I.
Nell'ultimo anno accademico, e precisamente dal novembre 1900 a
questo giugno 1901, io tenni alla Università un corso di
lezioni sopra un tema di tanta ampiezza e di tale varietà,
che ciò che riuscii effettivamente a dire non poté a
meno di lasciare nel numeroso uditorio come la impressione d'un
piccolo frammento d'un gran tutto.
Cominciai a un di presso così:
“Ripiglio tutti gli anni sempre con viva emozione e con gran
piacere questo corso straordinario di filosofia della storia. I
miei uditori potranno vedere e riconoscere essi stessi, come in
queste lezioni nelle quali non rifuggo dalla oratoria e
dall'intonazione pronta e facile della conferenza, io usi di uno
stile di molto diverso di quello che è proprio al mio corso
ordinario di etica e di pedagogia. In questo io mi attengo
rigorosamente alla serrata tecnica della lezione, come si conviene
ad argomenti che van trattati per compiere esplicitamente la
funzione precisa dell'ammaestrare e dell'insegnare. Qui siamo,
invece, nel più vasto campo della cultura; - qui si ha per
mano una materia, che nessuno si argomenterebbe mai di
disciplinare a scopo di esami, riconducendola a mezzo di esercizii
professionali. Son poche - e poche devono essere - coteste
materie, che segnano come la estensione, e direi quasi la
espansione dell'Università oltre ai termini di ciò
che è direttamente utilizzabile a intenti pratici
immediati. Ed ecco che io, infatti, in cotesto corso mi lascio
andare di buon grado ad una certa agile combinatoria di elementi,
e di cose e di idee, che la stringata classificazione delle
discipline suol sempre tenere quasi pedantescamente distinte e
separate del tutto; uso in larga misura della libertà,
della ricerca e della opinione; e, rifacendomi d'anno in anno di
nuove letture e di nuovi studii, miro in queste lezioni
all'ampiezza ed alla pienezza dell'esposizione: il che è
ben diverso dalla pretta esattezza didattica.
E per questa volta il titolo stesso del corso dice chiaro, come la
natura del soggetto giustifichi per se stessa il modo della
trattazione. Mi fermerò sopra alcune caratteristiche del
secolo decimonono per venire a dichiarare la configurazione del
mondo civile in questo prossimo passaggio da un secolo
all'altro(). Non è, spero, chi s'aspetti da me per tale
annunzio, che io narri a perdita di vista una infinita moltitudine
di fatti. Suppongo la conoscenza di ciò che volgarmente ha
nome di serie dei fatti storici, e suppongo, inoltre, qualcosa di
più, e cioè dire l'abito negli uditori a tenersi
orientati in punti di vista come questi: - lotte per la
nazionalità - diffusione del principio liberale - la
concorrenza economica e l'espansione coloniale - i paesi
industriali e i paesi agricoli - il crescere dello spirito
scientifico e la rinascenza cattolica; e così via.
Né enumero, come se volessi fin d'ora rinchiudere in tanti
canoni fissi la mia libera esposizione: - anzi ho scelto a caso
alcune di quelle formule riassuntive, pur fermandomi di volta in
volta sopra alcuni fatti caratteristici, e sopra certe date
decisive, le quali segnano dei momenti di feconda transizione, io
mirerò, in questa considerazione retrospettiva, alle grandi
linee, alle grandi correnti, all'insieme, al senso delle cose.
Farò, a un di presso, ciò che agl'ideologisti pare
d'intender bene a modo loro, quando dicono di rappresentare lo
spirito di un secolo. E noi realisti, di rimando diciamo, che in
cospetto di una determinata configurazione del mondo civile,
com'è questa della fine del secolo, noi ci mettiamo in atto
di chi voglia intendere una situazione, riandando obiettivamente
le ragioni, i modi e le condizioni del come essa s'è fatta.
Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia
andrà per me ora sperduto: ma non uno ne ripeterò
quest'anno. Totalizzo, quasi, i resultati di quelli in questa,
dirò cosi, istantanea della fin di secolo. Ho spaziato per
anni su campi svariati. Una volta, Vico ragguagliato alla scienza
modernissima; un'altra volta un raffronto metodologico fra storia
e filologia. Un anno mi fermai ad illustrare il variare dei
rapporti fra chiesa e stato; un altro, a ripigliare in esame la
preistoria del Morgan col raffronto coi più recenti studii.
Due volte trattai documentariamente la storia del socialismo
moderno da Babeuf alla Internazionale; e illustrai in un altro
corso le origini della borghesia italiana, e la condizione
d'Italia in sulla fine del secolo decimoterzo. Discorsi più
volte della Rivoluzione Francese - il solo punto della storia, nel
quale io mi senta in possesso, secondo la boriosa espressione
degli eruditi, di una specifica competenza, - come per dare, e in
compendio, l'avviata alla retta cognizione di ciò che
costituisce l'essenziale, in buona o in mala parte che ciò
si prenda, della società moderna.
Tutto questo vasto materiale, che non intendo punto di riandare
in ispecie, mi sta ora innanzi alla mente, come per illuminare la
scena attuale del mondo civile, che io voglio tratteggiare nei
suoi contorni, nel suo interiore assetto, e nell'intreccio delle
forze che la configurano e la sorreggono. Per ogni elemento vivo
bisogna aver presente - ciò è ovvio - indefiniti
precedenti. E chi oserebbe, dunque, di segnare un punto unico
d'approdo a tante serie? Trovandoci nel mezzo di un gran processo,
come ardiremmo noi di credere, che una data di calendario faccia
da indice alle molteplici e complicate fasi effettuali delle cause
obiettive? Questa revisione, dunque, dello stato del mondo, dal
punto di vista convenzionale del secolo che muore, ha un valore
appena appena approssimativo, che solo un'approfondita analisi
sociologica può riavvicinare a qualcosa di effettivo e di
reale.
Al postutto, quale è il mezzo pratico per misurare la
nostra cultura storica? Eccolo, è semplicissimo: - la
nostra capacità ad intendere il presente. Recatevi nelle
mani i giornali dell'ultima quindicina. Abbiate sott'occhi un
passabile atlante geografico. Fate di aver libero maneggio delle
ovvie cronache annuali riassuntive. Capite l'ultima notizia? Che
cosa è questa guerra del Transwaal, questo ultimo atto di
resistenze dei costumi e delle libertà endemiche contro
l'universalismo inglese, questa ultima obiezione armata del
villano contro il capitale invadente? E la Russia che rifà
a rovescio l'invasione mongolica? E di quanto bisogna retrocedere
e di quanto bisogna addentrarsi per risolvere i fatti politici
attuali nei momenti e nei moventi, di remota preparazione quelli e
di intima impulsione questi?
Ma, per non anticipare di soverchio, non insisto negli esempii.
Mentre discorro, come per prepararmi ad afferrare in un rapido
sguardo lo stato attuale delle cose del mondo civile usando della
occasione del secolo che muore, io vi ho già detto
implicitamente che, datando per aspetti così estrinseci le
cose e i nostri pensieri sovra di esse, noi rendiamo semplicemente
omaggio ad una illusione convenzionale. Il secolo non è
né una contenenza, né un contenuto. Non è
nemmeno una cornice: e non occorre di notare, che non risponde a
nessuna rivoluzione naturale. Qual somma arbitraria degli anni
civili che alla lor volta sono una certa tal quale approssimazione
di un periodo naturale, sta lì a ricordarci una molto
oscillante tradizione romana, ereditata forse da cosmologiche
ideazioni e superstizioni etrusche. E poi cotesto periodo di anni
fu riferito ad un'èra cristiana tardivamente fissata per
argomentazione. Il nostro esame ci porterà a sostituire a
cotesto, come ad ogni altro, convenzionale schematismo di periodi
uniformi, se mai ciò è possibile, delle date
interne, che siano indici dello sviluppo reale delle
società. Il secolo del quale cerchiamo le caratteristiche,
a spiegazione del presente, non comincia veramente in modo
meccanico dalla prima pagina del calendario del 1801; ma chi sa
mai dal 14 luglio 1789, o a un dipresso, e come altro piaccia di
datare il vertiginoso erompere dell’èra liberale”.
E qui basta della citazione e del ricordo delle mie lezioni.
Terminato che fu il periodo accademico, a parecchi dei miei
cortesi uditori parve opportuno di consigliarmi che io pubblicassi
integralmente quelle lezioni. A considerare la cosa materialmente
non c'era certo difficoltà di sorta. Dai miei appunti di
preparazione, da quelli degli uditori, e dalla stenografia di
alcune conferenze, c'era da tirar fuori tanti prolissi volumi
quanti ne può dare la recitazione di un intero corso.
Respinsi il gentile consiglio parendomi alquanto bizzarra l'idea.
A che pro, invero, pubblicare delle lezioni? Ogni lezione comincia
dall'inevitabile preambolo, e termina con la chiusa obbligata.
Tante volte si ripete: “come dissi già”; o: “come
dirò in seguito”. Si vanno di continuo aprendo delle
parentesi, o per ispiegare un termine, o per dare un qualche
ragguaglio sopra un autore citato, o per colorire con qualche
cenno biografico la figura di un personaggio storico del quale sia
fatta menzione. Tutto ciò contraddice allo stile del libro,
turba l'attenzione del più paziente lettore, e rende esosa
a chiunque la dotta compilazione.
Ripensandovi, ho poi, durante le vacanze, messo assieme queste
pagine, che rendono in semplici raggruppamenti di capitoli alcuni
dei pensieri principali di quelle lezioni, senza che dell'apparato
e dello stile della lezione stessa rimanesse più nulla. Le
momentanee allusioni, le inframmezzate e non brevi narrazioni, le
dichiarazioni accessorie spesso lunghe: - tutto, via.
E pure questi capitoli rimangono dei frammenti. Chi volesse
muovermi di ciò biasimo si provi a dirmi che via terrebbe
lui, il severo critico, per superare questo stato frammentario
della nostra cognizione dell'ora presente, e per integrarla nella
totalità di una visione perfetta. La più savia e la
più calzante delle obiezioni, che siano state mai mosse
contro ogni sistema di filosofia della storia, è quella del
Wundt: noi non sappiamo dove la storia andrà a finire. Il
che vuoi dire - se ben ho capito - che noi non l'abbiamo mai tutta
sott'occhi come un qualcosa di compiuto, a quella guisa che
esaminiamo l'individuato organismo animale o vegetale. En
attendant che, chi sa mai, la totale retrospezione della vita del
genere umano s'avveri nel cervello d'un fortunato e perfettissimo
filosofo dell'avvenire, contentiamoci per ora di quella parziale
visione che ci è dato di raggiungere presentemente. Quanto
a me, di questa mi tengo pago.
II.
L'èra liberale, dunque, è il nostro obietto; e
proprio in quanto essa, tra un secolo e l'altro, ci si presenta in
questo resultato di una civiltà, non più
atavisticamente locale, non più nazionale e mediterranea,
ma internazionale, anzi interoceanica o panoceanica. Non è
chi non sappia, che alla fine del secolo decimottavo una sola
nave, una sola volta all'anno, salpava da Alapuko per Manilla, a
tenere i tenui rapporti commerciali fra i possidenti messicani e
gli asiatici di quella Spagna, già fin da allora designata
alla rovina qual potenza coloniale di vecchio stile. Ed ora le
flotte commerciali e le flotte di guerra attraversano in ogni
senso il Pacifico, non più pauroso mare esterno ai varii
ambiti di attività civile continentale. Se non fosse per la
straordinaria dispersione delle infinite isole, ivi, su la immensa
spianata liquida, sorgerebbero, quali appendici o diramazioni
della vecchia Europa e della nuova America, tanti conglomerati
umani di così poderosa vitalità, quanta ne hanno e
ne covano per l'avvenire le giovanissime e modernissime colonie
dell'Australia e della Nuova-Zelanda, che fanno oramai invidia a
noi orgogliosi di nostre lunghe memorie.
Ed ecco che lì sui margini asiatici del Pacifico, proprio
in questo momento, i varii potentati d'Europa si travagliano nella
crociata cinese, crociata modernissima che non cinge più di
sacra aureola dissimulati interessi mondani, e sollecita di
continuo i nostri pubblicisti a ripetere la vecchia domanda del
padre Erodoto: quali le cause del dissidio fra l'Oriente e
l'Occidente? Non più, certo, l'invidia degli dèi, ma
sì le invidie fra gli uomini; perché la concorrenza
è l'assioma della società liberale, la quale vi si
eserciterà attorno più furiosamente nel nuovo
secolo.
L'èra liberale si annunziò dapprima con impeto di
poesia, ed ebbe la sua orgogliosa ideologia derivatasi spesso in
multiformi utopie. Di qui la singolare attrattiva e il grande
imbarazzo in chiunque legga e studii della Rivoluzione Francese:
perché quella ideologia lì, finita allora, e in
breve tempo, nella negazione di se stessa, ci fa come diffidenti a
misurare l'importanza dei fatti storici, dalle vedute, dalle
opinioni e dalle teorie di quelli che dei fatti stessi si
pretesero gli autori. Comunicare a tutto il genere umano le stesse
idee (mi sovviene di Condorcet) - innalzare tutte le nazioni a
libere personalità politiche - sostituire alla guerra fra
esse la pacifica gara - distruggere nell'uomo fatto cittadino ogni
traccia di sudditanza e di soggezione; - ma dove andrei a finire,
se volessi intero ripetere tutto il tradizionale catechismo della
democrazia? E dov'è che la democrazia è riuscita,
sia pure approssimativamente, fuori che nella minuscola Svizzera,
così appartata dal grande intrigo della storia?
Ecco che nella parola intrigo si compendia tutta la somma degli
impedimenti, pei quali, durante il secolo decimonono, liberalismo,
democrazia e principio nazionale hanno subito così varii,
così frequenti e così potenti arresti.
E, innanzi tutto, chi vorrà negare esser tuttora vivo e
forte il divario fra popoli attivi e passivi? Dov'è che gli
europei, e loro derivati d'America nel rapido ciclo della
conquista tecnico-capitalistica del mondo, abbiano trovato emuli
ed alleati, fuori che nel Giappone: ed anche su questo punto mi
rimetterei volentieri al più maturo giudizio dei posteri.
Chi crederà mai, fuori che il Vambéry, uomo
dottissimo sì, ma affetto, a mio credere, di artificiale
chauvinisme turanico, che dall'accampamento ottomano si
trarrà ancora una moderna nazione turca? E in che altro ha
messo capo la kedhivale rinnovazione dell'Egitto, se non che, tout
court, nell'ingerenza del capitale europeo, tradotta poi, senza
complimenti, - checché dica in contrario la fraseologia
diplomatica - nel dominio prevedibilmente perpetuo
dell'Inghilterra da Alessandria fin verso le fonti del sacro Nilo?
Non una sola delle genti, non un solo dei varii conglomerati di
genti, non un solo dei quasi popoli, su i quali l’Islam
esercitò per più d’un millennio la sua forte
influenza, s’è visto ad assorgere di recente a nuova vita
per ispontanea e rigeneratrice appropriazione degli elementi che
il mondo europeo è andato offrendo.
E poi non è forse l’Europa stessa suddivisa alla sua volta
in un suo proprio Oriente ed Occidente? La linea di demarcazione
non è certo assegnabile come in un tracciato topografico; e
nessuno vorrebbe dire, che, al di là di essa, vegeti ancora
sonnolenta la preistoria scitica e sarmatica. Ma è sempre
vero che la Russia, al confronto di questi stati dell'Europa
mediana ed occidentale, sorti e svoltisi da costanti rivoluzioni,
che han rimescolato così spesso tutti gli elementi sociali
dall'imo alla superficie, e dalla periferia al centro, e
viceversa, rimane per noi come un qualcosa di straniero, che sa
sempre di bizantino e di mongolico tuttora.
La posizione attiva è sempre tenuta, alla fin delle fini e
nel tutt'insieme, dai neo-germani e dai neo-latini: e ci troviamo
perciò rimandati alla lunga tradizione della civiltà
mediterranea antica, continuatasi nella unità cattolica del
Medioevo.
Qual maraviglia, dunque, se la politica della conquista, della
supremazia, della sopraffazione, dell'intervento di paese e paese,
e della guerra, o fatta o soltanto minacciata, sia stata e rimanga
l'inevitabile conseguenza, il potente ausilio e l'istrumento
decisivo della espansione capitalistico-borghese?
Il principio di nazionalità, vuoi per fenomeno di spirito
democratico, vuoi per fortunate circostanze, ha compiutamente
trionfato nell'Italia, che nel suo recente assetto di stato
unitario rimane di poco in qua dai suoi confini etnico-naturali.
Per diverse vie, in diversi modi, con minori garenzie
democratiche, ma con impeto immensamente superiore di
fattività progressiva, e pur sempre nello stesso tempo,
è venuta a maturità di grande stato una Germania
nuova, povera di confini naturali che male amalgama entro i suoi
confini politici alcuni elementi stranieri, e lascia fuori del suo
perimetro un numeroso popolo di tedeschi. E qui s'arresta il
successo della nazionalità. Greci, bulgari, serbi, rumeni -
si son redenti sì; ma son essi rispettivamente così
pochi, che non potendo esser leva da muover la storia, rimangono
manubrii dei più potenti. E la infelice dilacerata Polonia,
i finlandesi manomessi proprio sotto gli occhi della civilissima
Europa, e i mezzo dispersi armeni, lasciati in balia della
scimitarra micidiale?
Il certo è che la dinamica politica che ha menato al
presente, e non invero semplicemente temporaneo assetto, le
combinazioni etno-economico-politiche che formano gli stati, ha
sfidato e sfida la vigorosa logica del principio nazionale: e
l'Inghilterra non avrebbe tenuto per due secoli l'indiscusso
dominio dei mari, e fino a pochi decennii fa il monopolio del
commercio mondiale, se, da quando in su la fine del secolo
diciassettesimo si venne isolando dal continente europeo, avesse
essa mai tollerato le sorgesse accanto nella vicina Irlanda, che
ha così metodicamente stremata e depauperata, una nazione
autonoma. L'Austria - ecco la classica e solenne smentita -
s'è fatta qual è ora, e cioè libera dalla
vieta tradizione del Sacro Romano Impero, proprio in principio del
secolo decimonono, è venuta ai suoi mezzani componimenti di
stato moderno liberale proprio in fine di esso, ed entra nel nuovo
secolo sfidante i preannunzii di prossima morte.
Tutto cotesto assetto politico degli stati, che par fatto apposta
per muovere, come muove, alle incessanti proteste i caldi amatori
del dritto di natura, della logica e della giustizia, non
sussisterebbe un sol giorno, se la compagine interiore delle
società che offrono la materia su la quale si esercita
l'arte di stato non fosse per se stessa piena di contrasti, e di
continua sommossa dal perdurare e dall'intrecciarsi di tali
contrasti.
Per quanto da cento e più anni in qua sia stato forte, e
soprattutto precipitoso negli ultimi decennii, lo spostamento
della popolazione dalla campagna alla città, pur permane la
divisione fra rurali e cittadini, con le accentuate e spesso
irreducibili differenze psicologiche che ne derivano. Per quanto i
rapidi progressi della tecnica abbiano raccolto intorno alle
fabbriche di piccola, di media e di grande portata, innumerevoli
operai reggimentati, da per tutto, ed anche nei paesi della
più fiorente industria moderna, sussistono infinite forme
di artigianato, che dalla piccola bottega giù giù si
perdono fino nei lavori domestici, nei lavori promiscui, e nella
ricerca girovaga ed avventizia della occupazione. Ed anche qui
delle pronunziate differenze psicologiche.
Ma che giova di prolungare l'analisi d'un fatto, che sta chiaro e
dispiegato sotto gli occhi di tutti? Chi non vede, discerne e
connota le caste, i ceti, le consortiere, le combriccole e le
camorre, dei preti, dei frati, dei proprietarii, dei capitalisti,
dei finanzieri, dei borsisti, dei commercianti, dei
professionisti, degl'impiegati, a venir giù giù ai
parassiti, ai vagabondi, al servitorame, e a tutte le specie e
forme del canagliume e della mala vita? Per tali differenziazioni
nel seno di una società, che non è più
giuridicamente gerarchica, ma che è di fatto
multiformemente articolata, mal si forma, salvo che nei casi di
violente e repentine scosse, quella umanitaria opinione pubblica,
senza della quale la democrazia non può sussistere. Si
ripensi alle città antiche, che sono fino ad ora l'esempio
classico ed insuperato della psiche democratica entro l'angusta
cerchia di una vera cittadinanza.
Per tali ragioni nel liberalissimo secolo decimonono, l'azione
politica dello stato s'è affermata e retta ancora cosi
spesso su la violenza, su la corruzione, e sul ripiego: sia che
Napoleone III, nell'acquiescenza degli operai di città
battuti dalla grande e media borghesia nelle giornate di giugno,
si faccia l'imperatore dei contadini e dei soldati, aspettando al
varco i capitalisti e loro parassiti; o che la scaltra oligarchia
inglese disperda il moto cartista nelle dilazioni e nelle parziali
concessioni; o che Bismarck acclimi ai mezzi costituzionali
l'impetuoso moto socialistico tedesco.
Queste non liete riflessioni su gl'intralci che ha messo al moto
ascensivo della democrazia il complicato intrigo politico di tutto
un secolo, trovano rincalzo in due altri fatti. Dov'è, fino
al momento presente, ed anche nei paesi che pretendono di averne,
la vera cultura popolare? E d'altra parte non è forse vero,
che mentre la scienza, quanto a materiale si è
strepitosamente cresciuta, e quanto ai metodi, si è
maravigliosamente raffinata, e mentre la tecnica conquistatrice e
combinatrice di forze estende a vista d'occhi il dominio dell'uomo
su la natura, in molti punti dell'orbe civile risorge il
misticismo, e in molti strati della società si fa di nuovo
potente il cattolicismo? Potremmo noi passar sopra a tali
considerazioni?
Due problemi di carattere più generale stanno a capo di
tutta questa trattazione, e penetrano per ogni parte il mio
discorso.
Il primo è questo: si può mai misurare il progresso,
e alla misura quale stregua occorre?
Il secondo può avere la seguente formulazione: è
egli mai possibile di prevedere l'esito dei presenti contrasti? Il
che si riduce a riannodare la nozione del progresso ad un prossimo
punto di approdo. S'intende da sé, ed è anzi
implicito al concetto della critica immanente ai contrasti della
presente civiltà, che il ragguaglio principalissimo
è riposto nella aspettazione del socialismo.
Il secolo del quale vado facendo la commemorazione, ebbe un
carattere tutto speciale, che lo differenziava singolarmente da
tutti gli altri. Gli uomini che vissero per entro e durante
cotesto periodo vennero come trasfigurando la nozione del tempo; e
il numero decimonono, ossia la data, divenne un'idea: come a dire
la persuasione del diritto a progredire. Tale persuasione era come
formata già fra il '40 e il '50. Singolare ricordo di
quella onnipotente Convenzione che aveva decretata l'abolizione di
ogni altra èra, e l'inizio di un nuovo periodo nella vita
dell'uman genere!
Difatti per la prima volta gli uomini sentono che essi stessi
fanno la storia per entro alla collettività organizzata.
L'intelligenza umana fra i civili d'Europa che tengono il governo
del mondo, è venuta per la prima volta in contatto coi
viventi in tutte le regioni dell'orbe terraqueo, e s'è resa
conto dei modi d'esistenza di molte generazioni di nostri
antenati. La consapevolezza dell’essere nostro s'è venuta
come rinforzando, avvalorando, moltiplicando. Per la veduta
così allargatasi su i molteplici precedenti del nostro
vivere attuale, la certezza dell'aver progredito, l'aspettazione
del progredire e la necessità del dover progredire han
finito per raccogliersi in una persuasione che ha sicurtà
di fede.
In questa sicurtà s'impernia un nuovo, più profondo
e più ampio senso di comunanza umana, che determina in
molti ciò che può oramai dirsi l'etica del
socialismo: cioè il postulato della solidarietà
contrapposto all'assioma della concorrenza.
III.
Sorretti dall'ambiguità del linguaggio, noi riusciamo a
contrapporre alla nozione meccanica del secolo (i cento anni)
quella d'un periodo interno nel quale la società segua
delle determinate direttive, e presenti dei caratteri, che sono i
suoi principii. Quelle ambiguità linguistiche ci son
familiari, perché, dicendo p. es., secolo di Leone X, noi
non pensiamo ad alcun numero d'anni precisi. Dura e materiale
quasi, al contrario, è la espressione tedesca
(Jahrhundert), e quella inglese che letteralmente ricorda i cento
anni.
E il caso vuole, che, pochi anni innanzi che s'aprisse il primo
foglio del calendario del 1801, l'avvento dell'èra liberale
fosse catastroficamente inaugurato dalla rivoluzione industriale
inglese, dal precipizio dell'Ancien Régime in Francia, e
dalla consolidata indipendenza americana, che inaugura e fissa
nella sua peculiarità ed autonomia la storia del Nuovo
Mondo. La nuova Germania era già allora come avviata, la
Russia s'avvicinava al Mediterraneo, riabilitato dalla spedizione
d'Egitto, e divenuto indispensabile di nuovo alla economia del
mondo occidentale dal rassodato potere dell'Inghilterra su
l'Indostan. E chi ami di guardare nei più sottili riflessi
delle rivoluzioni intellettuali o estetiche l'affannoso divenire
delle cose umane sociali, non ha che a ripensare a questi nomi:
Smith, Maltus, Ricardo, Lavoisier, Laplace, Lamark, Volta,
Avogadro, Kant, Bopp, Goethe, Shelley, Owen, Saint-Simon, Fourier,
Hegel. Basterebbe, dunque, di aggiungere agli usuali anni, che
corrono fra le cifre rotonde 1800 e 1900, un semplice trentennio,
per ritrovare di sotto ad una indicazione di mera cronologia
esteriore l'indice di un periodo che, rivelando caratteri proprii
nella maniera della convivenza, non mi periterei di chiamar
sociologico.
Ma tutte coteste cautele e riserve, che servono a un di presso ad
adombrare il divario fra le tabelle dei cronologisti e le esigenze
della concezione sociologica, non varranno mai a liberarci da
varii pregiudizii e presupposti, che, in modo più o meno
esplicito o latente, pesano su lo spirito non dei soli indotti.
Molti sono p. es. tentati a credere, che il discorrere di un'epoca
liberale sia come inquadrare una serie di fatti particolari in una
già nota prospettiva unica di tutto il genere umano.
Spariscono così le differenze di attivi e di passivi, di
Oriente e di Occidente, di avanzati e di arretrati, di selvaggi,
barbari e civili tuttora coesistenti, e si perde di vista il
relativo regresso, ossia la decadenza, che è pur fenomeno
d'indubbia realtà. E poi, fermandoci ai soli civili, la cui
continuità storica pare come accertata dalla costanza della
tradizione, alcuni trascorrono facilmente alla immaginazione dei
grandi periodi designati da categorie così generali, che
rimangono inoppugnabili perché anti-empiriche e
inconcludenti. P. es.: Hegel: un solo libero - pochi liberi -
tutti liberi; o il suo pendant latino, Comte: teologia -
metafisica - scienza.
Parlando, insomma, di un periodo liberale, in quanto ciò
s'attaglia solo ai popoli direttivi nella civiltà attuale,
io intendo innanzitutto e soprattutto di attenermi ai caratteri
empirici di queste nostre società, in quanto derivano da
altre (corporative, feudali, endemiche, ossia locali, puramente
etniche, teocratiche e così via) e si differenziano dalle
altre parti del genere umano, che, o non percorsero tutti i nostri
stadii, o ne han percorso degli altri in gran parte difformi.
Queste stesse nostre società in nessun luogo sono
così serrate di tipo ed omogenee di strutture da avere
eliminato del tutto le tracce del passato. Ed ecco la prima
ragione degli arresti ai quali accennai nell'altro paragrafo. In
tutte queste società - per i contrasti che ad esse sono
inerenti - si preparano condizioni future. Di qui la ragion
d'essere del socialismo nel più lato senso della parola. Il
socialismo è fin da ora realtà attiva in quanto
indizio e segnacolo di lotta attuale; ma tutte le volte che esso
assume un presagito futuro come stregua e criterio del presente,
ridiventa utopia.
Entro per ciò in una specie di apparente divagazione, della
quale non s'avrà il senso che alla fine di questo
paragrafo.
Seclum o seculum, saeclum o saeculum non vuol dire originariamente
se non seminagione e quindi generazione. Sta in fondo la radice
sa, che ci apparisce schietta in satus, sativus, sator, Saturnus:
e poi se in serere, in sevi (Ennio), in semen etc. I corrispettivi
delle lingue ariane d'Europa (lituano sëti; antico slavo
sejati; gotico saian; antico tedesco sâjan; tedesco moderno
säen; inglese sow) documentano il derivarsi della parola
seculum dalla radice sa (se) a significare il nascere per seme o
per seminagione: dal che poi lo scindersi del significato in
generato, e in generazione generante.
Basterà una breve scorsa nel campo della semasiologia (o
semantica che dica il Bréal). Il significato originario
è tutto ancor vivo in Lucrezio; p. es., saecla pavonum e
saecla ferarum; cupide generatim saecla propagant; ut propagando
possint procudere saecla. Da questo senso intuitivo si distaccano
i varii traslati, che si derivano in varie metonimie. P. es. la
durata di una generazione umana contata per trentatré anni:
ex hac parte saecula plura numerantur quam ex illa (Livio), o la
durata d'un regno: digna saeculo tuo (Plinio); e quindi l'insieme
dei conviventi: hujus saeculi insolentiam vituperabat (Cicerone),
e di qui, per fina transizione, i costumi e lo spirito d'un
periodo di tempo: grave ne rediret saeculum Pyrrhae (Orazio); Cato
rudi saeculo litteras graecas didicit (Quintiliano); nec
corrumpere aut corrumpi saeculum vocatur, nel qual luogo Tacito,
che parla di germani, con una certa punta di novità
preludia al senso cristiano della parola, come quando Prudenzio
gravemente dice servientem corpori absolve vinclis saeculi. Il
distacco massimo da ogni immediata derivazione di cosa sensibile
è quando la parola è assunta a significare un tempo
indeterminato: aliquot saeculis post (Cicerone), al che fa
contrasto la fissazione tecnica a significare una determinata
estensione di tempo: saeculum spatium annorum centum vocarunt
(Varrone).
Comunque sia nata la immagine di cento anni destinati
artificialmente a designare un doppio termine d'inizio e d'arrivo,
sta il fatto che in questo modo di vedere si rivela un non
trascurabile momento di psicologia sociale. Dato che non si viva
più nella promiscuità o nell'orda primitiva, ma che
la società sia già articolata in genti ad
ordinamento patrimoniale e patriarcale - come era indubbiamente
quella degli antichissimi italici; - dato che in così fatta
convivenza si trovino in domestico contatto avo, figliuoli e
nipoti (come tuttora nella Slavia meridionale), come di regola; la
storia casalinga dà un che di frequentemente intuitivo al
succedersi di tre generazioni di viventi negli stessi abiti e
sensi. Non così le posteriori plebi antiche, non
così i proletarii moderni viventi nel giorno per giorno,
senza raccoglimento di gentilizia tradizione. Questa è
ancor forte nelle sopravvissute aristocrazie o di rari
proprietarii o di patriziati di città, e non iscarsa nella
più consistente borghesia.
Una memoria viva di ciò che s'è svolto a un di presso da cento anni in qua nella propria famiglia costituisce nella maggioranza delle persone di mediocre cultura il punto di riferimento delle cose del mondo. Se io non guardassi alle vicende del secolo con l'occhio di persona avvezza alle discipline storiche, saprei almeno di Napoleone, di Gioacchino Murat, dei francesi a Napoli, dell'abolizione dei feudi e della introduzione del Codice Civile per averne sentito a parlare dal nonno e dalla nonna. La tradizione biblica è tutta contesta di tracce genealogiche, fino al posticcio preludio dell'Evangelo di Matteo. La medesima concezione è ancora viva nell'indimenticabile Ecateo, nel quale, pare almeno, non comincia ancora quel senso più complessivo degli accadimenti che più tardi fu così vivo nei greci in quanto si riferiva all'unità, o della città o del popolo. Dove l'intuitivo fatto delle generazioni è così dominante quale unità dei ricordi l'immagine dell'albero si presenta da sé, sia che Omero (Il., VI, 146) dica:
οȉη περ φλλν γενε, τοη δ καν
che Jesus Sirach (14, 19), quasi parafrasasse Omero più
ampiamente, enunci: “Come le verdi foglie sopra un bell’albero che
altre cadono e altre crescono; così degli uomini, che altri
muoiono ed altri nascono”.
Non mi addentrerò in dotte disquisizioni estranee in tutti
i modi al mio assunto, per mettere in chiaro come sotto l’influsso
di credenze etrusche al gran numero delle feste cerimoniali,
votive, espiatorie e trionfali, si venissero aggiungendo
nell’antica Roma i ludi saeculares. Sono attestati la prima volta
al 249 e la seconda al 146 a.C., il che farebbe il 505 e il 608 ab
urbe condita (del calcolo varroniano), con poco divario dal cento
sacramentale. Li celebra poi Augusto al 737 ab u. c. (ossia al 17
a. C. in ritardo di parecchi anni). Tengo per cose note l'arbitrio
col quale il bizzarro Claudio sconvolse di suo capriccio la data
per letificarsi dello spettacolo, il fatto che Domiziano rimise a
posto la serie, e che Settimio Severo col quale cessa la diarchia
e s'inaugura il periodo dell'impero militare-burocratico, ne
ripigliò la celebrazione a 110 anni di distanza. Con gran
pompa ebbero luogo gli ultimi giuochi celebrati (forse il 303 di
nostra èra) dall'ultimo effettivo rappresentante del mondo
antico, Diocleziano, e la cerimonia non più fatidica ha
trovato nell'ultimo notevole storico pagano, cioè in
Zosimo, il narratore romantico della tradizione sibillina. I
decadenti son sempre coloristi.
Come e quando ai culti indigeni gentilizii e locali si venissero
ad aggiungere nell'antica Roma nuovi motivi di superstizioni
cerimoniali tratte da quelle vedute apocalittiche che si
compendiano nei misteriosi libri sibillini, né sappiamo
né sapremo mai. Che i ludi saeculares avessero
originariamente per obietto gli dèi inferi, e che la data
ne dovesse essere fissata dagli Haruspici, son risapute. Ma come e
per quali vie si venne formando nelle menti romane quel singolare
sincretismo di opinioni orientali, postplatoniche e semistoiche
per cui le prosaiche vicende – che furono allora di ferocissime
guerre civili - apparissero come un momento delle fasi dell'anno
mondiale?
Augusto, già decretato imperatore da dieci anni,
consenzienti i quindicemviri a interpretare i Sibillini quanto
alle date, mentre tenta di reintegrare l'ordine morale con la
legge de maritandis ordinibus, celebra sotto il vecchio titolo dei
giuochi secolari la felicità dell'orbe nell'impero.
Già i dieci mesi dell'anno mondiale erano penetrati nei
libri sibillini. Non erano circoscritti in numeri d'anni
assegnabili ma rivelati da segni e portenti. Avean dei
prèsidi. Diana cedeva già il posto ad Apolline, e si
era così al decimo saeculum delle periodiche età
dell'universo, come avea seriamente annunziato l'auruspice
Volcasio edotto dall'apparire della crinita cometa alla morte di
Cesare. Non cantava Virgilio: “UItima Cumaei iam venit carminis
aetas; Magnus ab integro seclorum nascitur ordo”?
Superstizione, mitologia, teologia, stanchezza degli animi,
bisogno di riposo, corruzione d'ogni forma di vita spontanea,
popolare impulso, l'artifizio politico, e la stessa apprensione di
quelle genti barbariche che cingevano l'ecumenico impero dei
civili, - tutto concorreva a consacrare come nell'accettata
immagine di età cosmica il nuovo magistero imposto al gran
caos etnografico del Mediterraneo. Rimando ai manuali quanto alle
solenni feste augustee culminanti al terzo giorno in quella
d'Apolline, come se il luminoso iddio avesse trionfato
degl'inferi; e mi preme solo di ricordare che l'epicureo, il
decadente, l'ex-repubblicano Orazio, fu il primo poeta aulico del
Sacro Romano Impero, il primo cantore di una idea, che rimase
definitivamente sconfitta solo per opera dei sanculotti.
Cotesta fantasia delle età del mondo non turba mai la
pratica del conto civile degli anni, né la trattazione
annalistica del racconto storico. Bastava l'ab urbe condita o il
post reges exactos, e la indicazione dei consoli, e così fu
l'ultimo di questi (nel 542 dell'a. C. sotto Giustiniano) Flavio
Basilio juniore assunto da alcuni cronisti a data negativa
perché scrissero tanti anni dopo Juniore. A tale metodo
s'adattarono gli scrittori cristiani, - quando non usassero di
altre ère civili dei paesi d'Oriente, - e ci si adattarono
per più di cinque secoli, che son quelli in cui il
cristianesimo s'è formato e svolto e fissato e stabilito
come sistema di vita e di cultura, e s'è imposto a quasi
tutte le regioni dell'impero. In quell'impero era nato e s'era
consolidato: e quell'impero non era che l'ultimo periodo di quella
età del mondo che la profezia biblica permetteva di
ammettere.
Datare dalla nascita di Cristo un nuovo periodo storico sarebbe
stato come profanare il piano provvidenziale del mondo, e come un
anticipare il millennio. L'impero romano, ossia l'ultima delle
monarchie profetizzate, avea perciò esistenza indefinita.
Non starò qui a riferire come Eusebio di Cesarea usando del
sincronismo di Giulio Africano, abbia costruito la cronaca del
mondo spartendola nelle due serie da Mosè alla predicazione
di Cristo per un verso, e da Nino a Tiberio da un altro con Abramo
a capo, che non ha corrispettivo di storia profana. Lui s'arresta
al 325, contando per decadi la cronaca mondiale prolungata da S.
Girolamo fino al 378, al quale il profeta Daniele opportunamente
interpretato dava modo di eternare l'impeto romano come la quarta
monarchia che non ammette dopo di sé altro che la
palingenesi. Non occorre mi indugi nei quattordici subperiodi
simmetricamente posti da S. Agostino fra Abramo e Cristo, e nelle
sei età del mondo che gli parvero documentate dalle sei
età della vita e nei sei giorni della creazione.
Tutto cotesto garbuglio di escogitazioni trascendenti,
convalidato dall'autorità di Sulpicio e rifermato nella
cronaca del mondo di Isidoro, ebbe la sua codificazione nel
manuale di Orosio. Che l'impero d'occidente cada, non monta:
c'è quello d'Oriente, e poi viene la instauratio carolingia
e poi quella degli Ottoni. Le preordinate età del mondo non
soffrono alterazione, per il variare delle multiformi contingenze
di tempi così ricchi di nuove forme di vita. Tutto è
fermo e stabile da Adamo in poi, perché la creazione del
mondo ha la sua data! Il contare per decadi è così
comodo, e così il sommare le decadi in cento (C.).
E quando la data della nascita di Cristo fu per congettura
stabilita, spezzare il conto in due era del pari opportuno, e
quindi avanti e dopo Cristo. I cento sommari danno il mille: il
pauroso mille, ossia il millennio dei millenarii, ai quali non so
dare, in buona coscienza, alcun torto. Concepita in modo
così materiale la necessaria concatenazione degli
avvenimenti, dalla storia profana bisognava pure uscire in un
determinato momento per entrare sensibilmente nel regno di Dio.
Ma io non sarei tornato su cotesto immane guazzabuglio di
cosiddette idee, se non mi premesse di fermarmi in alcune non
inutili considerazioni. In quel gran tratto di tempo che per
convenzione di comodo noi chiamiamo il Medioevo, dunque, quei
pochi e rari intellettuali che raccolsero e scrissero le memorie
locali e generali, pur datando le loro cronache dal padre Adamo e
pure spartendo la cronologia in avanti e dopo Cristo, non ebbero
punto o assai raro sentore della peculiarità,
novità, e originalità dei fatti che trattavano.
Vissero idealmente in una romanità di loro fattura, nella
quale inquadrarono i nuovi fatti come gli accidenti di un impero
continuamente esistente, in cui elementi latini, germanici e in
parte slavi si confondono sotto il magistero del Caesar sempre
vivo. Tardi si sgroppano da questa illusionale comune coscienza
indistinta i neo-germani e i neo-latini nella specifica
circoscrizione di nazioni e subnazioni. Tardi si svincolano dei
veri e propri reggimenti di stato dagli universali vincoli
dell'impero e del papa, che era a sua volta o l'impero o il
sopraimpero.
La forma strepitosa di tale distacco, come quella che avvia alla
rinascenza e alle prime fasi della storia moderna, e nella
formazione dei comuni italiani, e nei fatti analoghi delle
Fiandre, delle città del Reno, della lega anseatica e
soprattutto della Provenza, dove il moto, prematuramente trascorso
alla ribellione dalla cattolicità, fu spezzato dal regno di
Francia aspirante al Mediterraneo. Così, e per la
formazione dei grandi stati, e nel costituirsi delle nazioni con
organi letterarii proprii tratti dal volgare, e nei tentativi di
chiese nazionali e con la scissura protestante, si venne formando
quella nuova coscienza, duplicatasi di Rinascenza e di Riforma,
che ha cambiato negli intellettuali del secolo XVI la prospettiva
storica. Nei rinnovatori dell'antico questo diveniva davvero
l'antico.
Per gli scovritori del Nuovo Mondo, pei contemporanei di
Copernico, pei rimaneggiatori dello scibile, per gli audaci
precursori di una scienza nuova della natura, pei rappresentanti
di tante nazioni oramai mature d'individualità propria
cessava il senso di quella miscela, che fu la romanità
medievale. Affatto naturalistica è la spiegazione che
dà Machiavelli della fine dell'impero romano. A poco
andare, Jean Baudin comincia a fissare i primi canoni di una
ricerca storica ristretta e legata alle condizioni obiettive, e
Giulio Cesare Scaligero introduce la tecnica cronologica come una
vittoria della combinazione posta dalla mente sopra ogni simbolica
di numeri e sopra ogni fantastico presupposto di preordinate
età del mondo. La intuitiva riproduzione dell'antico da un
canto, e il precisarsi del moderno dall'altro, sollecitarono i
dotti di professione a rinchiudere in un cosi detto evo-medio la
serie di fatti fra la caduta dell'impero d'Occidente (476), della
quale i contemporanei quasi non s’avvidero, e un'altra data, che
varia secondo i gusti dalla presa di Costantinopoli (1453) alla
scoverta d'America (1492) e all'apparizione di Lutero (1517). La
scuola s'è impossessata di tal comodo ripiego di facile
classificazione: la quale vale quel che può valere ogni
sorta di ripiego.
Noi siamo ora assai lontani da Baudin e da Scaligero, dalla
Rinascenza in genere e dai suoi derivati. Le ricerche storiche son
venute in tanta perfezione di metodo da avvicinarsi per molti
rispetti alla scienza. Questo è uno dei maggiori vanti del
secolo XIX. A nessuno viene più in mente ora di considerare
sul serio come signoreggiante su la storia un tempo che faccia da
trascendente distributore di atti e fatti. Il cresciuto e sempre
crescente raffinamento della ricerca economica, giuridica,
etnografica, e antropologica, per non dire della geografia, della
statistica, della linguistica e della mitologia e così di
seguito, ci permettono di vedere in sempre nuove e sempre
più ricche prospettive e con più particolari
contorni i diversi popoli e i diversi stati, non più
distanziati da noi dalle semplici date cronologiche, ma dai
momenti di una evoluzione, che qui troviamo spezzata, lì
più dispiegata, e che poco per volta spezziamo.
E se - come ho fatto io in queste pagine - datiamo una serie di
considerazioni da un fatto determinato, p. es., lo scoppio della
Rivoluzione Francese, non ignoriamo più quanto di
approssimativo c'è in cotesto taglio, e non dubitiamo di
dover tener desti tutti gli organi della osservazione e pronti
tutti gl'istrumenti della critica per dare all'anatomica
operazione il suo giusto valore. Quel taglio non ci dispensa dal
considerare lo scoppio dell'89 come il resultato di tutta la
civiltà romano-germanica, continuatrice della antica
civiltà mediterranea, e non ci autorizza a dimenticate che
non ha valore per l'universo mondo terraqueo (India, Cina,
Giappone, etc.) e nemmeno per quella Europa, che è di
là dalla linea dove finisce l'azione diretta
dell'èra liberale.
Senza dubbio oggi le direttive della ricerca storica si assommano
nei criterii sociologici; e questi culminano - a mio credere - nel
materialismo economico. Ma anche qui i pericoli dei facili
schematismi non son sempre facili ad evitare. Per questa sicurezza
di metodica scientifica con la quale cerchiamo d'investire il
passato facendolo rivivere della vita del nostro pensiero, noi
siamo diventati larghi d'indulgenza per le illusioni del passato
stesso. Quella illusione medievale dell'impero indefinitamente
prolungato, passando sopra ai pregiudizii teologici o esegetici
che idealmente la sorreggevano, costituisce per noi una forte
testimonianza sociologica. Ciò che veramente persisteva nei
primi secoli eran le tradizioni di civiltà romana nelle
quali il cristianesimo s'era svolto. I barbari invasori non furono
nazioni di conquistatori, ma popolazioni cercanti sede. Bisanzio
non ne acclimatò tanto malgrado la violenta dispersione
etnica portata dalle invasioni unniche sul medio o inferiore
Danubio? La sede vacante dell'impero d'Occidente non è
un'illusione, perché il sistema di civiltà
sopravvissuto, e per esso nell'interregno, acclimatava altri
barbari da quest'altra parte. La prolungata illusione d'un impero
che si continui all'infinito, finché non venga
l'instauratio magna della vera cristianità invadente tutti
i rapporti della vita (p. es. Dolcino), è l'anima della
concezione del mondo di quel Dante che, contemporaneo della
borghesia già avviata e della monarchia come reggimento
politico giù tentato, vive idealmente sotto un Cesare
invocato.
L'apparizione della borghesia - o che si costituisca in comuni o
in leghe di comuni o che si lasci guidare o contenere da un
monarcato tendente ad esercitare amministrazione o giurisdizione
accentrate - è oramai per noi l'inizio di quella
caratteristica di eventi cui siamo autorizzati a dare il nome di
storia moderna, in contrapposto alla incubazione medievale, in
contrapposto agli ereditati o riprodotti elementi dell'antico.
Parlando di un secolo decimonono - nel lato senso indicato di
sopra, - noi sappiamo dunque di occuparci dell'ultima e della
più ampia e dispiegata fase dell'evo borghese.
Mi occorre dire dell'altro.
Quei romantici del cristianesimo, che ingombrarono di loro nomi e
di loro scritti i primi decennii della reazione succeduta al gran
moto francese, hanno accreditata nella letteratura la fatua idea
d'una civiltà cristiana posta e saputa dagli autori stessi
come distinta dalla civiltà pagana. Era un modo di
combattere a ritroso la invadente borghesia in nome d'un
cristianesimo fattizio e di un Medioevo transfigurantesi in
poesia. Per ciò mi son fermato qui innanzi a ricordare come
la storiografia cristiana dei primi secoli della vigorosa
diffusione e del pratico trionfo della nuova fede, mentre seguiva
qual mezzo di conto delle ère civili accettate e
soprattutto di quella dominante dell' ab urbe condita (né
gioverebbe qui di ricordare le altre, p es. Troia, Argo, i
Seleucidi, Nabonassar, della quale ultima usò Tolomeo anche
lui seguace dei sincronismi riannodati al succedersi delle grandi
monarchie), considerando il cristianesimo come l'oltre-storico,
s'adattò a considerare come permanente la civiltà
profana contenuta dall'impero.
Infatti gli è solo in principio del VI secolo che Dionigi,
meritamente detto l'esiguo, nel rifare le tavole pasquali di
Cirillo data il 1284 ab urbe condita (dell'èra di Catone)
per il 531 dopo Cristo, trasferendo dal venerdì santo alla
natività la data che forse per il primo avea argomentata
Vittorino di Aquitania undici anni innanzi (465) alla caduta
dell'impero d'Occidente. Quell'esiguo era un nordico, e fu detto
lo Scita, - tanto la confusione etnica massima fra le Alpi e il
Danubio avea sconvolto, - pur essendo in Roma abate di un
monastero. Fu compilatore di diritto ecclesiastico, mettendo
assieme i così detti canoni apostolici, le decisioni dei
concilii e le decretali di Siriano e di Anastasio. Per fermo, se
il cristianesimo, che come fede avea sempre per obietto il di
là da venire, in quanto esso era diventato chiesa, ossia
associazione e politica, metteva il piede nelle cose del profano
mondo per essere nell'interregno dell'indistruttibile impero, o il
vice - o il vero - o il sopraimpero. E avea bisogno a ciò,
più che della data, del dritto e del potere economico.
Quella data - che a me qui non importa di vedere se sia inesatta
di 2 o 3 secondo il Mabillon, o di 8, e così via - indicata
col 531 per dire che ne trascorrevano 532 dal 753 (conto
catoniano) dell'ab urbe condita, fu diffusa dal venerabile Beda;
e, penetrata nei documenti carolingi, ebbe consacrazione ufficiale
negli atti di Giovanni XIII (965-72) nel più confuso e
disordinato tempo di nostra storia europea.
I tecnici si occuperanno di dire come si datassero in quei tempi
assai variamente gli anni, cosicché Carlo Magno ci
apparisce incoronato imperatore ora il 799 ora l'800; e a me preme
solo di dire come cotesta èra cristiana non sia stata nulla
di sacramentale per la universalità dei fedeli. La
cattolicissima Spagna ha contato fin verso il secolo decimoquarto
dall'èra di Augusto (38 a. C.); e Bisanzio, come per
affermarsi nella sua differenza dall'Occidente già
distaccatosi, si tenne alla data della creazione del mondo,
sapientemente fissata dal concilio costantinopolitano del 681 a
5509 anni avanti Cristo. Così continuarono tutte le chiese
d'origine bizantino-ortodossa; così la Russia fino a Pietro
il Grande, che introdusse il calendario occidentale di fattura
giuliana, passando sopra alla riforma gregoriana.
Fortunati i nostri padri, che nella iscienza delle fasi effettive
del genere umano, lontani dal presentimento di tutto quel sapere
che noi ora comprendiamo nei nomi di sociologia, di preistoria e
simili, si argomentassero di sapere la data della creazione del
mondo. Da giovanetto io, - per la pigrizia tradizionale che
manteneva nell'ambito scolastico d'un paese di decaduti il vieto e
l'obsoleto, - ebbi per mano dei vecchi libri nei quali la storia
era contata dalla creazione del mondo, travagliandomi ad
armonizzare Calvisio (3949 a. C.), Petavio (3938) ed Ussero
(4004). Ignoravo allora che nelle dotte dispute di varii
interpetri delle sacre carte ci fosse stata anche una scuola
(ebraica invero) che fissò la creazione precisamente al 5
ottobre del 3761 a.C.
Di quanto si sia prolungata la nozione dei fatti storici accertati
dalle scoverte della egittologia e delle antichità
babilonesi presemitiche, è cosa risaputa. Al certo, per
date di cronologia si risale a numerose epoche di preistoria,
confinabili per altri interiori criterii di successione.
Più in là le epoche geologiche, entro le quali
incertamente collochiamo il primo apparir della vita, e più
in là ancora le ipotesi su la formazione del sistema
solare, e il tutto si dirama e contiene nell'universale concetto
della evoluzione.
Sorridenti, noi guardiamo indietro ai nostri padri che cercavano
in un giorno di un anno dell'ovvio tempo la materiata creazione
del mondo; e in tanta abbagliante luce di rivelazione
interpretabile, non seppero con precisione l'anno di nascita del
Salvatore, e quella congetturata fu materialmente accettata come
una qualunque.
La moderna idealizzazione del cristianesimo nei derivati
filosofici del protestantesimo ha superato del tutto l'angusta
nozione dì una verità religiosa che è un
fatto di materiata narrazione, pronunziando per bocca di
Schleiermacher che è cristiano non il nato ma il rinato.
La chiesa, che come arbitra della cultura s'impossessava del
calendario codificando l'èra e i secoli, s'acquetò
lungamente a continuare il conto sommando gli anni della riforma
giuliana (45 a. C.). Anche qui era e rimaneva sovrano il primo
Caesar, e il tempo procedeva sotto la imperiale insegna. Mi
guarderò bene di discorrere dei varii anni che la tecnica
astronomia suole annoverare. Né occorre io spieghi per
quali convenienze la cronologia civile si attenga all'anno
equinoziale, che ci è in un certo modo sensibile. Non
importa qui di ricordare le fasi della cronologia greco-romana -
le antiche notazioni delle vicende agricole - gli anni lunari - e
i tentati riavvicinamenti al periodo equinoziale.
Quale confusione regnasse quando Giulio Cesare ordinò la
riforma, più che da ogni altra erudita testimonianza
risulta dal fatto che si dové ricominciare da un anno di
455 (sostituito all'antico che era di 355); e, chiamando 24 marzo
il giorno dell'equinozio, si costituì un anno in cifra
rotonda di 366 con la nota differenza dall'effettivo periodo
equinoziale che è in media di giorni 365, ore 48, minuti
primi 48 e minuti secondi 46. Non fu riferito al 24 marzo lo
inizio dell'anno, ma al I° gennaio che per vecchia tradizione
doveva corrispondere al plenilunio di dopo il solstizio d'inverno.
In tale autoritativa riforma derivossi per Sosigene di Alessandria
quanto potea dare la tecnica astronomica dei greci non certo
ignari della tradizionale sapienza egizia, che probabilmente fin
dal 1600 a. C. avea trovato un canone di correzione siderale alle
inesattezze dell'anno civile (il cosi detto periodo Sotis che
riappare nel decreto di Canopo).
Quello schema cesareo fu serbato per secoli nella cronologia
tecnica e storica dell'Occidente, e la Russia se ne libera
soltanto ora per la prima volta. Già al tempo del concilio
di Nicea (325 d. C.) l'equinozio di primavera era disceso dal 24
al 21 di marzo e il 1580 era all'11 di quel mese. Sorgeva d'ogni
parte la domanda della riforma, - la chiedesse quell'anticipato
presentitore di cose nuove che fu Ruggiero Bacone o quel
più prossimo a noi per senso di dubbiezze che è il
cardinal di Cusa. In questo fermento di novità di
calendario si svolge il genio di Copernico, non presago delle
sovvertitrici conseguenze cui dovesse giungere la foga geniale di
Giordano Bruno e la più rassodata scienza di Galileo e di
Keplero.
La decantata riforma gregoriana non fu che un componimento
gesuitico al quale si adattò l'antica scienza di Sirleto e
Clario, sfidante la più radicale riforma del periodo
teorico del geniale Scaligero. Furono aggiunti dieci giorni
all'anno in corso (5-14) invece dei 13 che occorrevano a non
offendere il concilio di Nicea, e furono rimandati i tre giorni di
differenza al 1700, 1800 e 1900, nei quali, come è noto,
rimase soppresso il bisestile. Di qui a 3600 anni ci troveremmo in
errore di un giorno, se via via non si accetta la proposta di
Mädler e di altri astronomi di lasciare inalterata la
tradizione giuliana del bisestile, salvo a sopprimerne uno ogni
128 anni, il che renderebbe approssimativamente coincidente l'anno
civile con l'anno medio equinoziale.
L'accomodazione gesuitica della riforma gregoriana lasciava
intatta la concezione tolemaica - perché l'intuitivo
equinozio riman lo stesso, o che la terra sia il centro
dell'universo, o che sia un povero pianeta nell'indefinito spazio
- di un cosmo considerato come una stabile e conterminata
contenenza. Per altre vie s'era messo lo spirito della ricerca.
L'audace, intemperante e sovrabbondante Giordano Bruno s'era fatto
l’araldo per tutta l'Europa civile della veduta copernicana, dalla
quale trasse, per virtù d'immaginazione costruttiva con
precorrenza di genio che mal s'adatta alla paziente dimostrazione
dei particolari, i dati più generali di quella intuizione
cosmocentrica nella quale ora tutti ci adagiamo senza ambascia e
senza travaglio. La vôlta del cielo dantesco rimane ora, non
che sfondata, dispersa. L'irrelativo dell'universo senza
contenenza sensibile rendeva relativa ogni umana misurazione per
tempo e per spazio.
Un anno dopo il martirio di Bruno, che ebbe luogo in quel
febbraio al quale la riforma gregoriana serbava il bisestile,
Keplero (1601) determinando l'orbita di Marte sconvolse dal fondo
la nozione della perfettissima forma del circolo dominante nella
natura per volontà di Aristotele. Galilei - continuatore
del Benedetti - nell'assunto dell'inerzia, che preludia di
lontanissimo al principio dell'energia, ossia ad una data decisiva
del secolo decimonono, portò a compimento una lunga disputa
durata dal cardinal di Cusa per più di 150 anni, con questo
esito che la meccanica dovesse fondarsi su i dati della
osservazione e del calcolo, rinunziando ad ogni ricerca su la
origine trascendente del moto. Il secolo decimosettimo è il
periodo rivoluzionario della scienza della natura. Si elabora
allora il concetto delle leggi naturali, sia pure che non tutti
raggiungono gli ardimenti di Spinoza o di Hobbes, e che le leggi
considerino con gli assiomi posti da Dio. La relatività
d'ogni misura, d'ogni maniera di mutazioni per mezzo del tempo
è cosi affermata dal circospetto Newton:
Tempus, absolutum, verum et mathematicum in se et natura sua
absque relatione ad externum quodvis acquabiliter fluit, alioque
nomine dicitur duratio. Relativum apparens et vulgare est
sensibilis et externa quaevis durationis per motum mensura, qua
vulgus vice veri temporis utitur: ut Hora, Dies, Mensis, Annus
(Phil. Nat., Def. VIII, Schol.).
Da Newton a Kant corre tutto un secolo, non di soli anni di conto,
ma di intime transizioni e intensificazioni del pensiero. Quella
ombratile eterna durata man mano si sfuma, e rimane la sola
subiettività ossia relatività del tempo. Da Galilei,
Keplero e Newton corre altrettanto un secolo per giungere alla
ipotesi Kant-Laplace (forse precorsa dal Buffon) su la origine del
sistema solare, che riduce gli assiomi posti da Dio nei momenti di
un obiettivo e perciò immanente processo. Dove la finirei
se volessi mettermi negl'infiniti particolari di tali confronti?
L'importante è, che divenendo sempre più chiara la
nozione che il tempo è la subiettiva misura dei varii
processi, la cui natura peculiare deve essere attestata dalla
considerazione empirico-obiettiva del loro contenuto, e del loro
farsi e divenire - maturandosi cioè le premesse di quella
veduta del mondo che il secolo decimonono ha condensato nel nome
dell'evoluzione, nasceva il bisogno di trovare alla storia le sue
proprie date sociologiche.
A ciò volle frettolosamente e audacemente provvedere con la
sicurezza di chi crede d'esercitare su le complicate faccende del
mondo il magistero della ragione, quella Convenzione, che
decretò il novello calcolo dei tempi per l'èra della
società rinnovellata. Gli è proprio quel codino di
Hegel che disse come quegli uomini avessero pei primi, dopo
Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando
questo su la ragione.
Non è già che mi prema gran fatto di scrivere invece
del 1901, e per far dispetto allo Scita Dionigi, il 109 anno della
repubblica, aspettando il 110 che comincerebbe il 23 settembre
prossimo. Né mi sento tanta vaghezza di democratico
romanticismo da gioire all'idea, che se quel calendario fosse
stato conservato a quella repubblica italiana che per ora non
c'è, io oggi non metterei la data del tal giorno di agosto
ma bensì il tridì della prima decade del Fruttidoro
sotto la insegna del marrobbio. Né difendo l'arida
architettura di quel calendario poco facile alla memoria. Ma i
motivi del decreto sono una singolare testimonianza della piena
consapevolezza con la quale gli autori del gran moto distaccavano
sé da tutto il passato, e ponevano una prima data a tutta
la gran rivoluzione che tuttora esagita il mondo occidentale.
L'èra volgare è abolita.
L'èra volgare sorse in mezzo alle turbolenze
precorritrici della prossima caduta dell'impero romano, e in
un'epoca, quando la virtù fece qualche sforzo per vincere
le umane debolezze. Ma per diciotto secoli essa non è
servita se non a fissare nella durata i progressi del fanatismo,
l'avvilimento delle nazioni, lo scandaloso trionfo dell'orgoglio,
del vizio, della stoltezza e le persecuzioni che macchiarono la
virtù, il talento, la filosofia sotto despoti crudeli.
Perché mai la posterità dovrebbe vedere incisi su le
medesime tavole, ora da mano avvilita e perfida, tal'altra volta
da mano fedele e libera, così gli onorati delitti dei re
come la esecrazione alla quale essi sono oggi dannati, così
le furberie e l'impostura per gran tempo ossequiate, come
l'obbrobrio che infine raggiunge gl'infami ed astuti confidenti
della corruzione e del brigantaggio delle corti?
La rivoluzione ha ritemprata l'anima dei francesi, e di giorno in
giorno essa educa alle virtù repubblicane. Il tempo apre un
nuovo libro alla storia, e nel suo nuovo cammino maestoso e
semplice come l'uguaglianza deve incidere d'un nuovo e puro bulino
gli annali della Francia rigenerata.
La rivoluzione francese, feconda, ed energica nei suoi mezzi,
vasta, sublime nei suoi resultati, sarà nella
considerazione dello storico e del filosofo una di quelle grandi
epoche collocate a guisa di grandi fanali sul cammino eterno dei
secoli.
Il 21 settembre 1792 i rappresentanti del popolo etc...han
proclamata l'abolizione del potere regio... Questo stesso giorno
dev'essere l'ultimo dell'èra volgare... Il 22 settembre fu
il primo giorno della repubblica. Quel giorno stesso a 9 ore, 18
minuti e 30 s. del mattino il sole arrivò al vero equinozio
di autunno, entrando nella costellazione della Bilancia.
L'eguaglianza del giorno e della notte era segnata in cielo nello
stesso istante in cui l'eguaglianza civile e morale era proclamata
dai rappresentanti del popolo francese, come il sacro fondamento
del suo nuovo governo. Così il sole ha richiamato ad un
tempo i due poli e successivamente il globo intero, e nel medesimo
giorno ha brillato per la prima volta in tutto il suo splendore
sul popolo francese la fiaccola della libertà che
più tardi dovrà rischiarare tutto il genere umano.
Le sacre tradizioni dell'Egitto faceano uscire, sotto la medesima
costellazione, la terra dal caos, e in quel punto fissavano la
origine delle cose e del tempo.
Il concorso di tante circostanze imprime un carattere religioso e
sacro a questa epoca, che dovrà essere una delle più
celebrate fra le feste delle generazioni future.
Tocca al popolo francese tutto di mostrarsi degno di se stesso,
col contare d'ora innanzi i suoi lavori, i suoi piaceri, le sue
feste civiche sopra una divisione del tempo creata per la
libertà e l'uguaglianza, creata dalla rivoluzione stessa
che deve onorare la Francia per tutti i secoli.
Quel calendario andò fuori uso col 1° gennaio 1806. La
data dell'abolizione dice tutto.
Durante il secolo decimonono la Rivoluzione Francese è
stata continuata e combattuta, è stata attenuata e
sorpassata. Per i contrasti che la borghesia dovea vincere
dell'antico ancor potente, e di tutto quel nuovo che compendiamo
sotto i nomi complessivi o di quarto stato, o di moti operai o di
socialismo, nel secolo decimonono il progresso s'è avverato
se non per le tortuose vie dei compromessi.
Ed ora le apparenti divagazioni di questo capitolo hanno raggiunto
il senso loro.
IV.
Il lettore che abbia pazientemente seguite fino in fine le pagine
dell'altro capitolo, si sentirà ora come liberato da un
incubo. E sì che io mi son sforzato al massimo della
sobrietà, nel contenermi in modesti confini, mentre
maneggiavo quel vario e multiforme apparato di erudizione il
quale, se fosse adoperato tutto e largamente come si conviene a
scopi didattici, porterebbe allo sviluppo di molti volumi.
Cominciando quel corso, - che qui rifaccio, non già nel
letterario andamento ma nei soli motivi, - io ero soprattutto
preoccupato del desiderio e del bisogno di sgombrate dalla mente
degli uditori i pregiudizii tradizionali, verbali, linguistici e
simbolistici, i quali adombrano la schietta considerazione
realistica della storia umana. Avevo innanzi agli occhi le
più svariate commemorazioni del secolo, dal libro del
venerando Büchner alla pastorale del reverendo cardinal
Ferrari. I volumi recanti la rassegna dei trionfi della tecnica
all'esposizione di Parigi trovavano uno strano e triste commento,
così nei lamenti dei democratici ricordanti le travagliate
plebi o le nazionalità tuttora manomesse, come nel
ragionare di quei socialisti che cercavano qualche spiegazione al
ritardato avvento del collettivismo che pochi anni fa ancora era
apparso così prossimo non che ai focosi agitatori di stampo
giacobino, perfino, forse, ai pensatori di così eccessiva
cautela ed autocritica come C. Marx.
Qua dei calorosi ecclesiastici francesi che annoverano le nuove
glorie del papato cresciuto proprio nel secolo che i profani
chiamano dei lumi e della scienza; e là dei freddi
declamatori inglesi ed americani, che mettono soprattutto in
rilievo il raggio d'azione economica dei loro rispettivi paesi,
producenti quasi quasi la metà delle merci che circolano
nel mercato mondiale. Il giusto orgoglio di nazione dominante in
Europa per tanti aspetti e rispetti, ed ora principalmente per un
essor economico che muovea stupore, s'è venuto a riflettere
e ad esprimere in molti libri tedeschi fin di secolo, gravi spesso
di troppa dottrina professorale, e riboccanti di estremo
chauvinisme di razza, e di quello zelo statale monarchico il quale
mena a fare ancora dei sovrani e dei loro governi come gli autori
e promotori della società. Rara dappertutto la ricerca
strettamente critica sul come s’avessero a collocare le ricordate
vicende, non già nei tradizionali schemi della cronologia
che annovera le somme degli anni, ma nella esatta visione di una
accertata concatenazione sociologica.
Ricordare - come ho fatto già - i contrasti perpetuatisi
per tutto il secolo (popoli attivi e passivi - città e
campagna - proletariato e borghesia - scienza e fede - chiesa e
stato etc.) accentuandone debitamente e sinceramente la
importanza, mi parve e mi pare il necessario punto di partenza
alla considerazione del tutto. La relatività del progresso
resulta da tali accenni descrittivi a modo di naturalissima
conseguenza dei ricordati o deplorati arresti: ed essa stessa alla
sua volta avvia a meglio intendere il valore specifico e tecnico
di ciò che io chiamo la data sociologica. Alla quale non
sarei potuto venire se non fossi passato attraverso alla critica
di tutte le stravaganze profetiche e sibilline delle così
dette età del mondo e di tutti i preconcetti di un
qualsivoglia provvidenziale governo delle cose umane, che a queste
assegni le sorti in un preordinato succedersi. Per questa
dichiarazione realistica rimane come costituita la nozione
obiettiva di un evo avente caratteri proprii, e tra questi
spiccatissimo quello della nota dominante della consapevolezza del
procedere. Dalla vita vissuta siam passati alla vita compresa, e
in qualche modo anticipata dal pensiero e quindi capace d'essere
in qualche modo voluta. Dal processo solamente attraversato o
percorso siam giunti al processo valutato, presentito, desiderato,
agognato, ossia alla persuasione del progresso. Chi vorrà
ora tener per superflua la citazione che ho fatta del decreto
convenzionale; o chi vorrà negare la somma di queste idee
qui costituisca la filosofia del socialismo?
Certo i pregiudizii sopravvivono, e nella mania che è in
molti di andar componendo degli accertati periodi delle multiformi
manifestazioni storiche e nell'utopismo dell'attendere il prossimo
o futuro avvenire. Come raffigurato fin d'ora in tutta la sua
fisonomia, e poi infine nelle sempre ondeggianti e di continuo
rifatte classificazioni della sociologia, le quali di straforo
arrivano fino ad invadere il campo del giornalismo, e il
più delle volte riescono più a svisare che a
raddrizzare i giudizii dei pubblicisti. Quante volte non abbiamo
letto: - verrà l'associazione, poi il cooperativismo, o che
altro siasi, e da ultimo il collettivismo: e messi gl'ismi in
fila, il resto fila da sé. Non fu estesa a tutto il genere
umano la escogitazione francese di questo sacramentale schema:
economia a schiavi, economia a servaggio, economia a salariato?
Chi si rechi quella formula in mano non capirà un solo
fatto, poniamo, della vita inglese del secolo decimoquarto; - e
dove vorrà collocare quella buona Norvegia che non ebbe mai
né schiavi né servi? e che conto si renderà
della servitù della gleba, che si fissa e sviluppa nella
Germania d'oltre l'Elba proprio dopo la Riforma? e che spiegazione
darà al fatto singolare che la borghesia europea inauguri
una nuova schiavitù in America di schiavi a bella posta
importati proprio nel medesimo tempo in cui essa percorre i primi
stadii dell'èra liberale? e come si comporrà
interpretativamente la economia della corporazione produttiva a
privilegio? - per non dire da ultimo delle tante forme intermedie
di regio patronato, d'imperiale concessione, e di monopolii
patentati, che la produzione venne assumendo dal momento in cui
corporazione e feudo (e suo fattizio surrogato nel fedecommesso
spagnuolo) cominciarono a erodersi fino al definitivo stabilirsi
della indisputata concorrenza?
I criterii - in poche parole - dell'analisi sociologica devono
essere si i principii direttivi d'ora innanzi d'ogni ricerca
storica: ma questa riman sempre legata alle impreteribili ragioni
empiriche della rappresentazione del fatto, e deve rifiutarsi a
qualunque pretesa d'imperativi aprioristici.
Scrivo un breve volume, non un manuale enciclopedico. Per
ciò appunto non occorre io torni sulle bislacche idee del
Ferrari, che cercava nei periodi dei 500 e 100 e 50 anni i mezzi
per ricondurre ad una assegnabile periodicità il farsi e il
disfarsi e il procedere e il progredire delle cose umane storiche,
- che del resto eran considerate su per le cime delle ovvie date
di contestura mnemonica. E che dire dell'ingegnoso Rümelin,
che pur lui ha tentato di ridare all'ovvia nozione del secolo per
il fatto delle periodicità demografiche un certo che di
valore obiettivo? Ranke, inesauribile così nella
poderosità ed estensione della ricerca come nella
vastità della produzione, rivela nel fondo di quella
qualunque filosofia, che ha latente nello spirito, un certo tal
quale ossequio al piano dei periodi storici. Ranke sta con un
piede nell'ancien e con l'altro nel mondo borghese. Fu un
protestante aulico-concistoriale, e insaputamente estese ai
periodi della storia quel concetto del Beruf (un che di medio,
vuol dire la parola, fra vocazione e missione), che sarebbe, per
chi ci crede, la insegna etico-politica degli Hohenzollern. Chi
vuole pienamente esilararsi s'addentri nella lettura degli scritti
di Ottokar Lorenz, nei quali apprenderà come il succedersi
delle tre generazioni nelle famiglie direttive dei nobili, dei
guerrieri etc., combinato coi periodici e automatici incrementi
della popolazione - combinando il tutto con la elastica dottrina
della ereditarietà - bastino a dare la chiave del corso
della storia.
Eliminate le tradizionali fantasmagorie, e data ragione dei
neosimbolismi, posso d'ora innanzi usare, oltre che degli altri
termini di età, evo, periodo, anche dell'ovvio secolo,
perché il contesto reca in sé la ragione obiettiva
di ciò che si va esponendo; e quest'ultima parola (il
secolo, ossia la somma di cento approssimativi anni equinoziali di
tanto diversi dall'anno siderale, contati da un convenzionale
I° gennaio, da un era in qua escogitato dallo Scita in accordo
al periodo giuliano corretto da papa Gregorio) dice ora quel che
può dire una misura convenzionale unica, di una moltitudine
di cose qualitativamente diverse e dinamicamente difformi.
V.
Mi fermo qui a considerare l'Italia, in quanto essa, nella
prospettiva generale del mondo cui ho accennato finora e alla
quale mi attengo, rappresenta un determinato e particolare angolo
visuale.
Non è già che io voglia abbandonare la veduta
universalistica, dalla quale fin dal principio ho preso le mosse
per valutare ora il mondo intero alla stregua di ciò che
praticamente, e in modo esclusivo, o gioverebbe o importerebbe
all'Italia. Non intendo di comporre il vade-mecum del
piccolo-borghese che valuti alle proporzioni delle finestre di
casa gli spazii cosmici: - tanto più poi perché
questo scritto di semplici considerazioni non deve contenere
né consigli, né suggerimenti di sorta.
Dico semplicemente questo, che, cioè, per il complesso
delle condizioni che le son proprie, l'Italia è orientata
in un certo modo rispetto alla concatenazione economico-politica
del mondo civile attuale. Cotesto angolo visuale – certo
più angusto di quello delle altre nazioni che han nome di
grandi - non è cosa accidentale o arbitraria. Innanzi
tutto, esso è proporzionale alle differenze che
effettivamente corrono fra le condizioni italiane e quelle degli
altri paesi; reca la misura effettuale di ciò che l'Italia
è e può di fronte alle grandi correnti della storia
attiva; e implica l'apprezzamento dell'esser nostro nazionale
nell'insieme di ciò che è presentemente il mondo dei
popoli direttivi.
Occorre di fermarsi su tale angolo visuale - il quale nasce
naturalmente e quasi insaputamente in chi guardi per ragioni
affatto pratiche tutto il mondo solo per rispetto all'Italia -
appunto perché il punto di vista universalissimo in cui mi
sono collocato senz'altro mi ha portato ad oltrepassare senza
ragionamenti preparativi e senza transizioni i confini e i limiti
della coscienza nazionale. Esaminando ora poi criticamente la
orientazione d'Italia rispetto al resto del mondo, noi verremo
come ad apprezzare l'insieme del nostro paese alla stregua delle
grandi correnti della storia attiva.
Il risorgimento italiano s'è svolto tutto per entro al
secolo decimonono; ma ci si è svolto più nel senso
della storia passiva che in quello della storia attiva.
L'effettivamente attivo comincia il 1870; e questa osservazione
basta da sola per ismentire il più gran numero delle
affermazioni ottimistiche o pessimistiche che si fanno sul nostro
paese sopra di una esperienza così breve e di così
recente data.
Coi termini di attivo e di passivo io intendo di addurre degli
estremi teorici di valore comparativo, ai quali si giunge per
approssimazione e attraverso a molte transizioni. Che l'Italia
dunque fosse in un certo senso e storicamente attiva anche nel
tempo della sua preparazione all'unità nazionale, e specie
nei momenti delle rivolte, e delle guerre, nessuno vorrà
negare: ma qui in questo discorso, dove cerchiamo di ricondurre
tutto al ragguaglio della fin del secolo, noi dobbiamo considerare
come relativamente passiva la condizione d'Italia in tutti gli
anni anteriori al 1870, nei quali le altre nazioni direttive
posero le premesse e dettero la prima potente avviata alla
presente espansione e gara veramente mondiale.
Dal 1870 in poi è corsa insistente l'opinione, ripetuta
anche da scrittori per altri rispetti degni di considerazione, che
a risorgimento politico finito l'Italia sia riuscita inferiore
all'aspettazione. Ma a quale e di chi? All'aspettazione forse si
rinnovassero l'impero romano, i fasti dei comuni medievali, o
simili altre cose, le quali non hanno ora più ragion
d'essere al mondo? La verità vera è che l'Italia,
uscendo da secoli di effettiva decadenza e passando poi per la
tensione cospiratoria e per l'ardore delle rivolte, non ha portato
nel nuovo assetto una proporzionata esperienza di politica
moderna; tant'è che fino ad ora la letteratura politica da
noi presso che non esiste. La tradizione letteraria avea invece
creato e mantenuto in essere l'idea, o meglio l'illusione di una
storia sola e continuativa di quante mai vicende si fossero svolte
a memoria d'uomini su la unità geografica della penisola; e
come cotesta storia unica di un solo subietto (un popolo italiano
un po’ creato dalla fantasia) fu tra i potenti motivi ideologici
della riscossa, così a rivoluzione finita l'Italia è
parsa troppo piccola al confronto della sua grande storia. A stato
nuovo costituito con la capitale naturale, s'è finito per
pigliar notizia più accertata e più tranquilla delle
altre nazioni e a riconoscere che per grande stato siam troppo
piccoli. Ed ecco a che si riduce: il non aver corrisposto
all'aspettazione.
Al rimpianto di ragione immaginaria s'è venuto sostituendo
questo problema pratico: quante garanzie di stato moderno offre
ora l'Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace
concorrente nella gara internazionale? Non si tratta già di
riportare la nostra esperienza di questi ultimi trent'anni ad un
qualunque ragguaglio di sognate glorie o di aspettati strepitosi
successi, ma di rispondere al prosaico quesito formulabile
così: la vecchia nazione italiana, componendosi a stato
moderno, di quanto s'è trovata adattabile e di quanto
s'è trovata difettiva di fronte alle condizioni della
politica mondiale in genere? Come ogni azione politica si riduce
in un certo senso ad interpretazione operosa di condizioni date,
così il giudizio che si può fare effettivamente su
l'Italia dal suo risorgimento in qua si riduce a vedere se la
politica ha corrisposto ai dati, e fino a che punto ci sia stata
libertà di scelta nel maneggio e nel governo dei dati
stessi.
Di quanto bisogna tornare indietro per farsi un adeguato concetto
delle condizioni d'Italia? I letterati, che furono per secoli i
soli attivi rappresentanti della intellettualità italiana
del lungo periodo della decadenza, non afferrano il senso di tale
domanda, e cioè non intendono tutte le difficoltà di
sociologia storica che essa implica. Data ed ammessa
l'unità illusionale di una storia d'Italia attraverso un
gran numero di secoli, le cose veramente decisive nelle vicende
della civiltà appariscono in una mal composta narrazione
come le variazioni e gli accidenti di un tipo immaginario. Come si
può per tal via discernere il fatto, p. es., decisivo, che
l'Italia per secoli rimane divisa in due mondi: di qua il ciclo
germano-romanico, di là il mondo bizantino-islamitico? Si
vuol forse passar sopra il periodo islamitico della Sicilia, come
ad un fuori della storia; e parrà cosa indifferente che la
dinastia ora regnante in Italia discenda dalla feudalità di
uno stato di Borgogna?
Le tracce vere e positive di quella unità di temperamento e
d'inclinazioni che costituisce il popolo nel senso storico della
parola, noi non possiamo trovarle più in là del
secolo undecimo, nel quale la nazione neo-latina apparisce
costituita.
La nostra recente rivoluzione non consiste - come alcuni hanno con
leggerezza affermato - nel giungere della borghesia al dominio su
la società. Questa rivoluzione è stata fatta,
sì, principalmente sotto la direzione dello spirito
borghese; ma la borghesia italiana esisteva da secoli, ed aveva
avuto non solo le sue glorie, ma la sua terribile caduta alla fine
del secolo decimosesto, e la sua prolungata decadenza fino alla
Rivoluzione Francese.
VI.
Giova ora mi provi a racchiudere in una certa caratteristica
complessiva ciò che più volte ho chiamato
società moderna, e che più volentieri dirò
società attuale, e ossia che è in atto…
[L’A., travagliato da infermità, interruppe a questo punto
il proprio lavoro, che non ebbe più agio di ripigliare
(Nota del Croce).