasciare ai tribunali il compito di punire quei mostri che disonorano il nome di uomo, e ai medici quello di cercar di curare gli sventurati i cui delitti colpiscono penosamente l’umanità, anche se simulati? Quale possente attrattiva, quale soluzione può esercitare sullo spettatore il quadro dei mali che nell’ordine morale e fisico desolano la specie umana, e dai quali da un momento all’altro e per la più piccola scossa dei nostri nervi esauriti, possiamo noi stessi diventare vittime meritevoli di compassione?! Che bisogno c’è di andare al teatro per vedere Briganti (commedia tipo: Robert chef des brigands, di Lamartelière, finito poi impiegato di Stato, e il cui enorme successo, nel 1791, fu determinato dalla frase “guerre aux châteaux, paix aux chaumières”; derivata dai Masnadieri di Schiller) Pazze e Malati d’amore (commedie tipo Nina la pazza per amore, Il cavaliere de la Barre, Il delirio, ecc.)», ecc. ecc. Il Boïeldieu critica «il genere che, in realtà, mi sembra pericoloso e da deplorare».
L’articolo del Manzi contiene qualche spunto sull’atteggiamento della censura napoleonica contro questo tipo di teatro, specialmente quando i casi anormali rappresentati toccavano il principio monarchico.
Altro
Q5 §102 Letteratura italiana. Contributo dei burocratici. Ho scritto già una nota su questo argomento, osservando quanto poco scrivano i funzionari italiani di ogni categoria, intorno a ciò che costituisce la loro specialità e la loro particolare attività (se scrivono lo fanno solo per i superiori non per il popolo‑nazione). Nella Nuova Antologia del 16 settembre 1929, a p. 267 è detto che il libro Nazioni e minoranze etniche (Zanichelli, 2 voll.) è stato scritto «da un giovane gentiluomo romano, che, non volendo confusi i suoi studi giuridici e storici con i suoi uffici diplomatici, ha adottato il nome un poco arcaico di Luca dei Sabelli».
Q5 §142 Romanzi filosofici, utopie, ecc. In questa serie di ricerche dovrà entrare la quistione del governo dei gesuiti nel Paraguay e della letteratura che suscitò. Il Muratori scrisse: Il Cristianesimo felice nelle Missioni dei Padri della Compagnia di Gesù. Nelle storie della Compagnia di Gesù si potrà trovare tutta la bibliografia in proposito.
La «Colonia di S. Leucio» istituita dai Borboni e di cui il Colletta parla con tanta simpatia, non sarebbe l’ultimo fiotto della popolarità dell’amministrazione dei gesuiti nel Paraguay?
Q5 §125 Riviste‑tipo. Rassegne critiche bibliografiche. Una importantissima sui risultati della critica storica applicata alle origini del Cristianesimo, alla personalità storica di Gesù, agli Evangeli, alle loro differenze, agli evangeli sinottici e a quello di Giovanni, agli evangeli così detti apocrifi, all’importanza di S. Paolo e degli apostoli, alle discussioni se Gesù possa essere l’espressione di un mito ecc. (Cfr i libri dell’Omodeo1 ecc., le collezioni del Couchoud presso l’editore Rieder ecc.).
Q5 §131 Riviste‑tipo. Una rubrica grammaticale‑linguistica. La rubrica Querelles de langage affidata nelle «Nouvelles Littéraires» ad André Thérive (che è il critico letterario del «Temps») mi ha colpito pensando alla utilità che una simile rubrica avrebbe nei giornali e nelle riviste italiane. Per l’Italia la rubrica sarebbe molto più difficile da compilare, per la mancanza di grandi dizionari moderni e specialmente di grandi opere di insieme sulla storia della lingua (come i libri del Littré e del Brunot in Francia, e anche di altri) che potrebbero mettere in grado un qualsiasi medio letterato o giornalista di alimentare la rubrica stessa. L’unico esempio di tal genere di letteratura in Italia è stato l’Idioma Gentile del De Amicis (oltre ai capitoli sul vocabolario nelle Pagine Sparse) che però aveva carattere troppo linguaiolo e retorico, oltre all’esasperante manzonismo.
Mat. Bibl.: De Amicis - L'idioma gentile
Q5 §26 I nipotini di padre Bresciani. Alfredo Panzini. La traduzione delle Opere e i Giorni di Esiodo, stampata dal Panzini nel 1928 (prima nella Nuova Antologia poi in volumetto Treves), è esaminata nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 da Angiolo Orvieto (Da Esiodo al Panzini). La traduzione tecnicamente è molto imperfetta. Per ogni parola del testo il Panzini ne adopera due o tre delle sue; si tratta più di una traduzione commento che di una traduzione, alla quale manca «il colorito particolarissimo dell’originale, salvo quella certa solennità maestosa ch’egli in più luoghi è riuscito a conservare».
Q5 §27 I nipotini di padre Bresciani. Enrico Corradini. È stata ristampata nel 1928 nella Collezione teatrale Barbera la Carlotta Corday di E. Corradini, che nel 1907 o 8, quando fu scritta, ebbe accoglienze disastrose e fu ritirata dalle scene. Il Corradini stampò il dramma con una prefazione (anch’essa ristampata nella ed. Barbera) in cui accusava del disastro un articolo dell’«Avanti!» che aveva sostenuto il Corradini aver voluto diffamare la rivoluzione francese. La prefazione del Corradini deve essere interessante anche dal punto di vista teorico, per la compilazione di questa rubrica del Brescianesimo, perché il Corradini sembra far distinzione fra «piccola politica» e «grande politica» nelle «tesi» contenute nei lavori d’arte. Naturalmente per il Corradini, la sua essendo «grande politica», l’accusa di «politicantismo» in sede artistica non potrebbe essere elevata contro di lui. Ma la quistione è un’altra: nelle opere d’arte si tratta di vedere se c’è intrusione di elementi extra-artistici, siano questi di alto o di basso carattere, cioè se si tratta di «arte» o di oratoria a fini pratici. E tutta l’opera del Corradini è di questo tipo: non arte e anche cattiva politica, cioè semplice rettorica ideologica.
Q5 §63 I nipotini di padre Bresciani. Scrittori «tecnicamente» brescianeschi. Per questi scrittori occorre vedere: Giovanni Casati, Scrittori cattolici italiani viventi. Dizionario biobibliografico ed indice analitico delle opere, con prefazione di Filippo Meda, Milano, Romolo Ghirlanda editore, Via Unione 7, in 8°, pp. VIII‑112, L. 15,00.
Q5 §66 I nipotini di padre Bresciani. Ugo Ojetti e i gesuiti. La Lettera al Rev. Padre Enrico Rosa di U. Ojetti è stata pubblicata nel «Pégaso» del marzo 1929 e riportata nella «Civiltà Cattolica» del 6 aprile successivo con la lunga postilla del p. Rosa stesso.
Q5 §101 I nipotini di padre Bresciani. Filippo Crispolti. Uno dei documenti più brescianeschi del Crispolti è l’articolo La madre di Leopardi nella Nuova Antologia del 16 settembre 1929. Che dei puri eruditi, appassionati anche delle minuzie biografiche dei grandi uomini, come il Ferretti, abbiano cercato di «riabilitare» la madre del Leopardi, non fa meraviglia: ma le allumacature gesuitiche che il Crispolti sbava sullo scritto del Ferretti, fanno ribrezzo. Tutto il tono è ripugnante, intellettualmente e moralmente. Intellettualmente perché il Crispolti interpreta la psicologia del Leopardi con i suoi «grandi dolori» giovanili (certamente suo è il manoscritto inedito di memorie cui si riferisce due volte) per essere povero, cattivo ballerino e noioso conversatore: paragone ripugnante. Moralmente perché il tentativo di giustificare la madre del Leopardi è meschino, cavilloso, gesuitico nel senso tecnico della parola.
Davvero che tutte le madri aristocratiche dei primi del secolo XIX erano come Adelaide Antici? Si potrebbero portare documenti in contrario a profusione e anche l’esempio del D’Azeglio non serve, perché la durezza nell’educazione fisica per avere dei soldati, è ben diversa dalla secchezza morale e sentimentale: quando il D’Azeglio bambino si ruppe il braccio e il padre lo indusse a tenere nascosto il male una notte intera per non spaventare la madre, chi non vede quale sostrato affettuoso famigliare è contenuto nell’episodio e come ciò doveva esaltare il bambino e legarlo più intimamente ai genitori? (Questo episodio del D’Azeglio è citato in un altro articolo dello stesso fascicolo della Nuova Antologia, Pellegrinaggio a Recanati, di Alessandro Varaldo).
La difesa della madre del Leopardi non è un puro fatto d’erudizione curiosa, è un elemento ideologico, accanto alla riabilitazione dei Borboni, ecc.
Q5 §154 I nipotini di padre Bresciani. Cardarelli e la «Ronda». Nota di Luigi Russo su Cardarelli nella «Nuova Italia» dell’ottobre 1930. Il Russo appunto trova nel Cardarelli il tipo (moderno‑fossile) di ciò che fu l’abate Vito Fornari a Napoli in confronto del De Sanctis. Dizionario della Crusca. Controriforma, Accademia, reazione, ecc.
Sulla «Ronda» e sugli accenni alla vita pratica del 1920‑21 confrontare Lorenzo Montano, Il Perdigiorno, Edizione dell’Italiano, Bologna 1928 (sono raccolte nel volumetto le note d’attualità del Montano pubblicate dalla «Ronda») .
Q5 §155 I nipotini di padre Bresciani. La«Fiera Letteraria» nel numero del 9 settembre 1928 pubblicò un manifesto Per un’unione letteraria europea firmato da quattro settimanali letterari: «Les Nouvelles Littéraires», di Parigi, «La Fiera Letteraria» di Milano, «Die Literarische Welt» di Berlino, «La Gaceta Literaria» di Madrid, in cui si annunziava una certa collaborazione europea tra i letterati aderenti a questi quattro giornali e quelli degli altri paesi europei, con convegni annuali, ecc. In seguito non se ne parlò più.
Q5 §128 Lorianismo. Domenico Giuliotti. Alla teoria di Loria della necessaria concomitanza del misticismo e della sifilide, fa riscontro Domenico Giuliotti, il quale, nella prefazione a Profili di Santi edito dalla Casa Ed. Rinascimento del Libro, scrive: «Eppure, o edifichiamo unicamente in Cristo o, in altri modi, edifichiamo nella morte. Nietzsche, per esempio, l’ultimo anticristiano di grido, è bene non dimenticare che fini luetico e pazzo». Nietzsche è solo l’esempio di una serie, a quanto pare, cioè si tratta di una legge, ciò che è rinforzato dal «è bene non dimenticare», cioè: state attenti, ragazzi, a non essere anticristiani, perché altrimenti morrete luetici e pazzi. È proprio l’anti‑Loria perfetto. (La prefazione del Giuliotti è riportata nell’«Italia Letteraria» del 15 dicembre 1929, quindi il libro sarà uscito nel 1930: pare si tratti di una serie di vite di Santi tradotte dal Giuliotti).
Q5 §158 Lorianismo. L’altimetria, i buoni costumi e l’intelligenza. Nell’«utopia» di Ludovico Zuccolo Il Belluzzi o la Città felice ristampato da Amy Bernardy nelle «Curiosità letterarie» dell’ed. Zanichelli (che non è precisamente un’utopia, perché si parla della repubblica di S. Marino), si accenna già alla teoria loriana dei rapporti tra l’altimetria e i costumi degli uomini.
Q5 §156 Folklore. Una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri: 1°) i canti composti dal popolo e per il popolo; 2°) quelli composti per il popolo ma non dal popolo; 3°) quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.
Mi pare che tutti i canti popolari si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione.
Culture non europee
Q5 §23 Noterelle sulla cultura cinese.
Rapporti della cultura cinese con l’Europa. Prime notizie sulla cultura cinese sono date dai missionari, specialmente gesuiti, nei secoli XVII‑XVIII. Intorcetta, Herdrich, Rougemont, Couplet, rivelano all’Occidente l’universalismo confuciano; du Halde (1736) scrive la Description de l’Empire de la Chine; Fourmont (1742), da Glemona, Prémare.
Nel 1815, con la formazione nel Collège de France della prima cattedra di lingua e letteratura cinese, la cultura cinese viene studiata dai laici (per fini e con metodi scientifici e non di apostolato cattolico com’era il caso dei gesuiti); questa cattedra è tenuta da Abel Rémusat, considerato oggi come il fondatore della sinologia europea. Discepolo del Rémusat fu Stanislas Julien, che è considerato come il primo sinologo del suo tempo; tradusse un’enorme massa di testi cinesi, romanzi, commedie, libri di viaggi e opere di filosofia e infine riassunse la sua esperienza filologica nella Syntaxe nouvelle de la langue chinoise.
L’importanza scientifica del Julien è data dal fatto che egli riuscì a penetrare il carattere della lingua cinese e le ragioni della sua difficoltà per gli europei, abituati alle lingue flessive. Anche per un cinese lo studio della sua lingua è più difficile di ciò che non sia per un europeo lo studio della propria: occorre un doppio sforzo, di memoria e d’intelligenza, di memoria per ricordare i molteplici significati di un ideogramma, di intelligenza per collegare questi in modo da trovare in ognuno di essi la parte, per così dire, connettiva che permette di trarre dal nesso delle frasi un senso logico ed accettabile. Più il testo è denso ed elevato (nel senso dell’astrazione) e più difficile è tradurlo: anche il più esperto letterato cinese deve sempre far precedere un lavorio d’analisi, più o meno rapido, all’interpretazione del testo che legge. L’esperienza ha nel cinese un valore più grande che in altre lingue, dove base prima all’intelligenza è la morfologia che in cinese non esiste.
(Mi pare difficile accettare che in cinese non esista assolutamente la morfologia: nelle descrizioni della lingua cinese fatte da europei bisogna tener conto del fatto che il «sistema di scrittura» prende necessariamente il primo posto nell’importanza: ma il «sistema di scrittura» coincide perfettamente con la lingua parlata che è la «lingua reale»? è possibile che la funzione morfologica in cinese sia più legata alla fonetica e alla sintassi, cioè al tono dei singoli suoni e al ritmo musicale del periodo, cosa che non potrebbe apparire nella scrittura se non sotto forma di notazione musicale, ma anche in questo caso mi pare difficile escludere una qualche funzione morfologica autonoma: bisognerebbe vedere il libretto del Finck sui tipi principali di lingue. Ricordare ancora che la funzione morfologica anche nelle lingue flessive ha come origine parole indipendenti divenute suffissi, eccetera: questa traccia forse può servire per identificare la morfologia del cinese, che rappresenta una fase linguistica forse più antica delle più antiche lingue di cui si è conservata la documentazione storica. Le notizie che qui riassumo sono prese da un articolo di Alberto Castellani, Prima sinologia, nel «Marzocco» del 24 febbraio 1929).
Nel cinese «chi più legge più sa»: infatti, tutto riducendosi a sintassi, solo una lunga pratica con i modi, le clausole della lingua può essere di certo indirizzo alla intelligenza del testo. Tra il vago valore degli ideogrammi e la comprensione integrale del testo ci deve essere un esercizio dell’intelligenza che, nella necessità di adattamento logico, non ha quasi limite in paragone alle lingue flessive.
Un libro sulla cultura cinese. Eduard Erkes, Chinesische Literatur, Ferdinand Hirt, Breslau, 1926.
È un volumetto di meno che cento pagine in cui, secondo Alberto Castellani, mirabilmente si condensa tutto il ciclo culturale cinese, dalla più antica età fino ai giorni nostri. Non si può comprendere il presente cinese senza conoscerne il passato, senza una informazione demopsicologica: questo è giusto, ma è esagerata, almeno nella forma data, questa affermazione: «La conoscenza del passato dimostra che la gente cinese è già da diverse diecine di secoli, confucianamente comunista: tanto che certi recenti tentativi d’innesto eurasiatico ci ricordano il portar nottole ad Atene». Questa affermazione si può fare per ogni popolo arretrato di fronte all’industrialismo moderno e poiché si può fare per molti popoli, ha un valore primitivo: tuttavia la conoscenza della reale psicologia delle masse popolari, da questo punto di vista o come si può ricostruire attraverso la letteratura, ha grande importanza. La letteratura cinese è d’impronta genuinamente religioso‑statale.
L’Erkes tenta una ricostruzione critico‑sintetica dei diversi momenti della letteratura cinese, attraverso le epoche più significative, per dare a questi momenti maggior rilievo di necessità storica. (Non è cioè una storia della letteratura in senso erudito e descrittivo, ma una storia della cultura). Tratteggia la figura e l’opera di Chu Hsi (1130-1200) che pochi occidentali sanno essere stata la personalità più significativa della Cina, dopo Confucio, grazie ai meditati silenzi dei missionari che hanno visto in questo riplasmatore della moderna coscienza cinese l’ostacolo più grande ai loro sforzi di propaganda.
Libro del Wiegor, La Chine à travers les Ages. L’Erkes arriva fino alla fase recente della Cina europeizzante e informa anche sullo svolgimento che si sta compiendo anche a proposito della lingua e dell’educazione.
Nel «Marzocco» del 23 ottobre 1927 Alberto Castellani dà notizia del libro di Alfredo Forke: Die Gedankenwelt des chinesischen Kulturkreises, München‑Berlin, 1927 (Filosofia cinese in veste europea e... giapponese). Il Forke è professore di lingua e di civiltà della Cina all’Università di Amburgo ed è noto come specialista dello studio della filosofia cinese. Lo studio del pensiero cinese è difficile per un occidentale per varie ragioni: 1) i filosofi cinesi non hanno scritto trattati sistematici del loro pensiero: furono i discepoli a raccogliere le parole dei maestri, non i maestri a scriverle per gli eventuali discepoli; 2) la filosofia vera e propria era intrecciata e come soffocata nelle tre grandi correnti religiose, Confucianismo, Taoismo, Buddismo; così i Cinesi passarono spesso agli occhi dell’europeo non specialista o come privi di filosofia vera e propria o come aventi tre religioni filosofiche (questo fatto però, che la filosofia sia stata intrecciata alla religione ha un significato dal punto di vista della cultura e caratterizza la posizione storica degli intellettuali cinesi). Il Forke appunto ha cercato di presentare il pensiero cinese secondo le forme europee, ha cioè liberato la filosofia vera e propria dai miscugli e dalle promiscuità eterogenee; quindi ha reso possibile qualche parallelo tra il pensiero europeo e quello cinese.
L’Etica è la parte più rigogliosa di questa ricostruzione: la Logica è meno importante «perché anche i Cinesi stessi ne hanno avuto sempre, più un senso istintivo, come intuizione, che non un concetto esatto, come scienza». (Questo punto è molto importante, come momento culturale). Solo alcuni anni fa, uno scrittore cinese, il prof. Hu Shi, nella sua Storia della Filosofia Cinese (Scianghai, 1919) assegna alla Logica un posto eminente, ridisseppellendola dagli antichi testi classici, di cui, non senza qualche sforzo, tenta di rivelare il magistero. Forse il rapido invadere del Confucianismo, del Taoismo e del Buddismo, che non hanno interesse per i problemi della Logica, può avere intralciato il suo divenire come scienza. «Sta di fatto che i Cinesi non hanno mai avuto un’opera come il Nyàya di Gautama e come l’Organon di Aristotile». Così manca in Cina una disciplina filosofica sulla «conoscenza» (Erkenntnistheorie). Il Forke non vi trova che tendenze.
Il Forke esamina inoltre le diramazioni della filosofia cinese fuori della Cina, specialmente nel Giappone. Il Giappone ha preso dalla Cina insieme alle altre forme di cultura anche la filosofia, pur dandole un certo carattere proprio. Il Giapponese non ha tendenze metafisiche e speculative come il cinese (è «pragmatista» ed empirista). I filosofi cinesi tradotti in giapponese, acquistano però una maggiore perspicuità. (Ciò significa che i giapponesi hanno preso dal pensiero cinese ciò che era utile per la loro cultura, un po’ come i romani hanno fatto coi greci).
Il Castellani ha recentemente pubblicato: La dottrina del Tao ricostruita sui testi ed esposta integralmente, Bologna, Zanichelli, e La regola celeste di Lao‑Tse, Firenze, Sansoni, 1927. Il Castellani fa un paragone tra Lao‑Tse e Confucio (non so in quale di questi due libri): «Confucio è il Cinese del Settentrione, nobile, colto, speculativo; Lao‑Tse, 50 anni più vecchio di lui, è il Cinese del mezzogiorno, popolare, audace, fantasioso. Confucio è uomo di Stato; Lao-Tse sconsiglia l’attività pubblica: quegli non può vivere se non a contatto col governo, questi fugge il consorzio civile e non partecipa alle sue vicende. Confucio si contenta di richiamare i regnanti e il popolo agli esempi del buon tempo antico; Lao‑Tse sogna senz’altro l’era dell’innocenza universale e lo stato virgineo di natura; quegli è l’uomo di corte e dell’etichetta, questi l’uomo della solitudine e della parola brusca. Per Confucio, riboccante di forme, di regole, di rituali, la volontà dell’uomo entra in maniera essenziale nella produzione e determinazione del fatto politico; Lao‑Tse invece crede che i fatti tutti, senza eccezione, si facciano da sé, oltre e senza la nostra volontà; ch’essi abbiano tutti in se stessi un ritmo inalterato e inalterabile da qualunque nostro intervento. Nulla per lui di più ridicolo dell’ometto confuciano, faccendiero e ficcanaso, che crede all’importanza e quasi al peso specifico di ogni suo gesto; nulla di più meschino di quest’animula miope e presuntuosa, lontana dal Tao, che crede di dirigere ed è diretta, crede di tenere ed è tenuta». (Questo brano è tolto da un articolo di A. Faggi nel «Marzocco» del 12 giugno 1927, Sapere cinese). Il «non fare» è il principio del Taoismo, è appunto il «Tao», la «strada».
La forma statale cinese. La monarchia assoluta è fondata in Cina nell’anno 221 avanti Cristo e dura fino al 1912, nonostante il mutare di dinastie, le invasioni straniere, ecc. Questo è il punto interessante; ogni nuovo padrone trova l’organismo bello e fatto, di cui si impadronisce impadronendosi del potere centrale. La continuità è così un fenomeno di morte e di passività del popolo cinese. Evidentemente anche dopo il 1912 la situazione è rimasta ancora relativamente stazionaria, nel senso che l’apparato generale è rimasto quasi intatto: i militari tuciun si sono sostituiti ai mandarini e uno di essi, volta a volta, tenta di rifare l’unità formale, impadronendosi del centro. L’importanza del Kuomintang, sarebbe stata ben più grande se avesse posto realmente la quistione della Convenzione pancinese. Ma ora che il movimento è scatenato, mi pare difficile che senza una profonda rivoluzione nazionale di massa, si possa ricostituire un ordine duraturo.
Mat. Bibl.: Confucio e Confucianesimo
Q5 §50 Noterelle sulla cultura giapponese. Nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1929 è pubblicata l’introduzione (La religione nazionale del Giappone e la politica religiosa dello Stato giapponese) al volume su La Mitologia Giapponese che Raffaele Pettazzoni ha pubblicato nella collana di «Testi e Documenti per la Storia della Religione» editi dalla Zanichelli di Bologna. Perché il Pettazzoni ha intitolato il suo libro Mitologia? C’è una certa differenza tra «Religione» e «Mitologia» e sarebbe bene tenere ben distinte le due parole. La religione è diventata nel Giappone una semplice «mitologia» cioè un elemento puramente «artistico» o di «folklore» oppure ha ancora il valore di una concezione del mondo ancora viva e operante? Poiché pare dall’introduzione che sia quest’ultimo il valore che il Pettazzoni dà alla religione giapponese, il titolo è equivoco. Da questa introduzione noto alcuni elementi che potranno essere utili per studiare un paragrafo «giapponese» alla rubrica degli «intellettuali»:
Introduzione del Buddismo nel Giappone, avvenuta nel 552 d. C. Fino allora il Giappone aveva conosciuto una sola religione, la sua religione nazionale. Dal 552 ad oggi la storia religiosa del Giappone è stata determinata dai rapporti e dalle interferenze fra questa religione nazionale e il Buddismo (tipo di religione extranazionale e supernazionale come il cristianesimo e l’islamismo); il cristianesimo, introdotto nel Giappone nel 1549 dai gesuiti (Francesco Saverio), fu sradicato con la violenza nei primi decenni del secolo XVII; reintrodotto dai missionari protestanti e cattolici nella seconda metà del secolo XIX, non ha avuto grande importanza complessivamente.
Dopo l’introduzione del Buddismo, la religione nazionale fu chiamata con parola sino‑giapponese Shinto cioè «via (cinese: tao) degli dei (cinese: Shen)» mentre butsu‑do indicò il Buddismo («do»‑via, «butsu»-Budda). In giapponese Shinto si dice Kami‑no‑michi (Kami-divinità). Kami non significa «dio» nel senso occidentale, ma più genericamente «esseri divini» compresi anche gli antenati divinizzati. (Dalla Cina fu introdotto nel Giappone non solo il Buddismo, ma anche il culto degli antenati, che, a quanto pare, si incorporò più intimamente nella religione nazionale). Lo Shintoismo è però fondamentalmente una religione naturistica, un culto di divinità (Kami) della natura, tra cui primeggiano la dea del sole Amaterasu, il dio degli uragani Susanowo, la coppia Cielo e Terra, cioè Izanagi e Izanami ecc.
È interessante il fatto che lo Shintoismo rappresenta un tipo di religione che è scomparso del tutto nel mondo moderno occidentale, ma che era frequente presso i popoli civili dell’antichità (religioni nazionali e politeistiche degli Egiziani, dei Babilonesi, degli Indiani, dei Greci, dei Romani, ecc.). Amaterasu è una divinità come Osiride, o Apollo o Artemide; è interessante che un popolo civile moderno come il giapponese, creda e adori una tale divinità. (Forse però le cose non sono così semplici come può apparire).
Tuttavia accanto a questa religione nazionale sussiste il Buddismo, tipo di religione supernazionale, per cui si può dire che anche in Giappone si è avuto fondamentalmente lo stesso sviluppo religioso che nell’Occidente (col Cristianesimo). Anzi Cristianesimo e Buddismo si diffondono nelle rispettive zone sincronicamente e ancora: il Cristianesimo che si diffonde in Europa non è quello della Palestina, ma quello di Roma o di Bisanzio (con la lingua latina o greca per la liturgia) così come il Buddismo che si diffonde nel Giappone non è quello dell’India, ma quello cinese, con la lingua cinese per la liturgia. Ma a differenza del Cristianesimo, il Buddismo lasciò sussistere le religioni nazionali preesistenti (in Europa le tendenze nazionali si manifestarono in seno al Cristianesimo).
All’inizio il Buddismo fu accolto nel Giappone dalle classi colte, insieme alla civiltà cinese (ma la civiltà cinese portò solo il Buddismo?) Successe un sincretismo religioso: Buddismo‑Shintoismo. Elementi di confucianismo. Nel secolo XVIII ci fu una reazione al sincretismo in nome della religione nazionale che culminò nel 1868 con l’avvento del Giappone moderno. Lo Shintoismo dichiarato religione di Stato. Persecuzione del Buddismo. Ma per breve tempo.
Nel 1872 il Buddismo fu riconosciuto ufficialmente e parificato allo Shintoismo tanto nelle funzioni, tra cui principalmente quella pedagogica di educare il popolo ai sentimenti e ai principii del patriottismo, del civismo, e del lealismo, quanto nei diritti con la soppressione dell’«Ufficio dello Shinto» e la istituzione di un Ministero della religione, avente giurisdizione tanto sullo Shintoismo che sul Buddismo. Ma nel 1875 il governo mutò ancora la politica: le due religioni furono separate e lo Shintoismo andò assumendo una posizione speciale e unica. Provvedimenti burocratici vari andarono succedendosi che culminarono nella elevazione dello Shintoismo a istituzione patriottica e nazionale, con la rinunzia ufficiale al suo carattere religioso (divenne una istituzione – mi pare – del tipo di quella romana del culto dell’Imperatore, ma senza carattere religioso in senso stretto, per cui anche un Cristiano può esercitarlo).
I Giapponesi possono appartenere a qualsiasi religione, ma devono inchinarsi dinanzi all’immagine dell’Imperatore. Così lo Shinto di Stato si è separato dallo Shinto delle sette religiose. Anche burocraticamente si ebbe una sanzione: esiste oggi un «Ufficio delle religioni» presso il Ministero dell’Educazione, per le varie chiese dello Shintoismo popolare, per le varie chiese buddistiche e cristiane e un «Ufficio dei santuari» per lo Shintoismo di Stato presso il Ministero dell’Interno. Secondo il Pettazzoni questa riforma fu dovuta all’applicazione meccanica delle Costituzioni occidentali al Giappone: per affermare cioè il principio della libertà religiosa e della uguaglianza di tutte le religioni dinanzi allo Stato e per togliere il Giappone dallo stato di inferiorità e arretratezza che lo Shintoismo, come religione, gli conferiva in confronto col tipo di religione vigente in Occidente.
Mi pare artificiale la critica del Pettazzoni (vedere anche in Cina quel che avviene a proposito di Sun Yat Sen e dei tre principi: si sta formando un tipo di culto di Stato, areligioso: mi pare che l’immagine di Sun abbia un culto come quello dell’Imperatore vivente in Giappone). Nel popolo e anche nelle persone colte rimane però viva la coscienza e il sentimento dello Shinto come religione (ciò è naturale, ma mi pare innegabile l’importanza della Riforma, che tende, coscientemente o no, alla formazione di una coscienza laica, in forme paradossali quanto si vuole). (Questa discussione, se lo Shinto di Stato sia una religione o no mi pare la parte più importante del problema culturale giapponese: ma tale discussione non si può fare per il Cristianesimo, certamente).
MB: Budda e buddismo
Q5 §51 Noterelle di cultura cinese. Dall’articolo Il riformatore cinese Suen Uen e le sue teorie politiche e sociali, nella «Civiltà Cattolica» del 4 maggio e del 18 maggio 1929. «Il partito nazionalista ha promulgato decreti su decreti per onorare Suen Uen. Il più importante è quello che prescrive la “cerimonia del lunedì”. In tutte le scuole, uffici, posti militari, in qualsiasi istituzione appartenente in qualche modo al partito nazionalista, ogni lunedì, tutti si aduneranno innanzi al ritratto del “Padre della patria” e gli faranno, tutti insieme, il triplice inchino della testa. Indi si leggerà il suo “Testamento politico”, che contiene la quintessenza delle sue dottrine, e seguiranno tre minuti di silenzio per meditarne i grandi principii. Questa cerimonia sarà fatta in ogni adunanza importante». A tutte le scuole è fatto obbligo di studiare il Sen Min‑ciu‑i (triplice demismo), anche alle scuole dei cattolici e di qualsiasi confessione religiosa, come conditio sine qua non per la loro esistenza legale. Il delegato apostolico della Cina, mons. Celso Costantini, in una lettera al padre Pasquale d’Elia S. J., missionario italiano e membro dell’Ufficio Sinologico di Zi‑Ka-Wei, ha preso posizione su questi obblighi legali. La lettera è pubblicata al principio dell’opera: Le triple démisme de Sun Wen, traduit, annoté et apprécié par Pascal M. D’Elia S. J., Bureau Sinologique de Zi‑Ka‑Wei, Imprimérie de T’ou‑Sè‑Wè, Chang‑Hai 1929, in 8° pp. CLVIII‑530, 4 dollari cinesi.
Il Costantini non crede che Sun sia stato «divinizzato»: «Quanto agli inchini del capo innanzi al ritratto di Sun Yat-Sen, gli scolari cristiani non sono da inquietarsi. Per sé e di sua natura l’inchino del capo non ha senso superstizioso. Secondo l’intenzione del governo questa cerimonia non è altro che un ossequio meramente civile ad un uomo considerato quale Padre della Patria. Potrà essere eccessivo, ma non è in nessun modo idolatrico (il Governo per sé è ateo) e non vi è legato nessun sacrifizio. Se in qualche luogo per abuso si facessero dei sacrifizi, ciò dovrà ritenersi superstizioso e i cristiani non vi potrebbero assistere in niun modo. Non è nostro ufficio creare una coscienza erronea, ma illuminare gli alunni dove fosse qualche dubbio sul significato di tali cerimonie civili». Quanto all’insegnamento obbligatorio del triplice demismo, il Costantini scrive: «Secondo il mio giudizio personale, è lecito, se non insegnare, almeno spiegare nelle scuole pubbliche i principii del triplice demismo del Dr. Sun Yat Sen. Trattasi di materia non libera, ma imposta dal Governo, come condizione sine qua non. Parecchie cose, nel triplice demismo, sono buone, o almeno non cattive, e corrispondono più o meno o possono accomodarsi con la sociologia cattolica (Rerum novarum, Immortale Dei, Codice Sociale). Si deve procurare, nelle nostre scuole, di deputare alla spiegazione di questa materia, dei maestri cattolici ben formati nella dottrina e nella sociologia cristiana. Alcune cose devono essere spiegate e corrette...»
Q5 §90 Noterelle di cultura islamitica. Assenza di un clero regolare che serva di trait‑d’union tra l’Islam teorico e le credenze popolari. Bisognerebbe studiare bene il tipo di organizzazione ecclesiastica dell’Islam e l’importanza culturale delle Università teologiche (come quella del Cairo) e dei dottori. Il distacco tra intellettuali e popolo deve essere molto grande, specialmente in certe zone del mondo musulmano: così è spiegabile che le tendenze politeiste del folklore rinascano e cerchino di adattarsi al quadro generale del monoteismo maomettano.
Cfr l’articolo I santi nell’Islâm di Bruno Ducati nella Nuova Antologia del 1° agosto 1929. Il fenomeno dei santi è specifico dell’Africa settentrionale, ma ha una certa diffusione anche in altre zone. Esso ha la sua ragione di essere nel bisogno (esistente anche nel Cristianesimo) popolare di trovare intermediari tra sé e la divinità. Maometto, come Cristo, fu proclamato, – si proclamò – l’ultimo dei profeti, cioè l’ultimo legame vivente tra la divinità e gli uomini; gli intellettuali (sacerdoti o dottori) avrebbero dovuto mantenere questo legame attraverso i libri sacri; ma una tal forma di organizzazione religiosa tende a diventare razionalistica e intellettualistica (cfr il protestantesimo che ha avuto questa linea di sviluppo), mentre il popolo primitivo tende a un misticismo proprio, rappresentato dall’unione con la divinità con la mediazione dei santi (il protestantesimo non ha e non può avere santi e miracoli); il legame tra gli intellettuali dell’Islâm e il popolo divenne solo il «fanatismo», che non può essere che momentaneo, limitato, ma che accumula masse psichiche di emozioni e di impulsi che si prolungano in tempi anche normali. (Il cattolicesimo agonizza per questa ragione: che non può creare, periodicamente, come nel passato, ondate di fanatismo; negli ultimi anni, dopo la guerra, ha trovato dei sostituti, le cerimonie collettive eucaristiche che si svolgono con splendore fiabesco e suscitano relativamente un certo fanatismo: anche prima della guerra qualcosa di simile suscitavano, ma in piccolo, su scala localissima, le così dette missioni, la cui attività culminava nell’erezione di un’immensa Croce con scene violente di penitenza, ecc.). Questo movimento nuovo dell’Islâm è il sufismo.
I Santi musulmani sono uomini privilegiati che possono, per speciale favore, entrare in contatto con Dio, acquistando una perenne virtù miracolosa e la capacità di risolvere i problemi e i dubbi teologici della ragione e della coscienza. Il sufismo, organizzatosi a sistema ed esternatosi nelle scuole sufiche e nelle confraternite religiose, sviluppò una vera teoria della santità e fissò una vera gerarchia di santi. L’agiografia popolare è più semplice di quella sufica. Sono santi per il popolo i più celebri fondatori o capi di confraternite religiose; ma anche uno sconosciuto, un viandante che si fermi in una località a compier opere di ascetismo e benefici portentosi a favore delle popolazioni circostanti, può essere proclamato santo dalla pubblica opinione. Molti santi ricordano i vecchi iddii delle religioni vinte dall’Islâm.
Il Marabutismo dipende da una fonte della santità musulmana, diversa dal sufismo: Murâbit (marabutto) vuol dire che è nel ribât, cioè nel luogo fortificato della frontiera dal quale irrompere, nella guerra santa, contro gli infedeli. Nel ribât il culto doveva essere più austero, per la funzione di quei soldati presidiari, più fanatici e costituiti spesso di volontari (arditi dell’Islam): quando lo scopo militare perdé d’importanza, rimase un particolare abito religioso e i «santi» più popolari ancora che quelli sufici. Il centro del Marabutismo è il Marocco; verso Est, le tombe di Marabutti vanno sempre più diradandosi.
Il Ducati analizza minutamente questo fenomeno africano, insistendo sull’importanza politica che hanno i Marabutti, che si trovano a capo delle insurrezioni contro gli Europei, che esercitano una funzione di giudici di pace, e che talvolta furono il veicolo di una civiltà superiore. Conclude: «Questo culto (dei santi) per le conseguenze sociali, civilizzatrici e politiche, le quali ne derivano, merita di essere sempre meglio studiato e sempre più attentamente sorvegliato, poiché i Santi costituiscono una potenza, una forza straordinaria, la quale può essere l’ostacolo maggiore alla diffusione della civiltà occidentale, come pure, se abilmente sfruttata, può divenire un’ausiliaria preziosa dell’espansione europea».
Q5 §6 Passato e presente. Articoli del 1926 del conte Carlo Lovera di Castiglione nel «Corriere» di Torino1; risposte fulminanti del «Corriere d’Italia» di Roma. È da notare che gli articoli del Lovera di Castiglione, pur essendo molto arditi, non erano tuttavia paragonabili al contenuto del libro Storia di un’idea, perché i cattolici non reagirono così energicamente contro il libro, mentre furono feroci col Lovera? Vedere la produzione letteraria del Lovera: collaboratore delle riviste del Gobetti e del «Davide» di Gorgerino: articoli nel «Corriere» di Torino. È un vecchio aristocratico, credo discendente di Solaro della Margarita. È interessante notare che è amico degli scrittori della «Civiltà Cattolica» e che ha messo a loro disposizione l’archivio del Solaro.
Q5 §24 Passato e presente. Il rispetto del patrimonio artistico nazionale. È molto interessante a questo proposito l’articolo di Luca Beltrami: Difese d’arte in luoghi sacri e profani, nel «Marzocco» del 15 maggio 1927. Gli aneddoti riportati dal Beltrami dalla stampa quotidiana sono molto interessanti ed edificanti. Poiché questo punto è sempre messo innanzi per ragioni di polemica culturale, sarà bene ricordare questi episodi di volgare trimalcionismo delle cosidette classi colte.
Q5 §34 Passato e presente. Sul movimento della «Voce» di Prezzolini, che aveva certamente uno spiccato carattere di campagna per un rinnovamento morale e intellettuale della vita italiana (in ciò poi, continuava, con più maturità, il «Leonardo», e si distinse poi da «Lacerba» di Papini e dall’«Unità» di Salvemini, ma più da «Lacerba» che dall’«Unità»), cfr il libro di Giani Stuparich su Scipio Slataper, edito nel 1922 dalla «Casa Ed. La Voce».
Txt.: Scipio Slataper - Il mio Carso
Q5 §36 Passato e presente. Sull’impressione reale che ha fatto l’inizio d’attività dell’Accademia d’Italia cfr l’«Italia letteraria» del 15 giugno 1930, La prima seduta pubblica dell’Accademia d’Italia. In un articolo editoriale si critica acerbamente il modo con cui l’Accademia d’Italia ha distribuito la somma di un milione che era a sua disposizione per aiutare le patrie lettere, in 150 premiati: la distribuzione pare abbia assunto l’aspetto di una elargizione tipo minestra da convento; un altro pezzo Cronaca per la Storia di Antonio Aniante presenta la seduta come se fosse l’assemblea di un Consiglio Comunale di città provinciale.
Q5 §72 Passato e presente. Articolo dell’«Osservatore Romano» dell’11‑12 marzo, riportato (alcuni brani) dalla «Civiltà Cattolica» del 6 aprile 1929: «Così come non desta più l’impressione funesta, che sembra indurre in altri, la parola “rivoluzione”, allorché vuole indicare un programma e un moto che si svolge nell’ambito degli istituti fondamentali dello Stato, lasciando al loro posto il Monarca e la Monarchia: vale a dire gli esponenti maggiori e più sintetici dell’Autorità politica del Paese; senza sedizione cioè né insurrezione, da cui non sembravano poter prescindere fin qui il senso ed i mezzi di una rivoluzione».
Q5 §124 Passato e presente. Alcuni intellettuali. Il barone Raffaele Garofalo: il suo articolo sull’amnistia pubblicato nella Nuova Antologia e annotato in un altro quaderno, la sua conferenza nel volume L’Italia e gli italiani del secolo XIX a cura di Jolanda De Blasi1. Giovanni Gentile: il suo discorso a Palermo nel 1925 (o 24? cfr la nota di Croce in Cultura e Vita morale)2. Antonio Baldini: la sua conferenza nel volume curato dalla De Blasi su Carducci, D’Annunzio, Pascoli.
Il Garofalo rappresenta la vecchia tradizione del latifondista meridionale (ricordare il suo passo al Senato per fare aumentare i canoni enfiteutici e per mantenere nel nuovo Codice la segregazione cellulare)3; il Gentile e il Baldini altro tipo d’intellettuali, più «spregiudicati» del Garofalo.
Del Gentile è da ricordare il discorso agli operai romani, contenuto nel suo volume su Fascismo e cultura (edizione Treves).
Q5 §126 Passato e presente. Gli intellettuali: la decadenza di Mario Missiroli. Cfr l’articolo su Clemenceau di Mario Missiroli (Spectator) nella Nuova Antologia del 16 dicembre 1929. Articolo abbastanza interessante perché il Missiroli non ha perduto la capacità di grande giornalista nel sapere impostare un articolo brillante valendosi di alcune idee fondamentali e organizzandovi intorno una serie di fatti intelligentemente scelti. Ma perché e come Clemenceau fu a contatto con la Francia, col popolo francese e lo rappresentò nel momento supremo? Il Missiroli non lo sa dire: egli è diventato vittima del luogo comune antiparlamentare antidemocratico, «antidiscussionistico», antipartito ecc.
La quistione è questa: nella Francia di prima del 1914 la molteplicità dei partiti, la molteplicità dei giornali d’opinione, la molteplicità delle frazioni parlamentari, il settarismo e l’accanimento nelle lotte politico‑parlamentari e nelle polemiche giornalistiche erano un segno di forza o di debolezza nazionale (egemonia della classe media, ossia del terzo stato), un segno di ricerca continua di nuova più compatta unità o di disgregazione? Alla base della nazione, nello spirito popolare c’erano in realtà due soli partiti: la destra, dei nobili, del clero alto e di una parte dei generali; il centro, costituito da un solo grande partito diviso in frazioni personali o di gruppi politici fondamentalmente affini; e piccole minoranze non organizzate politicamente alla periferia sinistra, nel proletariato.
La divisione morale della Francia era tra la destra e il resto della nazione, riproduceva la divisione tradizionale avvenuta dopo il 93, dopo il terrore e l’esecuzione del re, dei nobili e dell’alto clero per le sentenze del Tribunale rivoluzionario robespierrista. Le divisioni interne erano nelle alte cime della gerarchia politica, non alla base, ed erano legate alla ricchezza di sviluppi interni della politica nazionale francese dal 1789 al 1870: era un meccanismo di selezione di personalità politiche capaci di dirigere, più che una disgregazione, era un perfezionamento continuo dello Stato maggiore politico nazionale. In tale situazione si spiegano la forza e la debolezza di Clemenceau e la sua funzione.
Così si spiegano anche le diagnosi sempre disastrose della situazione francese, sempre smentite dai fatti reali succeduti alla diagnosi. Il fenomeno di disgregazione interna nazionale (cioè di disgregazione dell’egemonia politica del terzo stato) era molto più avanzato nella Germania del 14 che nella Francia del 14, solo che la burocrazia ne faceva sparire i sintomi sotto la brillante vernice della disciplina coatta militaresca. Il fenomeno di disgregazione nazionale è avvenuto in Francia, ossia ha iniziato il suo processo di sviluppo, ma dopo il 19, molto dopo, molto più tardi che nei paesi a regime autoritario, che sono essi stessi un prodotto di tale disgregazione.
Ma Missiroli è diventato una vittima più o meno interessata dei luoghi comuni e la sua intelligenza della storia e della reale efficienza dei nessi ideologici è catastroficamente declinata.
Q5 §148 Passato e presente. Inchieste sui giovani. L’inchiesta «sulla nuova generazione» pubblicata nella «Fiera Letteraria» dal 2 dicembre 1928 al 17 febbraio 1929. Non molto interessante. I professori d’università conoscono poco i giovani studenti. Il ritornello più frequente è questo: i giovani non si dedicano più alle ricerche e agli studi disinteressati, ma tendono al guadagno immediato. Agostino Lanzillo risponde: «Oggi specialmente noi non conosciamo l’animo dei giovani e i loro sentimenti. È difficile guadagnare il loro animo: essi tacciono sui problemi culturali sociali e morali, molto volentieri. È diffidenza o disinteresse?» («Fiera Letteraria», 9 dicembre 28). (Questa del Lanzillo è l’unica nota realistica dell’inchiesta). Nota ancora il Lanzillo: «... vi è una disciplina ferrea ed una situazione di pace esterna ed interna, che si sviluppa nel lavoro concreto e l’attivo, ma che non consente il disfrenarsi di opposte concezioni politiche o morali. Ai giovani manca la palestra per agitarsi, per manifestare forme esuberanti di passioni o di tendenze. Nasce e deriva da questo un’attitudine fredda e silenziosa che è una promessa, ma che contiene anche delle incognite». Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» la risposta di Giuseppe Lombardo‑Radice: «V’è oggi fra i giovani scarsa pazienza per gli studi scientifici e storici; pochissimi affrontano un lavoro che richieda lunga preparazione e offra difficoltà di indagine. Vogliono, in generale, sbrigarsi degli studi; tendono soprattutto a collocarsi rapidamente, e distaccano l’animo dalle ricerche disinteressate, aspirando a guadagnare e repugnando alle carriere che loro paiono troppo lente. Malgrado tanta “filosofia” in giro, è povero il loro interesse speculativo; la loro cultura si vien facendo di frammenti; poco discutono, poco si dividono fra di loro in gruppi e cenacoli cui sia segnacolo una idea filosofica o religiosa. Il tono verso i grandi problemi è di scetticismo, o di rispetto affatto estrinseco per coloro che li prendono sul serio, o d’adozione passiva di un “verbo” dottrinale». «In generale, i meglio disposti spiritualmente sono gli studenti universitari più poveri» e «gli agiati sono, per lo più, irrequieti, insofferenti della disciplina degli studi, frettolosi. Non da loro verrà una classe spiritualmente capace di dirigere il nostro paese».
Queste note del Lanzillo e del Lombardo‑Radice sono l’unica cosa seria di tutta l’inchiesta, alla quale hanno d’altronde partecipato quasi esclusivamente professori di lettere. La maggior parte ha risposto con «atti di fede», non con constatazioni obbiettive o ha confessato di non poter rispondere.
Q5 §149 Passato e presente. La scuola. Lo studio del latino è in piena decadenza. Il Missiroli, in alcuni articoli dell’«Italia Letteraria» della fine del 1929 ha dato una visione «sconfortante» dello studio del latino in Italia.
Q5 §81 Passato e presente. Distribuzione territoriale della popolazione italiana.
Q5 §105 Americanismo. Confrontare Carlo Linati, Babbitt compra il mondo, nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1929. Articolo mediocre, ma appunto perciò significativo come espressione di una media opinione. Può servire appunto per fissare cosa si pensa dell’americanismo, da parte dei piccoli borghesi più intelligenti. L’articolo è una variazione del libro di Edgard Ansel Mowrer, This American World, che il Linati giudica «veramente acuto, ricco di idee e scritto con una concisione tra classica e brutale che piace, e da un pensatore a cui certo non fanno difetto né lo spirito d’osservazione né il senso delle gradazioni storiche né la varietà della cultura». Il Mowrer ricostruisce la storia culturale degli Stati Uniti fino alla rottura del cordone ombelicale con l’Europa e all’avvento dell’Americanismo.
Sarebbe interessante analizzare i motivi del grande successo avuto da Babbitt in Europa. Non si tratta di un gran libro: è costruito schematicamente e il meccanismo è anche troppo manifesto. Ha importanza culturale più che artistica: la critica dei costumi prevale sull’arte. Che in America ci sia una corrente letteraria realistica che incominci dall’essere critica dei costumi è un fatto culturale molto importante: significa che si estende l’autocritica, che nasce cioè una nuova civiltà americana cosciente delle sue forze e delle sue debolezze: gli intellettuali si staccano dalla classe dominante per unirsi a lei più intimamente, per essere una vera superstruttura, e non solo un elemento inorganico e indistinto della struttura‑corporazione.
Gli intellettuali europei hanno già in parte perduto questa funzione: non rappresentano più l’autocoscienza culturale, l’autocritica della classe dominante; sono ridiventati agenti immediati della classe dominante, oppure se ne sono completamente staccati, costituendo una casta a sé, senza radici nella vita nazionale popolare. Essi ridono di Babbitt, si divertono della sua mediocrità, della sua ingenua stupidaggine, del suo modo di pensare a serie, della sua mentalità standardizzata. Non si pongono neanche il problema: esistono in Europa dei Babbitt?
La quistione è che in Europa il piccolo borghese standardizzato esiste, ma la sua standardizzazione invece di essere nazionale (e di una grande nazione come gli Stati Uniti) è regionale, è locale. I Babbitt europei sono di una gradazione storica inferiore a quella del Babbitt americano: sono una debolezza nazionale, mentre l’americano è una forza nazionale; sono più pittoreschi ma più stupidi e più ridicoli; il loro conformismo è intorno a una superstizione imputridita e debilitante, mentre il conformismo di Babbitt è ingenuo e spontaneo, intorno a una superstizione energetica e progressiva. Per il Linati, Babbitt è «il prototipo dell’industriale americano moderno», mentre invece Babbitt è un piccolo borghese e la sua mania più tipica è quella di entrare in famigliarità con gli «industriali moderni», di essere un loro pari, di sfoggiare la loro «superiorità» morale e sociale.
L’industriale moderno è il modello da raggiungere, il tipo sociale a cui conformarsi, mentre per il Babbitt europeo il modello e il tipo sono dati dal canonico della cattedrale, dal nobilastro di provincia, dal capo sezione del Ministero. È da notare questa acritica degli intellettuali europei: il Siegfrid, nella prefazione al suo libro sugli Stati Uniti, contrappone all’operaio taylorizzato americano l’artigiano dell’industria di lusso parigino, come se questo fosse il tipo diffuso del lavoratore; gli intellettuali europei in genere pensano che Babbitt sia un tipo puramente americano e si rallegrano con la vecchia Europa. L’antiamericanismo è comico, prima di essere stupido.
Q5 §140 Americanismo. Un libro per lo meno curioso, espressione della reazione degli intellettuali provinciali all’americanismo è quello di C. A. Fanelli: L’Artigianato. Sintesi di un’economia corporativa, Spes editrice, Roma, 1929, in 8°, pp. XIX‑505, L. 30,00, di cui la «Civiltà Cattolica» del 17 agosto 1929 pubblica una recensione nell’articolo Problemi Sociali (che sarà del padre Brucculeri). È curioso il fatto che il padre gesuita difende la civiltà moderna (nella sua manifestazione industriale) contro il Fanelli.
Il libro del Fanelli dal punto di vista culturale corrisponde all’attività letteraria di quegli scrittori provinciali che ancora continuano a scrivere continuazioni, in ottava rima, alla Gerusalemme liberata, all’Orlando Furioso, ecc. È pieno settecentismo: lo stato di natura è sostituito dall’«artigianato» e dalla sua patriarcalità.
È curioso che simili scrittori, che combattono per l’incremento demografico, dimenticano che l’aumento della popolazione nel secolo scorso, è strettamente legato allo sviluppo del mercato mondiale. Il recensore nota giustamente che ormai l’artigianato è legato alla grande industria e ne dipende: esso riceve dalla grande industria materie prime semilavorate e utensili perfezionati.
Che l’operaio di fabbrica italiano dia una relativamente scarsa produzione può esser vero: ciò dipende (dal fatto) che l’industrialismo in Italia, abusando della massa crescente dei disoccupati (che l’emigrazione solo parzialmente equilibrava), è stato sempre un industrialismo di rapina, ha speculato più sui salari che sull’incremento tecnico; la proverbiale «sobrietà» degli stabilimenti significa semplicemente che non è stato creato un tenore di vita alimentare adeguato al consumo di energie domandato dal lavoro di fabbrica. Il tipo coreografico dell’Italiano è falso sotto tutti i rispetti: nelle categorie intellettuali sono gli italiani che hanno creato l’«erudizione», il lavoro paziente d’archivio: Muratori, Tiraboschi, Baronio, ecc., sono stati italiani e non tedeschi. Nell’artigianato esiste il lavoro a serie e standardizzato «tale e quale» che negli Stati Uniti: la differenza è di scala: l’artigiano produce mobili, aratri, roncole, coltelli, casette di contadini, stoffe, ecc., standardizzate sulla scala del villaggio, o del mandamento, del circondario, della provincia, al massimo della regione: l’industria americana ha la misura standard in un continente o nel mondo intero. L’artigiano produce sempre le stesse roncole, gli stessi carri, gli stessi finimenti da animali da tiro, ecc., per tutta la vita. L’artigianato a «creazione individuale» incessante è così minimo che comprende solo gli artisti nel senso stretto della parola (e ancora: i «grandi» artisti). Il libro del Fanelli può dare origine a paragrafi in varie rubriche: in «Passato e presente», in «Americanismo», in «Lorianismo».
Q5 §3 Owen, Saint‑Simon e le scuole infantili di Ferrante Aporti. Da un articolo La questione delle scuole infantili e dell’abate Aporti secondo nuovi documenti («Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1928) appare che i gesuiti e il Vaticano nel 1836 erano contrari all’apertura di asili infantili a Bologna del tipo sostenuto da F. Aporti perché tra i sostenitori c’era «un certo Dottor Rossi», «in fama di essere fautore del sansimonismo, allora molto rumoroso in Francia e assai temuto pure in Italia, forse anche più di quanto si meritava» (p. 221). L’arcivescovo di Bologna, richiamando l’attenzione della Santa Sede sulla propaganda e distribuzione di opuscoli che si faceva per gli asili infantili, scriveva: «in sé stessa l’opera potrebbe essere buona, ma che temeva assai per certe persone che sono a capo dell’impresa e per il grande impegno che mostrano... che l’autore di queste scuole è un certo Roberto Owen protestante, come v’era riferito nella “Guida dell’educatore” del prof. Lambruschini che stampasi a Firenze, nel n. 2 febbraio 1836, pag. 66» (p. 224).
Q5 §41 L’orientazione professionale. Cfr lo studio del padre Brucculeri nella «Civiltà Cattolica» del 6 ottobre, 3 novembre, 17 novembre 1928: vi si può trovare il primo materiale per una prima impostazione delle ricerche in proposito.
L’industria americana si è servita degli alti salari per «selezionare» gli operai dell’industria razionalizzata, almeno entro una certa misura: altre industrie invece, ponendo avanti questi schemi scientifici o pseudoscientifici, possono tendere a «costringere» tutte le maestranze tradizionali a lasciarsi razionalizzare senza avere ottenuto le possibilità salariali per un sistema di vita appropriato, che permetta di reintegrare le maggiori energie nervose consumate. Ci si può trovare dinanzi a un vero pericolo sociale: il regime salariale attuale è basato specialmente sulla reintegrazione di forze muscolari. L’introduzione della razionalizzazione senza un cambiamento di sistema di vita, può portare a un rapido logoramento nervoso e determinare una crisi di morbosità inaudita). Lo studio della quistione deve poi esser fatto dal punto di vista della scuola unica del lavoro.
Q5 §69 Nozioni enciclopediche. Nella polemica sulle funzioni dello Stato, lo Stato «guardiano notturno» (veilleur de nuit) corrisponde all’italiano «lo Stato carabiniere» cioè lo Stato le cui funzioni sono limitate alla sicurezza pubblica e al rispetto delle leggi, mentre lo sviluppo civile è lasciato alle forze private, della società civile. Pare che l’espressione «veilleur de nuit» che ha un valore più sarcastico che non «Stato carabiniere» o «Stato poliziotto», sia di Lassalle. Il suo opposto è lo «Stato etico» o lo «Stato intervenzionista» in generale: ma ci sono differenze tra una e altra espressione: «Stato etico» è di origine filosofica (Hegel) e si riferisce piuttosto all’attività educativa e morale dello Stato; «Stato intervenzionista» è di origine economica ed è legato alle correnti protezionistiche o di nazionalismo economico. Le due correnti tendono a fondersi, ma la cosa non è necessaria. Naturalmente i liberali sono per lo Stato veilleur de nuit in maggiore o minore misura: gli «economisti» totalmente, i filosofi con distinzioni molto importanti, perché presuppongono la lotta del laicismo contro le religioni positive nella società civile. I cattolici realmente sono agnostici: essi vorrebbero lo Stato intervenzionista a loro favore; in assenza di ciò, lo Stato indifferente, perché se lo Stato non è favorevole, potrebbe aiutare i loro nemici: in realtà i cattolici vogliono tutto per loro.
Cfr Q 6 § 88
Q5 §114 Enciclopedia di concetti politici, filosofici ecc. Postulato. Nelle scienze matematiche, specialmente, si intende per postulato una proposizione che non avendo la evidenza immediata e la indimostrabilità degli assiomi, né potendo, d’altra parte, essere sufficientemente dimostrata come un teorema, è tuttavia provvista, in base ai dati dell’esperienza, di una tale verosimiglianza che può essere acconsentita e concessa anche dall’avversario e posta quindi a base di talune dimostrazioni. Il postulato è quindi, in questo senso, una proposizione richiesta ai fini della dimostrazione e costruzione scientifica. Nell’uso comune, invece, postulato vuol dire un modo d’essere o d’agire che si desidera si realizzi, che anzi si vorrebbe e in certi casi si dovrebbe volere fosse attuato e si suppone o si afferma essere il risultato di una indagine scientifica (storia, economia, scienze esatte, ecc.). In questo caso il significato di «postulato» si avvicina a quello di «rivendicazione», di «desiderata», di «esigenza», ossia sta tra queste nozioni e quella di «principio»: i postulati di un partito politico sarebbero i suoi «principii» pratici, da cui immediatamente conseguono le rivendicazioni, ecc., di carattere più immediato e particolare (è vero che in questo senso, che implica il dover essere più che l’essere, postulato dovrebbe piuttosto chiamarsi postulando).
Q5 §119 Enciclopedia di concetti politici, filosofici, ecc. Classe media. Il significato di classe media muta da un paese all’altro e dà luogo spesso a equivoci molto curiosi. Il termine è venuto dalla letteratura politica inglese ed indica in questa lingua la borghesia industriale, posta tra la nobiltà e il popolo: in Inghilterra la borghesia non è stata mai concepita come un tutto col popolo, ma sempre staccata da questo. Nella storia inglese è avvenuto anzi che non la borghesia abbia guidato il popolo e si sia fatta aiutare da esso per abbattere i privilegi feudali, ma invece è avvenuto che la nobiltà abbia formato un grande partito di popolo contro lo sfrenato sfruttamento della borghesia industriale e contro le conseguenze dell’industrialismo. C’è una tradizione di torismo popolare (Disraeli, ecc.). Anche la storia dei partiti politici britannici riflette questo sviluppo: gli whigs erano aristocratici che lottavano contro i privilegi e i soprusi della corona; i tories piccoli aristocratici popolareggianti: gli whigs sono diventati il partito degl’industriali, delle classi medie, mentre i tories sono diventati il partito della nobiltà, sempre popolareggiante. Dopo l’entrata in vigore, ormai irreparabile, delle grandi riforme whigs, dopo cioè che l’industria ebbe completamente conformato lo Stato ai suoi interessi e bisogni, tra i due partiti ci fu scambio di personale, divennero ambedue interclassisti, ma i tories conservarono sempre una certa popolarità e la conservano ancora: gli operai, se non votano per il partito laburista, votano per i conservatori.
In Francia si può parlare meno di classe media, perché c’è la tradizione politica e culturale del terzo stato, cioè del blocco tra borghesia e popolo. Gli anglicizzanti adoperano il termine nel senso inglese, ma altri l’adoperano nel senso italiano di «piccoli borghesi» e le due correnti si fondono creando talvolta confusione.
In Italia, dove la aristocrazia guerriera è stata distrutta dai Comuni (distrutta fisicamente nella persona dei primi ghibellini) – eccetto che nell’Italia Meridionale e in Sicilia – mancando il concetto e la cosa «classe alta», nell’uso corrente e politico, almeno – l’espressione classe media venne naturalmente a significare «piccola e media borghesia», e, negativamente, non popolo nel senso «non operai e contadini», quindi anche «intellettuali»; per molti anzi classe media indica proprio i ceti intellettuali, gli uomini di cultura (in senso lato, quindi anche gli impiegati ma specialmente i professionisti). Concetto di «signori» in Sardegna, di «galantuomini» e di «civili» nel Mezzogiorno e in Sicilia.
Mat. Bibl.: Classi medie e stratificazione sociale
Q5 §122 Nazionale‑popolare. Ho scritto alcune note per osservare come le espressioni «nazione» e «nazionale» abbiano in Italiano un significato molto più limitato di quelli che nelle altre lingue hanno le parole corrispondenti date dai vocabolari. L’osservazione più interessante si può fare per il cinese, dove pure gli intellettuali sono tanto staccati dal popolo: per tradurre l’espressione cinese Sen Min‑ciu‑i che indica i tre principi della politica nazionale‑popolare di Sun Yat‑Sen, i gesuiti hanno escogitato la formula di «triplice demismo» (escogitata dal gesuita italiano D’Elia nella traduzione francese del libro di Sun Yat‑Sen, Le triple demisme de Sun Wen); cfr «Civiltà Cattolica» del 4 maggio e 18 maggio 1929 in cui la formula cinese Sen Min‑ciu‑i è analizzata nella sua composizione grammaticale cinese e confrontata con varie traduzioni possibili.
Q5 §130 Nozioni enciclopediche. La parola ufficiale o officiale. Questa parola specialmente nelle traduzioni da lingue straniere (in primo luogo l’inglese) dà luogo a equivoci e nel caso migliore a incomprensione e stupore. In italiano «ufficiale» ha sempre più ristretto il suo significato e tende a indicare ormai solo gli ufficiali dell’esercito: è rimasto solo, in significato estensivo, in alcune espressioni diventate idiomatiche e di origine burocratica: «pubblico ufficiale», «ufficiale dello stato civile», ecc. In inglese invece «official» indica in generale ogni specie di funzionario (per ufficiale dell’esercito si usa «officer» che indica però anch’esso il «funzionario» in generale) e non solo quello dello Stato, ma di ogni sorta di ufficio privato (funzionario sindacale, ecc.) fino ad indicare persino il semplice «impiegato». (Si potrebbe fare una più ampia indagine, di carattere etimologico, giuridico, politico).
Q5 §136 Nozioni enciclopediche. È da notare, nel linguaggio storico‑politico italiano, una serie di espressioni, che è difficile e talvolta impossibile tradurre in lingua straniera: così abbiamo il gruppo «Rinascimento», «Rinascita», «Rinascenza» (le due prime parole italiane la terza francesismo), ormai entrate nel circolo della cultura europea e mondiale perché se il fenomeno ebbe il massimo splendore in Italia, non fu però ristretto all’Italia.
Nasce nell’Ottocento il termine «Risorgimento» in senso politico, accompagnato da «riscossa nazionale» e «riscatto nazionale». Tutti esprimono il concetto, del ritorno a uno stato già esistito anteriormente, o di «ripresa» offensiva («riscossa») delle energie nazionali, o di liberazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia (riscatto). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria‑nazionale di Roma imperiale o dei Comuni medioevali come periodi in cui il popolo italiano è «nato» o è «sorto», per cui la ripresa si chiama rinascimento o Risorgimento. Così il «riscuotersi» è legato all’idea dell’organismo vivo che cade in letargia e si «riscuote», ecc.
Q5 §139 Nozioni enciclopediche. Nella serie dei termini italiani «Rinascimento», «Risorgimento», ecc., si può mettere la parola, d’origine francese e indicante un fatto prevalentemente francese, di «Restaurazione».
La coppia «formare» e «riformare» non è così evidente, perché una cosa formata si può continuamente «riformare» senza che ci sia stata una «catastrofe» intermedia, ciò che invece è implicito in «Rinascimento», ecc., e in «Restaurazione»: la Chiesa Romana è stata riformata più volte dall’interno. Invece nella «Riforma» protestante c’è l’idea di rinascita e restaurazione della chiesa primitiva. Anche i cattolici parlano della «Riforma» della Chiesa fatta dal Concilio di Trento, ma solo i gesuiti si attengono scrupolosamente a questa nomenclatura; nella cultura laica, si parla di Riforma e Controriforma, cioè non è penetrato il convincimento che la Chiesa abbia subito una Riforma, ma semplicemente che abbia reagito contro la Riforma luterana.
Sarebbe interessante vedere se questo concetto è nato già dopo il Concilio di Trento o quando: poiché in esso è contenuto un giudizio implicito negativo.
Q5 §144 Nozioni enciclopediche. Come è nato nei pubblicisti della restaurazione il concetto di «tirannia della maggioranza». Concetto presso gli «individualisti» tipo Nietzsche, ma anche presso i cattolici. Secondo Maurras, la «tirannia della maggioranza» è ammissibile nei piccoli paesi, come la Svizzera, perché tra i cittadini svizzeri regna una certa uguaglianza di condizioni; è disastrosa (! sic) invece dove fra i cittadini, come in Francia, vi è molta disuguaglianza di condizioni.
Q5 §161 Nozioni enciclopediche. Ascaro. Così venivano chiamati i deputati delle maggioranze parlamentari senza programma e senza indirizzo, cioè deputati sempre pronti a defezionare. L’attributo era legato alle prime esperienze fatte in Eritrea di truppe indigene mercenarie. Così la parola crumiro è legata all’occupazione, da parte della Francia, della Tunisia fatta con il pretesto di respingere la tribù dei Krumiri che dalla Tunisia si spingeva in Algeria a fare delle razzie; sarebbe interessante vedere chi fece entrare la parola nel vocabolario dei sindacati operai.
Q5 §13 Azione Cattolica. La dottrina sociale cattolica nei documenti di papa Leone XIII, Roma, Via della Scrofa 70, 1928, in 16°, pp. 348, L. 7,50.
Q5 §21 Per la storia del movimento operaio italiano. Vedere: Agostino Gori, Ricordo, con una nota bibliografica. Sotto gli auspici e a spese del Comune di Firenze. Firenze, Tip. M. Ricci, 1927, in 8Q5 §, pp. 44. Il Gori è morto nel 26, ha scritto sul movimento operaio qualche saggio di storia. Nella bibliografia dei suoi scritti compilata in questa pubblicazione commemorativa da Ersilio Michel, si potranno trovare le indicazioni.
Q5 §33 M. Iskowicz, La Littérature à la lumière du matérialisme historique, 1929, 30 franchi (annunziato nel bollettino del 1° febbraio 1929, «Nouveautés», Listes mensuelles de la M.L.F.).
Q5 §40 Pirandello. Sulla concezione del mondo implicita nei drammi di Pirandello occorre leggere la prefazione di Benjamin Crémieux alla traduzione francese di Enrico IV (Éditions de la «N.R.F.»).
Q5 §45 Enrico Catellani, La libertà del mare, Nuova Antologia del 1° aprile 1929.
Q5 §46 Claudio Faina, Il carburante nazionale, Nuova Antologia del 16 aprile 1929 (continua l’articolo dello stesso Faina pubblicato precedentemente dalla Nuova Antologia e rubricato altrove).
Q5 §48 Domenico Spadoni, Le Società segrete nella Rivoluzione milanese dell’aprile 1814, Nuova Antologia del 16 maggio 1929. Intervento della massoneria in quel movimento (culminato nell’uccisione del ministro Prina) secondo gli atti di un processo per complotto militare, trovati dallo Spadoni. Qualche particolare nuovo, ma non gran cosa.
Q5 §49 Bernardo Sanvisenti, La questione delle Antille, «Nuova Antologia», 1° giugno 1929. Sulla dottrina di Monroe, sui rapporti tra Stati Uniti e America Spagnola ecc. Contiene citazioni bibliografiche su questi argomenti di libri di scrittori sudamericani e riporta notizie su movimenti culturali legati al predominio degli Stati Uniti che possono essere utili.
Q5 §52 Domenico Meneghini, Industrie chimiche italiane, «Nuova Antologia», 16 giugno 1929.
Q5 §67 Azione Cattolica. Ricordare, per uno studio della struttura mondiale del Cattolicesimo, l’«Annuario Pontificio», che si pubblica in grossi volumi di circa 1000 pp. a Roma presso la Tipografia Poliglotta Vaticana.
Per l’Azione Cattolica italiana in senso stretto (laico) vedere gli Almanacchi Cattolici pubblicati ora da «Vita e Pensiero»: il più interessante e di maggiore valore storico è l’Almanacco Cattolico per il 1922 che registra la situazione cattolica nel primo periodo del dopoguerra.
Q5 §76 Sulla crisi del 98. Del Ferraris cfr Il rincaro del pane (16 agosto 1897), L’ora presente (16 maggio 1898), Il nuovo rincaro del pane (1° febbraio 1898), Politica di lavoro (16.VI. 98).
Q5 §93 Costumi italiani nel Settecento. Cfr l’articolo di Alessandro Giulini, Una dama avventuriera del settecento, «Nuova Antologia», 16 agosto 1929. (L’Italia ormai dava all’Europa solo avventurieri e anche avventuriere e non più grandi intellettuali. Né la decadenza dei costumi era solo quella che risulta dal Giorno del Parini e dal cicisbeismo: l’aristocrazia creava scrocconi e ladri internazionali accanto ai Casanova e ai Balsamo borghesi).
Q5 §97 Gli intellettuali. Nella rubrica «Intellettuali» in altro quaderno, ho accennato alle Accademie italiane e all’utilità di averne una lista ragionata. Nella Nuova Antologia del 1° settembre 1929 (p. 128) è annunziato un libro di E. Salaris Attraverso gli Istituti Culturali italiani, opera di prossima pubblicazione sulle Accademie d’Italia.
Q5 §106 Luigi Villari, Il governo laburista britannico, «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1929. Articolo mediocre: qualche aneddoto. È da ricordare per il fatto che la «Nuova Antologia» quantunque diretta dal Presidente del Senato prima, dal Presidente dell’Accademia dopo e quindi tenuta a un certo riserbo, pubblichi di tali articoli in cui sui membri dei governi stranieri sono espressi giudizi di carattere personalistico, settario e poco riguardoso, all’infuori della polemica politica.
Q5 §111 L’Accademia d’Italia. Nella Nuova Antologia del 1° novembre 1929 sono pubblicati i discorsi inaugurali del Capo del Governo e di Tittoni.
Q5 §112 Carlo Schanzer, Sovranità e giustizia nei rapporti fra gli Stati, Nuova Antologia, 1° novembre 1929.
Moderato nella forma e nella sostanza. Può essere preso come documento dell’atteggiamento ufficioso del Governo verso la Società delle Nazioni e i problemi di politica internazionale che le sono connessi.
Q5 §115 Niccolò Machiavelli. Un’edizione delle Lettere di Niccolò Machiavelli è stata fatta dalla Società Editrice «Rinascimento del libro», Firenze, nella «Raccolta nazionale dei classici», curata e con prefazione di Giuseppe Lesca (la prefazione è stata pubblicata nella Nuova Antologia del 1° novembre 1929). Le lettere erano già state stampate nel 1883 dall’Alvisi presso il Sansoni di Firenze con lettere di altri al Machiavelli (del libro dell’Alvisi è stata fatta una nuova edizione con prefazione di Giovanni Papini).
Q5 §116 G. B., La Banca dei regolamenti internazionali, «Nuova Antologia», 16 novembre 1929.
Q5 §117 Argus, Il disarmo navale, i sottomarini e gli aeroplani, «Nuova Antologia», 16 novembre 1929. Brevi cenni alle prime trattative tra Stati Uniti e Inghilterra per il disarmo e la parità navale. Accenna anche rapidamente all’innovazione che nell’armamento navale è portata dal sottomarino e dall’aeroplano, che, con costi relativamente bassi, possono dare risultati molto rilevanti, e alla sempre maggiore inutilità delle grandi corazzate.
Q5 §118 Stresemann. Cfr nella Nuova Antologia del 16 novembre 1929 l’articolo di Francesco Tommasini, Il pensiero e l’opera di Gustavo Stresemann, interessante per studiare la Germania del dopoguerra e il mutamento nella psicologia dei nazionalisti borghesi e piccolo borghesi.
Q5 §121 Francia. André Siegfried, Tableau des Partis en France, Paris, Grasset, 1930.
Q5 §151 Linguistica. Importanza dello scritto di Enrico Sicardi La lingua italiana in Dante edito a Roma dalla Casa Ed. «Optima» con prefazione di Francesco Orestano.
Q5 §152 Utopie, romanzi filosofici, ecc. Il libro di Samuele Butler Erewhon tradotto da G. Titta Rosa, Casa Ed. Alberto Corticelli, Milano, 1928. Erewhon è l’anagramma della parola inglese Nowhere, «in nessun luogo», utopia. Il romanzo fu scritto nel 1872, è una satira della cultura del tempo: darwinismo, schopenhauerismo, ecc. (cfr la recensione di Adolfo Faggi, Erewhon nel «Marzocco» del 3 marzo 29).
Txt.: S. Butler - Erewhon (in inglese)
Q5 §153 Letteratura popolare. Romanzi e poesie popolaresche di Ferdinando Russo (in dialetto napoletano).
Q5 §159 Risorgimento. I primi giacobini italiani. Cfr Giulio Natali, Cultura e poesia in Italia nell’età napoleonica. Studii e saggi, Torino, Sten, 1930. (Lomonaco del Rapporto a Carnot ha un saggio speciale molto interessante).
Q5 §108 Sicilia. Il Pantheon siciliano di S. Domenico.
Q5 §110 Francia e Italia. Nell’Histoire d’un crime V. Hugo scrive: «Ogni uomo di cuore ha due patrie in questo secolo. La Roma di un giorno e Parigi di oggi». Questa patria d’un giorno associata a quella d’oggi presuppone che la Francia sia l’erede di Roma: ecco un’affermazione che non era fatta e specialmente non è fatta per piacere a molti.