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Antonio Labriola

DA UN SECOLO ALL'ALTRO


I.

Nell'ultimo anno accademico, e precisamente dal novembre 1900 a questo giugno 1901, io tenni alla Università un corso di lezioni sopra un tema di tanta ampiezza e di tale varietà, che ciò che riuscii effettivamente a dire non poté a meno di lasciare nel numeroso uditorio come la impressione d'un piccolo frammento d'un gran tutto.

Cominciai a un di presso così:

“Ripiglio tutti gli anni sempre con viva emozione e con gran piacere questo corso straordinario di filosofia della storia. I miei uditori potranno vedere e riconoscere essi stessi, come in queste lezioni nelle quali non rifuggo dalla oratoria e dall'intonazione pronta e facile della conferenza, io usi di uno stile di molto diverso di quello che è proprio al mio corso ordinario di etica e di pedagogia. In questo io mi attengo rigorosamente alla serrata tecnica della lezione, come si conviene ad argomenti che van trattati per compiere esplicitamente la funzione precisa dell'ammaestrare e dell'insegnare. Qui siamo, invece, nel più vasto campo della cultura; - qui si ha per mano una materia, che nessuno si argomenterebbe mai di disciplinare a scopo di esami, riconducendola a mezzo di esercizii professionali. Son poche - e poche devono essere - coteste materie, che segnano come la estensione, e direi quasi la espansione dell'Università oltre ai termini di ciò che è direttamente utilizzabile a intenti pratici immediati. Ed ecco che io, infatti, in cotesto corso mi lascio andare di buon grado ad una certa agile combinatoria di elementi, e di cose e di idee, che la stringata classificazione delle discipline suol sempre tenere quasi pedantescamente distinte e separate del tutto; uso in larga misura della libertà, della ricerca e della opinione; e, rifacendomi d'anno in anno di nuove letture e di nuovi studii, miro in queste lezioni all'ampiezza ed alla pienezza dell'esposizione: il che è ben diverso dalla pretta esattezza didattica.

E per questa volta il titolo stesso del corso dice chiaro, come la natura del soggetto giustifichi per se stessa il modo della trattazione. Mi fermerò sopra alcune caratteristiche del secolo decimonono per venire a dichiarare la configurazione del mondo civile in questo prossimo passaggio da un secolo all'altro(). Non è, spero, chi s'aspetti da me per tale annunzio, che io narri a perdita di vista una infinita moltitudine di fatti. Suppongo la conoscenza di ciò che volgarmente ha nome di serie dei fatti storici, e suppongo, inoltre, qualcosa di più, e cioè dire l'abito negli uditori a tenersi orientati in punti di vista come questi: - lotte per la nazionalità - diffusione del principio liberale - la concorrenza economica e l'espansione coloniale - i paesi industriali e i paesi agricoli - il crescere dello spirito scientifico e la rinascenza cattolica; e così via. Né enumero, come se volessi fin d'ora rinchiudere in tanti canoni fissi la mia libera esposizione: - anzi ho scelto a caso alcune di quelle formule riassuntive, pur fermandomi di volta in volta sopra alcuni fatti caratteristici, e sopra certe date decisive, le quali segnano dei momenti di feconda transizione, io mirerò, in questa considerazione retrospettiva, alle grandi linee, alle grandi correnti, all'insieme, al senso delle cose.

Farò, a un di presso, ciò che agl'ideologisti pare d'intender bene a modo loro, quando dicono di rappresentare lo spirito di un secolo. E noi realisti, di rimando diciamo, che in cospetto di una determinata configurazione del mondo civile, com'è questa della fine del secolo, noi ci mettiamo in atto di chi voglia intendere una situazione, riandando obiettivamente le ragioni, i modi e le condizioni del come essa s'è fatta.

Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia andrà per me ora sperduto: ma non uno ne ripeterò quest'anno. Totalizzo, quasi, i resultati di quelli in questa, dirò cosi, istantanea della fin di secolo. Ho spaziato per anni su campi svariati. Una volta, Vico ragguagliato alla scienza modernissima; un'altra volta un raffronto metodologico fra storia e filologia. Un anno mi fermai ad illustrare il variare dei rapporti fra chiesa e stato; un altro, a ripigliare in esame la preistoria del Morgan col raffronto coi più recenti studii. Due volte trattai documentariamente la storia del socialismo moderno da Babeuf alla Internazionale; e illustrai in un altro corso le origini della borghesia italiana, e la condizione d'Italia in sulla fine del secolo decimoterzo. Discorsi più volte della Rivoluzione Francese - il solo punto della storia, nel quale io mi senta in possesso, secondo la boriosa espressione degli eruditi, di una specifica competenza, - come per dare, e in compendio, l'avviata alla retta cognizione di ciò che costituisce l'essenziale, in buona o in mala parte che ciò si prenda, della società moderna.

Tutto questo vasto materiale, che non intendo punto di riandare in ispecie, mi sta ora innanzi alla mente, come per illuminare la scena attuale del mondo civile, che io voglio tratteggiare nei suoi contorni, nel suo interiore assetto, e nell'intreccio delle forze che la configurano e la sorreggono. Per ogni elemento vivo bisogna aver presente - ciò è ovvio - indefiniti precedenti. E chi oserebbe, dunque, di segnare un punto unico d'approdo a tante serie? Trovandoci nel mezzo di un gran processo, come ardiremmo noi di credere, che una data di calendario faccia da indice alle molteplici e complicate fasi effettuali delle cause obiettive? Questa revisione, dunque, dello stato del mondo, dal punto di vista convenzionale del secolo che muore, ha un valore appena appena approssimativo, che solo un'approfondita analisi sociologica può riavvicinare a qualcosa di effettivo e di reale.

Al postutto, quale è il mezzo pratico per misurare la nostra cultura storica? Eccolo, è semplicissimo: - la nostra capacità ad intendere il presente. Recatevi nelle mani i giornali dell'ultima quindicina. Abbiate sott'occhi un passabile atlante geografico. Fate di aver libero maneggio delle ovvie cronache annuali riassuntive. Capite l'ultima notizia? Che cosa è questa guerra del Transwaal, questo ultimo atto di resistenze dei costumi e delle libertà endemiche contro l'universalismo inglese, questa ultima obiezione armata del villano contro il capitale invadente? E la Russia che rifà a rovescio l'invasione mongolica? E di quanto bisogna retrocedere e di quanto bisogna addentrarsi per risolvere i fatti politici attuali nei momenti e nei moventi, di remota preparazione quelli e di intima impulsione questi?

Ma, per non anticipare di soverchio, non insisto negli esempii.

Mentre discorro, come per prepararmi ad afferrare in un rapido sguardo lo stato attuale delle cose del mondo civile usando della occasione del secolo che muore, io vi ho già detto implicitamente che, datando per aspetti così estrinseci le cose e i nostri pensieri sovra di esse, noi rendiamo semplicemente omaggio ad una illusione convenzionale. Il secolo non è né una contenenza, né un contenuto. Non è nemmeno una cornice: e non occorre di notare, che non risponde a nessuna rivoluzione naturale. Qual somma arbitraria degli anni civili che alla lor volta sono una certa tal quale approssimazione di un periodo naturale, sta lì a ricordarci una molto oscillante tradizione romana, ereditata forse da cosmologiche ideazioni e superstizioni etrusche. E poi cotesto periodo di anni fu riferito ad un'èra cristiana tardivamente fissata per argomentazione. Il nostro esame ci porterà a sostituire a cotesto, come ad ogni altro, convenzionale schematismo di periodi uniformi, se mai ciò è possibile, delle date interne, che siano indici dello sviluppo reale delle società. Il secolo del quale cerchiamo le caratteristiche, a spiegazione del presente, non comincia veramente in modo meccanico dalla prima pagina del calendario del 1801; ma chi sa mai dal 14 luglio 1789, o a un dipresso, e come altro piaccia di datare il vertiginoso erompere dell’èra liberale”.

E qui basta della citazione e del ricordo delle mie lezioni.

Terminato che fu il periodo accademico, a parecchi dei miei cortesi uditori parve opportuno di consigliarmi che io pubblicassi integralmente quelle lezioni. A considerare la cosa materialmente non c'era certo difficoltà di sorta. Dai miei appunti di preparazione, da quelli degli uditori, e dalla stenografia di alcune conferenze, c'era da tirar fuori tanti prolissi volumi quanti ne può dare la recitazione di un intero corso.

Respinsi il gentile consiglio parendomi alquanto bizzarra l'idea.

A che pro, invero, pubblicare delle lezioni? Ogni lezione comincia dall'inevitabile preambolo, e termina con la chiusa obbligata. Tante volte si ripete: “come dissi già”; o: “come dirò in seguito”. Si vanno di continuo aprendo delle parentesi, o per ispiegare un termine, o per dare un qualche ragguaglio sopra un autore citato, o per colorire con qualche cenno biografico la figura di un personaggio storico del quale sia fatta menzione. Tutto ciò contraddice allo stile del libro, turba l'attenzione del più paziente lettore, e rende esosa a chiunque la dotta compilazione.

Ripensandovi, ho poi, durante le vacanze, messo assieme queste pagine, che rendono in semplici raggruppamenti di capitoli alcuni dei pensieri principali di quelle lezioni, senza che dell'apparato e dello stile della lezione stessa rimanesse più nulla. Le momentanee allusioni, le inframmezzate e non brevi narrazioni, le dichiarazioni accessorie spesso lunghe: - tutto, via.

E pure questi capitoli rimangono dei frammenti. Chi volesse muovermi di ciò biasimo si provi a dirmi che via terrebbe lui, il severo critico, per superare questo stato frammentario della nostra cognizione dell'ora presente, e per integrarla nella totalità di una visione perfetta. La più savia e la più calzante delle obiezioni, che siano state mai mosse contro ogni sistema di filosofia della storia, è quella del Wundt: noi non sappiamo dove la storia andrà a finire. Il che vuoi dire - se ben ho capito - che noi non l'abbiamo mai tutta sott'occhi come un qualcosa di compiuto, a quella guisa che esaminiamo l'individuato organismo animale o vegetale. En attendant che, chi sa mai, la totale retrospezione della vita del genere umano s'avveri nel cervello d'un fortunato e perfettissimo filosofo dell'avvenire, contentiamoci per ora di quella parziale visione che ci è dato di raggiungere presentemente. Quanto a me, di questa mi tengo pago.

II.

L'èra liberale, dunque, è il nostro obietto; e proprio in quanto essa, tra un secolo e l'altro, ci si presenta in questo resultato di una civiltà, non più atavisticamente locale, non più nazionale e mediterranea, ma internazionale, anzi interoceanica o panoceanica. Non è chi non sappia, che alla fine del secolo decimottavo una sola nave, una sola volta all'anno, salpava da Alapuko per Manilla, a tenere i tenui rapporti commerciali fra i possidenti messicani e gli asiatici di quella Spagna, già fin da allora designata alla rovina qual potenza coloniale di vecchio stile. Ed ora le flotte commerciali e le flotte di guerra attraversano in ogni senso il Pacifico, non più pauroso mare esterno ai varii ambiti di attività civile continentale. Se non fosse per la straordinaria dispersione delle infinite isole, ivi, su la immensa spianata liquida, sorgerebbero, quali appendici o diramazioni della vecchia Europa e della nuova America, tanti conglomerati umani di così poderosa vitalità, quanta ne hanno e ne covano per l'avvenire le giovanissime e modernissime colonie dell'Australia e della Nuova-Zelanda, che fanno oramai invidia a noi orgogliosi di nostre lunghe memorie.

Ed ecco che lì sui margini asiatici del Pacifico, proprio in questo momento, i varii potentati d'Europa si travagliano nella crociata cinese, crociata modernissima che non cinge più di sacra aureola dissimulati interessi mondani, e sollecita di continuo i nostri pubblicisti a ripetere la vecchia domanda del padre Erodoto: quali le cause del dissidio fra l'Oriente e l'Occidente? Non più, certo, l'invidia degli dèi, ma sì le invidie fra gli uomini; perché la concorrenza è l'assioma della società liberale, la quale vi si eserciterà attorno più furiosamente nel nuovo secolo.

L'èra liberale si annunziò dapprima con impeto di poesia, ed ebbe la sua orgogliosa ideologia derivatasi spesso in multiformi utopie. Di qui la singolare attrattiva e il grande imbarazzo in chiunque legga e studii della Rivoluzione Francese: perché quella ideologia lì, finita allora, e in breve tempo, nella negazione di se stessa, ci fa come diffidenti a misurare l'importanza dei fatti storici, dalle vedute, dalle opinioni e dalle teorie di quelli che dei fatti stessi si pretesero gli autori. Comunicare a tutto il genere umano le stesse idee (mi sovviene di Condorcet) - innalzare tutte le nazioni a libere personalità politiche - sostituire alla guerra fra esse la pacifica gara - distruggere nell'uomo fatto cittadino ogni traccia di sudditanza e di soggezione; - ma dove andrei a finire, se volessi intero ripetere tutto il tradizionale catechismo della democrazia? E dov'è che la democrazia è riuscita, sia pure approssimativamente, fuori che nella minuscola Svizzera, così appartata dal grande intrigo della storia?

Ecco che nella parola intrigo si compendia tutta la somma degli impedimenti, pei quali, durante il secolo decimonono, liberalismo, democrazia e principio nazionale hanno subito così varii, così frequenti e così potenti arresti.

E, innanzi tutto, chi vorrà negare esser tuttora vivo e forte il divario fra popoli attivi e passivi? Dov'è che gli europei, e loro derivati d'America nel rapido ciclo della conquista tecnico-capitalistica del mondo, abbiano trovato emuli ed alleati, fuori che nel Giappone: ed anche su questo punto mi rimetterei volentieri al più maturo giudizio dei posteri. Chi crederà mai, fuori che il Vambéry, uomo dottissimo sì, ma affetto, a mio credere, di artificiale chauvinisme turanico, che dall'accampamento ottomano si trarrà ancora una moderna nazione turca? E in che altro ha messo capo la kedhivale rinnovazione dell'Egitto, se non che, tout court, nell'ingerenza del capitale europeo, tradotta poi, senza complimenti, - checché dica in contrario la fraseologia diplomatica - nel dominio prevedibilmente perpetuo dell'Inghilterra da Alessandria fin verso le fonti del sacro Nilo? Non una sola delle genti, non un solo dei varii conglomerati di genti, non un solo dei quasi popoli, su i quali l’Islam esercitò per più d’un millennio la sua forte influenza, s’è visto ad assorgere di recente a nuova vita per ispontanea e rigeneratrice appropriazione degli elementi che il mondo europeo è andato offrendo.

E poi non è forse l’Europa stessa suddivisa alla sua volta in un suo proprio Oriente ed Occidente? La linea di demarcazione non è certo assegnabile come in un tracciato topografico; e nessuno vorrebbe dire, che, al di là di essa, vegeti ancora sonnolenta la preistoria scitica e sarmatica. Ma è sempre vero che la Russia, al confronto di questi stati dell'Europa mediana ed occidentale, sorti e svoltisi da costanti rivoluzioni, che han rimescolato così spesso tutti gli elementi sociali dall'imo alla superficie, e dalla periferia al centro, e viceversa, rimane per noi come un qualcosa di straniero, che sa sempre di bizantino e di mongolico tuttora.

La posizione attiva è sempre tenuta, alla fin delle fini e nel tutt'insieme, dai neo-germani e dai neo-latini: e ci troviamo perciò rimandati alla lunga tradizione della civiltà mediterranea antica, continuatasi nella unità cattolica del Medioevo.

Qual maraviglia, dunque, se la politica della conquista, della supremazia, della sopraffazione, dell'intervento di paese e paese, e della guerra, o fatta o soltanto minacciata, sia stata e rimanga l'inevitabile conseguenza, il potente ausilio e l'istrumento decisivo della espansione capitalistico-borghese?

Il principio di nazionalità, vuoi per fenomeno di spirito democratico, vuoi per fortunate circostanze, ha compiutamente trionfato nell'Italia, che nel suo recente assetto di stato unitario rimane di poco in qua dai suoi confini etnico-naturali. Per diverse vie, in diversi modi, con minori garenzie democratiche, ma con impeto immensamente superiore di fattività progressiva, e pur sempre nello stesso tempo, è venuta a maturità di grande stato una Germania nuova, povera di confini naturali che male amalgama entro i suoi confini politici alcuni elementi stranieri, e lascia fuori del suo perimetro un numeroso popolo di tedeschi. E qui s'arresta il successo della nazionalità. Greci, bulgari, serbi, rumeni - si son redenti sì; ma son essi rispettivamente così pochi, che non potendo esser leva da muover la storia, rimangono manubrii dei più potenti. E la infelice dilacerata Polonia, i finlandesi manomessi proprio sotto gli occhi della civilissima Europa, e i mezzo dispersi armeni, lasciati in balia della scimitarra micidiale?

Il certo è che la dinamica politica che ha menato al presente, e non invero semplicemente temporaneo assetto, le combinazioni etno-economico-politiche che formano gli stati, ha sfidato e sfida la vigorosa logica del principio nazionale: e l'Inghilterra non avrebbe tenuto per due secoli l'indiscusso dominio dei mari, e fino a pochi decennii fa il monopolio del commercio mondiale, se, da quando in su la fine del secolo diciassettesimo si venne isolando dal continente europeo, avesse essa mai tollerato le sorgesse accanto nella vicina Irlanda, che ha così metodicamente stremata e depauperata, una nazione autonoma. L'Austria - ecco la classica e solenne smentita - s'è fatta qual è ora, e cioè libera dalla vieta tradizione del Sacro Romano Impero, proprio in principio del secolo decimonono, è venuta ai suoi mezzani componimenti di stato moderno liberale proprio in fine di esso, ed entra nel nuovo secolo sfidante i preannunzii di prossima morte.

Tutto cotesto assetto politico degli stati, che par fatto apposta per muovere, come muove, alle incessanti proteste i caldi amatori del dritto di natura, della logica e della giustizia, non sussisterebbe un sol giorno, se la compagine interiore delle società che offrono la materia su la quale si esercita l'arte di stato non fosse per se stessa piena di contrasti, e di continua sommossa dal perdurare e dall'intrecciarsi di tali contrasti.

Per quanto da cento e più anni in qua sia stato forte, e soprattutto precipitoso negli ultimi decennii, lo spostamento della popolazione dalla campagna alla città, pur permane la divisione fra rurali e cittadini, con le accentuate e spesso irreducibili differenze psicologiche che ne derivano. Per quanto i rapidi progressi della tecnica abbiano raccolto intorno alle fabbriche di piccola, di media e di grande portata, innumerevoli operai reggimentati, da per tutto, ed anche nei paesi della più fiorente industria moderna, sussistono infinite forme di artigianato, che dalla piccola bottega giù giù si perdono fino nei lavori domestici, nei lavori promiscui, e nella ricerca girovaga ed avventizia della occupazione. Ed anche qui delle pronunziate differenze psicologiche.

Ma che giova di prolungare l'analisi d'un fatto, che sta chiaro e dispiegato sotto gli occhi di tutti? Chi non vede, discerne e connota le caste, i ceti, le consortiere, le combriccole e le camorre, dei preti, dei frati, dei proprietarii, dei capitalisti, dei finanzieri, dei borsisti, dei commercianti, dei professionisti, degl'impiegati, a venir giù giù ai parassiti, ai vagabondi, al servitorame, e a tutte le specie e forme del canagliume e della mala vita? Per tali differenziazioni nel seno di una società, che non è più giuridicamente gerarchica, ma che è di fatto multiformemente articolata, mal si forma, salvo che nei casi di violente e repentine scosse, quella umanitaria opinione pubblica, senza della quale la democrazia non può sussistere. Si ripensi alle città antiche, che sono fino ad ora l'esempio classico ed insuperato della psiche democratica entro l'angusta cerchia di una vera cittadinanza.

Per tali ragioni nel liberalissimo secolo decimonono, l'azione politica dello stato s'è affermata e retta ancora cosi spesso su la violenza, su la corruzione, e sul ripiego: sia che Napoleone III, nell'acquiescenza degli operai di città battuti dalla grande e media borghesia nelle giornate di giugno, si faccia l'imperatore dei contadini e dei soldati, aspettando al varco i capitalisti e loro parassiti; o che la scaltra oligarchia inglese disperda il moto cartista nelle dilazioni e nelle parziali concessioni; o che Bismarck acclimi ai mezzi costituzionali l'impetuoso moto socialistico tedesco.

Queste non liete riflessioni su gl'intralci che ha messo al moto ascensivo della democrazia il complicato intrigo politico di tutto un secolo, trovano rincalzo in due altri fatti. Dov'è, fino al momento presente, ed anche nei paesi che pretendono di averne, la vera cultura popolare? E d'altra parte non è forse vero, che mentre la scienza, quanto a materiale si è strepitosamente cresciuta, e quanto ai metodi, si è maravigliosamente raffinata, e mentre la tecnica conquistatrice e combinatrice di forze estende a vista d'occhi il dominio dell'uomo su la natura, in molti punti dell'orbe civile risorge il misticismo, e in molti strati della società si fa di nuovo potente il cattolicismo? Potremmo noi passar sopra a tali considerazioni?

Due problemi di carattere più generale stanno a capo di tutta questa trattazione, e penetrano per ogni parte il mio discorso.

Il primo è questo: si può mai misurare il progresso, e alla misura quale stregua occorre?

Il secondo può avere la seguente formulazione: è egli mai possibile di prevedere l'esito dei presenti contrasti? Il che si riduce a riannodare la nozione del progresso ad un prossimo punto di approdo. S'intende da sé, ed è anzi implicito al concetto della critica immanente ai contrasti della presente civiltà, che il ragguaglio principalissimo è riposto nella aspettazione del socialismo.

Il secolo del quale vado facendo la commemorazione, ebbe un carattere tutto speciale, che lo differenziava singolarmente da tutti gli altri. Gli uomini che vissero per entro e durante cotesto periodo vennero come trasfigurando la nozione del tempo; e il numero decimonono, ossia la data, divenne un'idea: come a dire la persuasione del diritto a progredire. Tale persuasione era come formata già fra il '40 e il '50. Singolare ricordo di quella onnipotente Convenzione che aveva decretata l'abolizione di ogni altra èra, e l'inizio di un nuovo periodo nella vita dell'uman genere!

Difatti per la prima volta gli uomini sentono che essi stessi fanno la storia per entro alla collettività organizzata. L'intelligenza umana fra i civili d'Europa che tengono il governo del mondo, è venuta per la prima volta in contatto coi viventi in tutte le regioni dell'orbe terraqueo, e s'è resa conto dei modi d'esistenza di molte generazioni di nostri antenati. La consapevolezza dell’essere nostro s'è venuta come rinforzando, avvalorando, moltiplicando. Per la veduta così allargatasi su i molteplici precedenti del nostro vivere attuale, la certezza dell'aver progredito, l'aspettazione del progredire e la necessità del dover progredire han finito per raccogliersi in una persuasione che ha sicurtà di fede.

In questa sicurtà s'impernia un nuovo, più profondo e più ampio senso di comunanza umana, che determina in molti ciò che può oramai dirsi l'etica del socialismo: cioè il postulato della solidarietà contrapposto all'assioma della concorrenza.

III.

Sorretti dall'ambiguità del linguaggio, noi riusciamo a contrapporre alla nozione meccanica del secolo (i cento anni) quella d'un periodo interno nel quale la società segua delle determinate direttive, e presenti dei caratteri, che sono i suoi principii. Quelle ambiguità linguistiche ci son familiari, perché, dicendo p. es., secolo di Leone X, noi non pensiamo ad alcun numero d'anni precisi. Dura e materiale quasi, al contrario, è la espressione tedesca (Jahrhundert), e quella inglese che letteralmente ricorda i cento anni.

E il caso vuole, che, pochi anni innanzi che s'aprisse il primo foglio del calendario del 1801, l'avvento dell'èra liberale fosse catastroficamente inaugurato dalla rivoluzione industriale inglese, dal precipizio dell'Ancien Régime in Francia, e dalla consolidata indipendenza americana, che inaugura e fissa nella sua peculiarità ed autonomia la storia del Nuovo Mondo. La nuova Germania era già allora come avviata, la Russia s'avvicinava al Mediterraneo, riabilitato dalla spedizione d'Egitto, e divenuto indispensabile di nuovo alla economia del mondo occidentale dal rassodato potere dell'Inghilterra su l'Indostan. E chi ami di guardare nei più sottili riflessi delle rivoluzioni intellettuali o estetiche l'affannoso divenire delle cose umane sociali, non ha che a ripensare a questi nomi: Smith, Maltus, Ricardo, Lavoisier, Laplace, Lamark, Volta, Avogadro, Kant, Bopp, Goethe, Shelley, Owen, Saint-Simon, Fourier, Hegel. Basterebbe, dunque, di aggiungere agli usuali anni, che corrono fra le cifre rotonde 1800 e 1900, un semplice trentennio, per ritrovare di sotto ad una indicazione di mera cronologia esteriore l'indice di un periodo che, rivelando caratteri proprii nella maniera della convivenza, non mi periterei di chiamar sociologico.

Ma tutte coteste cautele e riserve, che servono a un di presso ad adombrare il divario fra le tabelle dei cronologisti e le esigenze della concezione sociologica, non varranno mai a liberarci da varii pregiudizii e presupposti, che, in modo più o meno esplicito o latente, pesano su lo spirito non dei soli indotti. Molti sono p. es. tentati a credere, che il discorrere di un'epoca liberale sia come inquadrare una serie di fatti particolari in una già nota prospettiva unica di tutto il genere umano. Spariscono così le differenze di attivi e di passivi, di Oriente e di Occidente, di avanzati e di arretrati, di selvaggi, barbari e civili tuttora coesistenti, e si perde di vista il relativo regresso, ossia la decadenza, che è pur fenomeno d'indubbia realtà. E poi, fermandoci ai soli civili, la cui continuità storica pare come accertata dalla costanza della tradizione, alcuni trascorrono facilmente alla immaginazione dei grandi periodi designati da categorie così generali, che rimangono inoppugnabili perché anti-empiriche e inconcludenti. P. es.: Hegel: un solo libero - pochi liberi - tutti liberi; o il suo pendant latino, Comte: teologia - metafisica - scienza.

Parlando, insomma, di un periodo liberale, in quanto ciò s'attaglia solo ai popoli direttivi nella civiltà attuale, io intendo innanzitutto e soprattutto di attenermi ai caratteri empirici di queste nostre società, in quanto derivano da altre (corporative, feudali, endemiche, ossia locali, puramente etniche, teocratiche e così via) e si differenziano dalle altre parti del genere umano, che, o non percorsero tutti i nostri stadii, o ne han percorso degli altri in gran parte difformi. Queste stesse nostre società in nessun luogo sono così serrate di tipo ed omogenee di strutture da avere eliminato del tutto le tracce del passato. Ed ecco la prima ragione degli arresti ai quali accennai nell'altro paragrafo. In tutte queste società - per i contrasti che ad esse sono inerenti - si preparano condizioni future. Di qui la ragion d'essere del socialismo nel più lato senso della parola. Il socialismo è fin da ora realtà attiva in quanto indizio e segnacolo di lotta attuale; ma tutte le volte che esso assume un presagito futuro come stregua e criterio del presente, ridiventa utopia.

Entro per ciò in una specie di apparente divagazione, della quale non s'avrà il senso che alla fine di questo paragrafo.

Seclum o seculum, saeclum o saeculum non vuol dire originariamente se non seminagione e quindi generazione. Sta in fondo la radice sa, che ci apparisce schietta in satus, sativus, sator, Saturnus: e poi se in serere, in sevi (Ennio), in semen etc. I corrispettivi delle lingue ariane d'Europa (lituano sëti; antico slavo sejati; gotico saian; antico tedesco sâjan; tedesco moderno säen; inglese sow) documentano il derivarsi della parola seculum dalla radice sa (se) a significare il nascere per seme o per seminagione: dal che poi lo scindersi del significato in generato, e in generazione generante.

Basterà una breve scorsa nel campo della semasiologia (o semantica che dica il Bréal). Il significato originario è tutto ancor vivo in Lucrezio; p. es., saecla pavonum e saecla ferarum; cupide generatim saecla propagant; ut propagando possint procudere saecla. Da questo senso intuitivo si distaccano i varii traslati, che si derivano in varie metonimie. P. es. la durata di una generazione umana contata per trentatré anni: ex hac parte saecula plura numerantur quam ex illa (Livio), o la durata d'un regno: digna saeculo tuo (Plinio); e quindi l'insieme dei conviventi: hujus saeculi insolentiam vituperabat (Cicerone), e di qui, per fina transizione, i costumi e lo spirito d'un periodo di tempo: grave ne rediret saeculum Pyrrhae (Orazio); Cato rudi saeculo litteras graecas didicit (Quintiliano); nec corrumpere aut corrumpi saeculum vocatur, nel qual luogo Tacito, che parla di germani, con una certa punta di novità preludia al senso cristiano della parola, come quando Prudenzio gravemente dice servientem corpori absolve vinclis saeculi. Il distacco massimo da ogni immediata derivazione di cosa sensibile è quando la parola è assunta a significare un tempo indeterminato: aliquot saeculis post (Cicerone), al che fa contrasto la fissazione tecnica a significare una determinata estensione di tempo: saeculum spatium annorum centum vocarunt (Varrone).

Comunque sia nata la immagine di cento anni destinati artificialmente a designare un doppio termine d'inizio e d'arrivo, sta il fatto che in questo modo di vedere si rivela un non trascurabile momento di psicologia sociale. Dato che non si viva più nella promiscuità o nell'orda primitiva, ma che la società sia già articolata in genti ad ordinamento patrimoniale e patriarcale - come era indubbiamente quella degli antichissimi italici; - dato che in così fatta convivenza si trovino in domestico contatto avo, figliuoli e nipoti (come tuttora nella Slavia meridionale), come di regola; la storia casalinga dà un che di frequentemente intuitivo al succedersi di tre generazioni di viventi negli stessi abiti e sensi. Non così le posteriori plebi antiche, non così i proletarii moderni viventi nel giorno per giorno, senza raccoglimento di gentilizia tradizione. Questa è ancor forte nelle sopravvissute aristocrazie o di rari proprietarii o di patriziati di città, e non iscarsa nella più consistente borghesia.

Una memoria viva di ciò che s'è svolto a un di presso da cento anni in qua nella propria famiglia costituisce nella maggioranza delle persone di mediocre cultura il punto di riferimento delle cose del mondo. Se io non guardassi alle vicende del secolo con l'occhio di persona avvezza alle discipline storiche, saprei almeno di Napoleone, di Gioacchino Murat, dei francesi a Napoli, dell'abolizione dei feudi e della introduzione del Codice Civile per averne sentito a parlare dal nonno e dalla nonna. La tradizione biblica è tutta contesta di tracce genealogiche, fino al posticcio preludio dell'Evangelo di Matteo. La medesima concezione è ancora viva nell'indimenticabile Ecateo, nel quale, pare almeno, non comincia ancora quel senso più complessivo degli accadimenti che più tardi fu così vivo nei greci in quanto si riferiva all'unità, o della città o del popolo. Dove l'intuitivo fatto delle generazioni è così dominante quale unità dei ricordi l'immagine dell'albero si presenta da sé, sia che Omero (Il., VI, 146) dica:

οȉη περ φλλν γενε, τοη δ καν

che Jesus Sirach (14, 19), quasi parafrasasse Omero più ampiamente, enunci: “Come le verdi foglie sopra un bell’albero che altre cadono e altre crescono; così degli uomini, che altri muoiono ed altri nascono”.

Non mi addentrerò in dotte disquisizioni estranee in tutti i modi al mio assunto, per mettere in chiaro come sotto l’influsso di credenze etrusche al gran numero delle feste cerimoniali, votive, espiatorie e trionfali, si venissero aggiungendo nell’antica Roma i ludi saeculares. Sono attestati la prima volta al 249 e la seconda al 146 a.C., il che farebbe il 505 e il 608 ab urbe condita (del calcolo varroniano), con poco divario dal cento sacramentale. Li celebra poi Augusto al 737 ab u. c. (ossia al 17 a. C. in ritardo di parecchi anni). Tengo per cose note l'arbitrio col quale il bizzarro Claudio sconvolse di suo capriccio la data per letificarsi dello spettacolo, il fatto che Domiziano rimise a posto la serie, e che Settimio Severo col quale cessa la diarchia e s'inaugura il periodo dell'impero militare-burocratico, ne ripigliò la celebrazione a 110 anni di distanza. Con gran pompa ebbero luogo gli ultimi giuochi celebrati (forse il 303 di nostra èra) dall'ultimo effettivo rappresentante del mondo antico, Diocleziano, e la cerimonia non più fatidica ha trovato nell'ultimo notevole storico pagano, cioè in Zosimo, il narratore romantico della tradizione sibillina. I decadenti son sempre coloristi.

Come e quando ai culti indigeni gentilizii e locali si venissero ad aggiungere nell'antica Roma nuovi motivi di superstizioni cerimoniali tratte da quelle vedute apocalittiche che si compendiano nei misteriosi libri sibillini, né sappiamo né sapremo mai. Che i ludi saeculares avessero originariamente per obietto gli dèi inferi, e che la data ne dovesse essere fissata dagli Haruspici, son risapute. Ma come e per quali vie si venne formando nelle menti romane quel singolare sincretismo di opinioni orientali, postplatoniche e semistoiche per cui le prosaiche vicende – che furono allora di ferocissime guerre civili - apparissero come un momento delle fasi dell'anno mondiale?

Augusto, già decretato imperatore da dieci anni, consenzienti i quindicemviri a interpretare i Sibillini quanto alle date, mentre tenta di reintegrare l'ordine morale con la legge de maritandis ordinibus, celebra sotto il vecchio titolo dei giuochi secolari la felicità dell'orbe nell'impero. Già i dieci mesi dell'anno mondiale erano penetrati nei libri sibillini. Non erano circoscritti in numeri d'anni assegnabili ma rivelati da segni e portenti. Avean dei prèsidi. Diana cedeva già il posto ad Apolline, e si era così al decimo saeculum delle periodiche età dell'universo, come avea seriamente annunziato l'auruspice Volcasio edotto dall'apparire della crinita cometa alla morte di Cesare. Non cantava Virgilio: “UItima Cumaei iam venit carminis aetas; Magnus ab integro seclorum nascitur ordo”?

Superstizione, mitologia, teologia, stanchezza degli animi, bisogno di riposo, corruzione d'ogni forma di vita spontanea, popolare impulso, l'artifizio politico, e la stessa apprensione di quelle genti barbariche che cingevano l'ecumenico impero dei civili, - tutto concorreva a consacrare come nell'accettata immagine di età cosmica il nuovo magistero imposto al gran caos etnografico del Mediterraneo. Rimando ai manuali quanto alle solenni feste augustee culminanti al terzo giorno in quella d'Apolline, come se il luminoso iddio avesse trionfato degl'inferi; e mi preme solo di ricordare che l'epicureo, il decadente, l'ex-repubblicano Orazio, fu il primo poeta aulico del Sacro Romano Impero, il primo cantore di una idea, che rimase definitivamente sconfitta solo per opera dei sanculotti.

Cotesta fantasia delle età del mondo non turba mai la pratica del conto civile degli anni, né la trattazione annalistica del racconto storico. Bastava l'ab urbe condita o il post reges exactos, e la indicazione dei consoli, e così fu l'ultimo di questi (nel 542 dell'a. C. sotto Giustiniano) Flavio Basilio juniore assunto da alcuni cronisti a data negativa perché scrissero tanti anni dopo Juniore. A tale metodo s'adattarono gli scrittori cristiani, - quando non usassero di altre ère civili dei paesi d'Oriente, - e ci si adattarono per più di cinque secoli, che son quelli in cui il cristianesimo s'è formato e svolto e fissato e stabilito come sistema di vita e di cultura, e s'è imposto a quasi tutte le regioni dell'impero. In quell'impero era nato e s'era consolidato: e quell'impero non era che l'ultimo periodo di quella età del mondo che la profezia biblica permetteva di ammettere.

Datare dalla nascita di Cristo un nuovo periodo storico sarebbe stato come profanare il piano provvidenziale del mondo, e come un anticipare il millennio. L'impero romano, ossia l'ultima delle monarchie profetizzate, avea perciò esistenza indefinita. Non starò qui a riferire come Eusebio di Cesarea usando del sincronismo di Giulio Africano, abbia costruito la cronaca del mondo spartendola nelle due serie da Mosè alla predicazione di Cristo per un verso, e da Nino a Tiberio da un altro con Abramo a capo, che non ha corrispettivo di storia profana. Lui s'arresta al 325, contando per decadi la cronaca mondiale prolungata da S. Girolamo fino al 378, al quale il profeta Daniele opportunamente interpretato dava modo di eternare l'impeto romano come la quarta monarchia che non ammette dopo di sé altro che la palingenesi. Non occorre mi indugi nei quattordici subperiodi simmetricamente posti da S. Agostino fra Abramo e Cristo, e nelle sei età del mondo che gli parvero documentate dalle sei età della vita e nei sei giorni della creazione.

Tutto cotesto garbuglio di escogitazioni trascendenti, convalidato dall'autorità di Sulpicio e rifermato nella cronaca del mondo di Isidoro, ebbe la sua codificazione nel manuale di Orosio. Che l'impero d'occidente cada, non monta: c'è quello d'Oriente, e poi viene la instauratio carolingia e poi quella degli Ottoni. Le preordinate età del mondo non soffrono alterazione, per il variare delle multiformi contingenze di tempi così ricchi di nuove forme di vita. Tutto è fermo e stabile da Adamo in poi, perché la creazione del mondo ha la sua data! Il contare per decadi è così comodo, e così il sommare le decadi in cento (C.).

E quando la data della nascita di Cristo fu per congettura stabilita, spezzare il conto in due era del pari opportuno, e quindi avanti e dopo Cristo. I cento sommari danno il mille: il pauroso mille, ossia il millennio dei millenarii, ai quali non so dare, in buona coscienza, alcun torto. Concepita in modo così materiale la necessaria concatenazione degli avvenimenti, dalla storia profana bisognava pure uscire in un determinato momento per entrare sensibilmente nel regno di Dio.

Ma io non sarei tornato su cotesto immane guazzabuglio di cosiddette idee, se non mi premesse di fermarmi in alcune non inutili considerazioni. In quel gran tratto di tempo che per convenzione di comodo noi chiamiamo il Medioevo, dunque, quei pochi e rari intellettuali che raccolsero e scrissero le memorie locali e generali, pur datando le loro cronache dal padre Adamo e pure spartendo la cronologia in avanti e dopo Cristo, non ebbero punto o assai raro sentore della peculiarità, novità, e originalità dei fatti che trattavano. Vissero idealmente in una romanità di loro fattura, nella quale inquadrarono i nuovi fatti come gli accidenti di un impero continuamente esistente, in cui elementi latini, germanici e in parte slavi si confondono sotto il magistero del Caesar sempre vivo. Tardi si sgroppano da questa illusionale comune coscienza indistinta i neo-germani e i neo-latini nella specifica circoscrizione di nazioni e subnazioni. Tardi si svincolano dei veri e propri reggimenti di stato dagli universali vincoli dell'impero e del papa, che era a sua volta o l'impero o il sopraimpero.

La forma strepitosa di tale distacco, come quella che avvia alla rinascenza e alle prime fasi della storia moderna, e nella formazione dei comuni italiani, e nei fatti analoghi delle Fiandre, delle città del Reno, della lega anseatica e soprattutto della Provenza, dove il moto, prematuramente trascorso alla ribellione dalla cattolicità, fu spezzato dal regno di Francia aspirante al Mediterraneo. Così, e per la formazione dei grandi stati, e nel costituirsi delle nazioni con organi letterarii proprii tratti dal volgare, e nei tentativi di chiese nazionali e con la scissura protestante, si venne formando quella nuova coscienza, duplicatasi di Rinascenza e di Riforma, che ha cambiato negli intellettuali del secolo XVI la prospettiva storica. Nei rinnovatori dell'antico questo diveniva davvero l'antico.

Per gli scovritori del Nuovo Mondo, pei contemporanei di Copernico, pei rimaneggiatori dello scibile, per gli audaci precursori di una scienza nuova della natura, pei rappresentanti di tante nazioni oramai mature d'individualità propria cessava il senso di quella miscela, che fu la romanità medievale. Affatto naturalistica è la spiegazione che dà Machiavelli della fine dell'impero romano. A poco andare, Jean Baudin comincia a fissare i primi canoni di una ricerca storica ristretta e legata alle condizioni obiettive, e Giulio Cesare Scaligero introduce la tecnica cronologica come una vittoria della combinazione posta dalla mente sopra ogni simbolica di numeri e sopra ogni fantastico presupposto di preordinate età del mondo. La intuitiva riproduzione dell'antico da un canto, e il precisarsi del moderno dall'altro, sollecitarono i dotti di professione a rinchiudere in un cosi detto evo-medio la serie di fatti fra la caduta dell'impero d'Occidente (476), della quale i contemporanei quasi non s’avvidero, e un'altra data, che varia secondo i gusti dalla presa di Costantinopoli (1453) alla scoverta d'America (1492) e all'apparizione di Lutero (1517). La scuola s'è impossessata di tal comodo ripiego di facile classificazione: la quale vale quel che può valere ogni sorta di ripiego.

Noi siamo ora assai lontani da Baudin e da Scaligero, dalla Rinascenza in genere e dai suoi derivati. Le ricerche storiche son venute in tanta perfezione di metodo da avvicinarsi per molti rispetti alla scienza. Questo è uno dei maggiori vanti del secolo XIX. A nessuno viene più in mente ora di considerare sul serio come signoreggiante su la storia un tempo che faccia da trascendente distributore di atti e fatti. Il cresciuto e sempre crescente raffinamento della ricerca economica, giuridica, etnografica, e antropologica, per non dire della geografia, della statistica, della linguistica e della mitologia e così di seguito, ci permettono di vedere in sempre nuove e sempre più ricche prospettive e con più particolari contorni i diversi popoli e i diversi stati, non più distanziati da noi dalle semplici date cronologiche, ma dai momenti di una evoluzione, che qui troviamo spezzata, lì più dispiegata, e che poco per volta spezziamo.

E se - come ho fatto io in queste pagine - datiamo una serie di considerazioni da un fatto determinato, p. es., lo scoppio della Rivoluzione Francese, non ignoriamo più quanto di approssimativo c'è in cotesto taglio, e non dubitiamo di dover tener desti tutti gli organi della osservazione e pronti tutti gl'istrumenti della critica per dare all'anatomica operazione il suo giusto valore. Quel taglio non ci dispensa dal considerare lo scoppio dell'89 come il resultato di tutta la civiltà romano-germanica, continuatrice della antica civiltà mediterranea, e non ci autorizza a dimenticate che non ha valore per l'universo mondo terraqueo (India, Cina, Giappone, etc.) e nemmeno per quella Europa, che è di là dalla linea dove finisce l'azione diretta dell'èra liberale.

Senza dubbio oggi le direttive della ricerca storica si assommano nei criterii sociologici; e questi culminano - a mio credere - nel materialismo economico. Ma anche qui i pericoli dei facili schematismi non son sempre facili ad evitare. Per questa sicurezza di metodica scientifica con la quale cerchiamo d'investire il passato facendolo rivivere della vita del nostro pensiero, noi siamo diventati larghi d'indulgenza per le illusioni del passato stesso. Quella illusione medievale dell'impero indefinitamente prolungato, passando sopra ai pregiudizii teologici o esegetici che idealmente la sorreggevano, costituisce per noi una forte testimonianza sociologica. Ciò che veramente persisteva nei primi secoli eran le tradizioni di civiltà romana nelle quali il cristianesimo s'era svolto. I barbari invasori non furono nazioni di conquistatori, ma popolazioni cercanti sede. Bisanzio non ne acclimatò tanto malgrado la violenta dispersione etnica portata dalle invasioni unniche sul medio o inferiore Danubio? La sede vacante dell'impero d'Occidente non è un'illusione, perché il sistema di civiltà sopravvissuto, e per esso nell'interregno, acclimatava altri barbari da quest'altra parte. La prolungata illusione d'un impero che si continui all'infinito, finché non venga l'instauratio magna della vera cristianità invadente tutti i rapporti della vita (p. es. Dolcino), è l'anima della concezione del mondo di quel Dante che, contemporaneo della borghesia già avviata e della monarchia come reggimento politico giù tentato, vive idealmente sotto un Cesare invocato.

L'apparizione della borghesia - o che si costituisca in comuni o in leghe di comuni o che si lasci guidare o contenere da un monarcato tendente ad esercitare amministrazione o giurisdizione accentrate - è oramai per noi l'inizio di quella caratteristica di eventi cui siamo autorizzati a dare il nome di storia moderna, in contrapposto alla incubazione medievale, in contrapposto agli ereditati o riprodotti elementi dell'antico. Parlando di un secolo decimonono - nel lato senso indicato di sopra, - noi sappiamo dunque di occuparci dell'ultima e della più ampia e dispiegata fase dell'evo borghese.

Mi occorre dire dell'altro.

Quei romantici del cristianesimo, che ingombrarono di loro nomi e di loro scritti i primi decennii della reazione succeduta al gran moto francese, hanno accreditata nella letteratura la fatua idea d'una civiltà cristiana posta e saputa dagli autori stessi come distinta dalla civiltà pagana. Era un modo di combattere a ritroso la invadente borghesia in nome d'un cristianesimo fattizio e di un Medioevo transfigurantesi in poesia. Per ciò mi son fermato qui innanzi a ricordare come la storiografia cristiana dei primi secoli della vigorosa diffusione e del pratico trionfo della nuova fede, mentre seguiva qual mezzo di conto delle ère civili accettate e soprattutto di quella dominante dell' ab urbe condita (né gioverebbe qui di ricordare le altre, p es. Troia, Argo, i Seleucidi, Nabonassar, della quale ultima usò Tolomeo anche lui seguace dei sincronismi riannodati al succedersi delle grandi monarchie), considerando il cristianesimo come l'oltre-storico, s'adattò a considerare come permanente la civiltà profana contenuta dall'impero.

Infatti gli è solo in principio del VI secolo che Dionigi, meritamente detto l'esiguo, nel rifare le tavole pasquali di Cirillo data il 1284 ab urbe condita (dell'èra di Catone) per il 531 dopo Cristo, trasferendo dal venerdì santo alla natività la data che forse per il primo avea argomentata Vittorino di Aquitania undici anni innanzi (465) alla caduta dell'impero d'Occidente. Quell'esiguo era un nordico, e fu detto lo Scita, - tanto la confusione etnica massima fra le Alpi e il Danubio avea sconvolto, - pur essendo in Roma abate di un monastero. Fu compilatore di diritto ecclesiastico, mettendo assieme i così detti canoni apostolici, le decisioni dei concilii e le decretali di Siriano e di Anastasio. Per fermo, se il cristianesimo, che come fede avea sempre per obietto il di là da venire, in quanto esso era diventato chiesa, ossia associazione e politica, metteva il piede nelle cose del profano mondo per essere nell'interregno dell'indistruttibile impero, o il vice - o il vero - o il sopraimpero. E avea bisogno a ciò, più che della data, del dritto e del potere economico. Quella data - che a me qui non importa di vedere se sia inesatta di 2 o 3 secondo il Mabillon, o di 8, e così via - indicata col 531 per dire che ne trascorrevano 532 dal 753 (conto catoniano) dell'ab urbe condita, fu diffusa dal venerabile Beda; e, penetrata nei documenti carolingi, ebbe consacrazione ufficiale negli atti di Giovanni XIII (965-72) nel più confuso e disordinato tempo di nostra storia europea.

I tecnici si occuperanno di dire come si datassero in quei tempi assai variamente gli anni, cosicché Carlo Magno ci apparisce incoronato imperatore ora il 799 ora l'800; e a me preme solo di dire come cotesta èra cristiana non sia stata nulla di sacramentale per la universalità dei fedeli. La cattolicissima Spagna ha contato fin verso il secolo decimoquarto dall'èra di Augusto (38 a. C.); e Bisanzio, come per affermarsi nella sua differenza dall'Occidente già distaccatosi, si tenne alla data della creazione del mondo, sapientemente fissata dal concilio costantinopolitano del 681 a 5509 anni avanti Cristo. Così continuarono tutte le chiese d'origine bizantino-ortodossa; così la Russia fino a Pietro il Grande, che introdusse il calendario occidentale di fattura giuliana, passando sopra alla riforma gregoriana.

Fortunati i nostri padri, che nella iscienza delle fasi effettive del genere umano, lontani dal presentimento di tutto quel sapere che noi ora comprendiamo nei nomi di sociologia, di preistoria e simili, si argomentassero di sapere la data della creazione del mondo. Da giovanetto io, - per la pigrizia tradizionale che manteneva nell'ambito scolastico d'un paese di decaduti il vieto e l'obsoleto, - ebbi per mano dei vecchi libri nei quali la storia era contata dalla creazione del mondo, travagliandomi ad armonizzare Calvisio (3949 a. C.), Petavio (3938) ed Ussero (4004). Ignoravo allora che nelle dotte dispute di varii interpetri delle sacre carte ci fosse stata anche una scuola (ebraica invero) che fissò la creazione precisamente al 5 ottobre del 3761 a.C.

Di quanto si sia prolungata la nozione dei fatti storici accertati dalle scoverte della egittologia e delle antichità babilonesi presemitiche, è cosa risaputa. Al certo, per date di cronologia si risale a numerose epoche di preistoria, confinabili per altri interiori criterii di successione. Più in là le epoche geologiche, entro le quali incertamente collochiamo il primo apparir della vita, e più in là ancora le ipotesi su la formazione del sistema solare, e il tutto si dirama e contiene nell'universale concetto della evoluzione.

Sorridenti, noi guardiamo indietro ai nostri padri che cercavano in un giorno di un anno dell'ovvio tempo la materiata creazione del mondo; e in tanta abbagliante luce di rivelazione interpretabile, non seppero con precisione l'anno di nascita del Salvatore, e quella congetturata fu materialmente accettata come una qualunque.

La moderna idealizzazione del cristianesimo nei derivati filosofici del protestantesimo ha superato del tutto l'angusta nozione dì una verità religiosa che è un fatto di materiata narrazione, pronunziando per bocca di Schleiermacher che è cristiano non il nato ma il rinato.

La chiesa, che come arbitra della cultura s'impossessava del calendario codificando l'èra e i secoli, s'acquetò lungamente a continuare il conto sommando gli anni della riforma giuliana (45 a. C.). Anche qui era e rimaneva sovrano il primo Caesar, e il tempo procedeva sotto la imperiale insegna. Mi guarderò bene di discorrere dei varii anni che la tecnica astronomia suole annoverare. Né occorre io spieghi per quali convenienze la cronologia civile si attenga all'anno equinoziale, che ci è in un certo modo sensibile. Non importa qui di ricordare le fasi della cronologia greco-romana - le antiche notazioni delle vicende agricole - gli anni lunari - e i tentati riavvicinamenti al periodo equinoziale.

Quale confusione regnasse quando Giulio Cesare ordinò la riforma, più che da ogni altra erudita testimonianza risulta dal fatto che si dové ricominciare da un anno di 455 (sostituito all'antico che era di 355); e, chiamando 24 marzo il giorno dell'equinozio, si costituì un anno in cifra rotonda di 366 con la nota differenza dall'effettivo periodo equinoziale che è in media di giorni 365, ore 48, minuti primi 48 e minuti secondi 46. Non fu riferito al 24 marzo lo inizio dell'anno, ma al I° gennaio che per vecchia tradizione doveva corrispondere al plenilunio di dopo il solstizio d'inverno. In tale autoritativa riforma derivossi per Sosigene di Alessandria quanto potea dare la tecnica astronomica dei greci non certo ignari della tradizionale sapienza egizia, che probabilmente fin dal 1600 a. C. avea trovato un canone di correzione siderale alle inesattezze dell'anno civile (il cosi detto periodo Sotis che riappare nel decreto di Canopo).
 
Quello schema cesareo fu serbato per secoli nella cronologia tecnica e storica dell'Occidente, e la Russia se ne libera soltanto ora per la prima volta. Già al tempo del concilio di Nicea (325 d. C.) l'equinozio di primavera era disceso dal 24 al 21 di marzo e il 1580 era all'11 di quel mese. Sorgeva d'ogni parte la domanda della riforma, - la chiedesse quell'anticipato presentitore di cose nuove che fu Ruggiero Bacone o quel più prossimo a noi per senso di dubbiezze che è il cardinal di Cusa. In questo fermento di novità di calendario si svolge il genio di Copernico, non presago delle sovvertitrici conseguenze cui dovesse giungere la foga geniale di Giordano Bruno e la più rassodata scienza di Galileo e di Keplero.

La decantata riforma gregoriana non fu che un componimento gesuitico al quale si adattò l'antica scienza di Sirleto e Clario, sfidante la più radicale riforma del periodo teorico del geniale Scaligero. Furono aggiunti dieci giorni all'anno in corso (5-14) invece dei 13 che occorrevano a non offendere il concilio di Nicea, e furono rimandati i tre giorni di differenza al 1700, 1800 e 1900, nei quali, come è noto, rimase soppresso il bisestile. Di qui a 3600 anni ci troveremmo in errore di un giorno, se via via non si accetta la proposta di Mädler e di altri astronomi di lasciare inalterata la tradizione giuliana del bisestile, salvo a sopprimerne uno ogni 128 anni, il che renderebbe approssimativamente coincidente l'anno civile con l'anno medio equinoziale.

L'accomodazione gesuitica della riforma gregoriana lasciava intatta la concezione tolemaica - perché l'intuitivo equinozio riman lo stesso, o che la terra sia il centro dell'universo, o che sia un povero pianeta nell'indefinito spazio - di un cosmo considerato come una stabile e conterminata contenenza. Per altre vie s'era messo lo spirito della ricerca. L'audace, intemperante e sovrabbondante Giordano Bruno s'era fatto l’araldo per tutta l'Europa civile della veduta copernicana, dalla quale trasse, per virtù d'immaginazione costruttiva con precorrenza di genio che mal s'adatta alla paziente dimostrazione dei particolari, i dati più generali di quella intuizione cosmocentrica nella quale ora tutti ci adagiamo senza ambascia e senza travaglio. La vôlta del cielo dantesco rimane ora, non che sfondata, dispersa. L'irrelativo dell'universo senza contenenza sensibile rendeva relativa ogni umana misurazione per tempo e per spazio.

Un anno dopo il martirio di Bruno, che ebbe luogo in quel febbraio al quale la riforma gregoriana serbava il bisestile, Keplero (1601) determinando l'orbita di Marte sconvolse dal fondo la nozione della perfettissima forma del circolo dominante nella natura per volontà di Aristotele. Galilei - continuatore del Benedetti - nell'assunto dell'inerzia, che preludia di lontanissimo al principio dell'energia, ossia ad una data decisiva del secolo decimonono, portò a compimento una lunga disputa durata dal cardinal di Cusa per più di 150 anni, con questo esito che la meccanica dovesse fondarsi su i dati della osservazione e del calcolo, rinunziando ad ogni ricerca su la origine trascendente del moto. Il secolo decimosettimo è il periodo rivoluzionario della scienza della natura. Si elabora allora il concetto delle leggi naturali, sia pure che non tutti raggiungono gli ardimenti di Spinoza o di Hobbes, e che le leggi considerino con gli assiomi posti da Dio. La relatività d'ogni misura, d'ogni maniera di mutazioni per mezzo del tempo è cosi affermata dal circospetto Newton:

Tempus, absolutum, verum et mathematicum in se et natura sua absque relatione ad externum quodvis acquabiliter fluit, alioque nomine dicitur duratio. Relativum apparens et vulgare est sensibilis et externa quaevis durationis per motum mensura, qua vulgus vice veri temporis utitur: ut Hora, Dies, Mensis, Annus (Phil. Nat., Def. VIII, Schol.).

Da Newton a Kant corre tutto un secolo, non di soli anni di conto, ma di intime transizioni e intensificazioni del pensiero. Quella ombratile eterna durata man mano si sfuma, e rimane la sola subiettività ossia relatività del tempo. Da Galilei, Keplero e Newton corre altrettanto un secolo per giungere alla ipotesi Kant-Laplace (forse precorsa dal Buffon) su la origine del sistema solare, che riduce gli assiomi posti da Dio nei momenti di un obiettivo e perciò immanente processo. Dove la finirei se volessi mettermi negl'infiniti particolari di tali confronti? L'importante è, che divenendo sempre più chiara la nozione che il tempo è la subiettiva misura dei varii processi, la cui natura peculiare deve essere attestata dalla considerazione empirico-obiettiva del loro contenuto, e del loro farsi e divenire - maturandosi cioè le premesse di quella veduta del mondo che il secolo decimonono ha condensato nel nome dell'evoluzione, nasceva il bisogno di trovare alla storia le sue proprie date sociologiche.

A ciò volle frettolosamente e audacemente provvedere con la sicurezza di chi crede d'esercitare su le complicate faccende del mondo il magistero della ragione, quella Convenzione, che decretò il novello calcolo dei tempi per l'èra della società rinnovellata. Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini avessero pei primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione.

Non è già che mi prema gran fatto di scrivere invece del 1901, e per far dispetto allo Scita Dionigi, il 109 anno della repubblica, aspettando il 110 che comincerebbe il 23 settembre prossimo. Né mi sento tanta vaghezza di democratico romanticismo da gioire all'idea, che se quel calendario fosse stato conservato a quella repubblica italiana che per ora non c'è, io oggi non metterei la data del tal giorno di agosto ma bensì il tridì della prima decade del Fruttidoro sotto la insegna del marrobbio. Né difendo l'arida architettura di quel calendario poco facile alla memoria. Ma i motivi del decreto sono una singolare testimonianza della piena consapevolezza con la quale gli autori del gran moto distaccavano sé da tutto il passato, e ponevano una prima data a tutta la gran rivoluzione che tuttora esagita il mondo occidentale.

L'èra volgare è abolita.

L'èra volgare sorse in mezzo alle turbolenze precorritrici della prossima caduta dell'impero romano, e in un'epoca, quando la virtù fece qualche sforzo per vincere le umane debolezze. Ma per diciotto secoli essa non è servita se non a fissare nella durata i progressi del fanatismo, l'avvilimento delle nazioni, lo scandaloso trionfo dell'orgoglio, del vizio, della stoltezza e le persecuzioni che macchiarono la virtù, il talento, la filosofia sotto despoti crudeli.
Perché mai la posterità dovrebbe vedere incisi su le medesime tavole, ora da mano avvilita e perfida, tal'altra volta da mano fedele e libera, così gli onorati delitti dei re come la esecrazione alla quale essi sono oggi dannati, così le furberie e l'impostura per gran tempo ossequiate, come l'obbrobrio che infine raggiunge gl'infami ed astuti confidenti della corruzione e del brigantaggio delle corti?

La rivoluzione ha ritemprata l'anima dei francesi, e di giorno in giorno essa educa alle virtù repubblicane. Il tempo apre un nuovo libro alla storia, e nel suo nuovo cammino maestoso e semplice come l'uguaglianza deve incidere d'un nuovo e puro bulino gli annali della Francia rigenerata.

La rivoluzione francese, feconda, ed energica nei suoi mezzi, vasta, sublime nei suoi resultati, sarà nella considerazione dello storico e del filosofo una di quelle grandi epoche collocate a guisa di grandi fanali sul cammino eterno dei secoli.

Il 21 settembre 1792 i rappresentanti del popolo etc...han proclamata l'abolizione del potere regio... Questo stesso giorno dev'essere l'ultimo dell'èra volgare... Il 22 settembre fu il primo giorno della repubblica. Quel giorno stesso a 9 ore, 18 minuti e 30 s. del mattino il sole arrivò al vero equinozio di autunno, entrando nella costellazione della Bilancia.

L'eguaglianza del giorno e della notte era segnata in cielo nello stesso istante in cui l'eguaglianza civile e morale era proclamata dai rappresentanti del popolo francese, come il sacro fondamento del suo nuovo governo. Così il sole ha richiamato ad un tempo i due poli e successivamente il globo intero, e nel medesimo giorno ha brillato per la prima volta in tutto il suo splendore sul popolo francese la fiaccola della libertà che più tardi dovrà rischiarare tutto il genere umano.

Le sacre tradizioni dell'Egitto faceano uscire, sotto la medesima costellazione, la terra dal caos, e in quel punto fissavano la origine delle cose e del tempo.

Il concorso di tante circostanze imprime un carattere religioso e sacro a questa epoca, che dovrà essere una delle più celebrate fra le feste delle generazioni future.

Tocca al popolo francese tutto di mostrarsi degno di se stesso, col contare d'ora innanzi i suoi lavori, i suoi piaceri, le sue feste civiche sopra una divisione del tempo creata per la libertà e l'uguaglianza, creata dalla rivoluzione stessa che deve onorare la Francia per tutti i secoli.

Quel calendario andò fuori uso col 1° gennaio 1806. La data dell'abolizione dice tutto.

Durante il secolo decimonono la Rivoluzione Francese è stata continuata e combattuta, è stata attenuata e sorpassata. Per i contrasti che la borghesia dovea vincere dell'antico ancor potente, e di tutto quel nuovo che compendiamo sotto i nomi complessivi o di quarto stato, o di moti operai o di socialismo, nel secolo decimonono il progresso s'è avverato se non per le tortuose vie dei compromessi.

Ed ora le apparenti divagazioni di questo capitolo hanno raggiunto il senso loro.

IV.

Il lettore che abbia pazientemente seguite fino in fine le pagine dell'altro capitolo, si sentirà ora come liberato da un incubo. E sì che io mi son sforzato al massimo della sobrietà, nel contenermi in modesti confini, mentre maneggiavo quel vario e multiforme apparato di erudizione il quale, se fosse adoperato tutto e largamente come si conviene a scopi didattici, porterebbe allo sviluppo di molti volumi.

Cominciando quel corso, - che qui rifaccio, non già nel letterario andamento ma nei soli motivi, - io ero soprattutto preoccupato del desiderio e del bisogno di sgombrate dalla mente degli uditori i pregiudizii tradizionali, verbali, linguistici e simbolistici, i quali adombrano la schietta considerazione realistica della storia umana. Avevo innanzi agli occhi le più svariate commemorazioni del secolo, dal libro del venerando Büchner alla pastorale del reverendo cardinal Ferrari. I volumi recanti la rassegna dei trionfi della tecnica all'esposizione di Parigi trovavano uno strano e triste commento, così nei lamenti dei democratici ricordanti le travagliate plebi o le nazionalità tuttora manomesse, come nel ragionare di quei socialisti che cercavano qualche spiegazione al ritardato avvento del collettivismo che pochi anni fa ancora era apparso così prossimo non che ai focosi agitatori di stampo giacobino, perfino, forse, ai pensatori di così eccessiva cautela ed autocritica come C. Marx.

Qua dei calorosi ecclesiastici francesi che annoverano le nuove glorie del papato cresciuto proprio nel secolo che i profani chiamano dei lumi e della scienza; e là dei freddi declamatori inglesi ed americani, che mettono soprattutto in rilievo il raggio d'azione economica dei loro rispettivi paesi, producenti quasi quasi la metà delle merci che circolano nel mercato mondiale. Il giusto orgoglio di nazione dominante in Europa per tanti aspetti e rispetti, ed ora principalmente per un essor economico che muovea stupore, s'è venuto a riflettere e ad esprimere in molti libri tedeschi fin di secolo, gravi spesso di troppa dottrina professorale, e riboccanti di estremo chauvinisme di razza, e di quello zelo statale monarchico il quale mena a fare ancora dei sovrani e dei loro governi come gli autori e promotori della società. Rara dappertutto la ricerca strettamente critica sul come s’avessero a collocare le ricordate vicende, non già nei tradizionali schemi della cronologia che annovera le somme degli anni, ma nella esatta visione di una accertata concatenazione sociologica.

Ricordare - come ho fatto già - i contrasti perpetuatisi per tutto il secolo (popoli attivi e passivi - città e campagna - proletariato e borghesia - scienza e fede - chiesa e stato etc.) accentuandone debitamente e sinceramente la importanza, mi parve e mi pare il necessario punto di partenza alla considerazione del tutto. La relatività del progresso resulta da tali accenni descrittivi a modo di naturalissima conseguenza dei ricordati o deplorati arresti: ed essa stessa alla sua volta avvia a meglio intendere il valore specifico e tecnico di ciò che io chiamo la data sociologica. Alla quale non sarei potuto venire se non fossi passato attraverso alla critica di tutte le stravaganze profetiche e sibilline delle così dette età del mondo e di tutti i preconcetti di un qualsivoglia provvidenziale governo delle cose umane, che a queste assegni le sorti in un preordinato succedersi. Per questa dichiarazione realistica rimane come costituita la nozione obiettiva di un evo avente caratteri proprii, e tra questi spiccatissimo quello della nota dominante della consapevolezza del procedere. Dalla vita vissuta siam passati alla vita compresa, e in qualche modo anticipata dal pensiero e quindi capace d'essere in qualche modo voluta. Dal processo solamente attraversato o percorso siam giunti al processo valutato, presentito, desiderato, agognato, ossia alla persuasione del progresso. Chi vorrà ora tener per superflua la citazione che ho fatta del decreto convenzionale; o chi vorrà negare la somma di queste idee qui costituisca la filosofia del socialismo?

Certo i pregiudizii sopravvivono, e nella mania che è in molti di andar componendo degli accertati periodi delle multiformi manifestazioni storiche e nell'utopismo dell'attendere il prossimo o futuro avvenire. Come raffigurato fin d'ora in tutta la sua fisonomia, e poi infine nelle sempre ondeggianti e di continuo rifatte classificazioni della sociologia, le quali di straforo arrivano fino ad invadere il campo del giornalismo, e il più delle volte riescono più a svisare che a raddrizzare i giudizii dei pubblicisti. Quante volte non abbiamo letto: - verrà l'associazione, poi il cooperativismo, o che altro siasi, e da ultimo il collettivismo: e messi gl'ismi in fila, il resto fila da sé. Non fu estesa a tutto il genere umano la escogitazione francese di questo sacramentale schema: economia a schiavi, economia a servaggio, economia a salariato? Chi si rechi quella formula in mano non capirà un solo fatto, poniamo, della vita inglese del secolo decimoquarto; - e dove vorrà collocare quella buona Norvegia che non ebbe mai né schiavi né servi? e che conto si renderà della servitù della gleba, che si fissa e sviluppa nella Germania d'oltre l'Elba proprio dopo la Riforma? e che spiegazione darà al fatto singolare che la borghesia europea inauguri una nuova schiavitù in America di schiavi a bella posta importati proprio nel medesimo tempo in cui essa percorre i primi stadii dell'èra liberale? e come si comporrà interpretativamente la economia della corporazione produttiva a privilegio? - per non dire da ultimo delle tante forme intermedie di regio patronato, d'imperiale concessione, e di monopolii patentati, che la produzione venne assumendo dal momento in cui corporazione e feudo (e suo fattizio surrogato nel fedecommesso spagnuolo) cominciarono a erodersi fino al definitivo stabilirsi della indisputata concorrenza?

I criterii - in poche parole - dell'analisi sociologica devono essere si i principii direttivi d'ora innanzi d'ogni ricerca storica: ma questa riman sempre legata alle impreteribili ragioni empiriche della rappresentazione del fatto, e deve rifiutarsi a qualunque pretesa d'imperativi aprioristici.

Scrivo un breve volume, non un manuale enciclopedico. Per ciò appunto non occorre io torni sulle bislacche idee del Ferrari, che cercava nei periodi dei 500 e 100 e 50 anni i mezzi per ricondurre ad una assegnabile periodicità il farsi e il disfarsi e il procedere e il progredire delle cose umane storiche, - che del resto eran considerate su per le cime delle ovvie date di contestura mnemonica. E che dire dell'ingegnoso Rümelin, che pur lui ha tentato di ridare all'ovvia nozione del secolo per il fatto delle periodicità demografiche un certo che di valore obiettivo? Ranke, inesauribile così nella poderosità ed estensione della ricerca come nella vastità della produzione, rivela nel fondo di quella qualunque filosofia, che ha latente nello spirito, un certo tal quale ossequio al piano dei periodi storici. Ranke sta con un piede nell'ancien e con l'altro nel mondo borghese. Fu un protestante aulico-concistoriale, e insaputamente estese ai periodi della storia quel concetto del Beruf (un che di medio, vuol dire la parola, fra vocazione e missione), che sarebbe, per chi ci crede, la insegna etico-politica degli Hohenzollern. Chi vuole pienamente esilararsi s'addentri nella lettura degli scritti di Ottokar Lorenz, nei quali apprenderà come il succedersi delle tre generazioni nelle famiglie direttive dei nobili, dei guerrieri etc., combinato coi periodici e automatici incrementi della popolazione - combinando il tutto con la elastica dottrina della ereditarietà - bastino a dare la chiave del corso della storia.

Eliminate le tradizionali fantasmagorie, e data ragione dei neosimbolismi, posso d'ora innanzi usare, oltre che degli altri termini di età, evo, periodo, anche dell'ovvio secolo, perché il contesto reca in sé la ragione obiettiva di ciò che si va esponendo; e quest'ultima parola (il secolo, ossia la somma di cento approssimativi anni equinoziali di tanto diversi dall'anno siderale, contati da un convenzionale I° gennaio, da un era in qua escogitato dallo Scita in accordo al periodo giuliano corretto da papa Gregorio) dice ora quel che può dire una misura convenzionale unica, di una moltitudine di cose qualitativamente diverse e dinamicamente difformi.

V.

Mi fermo qui a considerare l'Italia, in quanto essa, nella prospettiva generale del mondo cui ho accennato finora e alla quale mi attengo, rappresenta un determinato e particolare angolo visuale.

Non è già che io voglia abbandonare la veduta universalistica, dalla quale fin dal principio ho preso le mosse per valutare ora il mondo intero alla stregua di ciò che praticamente, e in modo esclusivo, o gioverebbe o importerebbe all'Italia. Non intendo di comporre il vade-mecum del piccolo-borghese che valuti alle proporzioni delle finestre di casa gli spazii cosmici: - tanto più poi perché questo scritto di semplici considerazioni non deve contenere né consigli, né suggerimenti di sorta.

Dico semplicemente questo, che, cioè, per il complesso delle condizioni che le son proprie, l'Italia è orientata in un certo modo rispetto alla concatenazione economico-politica del mondo civile attuale. Cotesto angolo visuale – certo più angusto di quello delle altre nazioni che han nome di grandi - non è cosa accidentale o arbitraria. Innanzi tutto, esso è proporzionale alle differenze che effettivamente corrono fra le condizioni italiane e quelle degli altri paesi; reca la misura effettuale di ciò che l'Italia è e può di fronte alle grandi correnti della storia attiva; e implica l'apprezzamento dell'esser nostro nazionale nell'insieme di ciò che è presentemente il mondo dei popoli direttivi.

Occorre di fermarsi su tale angolo visuale - il quale nasce naturalmente e quasi insaputamente in chi guardi per ragioni affatto pratiche tutto il mondo solo per rispetto all'Italia - appunto perché il punto di vista universalissimo in cui mi sono collocato senz'altro mi ha portato ad oltrepassare senza ragionamenti preparativi e senza transizioni i confini e i limiti della coscienza nazionale. Esaminando ora poi criticamente la orientazione d'Italia rispetto al resto del mondo, noi verremo come ad apprezzare l'insieme del nostro paese alla stregua delle grandi correnti della storia attiva.

Il risorgimento italiano s'è svolto tutto per entro al secolo decimonono; ma ci si è svolto più nel senso della storia passiva che in quello della storia attiva. L'effettivamente attivo comincia il 1870; e questa osservazione basta da sola per ismentire il più gran numero delle affermazioni ottimistiche o pessimistiche che si fanno sul nostro paese sopra di una esperienza così breve e di così recente data.

Coi termini di attivo e di passivo io intendo di addurre degli estremi teorici di valore comparativo, ai quali si giunge per approssimazione e attraverso a molte transizioni. Che l'Italia dunque fosse in un certo senso e storicamente attiva anche nel tempo della sua preparazione all'unità nazionale, e specie nei momenti delle rivolte, e delle guerre, nessuno vorrà negare: ma qui in questo discorso, dove cerchiamo di ricondurre tutto al ragguaglio della fin del secolo, noi dobbiamo considerare come relativamente passiva la condizione d'Italia in tutti gli anni anteriori al 1870, nei quali le altre nazioni direttive posero le premesse e dettero la prima potente avviata alla presente espansione e gara veramente mondiale.

Dal 1870 in poi è corsa insistente l'opinione, ripetuta anche da scrittori per altri rispetti degni di considerazione, che a risorgimento politico finito l'Italia sia riuscita inferiore all'aspettazione. Ma a quale e di chi? All'aspettazione forse si rinnovassero l'impero romano, i fasti dei comuni medievali, o simili altre cose, le quali non hanno ora più ragion d'essere al mondo? La verità vera è che l'Italia, uscendo da secoli di effettiva decadenza e passando poi per la tensione cospiratoria e per l'ardore delle rivolte, non ha portato nel nuovo assetto una proporzionata esperienza di politica moderna; tant'è che fino ad ora la letteratura politica da noi presso che non esiste. La tradizione letteraria avea invece creato e mantenuto in essere l'idea, o meglio l'illusione di una storia sola e continuativa di quante mai vicende si fossero svolte a memoria d'uomini su la unità geografica della penisola; e come cotesta storia unica di un solo subietto (un popolo italiano un po’ creato dalla fantasia) fu tra i potenti motivi ideologici della riscossa, così a rivoluzione finita l'Italia è parsa troppo piccola al confronto della sua grande storia. A stato nuovo costituito con la capitale naturale, s'è finito per pigliar notizia più accertata e più tranquilla delle altre nazioni e a riconoscere che per grande stato siam troppo piccoli. Ed ecco a che si riduce: il non aver corrisposto all'aspettazione.

Al rimpianto di ragione immaginaria s'è venuto sostituendo questo problema pratico: quante garanzie di stato moderno offre ora l'Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? Non si tratta già di riportare la nostra esperienza di questi ultimi trent'anni ad un qualunque ragguaglio di sognate glorie o di aspettati strepitosi successi, ma di rispondere al prosaico quesito formulabile così: la vecchia nazione italiana, componendosi a stato moderno, di quanto s'è trovata adattabile e di quanto s'è trovata difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere? Come ogni azione politica si riduce in un certo senso ad interpretazione operosa di condizioni date, così il giudizio che si può fare effettivamente su l'Italia dal suo risorgimento in qua si riduce a vedere se la politica ha corrisposto ai dati, e fino a che punto ci sia stata libertà di scelta nel maneggio e nel governo dei dati stessi.

Di quanto bisogna tornare indietro per farsi un adeguato concetto delle condizioni d'Italia? I letterati, che furono per secoli i soli attivi rappresentanti della intellettualità italiana del lungo periodo della decadenza, non afferrano il senso di tale domanda, e cioè non intendono tutte le difficoltà di sociologia storica che essa implica. Data ed ammessa l'unità illusionale di una storia d'Italia attraverso un gran numero di secoli, le cose veramente decisive nelle vicende della civiltà appariscono in una mal composta narrazione come le variazioni e gli accidenti di un tipo immaginario. Come si può per tal via discernere il fatto, p. es., decisivo, che l'Italia per secoli rimane divisa in due mondi: di qua il ciclo germano-romanico, di là il mondo bizantino-islamitico? Si vuol forse passar sopra il periodo islamitico della Sicilia, come ad un fuori della storia; e parrà cosa indifferente che la dinastia ora regnante in Italia discenda dalla feudalità di uno stato di Borgogna?

Le tracce vere e positive di quella unità di temperamento e d'inclinazioni che costituisce il popolo nel senso storico della parola, noi non possiamo trovarle più in là del secolo undecimo, nel quale la nazione neo-latina apparisce costituita.

La nostra recente rivoluzione non consiste - come alcuni hanno con leggerezza affermato - nel giungere della borghesia al dominio su la società. Questa rivoluzione è stata fatta, sì, principalmente sotto la direzione dello spirito borghese; ma la borghesia italiana esisteva da secoli, ed aveva avuto non solo le sue glorie, ma la sua terribile caduta alla fine del secolo decimosesto, e la sua prolungata decadenza fino alla Rivoluzione Francese.


VI.

 Giova ora mi provi a racchiudere in una certa caratteristica complessiva ciò che più volte ho chiamato società moderna, e che più volentieri dirò società attuale, e ossia che è in atto… 

[L’A., travagliato da infermità, interruppe a questo punto il proprio lavoro, che non ebbe più agio di ripigliare
(Nota del Croce).