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Scrittore (Tarquinia 1887 - Roma 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli.
Nel 1919 fondò con altri la rivista La Ronda; collaboratore di numerosi giornali e periodici, dal 1949 diresse La Fiera Letteraria. Un autobiografismo tutto interiore e allusivo, un impressionismo e immaginismo che tendono a trasporsi in figurazioni di stagioni e paesi, trovano espressione nei toni pacatamente lirici delle sue prose di evocazione e di viaggio. Mentre nelle poesie il suo ideale di restaurazione classica, di un "ritorno a Leopardi" (propugnato in parecchi scritti polemici, e nella stessa linea direttiva della Ronda), mal si concilia con il fondo sensuale, ancora vagamente dannunziano, della sua ispirazione.
Opere: Prologhi, 1916; Viaggi nel tempo, 1920; Favole e memorie, 1925; Il sole a picco, 1929; Parole all'orecchio, 1929; Parliamo dell'Italia, 1931; Giorni in piena, 1934; Poesie, 1936 (ed. definitiva 1942); Il cielo sulle città, 1939; Lettere non spedite, 1946; Poesie nuove, 1947; Solitario in Arcadia, 1948; Villa Tarantola, 1948; Il viaggiatore insocievole, 1953; Viaggio di un poeta in Russia, 1954. Postume: Opere complete, a cura di G. Raimondi, 1962, e La poltrona vuota, a cura di G. A. Cibotto e B. Blasi, 1969, raccolta dei suoi articoli e cronache teatrali dal 1910 al 1936.
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di Felice Del Beccaro
Nacque a Corneto Tarquinia (Viterbo) il 1º maggio 1887 da padre
ignoto all'anagrafe (ma Antonio Romagnoli) e da Giovanna Caldarelli,
di umilissime condizioni.
Di lei il C. fa appena cenno nella sua opera; resta comunque nella
sua poesia una dolorosa nostalgia dell'affetto materno (si vedano in
particolare le liriche Ballata e Sopra una tomba). Ancor fanciullo,
conobbe invece il padre con cui visse diversi anni. Questi,
marchigiano, di umili condizioni, gestiva a Tarquinia il
caffè della stazione ferroviaria. Era soprannominato "il
bisteccaro" (in dialetto cornetano, uomo di modesta condizione
economica) sicché il figlio, per una malformazione della mano
sinistra, era schernito come "il bronchetto del bisteccaro". Il C.
tenne sempre nascoste le origini di illegittimo e le condizioni dei
suoi. Nella sua opera può cogliersi un moto di sincera
simpatia verso la matrigna con cui visse tre anni amato come un
figlio. Ma l'essere oggetto di scherno da parte dei concittadini gli
causò un vero e proprio trauma di cui è prova quella
sua continua difficoltà di rapporti, dominati ora dall'odio,
ora dall'amore. La trasfigurazione mitica degli aspetti naturali e
la rievocazione fantastica dell'antica storia etrusca della terra
natale (sentita come diretta eredità) coincidono in lui col
mito dell'infanzia, un'età favolosa che gli nasconde una
dolorosa realtà ritenuta umiliante e lesiva.
Il padre avrebbe voluto fare del figlio un commerciante: gli
impedì perciò studi regolari, e cercò di
tenerlo lontano da ogni attività intellettuale. Appena
diciassettenne il C. è già lontano da Tarquinia e dal
padre tirannico, e fa proprie le idee socialiste. Nel 1906, dopo la
morte del padre, si trasferisce a Roma: fa il galoppino presso un
avvocato socialista, quindi si impiega nella segreteria della
federazione dei metallurgici, poi è contabile in una
cooperativa repubblicana di scalpellini. Per un lungo periodo
è disoccupato, finché entra come correttore di bozze e
poi redattore e critico teatrale dell'Avanti!. Prende a frequentare
gli ambienti letterari, segnatamente il caffè Aragno, la cui
"terza saletta" vedeva convergere il fior fiore degli scrittori e
artisti che vivevano o capitavano saltuariamente nella capitale.
Quando l'Avanti! si trasferì nel 1911 a Milano, il C. decise
di rimanere a Roma. Invece dopo poco andò ad abitare a
Firenze, che poteva allora considerarsi la capitale culturale.
Collaborò al Marzocco dei fratelli Orvieto, cui dava
prestigio la collaborazione del Pascoli e del D'Annunzio, ma
preferì di lì a poco La Voce nella quale
pubblicò un primo articolo su Péguy (n. 36 del 1911).
Contemporaneamente comparvero sulla rivista romana Lirica sei sue
poesie, entrate più tardi a far parte dei Prologhi (Milano
1916).
I primi versi sono influenzati da vicino dalle letture di quei
tempi: il Leopardi, il Pascoli, i simbolisti, i crepuscolari. Vi si
coglie quasi il senso di quell'instabilità e inquietudine che
caratterizzò quel periodo della sua vita. Si tratta in
sostanza di una crisi morale che troverà ben presto la
naturale risoluzione nell'attività letteraria. Per questo il
primo C. è qualificato generalmente un moralista ("è
un poeta che nasce tutto fuori dell'arte", scriverà E.
Cecchi, in La Tribuna, 10 apr. 1914);da qui l'attrazione sentita per
La Voce prezzoliniana e in particolare la simpatia per taluni
collaboratori della rivista quali G. Boine, P. Jahier e S. Slataper.
Nel 1914 ebbe una borsa di studio per la Germania: contava di
perfezionare la sua preparazione di autodidatta orientandola verso
la filosofia e la sociologia per consacrarsi all'insegnamento
universitario. Lo scoppio della prima guerra mondiale lo sorprese in
viaggio, a Lugano, dove dimorò per cinque mesi occupato a
rivedere e ordinare le pagine dei Prologhi.
Il panorama della formazione iniziale del C., delle sue letture e
preferenze, non consente di ricostruire una poetica indicativa delle
sue future possibilità e sviluppi. Sappiamo che predilesse
Baudelaire, Verlaine, Rimbaud; che sentì l'attrazione dei
decadenti, i quali non lasciarono però tracce decisive; che
fu "un accanito lettore e ammiratore" di Gabriele D'Annunzio. Se la
letteratura francese dell'Ottocento sta al centro degli interessi e
delle suggestioni che è possibile rintracciare nella sua
opera, ciò non esclude però influssi nostrani (quale
quello dannunziano) e l'accoglimento della grande lezione
leopardiana considerata secondo una particolare prospettiva.
Le prose e i versi dei Prologhi, con i loro motivi morali e lirici,
il loro violento ed aspro contenuto soggettivo, riflettono
l'egocentrismo del C. con una prevalenza, appunto, di elementi
contenutistici, attestati come validi in una sua dichiarazione
(Lirica, dic. 1912): "Il significato si raggiunge solo di là
dalla constatazione formale, con un giudizio sintetico di puro
contenuto. La forma, se è vera forma, cioè
manifestazione di personalità, non è considerabile che
come puro contenuto". Elementi di poetica, questi, che saranno
più innanzi capovolti. Come ha notato B. Romani (1968, p.
23), fin dalle prime prose e liriche dei Viaggi nel tempo, la sua
seconda opera, si nota un mutamento radicale delle precedenti
posizioni: il C. annuncia "quel movimento a spirale che
informerà l'opera sua valida", sicché i Viaggi vanno
considerati un lavoro di transizione. In effetti nei due anni che
vanno dall'ultima data di composizione dei Prologhi (luglio 1914),
scritti per la maggior parte in Toscana, alla collaborazione alla
Voce di De Robertis (giugno-agosto 1916), C. viaggiò in
Lombardia, in Liguria, in Emilia. Dovette trattarsi di un periodo
decisivo di incontri, di esperienze, a giudicare appunto dal
mutamento di cui si è detto, operato fin negli esiti
stilistici, là dove era dato di rinvenire echi dannunziani.
Il periodo della prima guerra mondiale fu trascorso dal C. in gravi
ristrettezze, per la maggior parte a Roma, dopo la sosta forzata a
Lugano e i viaggi nell'Italia del nord. Non fu chiamato alle armi
perché a suo tempo riformato a causa della malformazione
congenita alla mano sinistra. In Passo di ronda (Solitario in
Arcadia), a proposito di una sua pagina, precisa: "Fu scritta nel
'16, infuriando la Guerra Europea, da un giovane poeta inetto alle
armi e necessariamente portato a rifarsi sulla letteratura di tutto
ciò che non gli è concesso operare in altri campi".
Quel periodo lo aiuta a superare la crisi della gioventù. Si
staccò dai "vociani" coi quali condivideva il risentito ma
confuso moralismo, e questo distacco si definì meglio con la
fondazione, nell'aprile 1919, della rivista La Ronda. Il nuovo
classicismo di cui si fece appassionato banditore è
parallelo, come "scoperta", con un ritorno temporaneo a Tarquinia
dopo tanto ed inquieto vagare.
L'incontro col Leopardi è senza dubbio l'avvenimento
più importante del suo curriculum letterario; egli stesso ne
ha scritto come "…un avvenimento della massima importanza, che
chiuse il ciclo, diciamo così, fruttuoso ed eroico delle
nostre esperienze … Non soltanto era una voce antica e
famigliarissima a cui sarebbe stato impossibile disubbidire, ma un
santo della tradizione che si staccava dalla sua polverosa nicchia
per rivelarcisi un autore modernissimo. Tanto moderno che da allora
in poi tutta la morale e la filologia di Nietzsche non sono, a parer
nostro, che poche briciole cadute dalla mensa di Leopardi. Da quando
abbiamo capito questo siamo rientrati nell'ordine" (Le opere e i
giorni, in Solitario in Arcadia). Questa "rivelazione" della
modernità del Leopardi nel momento, a un dipresso, del
distacco dai "vociani" per quel richiamo all'ordine che cominciava a
diffondersi fra tanti più o meno efficaci o spericolati
sperimentalismi, e il desiderio di aperture europee, presiedette
alla nascita della Ronda subito dopo la guerra, nascita che
trovò nel C. il più deciso e appassionato fautore fra
gli altri fondatori amici: R. Bacchelli, A. Baldini, B. Barilli, E.
Cecchi, L. Montano e A. E. Saffi.
L'impronta data alla rivista, che non ebbe lunga vita (finì,
"di morte naturale", nel dicembre 1923), è senz'altro quella
del C., così in sede programmatica (il Prologo in tre parti
con cui La Ronda venne presentata è di mano del C.) come in
fatto di gusto.
A lui vanno ricondotte pure le prese di posizione polemiche, e
talune iniziative di evidente significato come la Discussione su
Pascoli cui parteciparono i critici e gli scrittori più in
vista e che venne pubblicata nei nn. 7 e 8 del novembre e dicembre
1919 e n. 1 del gennaio 1920. Nei nn. 3, 4 e 5 del marzo, aprile e
maggio 1921 il C. pubblicò Il testamento letterario di
Leopardi, una scelta dello Zibaldone, e curò poi sempre, nel
ruolo consapevole di animatore di vita intellettuale, di diffonderne
la conoscenza. Favorì così una rinascita degli studi
sul Leopardi soprattutto come modello di stile e di eloquenza,
quello cioè dello Zibaldone e delle Operette morali,
trascurandone peraltro il contenuto più propriamente di
pensiero. I suoi scritti leopardiani non sono pertanto
essenzialmente critici: ebbero come obiettivo l'illustrazione degli
aspetti più moderni del poeta e furono al tempo stesso per il
C. uno strumento mediatore per porre le basi della propria estetica
nel quadro di un'Italia spiritualmente autorevole: "ho idea che
nell'opera critica e storica di Leopardi sia definita per sempre la
grande Italia spirituale e che tanto si vagheggia e nella quale io
credo al punto che, senza di essa, non riesco ad immaginare
nessun'altra forma d'impero. E quando dico Italia spirituale intendo
un'Italia armata contro i pericoli della cultura e gl'imbrogli della
filosofia; un'Italia artistica nel senso largo di un'arte che
è civiltà, stile, costume in tutto, come fu nei nostri
secoli più belli" (Lo Zibaldone, in Solitario in Arcadia).
Fedele al programma della Ronda, ne sviluppò in proprio
taluni punti, opponendosi ad ogni sorta d'avventura che uscisse dal
solco della tradizione e illudendosi dell'autosufficienza di un'arte
che riponeva nella resa stilistica. le sue ragioni più
valide. "Per ritrovare, in questo tempo, un simulacro di
castità formale ricorreremo a tutti gli inganni della logica,
dell'ironia, del risentimento, a ogni sorta di astuzie" scriveva.
È molto facile intendere, per questa via, il peso che
l'azione e l'esempio del C. ebbero nell'affermarsi di quella "prosa
d'arte" che dominò a lungo la nostra attività
letteraria fra le due guerre.
Si pone a questo punto il problema dei rapporti fra il C. e la
politica di quel tempo, e più generalmente quello dei
rapporti fra La Ronda e il fascismo. Il disimpegno nei confronti
degli eventi che proprio negli anni della Ronda portarono
all'affermarsi del fascismo, se poté riuscire utile a questo,
non escluse pertanto la condanna del peggiore dannunzianesimo e
l'opposizione alle componenti più spericolate del programma
futurista. Lo studio dei rapporti fra La Ronda e il fascismo si
presta comunque a soluzioni opposte ed ambigue che vanno da quelle
propriamente personali, cioè delle parti in causa (cfr. L.
Montano, Il perdigiorno, Bologna 1928: "i rondisti erano fascisti
senza saperlo"), a quelle fondate su stabili premesse di natura
storica (cfr. L. Caretti, Significato della "Ronda", in Dante,
Manzoni…, Milano-Napoli 1964, pp. 139-146). Il Romani (1968, pp. 51
ss.), che conobbe a fondo il C., ce lo dipinge un ingenuo in fatto
di politica: tutte le volte che trattò di argomenti storici e
politici si comportò unicamente da letterato (cfr., del C.,
lo scritto Italia popolare, in Parliamo dell'Italia, Firenze 1931),
la qual cosa lo condusse anche ad identificare, per un certo tempo,
la sua Italia popolare con quella retorica che il regime sosteneva.
Scrisse anche alcune poesie su temi di attualità politica,
lontane dalla schiettezza della sua vena, più tardi ripudiate
ed anzi considerato delle macchie indelebili (la più nota
allora fu Camicia nera pubblicata nel settimanale romano Quadrivio
del 20 ag. 1933).
Opera importante del periodo della Ronda sono i Viaggi nel tempo
(Firenze 1920), una raccolta di prose e poesie che segna, a parte il
valore intrinseco, l'inizio di una nuova fase. Nella seconda parte
dei Viaggi, in specie quella che appunto si intitola Rettorica, e
che è costituita da una serie di brevi scritti concernenti la
teoria letteraria senza pretesa certo di sistematicità ma
indubbiamente ordinati da un filo conduttore frutto di innegabile
convincimento, il C. fornisce indicazioni essenziali per misurare il
suo lavoro di prosatore e di poeta: "Non è la ricchezza dei
mezzi verbali che fa lo scrittore. È ilmodo, è
l'accento, è il tono" (Le opere e i giorni, in Solitario
inArcadia); "noi siamo di quelli che amano la poesia come musica, o
come pensiero liricamente figurato in parole".
Il Romani (1968, p. 26) riconosce in questo teorizzare una ripresa
di acquisizioni dal simbolismo francese, incentrate sul rapporto
fondamentale di poesia e musica. Il C., lettore appassionato di
questi poeti, come del Baudelaire, Verlaine e Rimbaud, e consapevole
dell'importanza da essi attribuita all'elemento musicale, faceva
proprie le loro idee con arricchimenti personali; così come
si allineava all'esperienza mallarmeana nella ricerca dell'effetto
nello stile, il quale, scrive egli stesso, è "un problema,
direi, di elevazione lirica dell'elemento, senz'altro pretesto che
l'elemento stesso; la buona ricerca antica della forma sulla cosa,
rimessa in onore, se non sbaglio, da Debussy in musica,
dagl'impressionisti e postimpressionisti in pittura, per un
paradosso di classicità ritrovata in un'esasperante
immersione nella materia" (Breve discorso ai pascoliani, in
Solitario in Arcadia).
La prosa lirica dei Viaggi, composti negli anni 1916-17, risalta
già in quella perfezione formale che ne farà uno dei
modelli tipici della letteratura italiana del Novecento. La tematica
è quella di "una scoperta del mondo compiuta da vergini sensi
in un clima di sapienza antica, di consumata cultura… si affacciava
intanto una simpatia coi personaggi più umili, una commedia
di piccole vicende umane. Primi ricordi distesi, ricordi paesani
presso le tombe etrusche, si mescolavano ai primi e subito splendidi
ritratti di città. L'evocazione mitica, dentro figure candide
di bellezza, esaltava in cima a tutto lo stile" (G. Ferrata, 1942).
Un critico di formazione crociana, Pietro Pancrazi (pp. 183 ss.),
diffidente per principio verso un tal genere di letteratura del
frammento, vi scorge uno dei "caratteri più certi" del C.,
consistente "in una specie di criticismo lirico, per cui egli
è sempre liricamente presente a se stesso nella critica e
sempre un po' critico ammonitore, gnomico, nella lirica". L'arte
preziosa del C. viene sottolineata attentamente: "Pensiero e
espressione non combaciano e non si stringono mai nettamente, C.
stende volontariamente tra l'uno e l'altra una patina di critica e
di tempo, quasi per una velatura di nobiltà. Perciò
aggettivi e avverbi sono usati da lui con un riferimento logico
leggermente e accortamente spostato; in modo che ne nasca, per il
lettore, un'impressione allusiva e come d'intesa, non si sa bene con
chi e con che cosa".
Il progresso da Prologhi è più che evidente, e lo
attesta la sicurezza dello stile che distingue la prosa del C., come
un prodotto nuovo che abbia la sicura garanzia di un classico.
Massimamente il prosatore sorprende, come osserva il Pancrazi,
"nelle, impressioni sensuali e dirette" che costituiranno il meglio
delle pagine di Favole e memorie (Milano 1925), stese dal 1919 al
'23, proprio nel tempo in cui veniva pubblicata La Ronda.Ne
dà testimonianza anche G. Raimondi, che nel 1919 fu a Roma
accanto al C. come segretario di redazione della rivista e che
accompagnò poi con un proprio scritto la pubblicazione delle
prose di Terra genitrice (Roma 1924, con un disegno di C. E. Oppo).
Il Raimondi (C. a Roma nel '19, in La Nazione, 31 genn. 1973)
attesta che in quel 1919, a Roma il C. stava appunto scrivendo le
Favole della Genesi che portò a termine nel '21. Queste
favole bibliche hanno lasciato perplessi parecchi critici mancando,
secondo loro, un possibile spazio di inserimento nell'unità
del curriculum cardarelliano. In realtà si tratta di una vera
e propria introduzione, in chiave necessariamente favolosa e
perciò poetica, alla rievocazione della propria vicenda
personale nel tratto più lontano nel tempo e quindi
più cedevole alla trasposizione fantastica: la favola della
propria infanzia. È appunto a partire da quegli anni della
Ronda che il C. intraprende, come ha ben veduto il Romani (1968, p.
70), la riconquista del paradiso perduto dell'infanzia.
Le Memorie della mia infanzia (in Favole e memorie), composte negli
anni 1922-23, hanno il vantaggio dell'immediatezza della materia nei
confronti delle Favole: il tono è cordiale e non subisce
flessioni rilevanti. Di conseguenza il C. si avvale di una lingua
più concreta e corposa, armoniosamente omogenea.
Lo scenario, non solenne ma animato da una segreta magia e talvolta
con qualcosa di sacro nei tratti, è quello delle stagioni e
dei paesi: la componente autobiografica ne viene completamente
assorbita. La scansione del periodo, l'uso dell'interpunzione, il
cursus così sorvegliato e attento al tono, all'accento fanno
di questa prosa un modello senza diretti precedenti e ne
sottolineano al tempo stesso l'originalità degli acquisti nei
riguardi della lezione leopardiana.
Nel 1926 il C. prese a collaborare, con altri rondisti, al periodico
fondato allora da L. Longanesi a Bologna, L'Italiano, che fu, con Il
Selvaggio di M. Maccari, sostenitore del movimento
artistico-letterario di "Strapaese" incoraggiato dal fascismo con
simpatia, e continuò fino a che il periodico non cessò
le pubblicazioni, nel 1942. Nel 1928 andò in Russia come
inviato del quotidiano romano IlTevere:gli articoli furono raccolti
in volume, Viaggio d'un poeta in Russia (Milano 1954).
Sono impressioni riguardanti soprattutto la vita e i costumi in due
grandi centri e nelle loro adiacenze: a Mosca e a Leningrado. Il
Cecchi (1972, p. 753) nota che, a quel tempo, il C. si trovava in
una fase importante della sua attività: "La tensione
stilistica delle sue prose, che avevano preceduto o che strettamente
appartennero al periodo della Ronda, s'era sciolta in un fare
più largo, arioso, con qualcosa di nobilmente popolaresco"
(è il periodo delle Favole e memorie).A prescindere da quelle
che potevano essere le disposizioni del giornale, in ordine alle
limitazioni imposte dal regime, il C. si muove con una certa
libertà, senza occuparsi, anche se non deliberatamente, dei
problemi politici e sociali, i primi che un tal viaggio avrebbe
dovuto suggerire sul piano giornalistico, ma cogliendo invece, nella
schietta simpatia che lo porta verso gli umili e la loro vita, certi
aspetti positivi del profondo mutamento seguito alla Rivoluzione
d'ottobre. Ciò che osserva, magari rapidamente, lo riferisce
con innegabile sincerità. Il segreto dell'autenticità
di questi risultati sta sicuramente nel fatto che il C. ha trovato
subito delle naturali affinità fra il se stesso dell'infanzia
cornetana e il popolano russo, soprattutto il contadino: in Russia
come nella Tarquinia dei suoi sogni, oseremmo dire. Una sorta di
rinascimentale immutabilità dell'uomo di fronte alla storia;
un quadro pacifico, di intesa e di orgoglio nazionale, spenti i
sussulti, una unanime volontà di lavoro.
Il sole a picco (Bologna 1929) riprende la tematica dei Viaggi e
delle Memorie con le rievocazioni centrali di Tarquinia e della
Etruria, riprodotte da Terra genitrice: sono prose di memorie e
poesie che toccano vertici di perfezione. Il paese natale è
ancora richiamo ad un sogno, oggetto di evocazione che subito
travalica nella favola la quale non sempre è lieta ma assume,
negli anni, una colorazione non di rado malinconica. Il sentimento
della morte non tocca toni drammatici: promana da un destino
accettato. Ristampato nel 1930, il libro ebbe quell'anno il premio
Bagutta; un ventennio più tardi fu ancora proposto in una
seconda edizione aumentata (Milano 1952), con esclusione dei
componimenti in versi e l'inclusione di Villa Tarantola.
Del 1929 è la raccolta in un solo volume di Prologhi, Viaggi,
Favole (Lanciano), secondo una disposizione differente da quella
delle singole raccolte. Altre opere in prosa si succedettero in un
breve giro di anni: Parole all'orecchio (Lanciano 1929), Parliamo
dell'Italia (Firenze 1931), La fortuna di Leopardi (discorso tenuto
a Pesaro il 7 sett. 1934 a chiarimento del suo leopardismo e
pubblicato in Scuola e cultura, X [1934], Poi in Il viaggiatore
insocievole, Bologna 1953), Giorni in piena (Roma 1934). Infine la
prima raccolta delle Poesie (Roma 1936) nella quale confluiscono
anche i versi di Prologhi e del Sole a picco, raccolta ampliata in
edizioni successive (Milano 1942, con prefazione di G. Ferrata;
ibid. 1949; infine rientrata nell'ed. postuma delle Opere complete,
ibid. 1962, a cura di G. Raimondi e con bibliografia di G. Bonfanti.
Da notare che nell'ediz. del 1949 sono incluse anche le Poesie nuove
già pubblicate a parte, Venezia 1947, con una lettera del C.
ed una nota di G. Marchiori). Del 1936 è anche L'Italiae
l'Europa (estratto, Rocca San Casciano).
Tre anni più tardi uscì Il cielo sulle città
(Milano 1939; 2 ed. aumentata, ibid. 1949). Sono impressioni di
viaggio in varie città d'Italia con interpolate note di
informazione storica. Ancora si parla di Tarquinia; e di Ancona,
Ferrara, Milano, Recanati col culto del Leopardi, Roma, Urbino,
Venezia. Accanto ai dati paesistici e culturali, la fantasia del C.
trova modo anche qui di liberarsi creando quella atmosfera incantata
e lucida ad un tempo che ne denota l'inconfondibile
originalità. Seguono Rimorsi (Roma 1944), che esce nella fase
cruciale della seconda guerra mondiale. All'approssimarsi del
conflitto, l'isolamento attivo del C., la sua intima armonia si
spezza. L'inquietudine, il tormento, persino il terrore lo
riprendono, come attestano le Lettere non spedite (Roma 1946, con
un'avvertenza di V. Mucci). Abita in una camera d'affitto in via
Veneto: è ormai paralizzato. Si fa portare ogni giorno al
vicino, abituale caffè e lì siede per ore e ore,
inattivo all'apparenza, ma ancora osservando e meditando.
Nell'estate del 1944, dopo l'arrivo degli Alleati a Roma, decide,
per evitare i maggiori disagi della guerra, di trasferirsi a
Tarquinia ma vi si trattiene ben poco. Avverte subito
l'impossibilità di conciliare l'antico amore con la
realtà. È la fine delle illusioni, come nell'amato
Leopardi. Il Romani (1968, pp. 87 s.) osserva che "in questa
ostinata caccia a Tarquinia, che è poi la caccia al passato
felice, si cela tutto il dramma umano di Cardarelli", una sezione
conclusiva dell'edizione definitiva delle Poesie (1962), quella che
si intitola Ritorno al mio paese,dopo due guerre, ne è la
suprema testimonianza. Nel 1945 il C. è di nuovo a Roma.
Ripubblica il solo racconto che ha scritto, Astrid ovvero temporale
d'estate (Roma 1947, con una litografia di C. Carrà, ma
uscito in precedenza sul settimanale Tempo di Milano, n. 98 del
1941), di scarsissimo rilievo, come conferma largamente il
linguaggio generico che non riesce ad assestarsi su di un ritmo
propriamente narrativo. Contemporanea è la pubblicazione di
un'altra opera in prosa, Solitario in Arcadia (Milano 1948), dove
confluiscono scelte di Parliamo dell'Italia e di Viaggi nel tempo,
già rifusi in Parole all'orecchio.
Villa Tarantola (Milano 1948), al quale andò il premio
Strega, è pure un piccolo libro di ricordi, segnato da
un'estrema malinconia, con un suo tono all'antica, pagine che "non
hanno quasi più niente della cosa scritta, ed evocano il
suono della voce, gli atti della mano, l'intimità e la
libertà della conversazione; ed insomma appartengono quasi
più alla vita che all'arte" (Cecchi, L'Europeo, 2-8 ag.
1948).
Ormai sul declino, pare mettere sempre più a nudo la sua
realtà umana così diversa dagli schemi di una diffusa
leggenda che parla di un C. notturno, collerico, pungente, tuonante,
maestro di epigrammi corrosivi; comunque sempre lucido dietro
l'apparente esaltazione. In Villa Tarantola è infatti un C.
confidenziale che si abbandona ai ricordi della prima età,
del suo iter di autodidatta, dei suoi primi passi nel mondo
dell'arte. Il tessuto episodico della rievocazione e il tono e
l'andamento della prosa tendono a comporre un uditorio ideale,
amico, al quale lo scrittore si rivolge confidente. Atteggiamenti di
questo genere sono già - l'osservazione è del Cecchi -
nella prima parte del Sole a picco dove la tematica dell'infanzia si
esprime con accenti di nuova intimità: è l'annuncio di
un C. se non proprio nuovo, più colloquiale, che si ritrova
anche in Lettere non spedite.
Nella poesia parallela, specialmente in quella d'amore, è da
vedersi una sorta di estremo assestamento e una maggiore e
più scoperta sostanza umana. Il tema paesistico resta
piuttosto ai margini. Una poesia, Alla Morte, e le undici che la
precedono nella raccolta definitiva, ci danno un'immagine più
compiuta del C., lo riportano nel giro difficile di una vita di
rapporti e di responsabilità più scoperte. Così
i cinque componimenti dell'ultima sezione "Poesie aggiunte" della
raccolta definitiva, uscite in edizione rara a Milano nel '49, e
collocate in fondo alla nuova edizione del Sole a picco (Milano
1952), ci presentano un C. oppresso dall'età declinante,
intimamente disperato. In quegli ultimi anni uscirono: Il
viaggiatore insocievole (Bologna 1953, con parti di Parole
all'orecchio e di Terra genitrice), e il già ricordato
Viaggio di un poeta in Russia.
Morì a Roma, nel policlinico, il 18 giugno 1959. Per suo
desiderio venne sepolto a Tarquinia. In quel medesimo anno aveva
ricevuto il premio Etna-Taormina.
Postumi sono stati pubblicati: Lettere a Renato Serra (con una
notizia di A. Grilli), in Nuova Antologia, agosto 1959, pp. 463 ss.;
L'epistolario inedito (a cura di G. Prezzolini: lettere e poesie
degli anni 1909-1912), in La Fiera letteraria, 22 marzo 1964;
Invettiva e altre poesie disperse, a cura di B. Blasi e V.
Scheiwiller, Milano 1964; La poltrona vuota, a cura di G. A. Cibotto
e B. Blasi, ibid. 1969; Parole all'orecchio sulla "Ronda", in Nuova
Antologia, gennaio 1970, pp. 43 ss.
Per qualche anno il C. aveva tenuto la critica teatrale del
quotidiano romano Il Tempo e dal 1949 al 1955 aveva diretto La Fiera
letteraria.
La critica, nei confronti del C., presenta discordanze a prima vista
inconciliabili. Ormai acquisita è la possibilità della
sua collocazione storica nel lungo capitolo, scarsamente evolutivo,
della "prosa d'arte"; che è capitolo essenzialmente italiano,
sicché egli appare situato in disparte, oggi più che
mai, da un contesto letterario di portata europea. Ma anche nei
confini della nostra letteratura, il C. si adoperò
involontariamente a farsi considerare un caso isolato: favorì
questa classificazione la sua stessa condotta di vita, non solo
orgogliosamente di élite, ma dopo la fine della Ronda sempre
più chiuso in sé e nel suo lavoro solitario, mentre
disorientarono certe sue perentorie affermazioni teoriche, spesso
male interpretate. Il Romani (1968, p. 4) osserva: "Nell'opera di C.
non è possibile isolare uno scritto o un gruppo di scritti
confermando loro il valore di un campione rappresentativo, e non
è neppure possibile definirlo un poeta o un prosatore, senza
rompere l'interna unità che cementa da un capo all'altro la
sua produzione letteraria. Questa unità interna è
appunto il suo stile". Il fatto è che la sua opera, nelle
soluzioni più valide, siano pure le più esteticamente
raffinate, nasce da uno spirito inquieto e turbato in sincronia con
i tempi, e da quella visione dolente del mondo che si
accentuò sempre più col passare degli anni.
Il problema più frequentemente dibattuto è quello
della preferenza da accordare al prosatore o al poeta. I primi
critici del C. optarono senza incertezze per il prosatore e in
questo furono aiutati dal corso contemporaneo della letteratura e
del gusto. Il Gargiulo (1940) vede nel prosatore "la facoltà
dominante di concentrazione e rigore espressivo"; il De Robertis
(1962), con sottili dimostrazioni, afferma che "nacque prosatore, e
la sua prima poesia, sempre un poco più alta del giusto,
spesso irrisolta, fu preparazione alla prosa", fu "un ineguale
tessuto prosastico riccamente punteggiato con, a volte, risoluzioni
fulminee". Occorre però ricordare che il De Robertis
distingue la prosa d'arte dalla prosa poetica: il C. possiede dunque
il gusto della prosa d'arte "con un'aura, un respiro, misurando il
passo del suo cursus, che in nessuno dei moderni è
così sensibile". Il Ferrata (1942) vede nel C. ora il poeta
in prosa, ora il poeta in versi con questa asserzione conclusiva a
proposito della raccolta di Poesie da lui curata: "il lettore vero
troverà nelle Poesie una confessione più decisa,
generalmente, e disperata di quanto ha potuto lasciargli intendere
un riassunto della poesia in prosa". Il Romani non vede soluzioni di
continuità tra opera in versi e opera in prosa, pur
riconoscendo che "ha trovato la sua esatta misúra nelle prose
di memoria e nelle elegie evocative" (1968, p. 65). Sempre il Romani
discute acutamente su di un altro aspetto dell'opera del C.: quello
delle doppie e qualche volta triple redazioni di un medesimo motivo
con soluzioni differenti in prosa e in versi, che già il
Macrì aveva riconosciuto come una delle leggi interne del C;
il Romani propende a scorgervi esercizi di stile che non escludono
l'ispirazione: un cammino particolarmente arduo, questo delle
variazioni su di un medesimo tema, per puntare più in alto. E
in questo consisterebbe anche un aspetto determinante della funzione
storica del C. nella nostra letteratura: al punto di rottura fra due
epoche egli sarebbe appunto riuscito a "conciliare la tradizione e
l'ordine letterario con lo spirito di novità e di ricerca"
(p. 116).
Nella differente e dibattuta valutazione tra le prose e le poesie
del C., valutazione spesso determinata da ragioni prevalentemente di
gusto, si dovrà forse riconoscere che il preziosismo delle
prose più alte trova un complemento risolutivo nella forte,
drammatica umanità dei versi dell'età del declino.